Leopolda off limits se ti fermi, sei fuori

La Leopolda di Matteo Renzi, incubatrice di Italia Viva, è diventata l’incubo del Partito democratico siciliano: chi si avvicina, anche se per soli otto minuti, rimanendo fuori dalla stazione, va cacciato dal partito, anche se è il segretario provinciale della terza città dell’isola: Messina.

È accaduto il 20 ottobre scorso a Paolo Starvaggi, che ha osato fermarsi fuori dalla sede della kermesse fiorentina, soltanto per pochi minuti mentre a piedi, con la sua famiglia, stava andando nel centro di Firenze: addirittura 22 dirigenti regionali e nazionali del Pd hanno chiesto le sue dimissioni in una lettera indirizzata non a lui ma direttamente al segretario democratico Nicola Zingaretti.

Primi firmatari, l’ex rettore dell’università, Pietro Navarra, nipote incensurato di quel Michele Navarra boss corleonese fatto fuori dagli uomini di Luciano Liggio, e il direttore dell’Università Franco De Domenico, deputato regionale, che il Tribunale di Palermo a giorni dovrebbe dichiarare decaduto perché era incandidabile.

La “cacciata dell’untore” è riuscita soltanto a metà: Starvaggi infatti resta, ma affiancato da un sub commissario, Gaetano Isaja.

Molise, la delibera da Washington per la nomina del capo della sanità

Sulla delibera scrivono che “nella sede dell’Ente” a Campobasso, il 31 ottobre scorso, c’erano il governatore della Regione Molise Donato Toma, il vicepresidente e tre assessori tra cui Nicola Cavaliere. Delibera delicata, l’urgente nomina del commissario straordinario dell’Azienda sanitaria regionale. Avevano già fatto un mezzo pasticcio qualche giorno prima, nominando l’ex direttore generale che però non può perché ha un incarico a Napoli. E il 30 scadeva il termine di 60 giorni, col rischio di una pericolosa vacanza. Toma e Cavaliere a Campobasso non c’erano, erano partiti proprio il 30 per Washington in vista del Niaf 2019, il grande evento della National Italian American Foundation per i rapporti commerciali Italia-Usa, un viaggio già contestato delle opposizioni per la spesa di 133 mila euro e il discutibile criterio di invitare le prime 20 imprese che hanno fatto domanda. Da lì, ma “nella sede dell’Ente”, hanno nominato la dirigente Maria Virginia Scafarto.

La storia l’ha tirata fuori su primonumero.it, irriverente sito molisano, la direttrice Monica Vignale. Titolo: “La Justice League del Matese in missione speciale: prima delibera fatta col teletrasbordo”. Governatore e assessore, scrive, “indossano e imbracciano rispettivamente il mantello da Superman e il tridente di Aquaman e, l’uno in volo e l’altro a nuoto, attraversano l’immensità che separa i due continenti”. “È tutto regolare”, assicura Toma, il governatore, 61 anni, commercialista di Forza Italia eletto nel 2018, l’unico forzista che ha preso più voti della Lega. “Abbiamo fatto la videoconferenza – racconta – erano circa le 11:30, io e l’assessore Cavaliere nella mia stanza d’albergo a Washington, ci siamo collegati per una mezzoretta, io con l’iPad e la segretaria della giunta in sede con l’iPhone, abbiamo usato Facetime”. Ma davvero? Si può fare? E in delibera non ce n’è traccia? “Sì – risponde Toma –, perché è citato l’articolo 3 del regolamento”, la norma sulle riunioni di giunta che al comma 6 prevede per i “componenti”, senza menzionare il presidente, il “collegamento in videoconferenza o in audioconferenza previo accertamento della loro identità da parte del Segretario (…). La presenza tramite collegamento in videoconferenza o in audioconferenza è attestata nel Foglio ricognitivo”. Presidente, ce lo dà il Foglio ricognitivo? “No, ce l’ha la segretaria”. Lei non ci risponde. “Comunque non glielo può dare, lo può avere un consigliere se fa l’accesso agli atti”. Uno screenshot della videochiamata? “No”. Ci dobbiamo fidare. Erano tutti “nella sede dell’Ente”.

“La Juve ricattata dagli ultras rischia accuse di connivenza”

Report fa gol alle curve ostaggio degli ultrà. Con una puntata in contropiede tra Torino e Roma, tra i funerali di Diabolik e le “biglietterie” della Juventus gestite dai Drughi.

I funerali. Roma, parco degli Acquedotti, 7 agosto. Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, è morto. Gli ha sparato un sicario camuffato da corridore. L’inchiesta di Federico Ruffo, in onda domani sera alle 21:20 su Rai3, racconta la morte di “un uomo di peso, non solo della curva”: la Corte d’appello di Roma, infatti, scrive che la sua “pericolosità sociale dura da oltre 25 anni”. Uno spessore criminale, quello di Diabolik, tale da spingere il questore di Roma a vietare i funerali pubblici, almeno sulla carta. In chiesa solo la famiglia, ma fuori, c’è tutta la curva. Anzi, le curve. E l’estrema destra. C’è Luca Lucci, leader pluripregiudicato per droga e lesioni gravi della curva sud del Milan, fotografato recentemente insieme all’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. E c’è Luca Castellini, proprio lui, il capo della curva dell’Hellas Versona, nonché coordinatore veneto di Forza nuova. Castellini è salito ai disonori delle cronache una settimana fa, dopo la protesta in campo dell’attaccante del Brescia Mario Balotelli vittima di insulti razzisti provenienti dalle gradinate dell’Hellas. Ecco Castellini ha cercato di difendere l’indifendibile: “Balotelli ha sentito gli ululati nella sua testa, è italiano perché ha la cittadinanza italiana ma non potrà mai essere del tutto italiano”. Castellini si guadagna un lungo “daspo”, bandito dal Bentegodi di Verona fino al 2030, ed è indagato per istigazione alla discriminazione razziale.

La gambizzazione. Report manderà in onda anche un’intervista di Ruffo a Fabrizio Toffolo, oggi 54 anni, tanti di questi passati in curva all’Olimpico tra gli Irriducibili della Lazio guidati proprio da Diabolik. Toffolo è stato gambizzato due volte, nel 2007 e nel 2013. Ruffo mostra a Toffolo un foglio, una nota della Questura di Roma relativa proprio ai proiettili del 2007: una fonte confidenziale racconta i particolari dell’agguato e indica quale mandante lo stesso Diabolik. “Sì, lo sapevo da anni. Però lo dice questo informatore. Sarà credibile o no?”, dice Toffolo alle telecamere di Rai3. “Ci potevano essere dei motivi credibili per i quali Piscitelli voleva farti sparare alle gambe?”. “Non so che dirti”. A Report parla anche, per la prima volta dall’uscita dal carcere, Orlial Kolaj, l’ex campione europeo dei pesi medio-massimi di pugilato, già nella famigerata “batteria degli albanesi”, minaccia costante di Roma nord. In ottimi rapporti con Diabolik, almeno fino a qualche tempo fa.

La scalata. Prima ancora la Lazio sull’orlo del fallimento fu comprata da Claudio Lotito. Diabolik si mette di traverso e coinvolge l’ex campione Giorgio Chinaglia, morto nel 2012 in Florida, che avrebbe dovuto fare il presidente al termine della scalata. La storia è nota, ma Report rivela un nuovo particolare. È il 2006. “Viene trovato – racconta Ruffo – un biglietto davanti la porta dell’abitazione di Lotito: gli ultrà avrebbero minacciato la moglie, Cristina Mezzaroma, se non avesse venduto a Chinaglia. Ma la casa è sorvegliata. Possibile che qualcuno sia arrivato davanti la porta senza essere visto? Un’intercettazione tra la Mezzaroma e la sua governante farebbe pensare che quella minaccia non sia fatta dagli ultras, ma abbia origine in casa Lotito”. “Avemo fatto un danno del cazzo mi sa eh?”, dice la Mezzaroma alla governante. “Perché?”. “Mi sa che l’ha portato a qualcuno”.

Bianchi e neri. La trasmissione, però, parte da Torino. E così comincerà Sigfrido Ranucci in studio: “Dopo oltre 225 mila intercettazioni, migliaia di ore di pedinamenti, scatta un’operazione della Digos, su mandato della procura di Torino, contro gli ultras della Juventus. Sono accusati di estorsione aggravata e riciclaggio. Ottenevano biglietti e li rivendevano lucrandoci. Per mantenere il business avevano fatto della violenza stile di vita. Le strategie le dettava il pluripregiudicato Dino Mocciola, leader dei Drughi. Il banco è saltato dopo la denuncia della Juve nel giugno 2008, ma è stata una denuncia spontanea?”. Risponde l’ex questore di Torino, Francesco Messina, oggi allo Sco, con una lettera riservata (e ancora inedita) datata aprile 2018. Il questore si è accorto che la Juventus Fc sta ancora fornendo biglietti agli ultras senza farli pagare. “Atteggiamento – si legge – inopportuno”. E Messina dice a Report: “La mia lettera è lo spartiacque perché la società non ha più scampo: non può, se è una società seria, non prendere in considerazione una situazione che poi la può vedere non solo come vittima, ma la potrebbe vedere a un certo punto connivente”.

“L’ho fatto per soldi” I vigili uccisi a causa di una tentata truffa

inviato ad Alessandria

“Le uniche risposte vere sono quelle brevi”, diceva il Commissario Maigret. Giovanni Vincenti forse ha cominciato a tradirsi così: parlava tanto, troppo; rispondeva anche quando nessuno gli faceva domande. Si giustificava quando ancora non era stato accusato. Come se non riuscisse a tenersi dentro il peso che aveva: “Deve essere stato uno dei miei nemici, ho fatto i nomi ai carabinieri”. Ma il vero nemico era lui stesso, che aveva messo su un piano scalcinato per fregare la miseria e invece ha ucciso tre persone. Alla fine si è tradito come un bambino: lasciando le istruzioni del timer usato per l’esplosione sul comodino della camera. Follia o un tentativo di essere scoperto e uscire dall’incubo.

Era troppo ovvio per non essere vero. A far saltare in aria la cascina di Quargnento (Alessandria) sarebbe stato il proprietario, che voleva incassare il premio dell’assicurazione: quel milione e mezzo che lo avrebbe tolto dalla morsa dei debiti, centinaia di migliaia di euro. Ad agosto, Vincenti ha lasciato il primo indizio: la polizza che veniva estesa a “fatto doloso di terzi”. Quasi una firma sull’esplosione. Perché così poi è nato quel piano assurdo: inscenare l’attentato.

La seconda mossa è stata procurarsi le bombole del gas, sette in tutto, acquistate in tempi e luoghi diversi. Servivano due timer e Vincenti se n’è procurati di quelli che servono per l’illuminazione degli alberi di Natale. Dovevano attivare l’innesco. Le scintille avrebbero provocato l’esplosione nella casa invasa dal gas liberato dalle bombole lasciate aperte. Il resto è un misto di piccole scaltrezze e trucchi da telefilm: Vincenti mette in scena un’effrazione, si procura un flessibile e taglia le sbarre della cantina.

Troppi tasselli, appiccicati così come viene, che infatti vanno in pezzi lunedì notte. E provocano una tragedia: i due timer erano fissati all’una e trenta di notte, ma uno dei due scatta a mezzanotte esatta perché Vincenti lo regola maldestramente. L’innesco, però, provoca soltanto un piccolo botto perché gli ambienti non sono ancora saturi di gas. Ma quando vigili del fuoco e carabinieri arrivano ecco che scatta il secondo timer. E c’è la seconda esplosione che riduce in polvere la cascina.

Cominciano le indagini. Qualcuno ipotizza addirittura un attentato terroristico: due esplosioni, a poca distanza l’una dall’altra, ricordano la tecnica dei terroristi mediorientali. Invece è una storia piccola piccola, di un uomo che ha vissuto arrabattandosi tra mille lavori: pizzaiolo, programmatore di computer, fino al progetto di fare l’allevatore di cavalli. No, non un criminale, una persona che nella vita aveva raccolto una querela del figlio, che lo aveva denunciato per l’insistenza con cui lo tampinava. “Poi piccole rogne fiscali”, raccontano i carabinieri. Una vita, come tante purtroppo: la Mercedes argento fiammante e le banche che gli mordevano i polpacci. Ma quella cascina con la facciata color ocra, le finestre di legno massiccio, i lampadari di pregio da sogno era diventata un incubo.

Vincenti l’aveva messa in vendita: 750 mila euro, ma era sceso fino a 250 mila euro. Del resto qui con la terra non ci si arricchisce: con un quintale di grano ti paghi una sera in pizzeria. A quel punto forse nasce l’idea delle bombole. Ma muoiono tre poveri vigili del fuoco. E martedì bisognava vederlo Vincenti che si aggirava intorno alle macerie della cascina e della sua vita, sempre in movimento, sempre a parlare, a spiegare, a lanciare dubbi e sospetti: “Qui non mi amano, ma sono una brava persona”, giurava e spergiurava. E la moglie Antonella in lacrime: “Abbiamo perso la casa, ma pensiamo a chi è morto”.

Venerdì pomeriggio, appena celebrati i funerali delle vittime, è spuntato quel foglietto sul comodino. Ed è bastato per mettere in fila gli indizi: l’assicurazione, i debiti, la presenza di Vincenti alla cascina poche ore prima dello scoppio. Appena ha saputo del ritrovamento Vincenti ha iniziato a parlare, come se in fondo fosse un sollievo. Ma senza lacrime: “Sì, sono stato io… vi racconto tutto”. Adesso è in carcere, accusato di disastro doloso, lesioni e omicidio plurimo volontario (la moglie è indagata a piede libero). “Giuro che non volevo uccidere”, ha ripetuto lui mentre lo portavano in carcere. Quelle bombole non erano messe lì per ammazzare. C’è un dettaglio, però: a mezzanotte Vincenti riceve la telefonata dei carabinieri che lo informano della prima esplosione. Ma l’uomo non avverte del timer fissato all’una e mezza. Arriva alla cascina pochi istanti dopo la seconda esplosione. I tre vigili del fuoco sono sotto le macerie, lui è salvo.

Governo Conte 2 Il premier è vivo, ma i giallo-rosa no

Un governo si giudica da quello che fa e non fa, in base a quello che può fare nelle condizioni date e in rapporto a quello che faceva chi c’era prima e da quello che potrebbe fare chi verrà dopo. Il Conte 2 – che in questo inserto i nostri “ministri ombra” giudicano dicastero per dicastero – è nato due mesi fa in 10 giorni fra tre forze politiche (poi diventate quattro) che si erano combattute e insultate fino al giorno prima. Ma collegate da alcuni esili fili comuni: la necessità di formare l’unica maggioranza parlamentare possibile per non darla vinta alla pretesa di Salvini di votare subito per prendere il potere, anzi i “pieni poteri”; l’esigenza di dare all’Italia una manovra di Bilancio per evitare l’esercizio provvisorio, neutralizzare l’aumento dell’Iva, placare gli speculatori e dunque lo spread; l’opportunità di sedere al tavolo della nuova Commissione Ue; la volontà di governare sino a fine legislatura, di rispondere all’ansia di novità più volte espressa dagli italiani con un cambiamento diverso da quello di una “destra” troglodita e sfasciatutto e, nel frattempo, di preservare il Quirinale da un B. o da una Casellati.

Viste le premesse, un livello minimo di litigiosità e renitenza fra i giallorosa era fisiologico. Ma, dopo l’arrivo del partitucolo renziano, le conseguenti convulsioni nel Pd e l’aggravarsi post-Umbria del marasma nei 5Stelle, quel livello è diventato patologico e cacofonico. Una rissa quotidiana che si manifesta più sui giornali e in tv che nei Consigli dei ministri, ma che sta oscurando le cose buone fatte o almeno impostate nei primi 60 giorni. Tant’è che è bastata la crisi dell’Ilva, chiaramente estranea a responsabilità del Conte 2, e anche del Conte 1 (nato quando il contratto con Arcelor Mittal era purtroppo irreversibile), per metterlo in pericolo. Ora i giallorosa sono a un bivio: o staccano la spina e vanno volontariamente al macello delle urne, consegnando i pieni poteri a Salvini; o la piantano di segare l’albero su cui sono (e siamo) seduti. Approvando senza stravolgerla la legge di Bilancio, la migliore con le poche risorse disponibili. E subito dopo riunendosi in conclave per mettere a punto un programma più dettagliato: un vero contratto come quello che tiene in piedi le Grosse Koalition tedesche, che vincoli i quattro partiti ad approvarlo nei termini e nei tempi previsti, senza consumarsi a ogni provvedimento in eterne discussioni a Palazzo Chigi e poi di nuovo sui media. Conte ha già dimostrato di essere non solo l’unico, ma anche il migliore premier possibile di questa maggioranza (chi si era scordato la sua lezione a Salvini del 20 agosto in Senato se l’è ricordata l’altroieri vedendolo a Taranto fra gli operai dell’ex Ilva). E Mattarella ha già fatto sapere che questo sarà l’ultimo governo della legislatura. Dopo ci sono soltanto le urne, cioè Salvini.

I giallorosa se ne facciano una ragione e comincino a comportarsi come i conducenti di un treno che deve viaggiare per tre anni e mezzo, accantonando i social e i sondaggi e ponendo le basi per quei risultati che, per essere veri, necessitano di una prospettiva di anni, non di giorni o settimane. Altrimenti, se hanno in mente altri mesi di lenta agonia, dicano subito chiaro e tondo che preferiscono finirla qui. Se il futuro che hanno in mente per l’Italia è un governo Salvini con pieni poteri, è inutile rimandarlo: prima arriva, prima ce ne liberiamo.

 

Economia
Torna la lotta all’evasione, anche se in deficit: Gualtieri deve fare il politico

Il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, sta facendo ciò che i partiti gli hanno chiesto: più deficit col consenso di Bruxelles. La legge di Bilancio 2020 prevede infatti deficit di 0.9 punti di Pil per compensare le clausole di salvaguardia (l’aumento automatico dell’Iva doveva scattare proprio per evitare nuovo deficit). Non solo in questo Gualtieri è in continuità col passato. La legge di Bilancio non tocca le misure contestate (Quota 100, 80 euro renziani, Reddito di cittadinanza che a oggi è solo un sussidio e non una politica attiva) e ne introduce di nuove (il taglio al cuneo fiscale, riedizione mignon degli 80 euro). Le tasse green, come quelle sulla plastica, servono a fare gettito e non a compensare esternalità negative (pagare i danni causati dalla plastica, per esempio).
Unica nota positiva: la lotta all’evasione ora è una priorità, anche se per ragioni di cassa e non di equità. Il Pil resta a zero.
Gualtieri dovrebbe fare più il ministro e meno l’amministratore di condominio. Dopo anni al Tesoro c’è un politico e non un tecnico: è un’opportunità da non sprecare.

Stefano Feltri

 

Infrastrutture
Puntiamo a una rivoluzione mondiale: mezzi non inquinanti a guida autonoma

La ministra dei Trasporti, Paola De Micheli, forse agirà in continuità con i suoi due predecessori dichiarando: “Ogni progetto sarà rigorosamente valutato”. Poi però ha detto che tutte le ferrovie saranno elettrificate e rese a doppio binario: una nuova versione della “cura del ferro” whatever it takes. Delrio e Toninelli, quando han compreso che le valutazioni potevano contraddire la cura del ferro, le hanno precipitosamente messe da parte. Vedremo se la storia si ripeterà.
Ma ha scelto come collaboratore un tecnico di valore, il professor Catalano, che potrebbe essere il primo a convincere un ministro dei Trasporti a dire un No a progetti che risultano uno spreco, ponendo fine allo scambio tra soldi pubblici e voti.
Una parte significativa dei soldi pubblici oggi destinati alle ferrovie per perseguire l’illusorio obiettivo del cambio modale dovrebbe utilmente essere dirottata per seguire la rivoluzione mondiale in corso nei trasporti: veicoli non inquinanti e guida autonoma, da cui l’Italia è assente. Poi sarebbe urgente ridare centralità alla parola “concorrenza”, che oggi sembra bandita dal settore.

Marco Ponti

 

Esteri
Ottimo guizzo sulla Turchia, il rischio è una politica estera nel cortile di casa

Luigi Di Maio ha preso ad attaccare i “sovranisti di casa nostra” come Matteo Salvini. In un mondo in cui è difficile fare la politica estera da un piccolo Stato nazionale, la svolta europeista che sta alla base del Conte 2, segna il perimetro dell’attività della Farnesina. Tra l’altro in un contesto in cui la politica estera la fa il premier e la stessa Unione europea.
Di Maio si muove con cautela, attento alle polemiche sulla propria inesperienza e alla battute sulle sue gaffe (ma i vari Frattini, Fini, Alfano Terzi di Sant’Agata erano meglio?). Il capo politico dei 5 Stelle non si può sottrarre alla liturgia della fedeltà atlantica e purtroppo gestisce la strada della “internazionalizzazione delle nostre imprese” con un approccio da agente di commercio. Però la mossa sulla Turchia, con la denuncia della guerra ai curdi, è stata tempestiva e si è visto un guizzo politico che andrebbe proseguito sul tema del commercio di armi. Giusto ribadire la centralità del Mediterraneo, ma non se diventa un pretesto per correre dietro a Salvini sui migranti. Quel mare ha bisogno di un disegno di pace e il dialogo con la società civile in subbuglio sull’altra sponda sarebbe importante. Il rischio è che l’azione del ministro guardi sempre e solo alla politica nazionale. Intanto una cosa si potrebbe fare con forza: esigere dall’Egitto giustizia per Regeni.

Salvatore Cannavò

 

Interno
Senza twittare, Lamorgese ha aumentato i rimpatri. Ma l’immigrazione è affare Ue

Non twitta e parla solo nelle occasioni istituzionali. Ma la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, è riuscita a far inserire in manovra 48 milioni di euro in più per gli straordinari delle forze di polizia, cosa che Salvini non aveva fatto. Sul fronte immigrazione ha chiesto alle Ong il rispetto del Codice di comportamento ideato da Minniti, senza però dichiarare loro guerra. Ed è rimasta ferma sulla Libia, confermando il ruolo della loro Guardia Costiera, ma lavorando perché il nuovo accordo “migliori i centri di detenzione in attesa che vengano completamente gestiti dall’Onu”.
Gli sbarchi in settembre sono però triplicati, principalmente a causa delle cosiddette navi fantasma in partenza dalla Tunisia. Un fenomeno che non era all’ordine del giorno nell’agenda di Salvini, forse perché difficilmente governabile. Lamorgese si è così concentrata sui rimpatri, aumentandoli del 60 per cento, anche se si parla di piccoli numeri: a ottobre, su 379 tunisini sbarcati, ne sono stati mandati indietro 273. Sul fronte redistribuzioni bisognerà vedere se diventerà qualcosa di più concreto il cosiddetto “pre-accordo di Malta”. La questione migratoria è a Bruxelles che si risolve, non a Roma o su twitter. Sia con Salvini sia con Lamorgese. Voto 6 e mezzo.

Peter Gomez

 

Sviluppo economico
Forse hanno sottovalutato Ilva e Alitalia: aprano un tavolo per far lavorare il Mise

Nei suoi due mesi al ministero dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli ha fatto un grave errore sottovalutando il problema Ilva. Il vero segnale di disimpegno di Arcelor Mittal è stata la nomina di Lucia Morselli come Ad, il 15 ottobre, ma il ministro non ha voluto capire che lo scudo penale sarebbe stato il pretesto per la fuga. Forse sta sottovalutando anche il problema Alitalia: la paragona alla Ferrari come bandiera dell’orgoglio nazionale, mentre è il simbolo dei vizi romani. Con impotente buona volontà ha annunciato l’apertura di tavoli su tutto, dall’edilizia all’industria dell’auto, dopo aver peraltro scansato la fusione Fca-Peugeot classificandola come “operazione di mercato”.
A sua discolpa va notato che il predecessore, Luigi Di Maio, al Mise gli ha lasciato il deserto. Appena insediato, Patuanelli ha rilevato che le centinaia di crisi aziendali “erano seguite da una struttura fatta da una persona” e ha messo in campo “una struttura di 12 unità”. Non ci si crede. Ecco, tra tanti tavoli Patuanelli potrebbe aprirne uno sul suo ministero, per indagare su come passano le giornate i 3 mila dipendenti del Mise.

Giorgio Meletti

 

Riforme istituzionali
Cambiamenti mirati e circoscritti: ora si punti a tutelare la rappresentatività

Dopo alcuni sfortunatissimi tentativi di riforme monstre della Costituzione (Berlusconi e Renzi), questa legislatura ha scelto la strada meno accidentata di modifiche mirate: l’8 ottobre il Parlamento ha approvato la diminuzione del numero dei parlamentari che riduce a 400 gli attuali 630 deputati e a 200 gli attuali 315 senatori. Il taglio, fortemente voluto dai 5Stelle, sarà operativo dalla prossima legislatura. Ma prima il Parlamento deve adeguare – sono in arrivo i ddl di maggioranza – la Costituzione al nuovo assetto: c’è, ad esempio, il tema della platea per l’elezione del capo dello Stato. Intanto si procederà anche all’equiparazione, assolutamente condivisibile, dell’elettorato attivo a 18 anni per entrambe le Camere e al superamento della base regionale per l’elezione del Senato in favore di una base circoscrizionale in modo da avere un sistema analogo a quello della Camera. Ma la questione fondamentale sarà la legge elettorale (a cui si spera che il legislatore lavori quanto prima per mettere il Paese in condizione di votare): con un Parlamento così magro è essenziale che il sistema elettorale garantisca il più possibile la rappresentatività, i principi di uguaglianza e libertà del voto. Per noi può essere un proporzionale con uno sbarramento al 5 per cento (massimo).

Silvia Truzzi

 

Lavoro e politiche sociali
Reddito di cittadinanza: è un successo, bisognerebbe comunicarlo meglio

In queste prime settimane in carica, la ministra Nunzia Catalfo ha dedicato la sua attenzione soprattutto al caporalato, ai rider, agli strumenti previdenziali, ai decreti attuativi del Reddito di cittadinanza e agli incontri con i sindacati per mettere a punto gli strumenti previdenziali. L’attività ministeriale va equamente ripartita tra le attività in agenda e la comunicazione pubblica dei risultati. La comunicazione del ministero del Lavoro è decisamente carente. Basterebbe constatare che nei media e nell’opinione pubblica prevale l’idea che il Reddito di cittadinanza sia un fallimento, laddove potrebbe essere comunicato, senza nulla esagerare, come uno dei pochi successi governativi dell’ultimo decennio: ogni giorno, 2.334.000 poveri hanno la certezza di sopravvivere; di essi, 597.000 sono minori e 199.000 disabili. Dalle città stanno scomparendo i barboni non perché deportati, ma perché assistiti. Tre cose vanno portate a termine prioritariamente: completare i decreti attuativi della legge 28 marzo 2019, n. 26 (Reddito di cittadinanza); accelerare l’iter del progetto di legge sul salario minimo; accelerare l’iter del progetto di legge sulla riduzione dell’orario di lavoro.

Domenico De Masi

 

Beni culturali e turismo
Siamo fuori dalla devolution leghista, ora attenti alle promesse da marinaio

Dario Franceschini si attribuisce la battuta: quando da un governo non ci si aspetta nulla, basta poco per aver successo. Poco, ma cosa? È presto per giudicare, ma almeno il ministro ha tolto paesaggio e Beni culturali dall’efferata devoluzione leghista alle Regioni, e ha fatto sparire dal “decreto sisma” il maxi-condono esteso a tutto il Lazio (Roma inclusa) inguattato nell’art. 4.
Che cosa partorirà il testo finale della legge di Bilancio? Vedremo se manterrà la promessa di massicce nuove assunzioni, assolutamente indispensabili perché il ministero non chiuda bottega. Ma Franceschini dovrebbe trovare il coraggio di smentire se stesso (virtù per solito ignota ai nostri politici) ristabilendo la piena comunione musei/territorio in funzione della tutela e di una valorizzazione non solo monetaria. Di tal resipiscenza, ahimé, nessun indizio. E la (ri)conquista del Turismo fra i compiti del ministero? Sarebbe l’ora giusta per allontanare le Grandi Navi dalla Laguna di Venezia, e Franceschini lo ha promesso “entro la fine del suo mandato”. In un governo a durata e geometria variabile, resterà una promessa di marinaio?

Salvatore Settis

 

Ambiente
Costa è competente e allora coraggio, faccia la legge sul consumo di suolo

La parte positiva è che Costa è un ministro competente che cerca di introdurre il tema ambientale tra i suoi colleghi pur non avendo vita facile. Lo esorterei a combattere molto di più affinché i temi ambientali non siano succubi dell’economia o del lavoro, vedi Ilva. Se non funziona l’ambiente non funziona la società o l’economia, non funziona nulla. Tra le cose da fare: puntare sulla consapevolezza. Investire anche sui media, con l’autorevolezza di un ministero, perché si parli di più dei temi ambientali che vanno spiegati. Gli italiani non li capiscono, non li conoscono.
Poi, bisogna cercare di far approvare la legge sul consumo di suolo. Giace dal 2012 nei meandri parlamentari e sarebbe un bel lascito. Terzo, avere il coraggio sulla questione Tav in Val di Susa di fare il bilancio delle emissioni per sfatare il mito che sia un’opera verde. Se si contano le emissioni del cantiere si vedrà che queste si “mangiano” tutto quello che di buono il treno potrebbe fare. Non si è mai avuto un numero certificato, lo deve fare il ministero e lo deve fare l’Ispra. Sarà quello che ci dirà se l’opera è verde oppure no. Sui sussidi occorre coraggio: la sostenibilità si fa anche con i sacrifici, magari vanno negoziati, ma qualcuno deve pagare per l’inquinamento e qualcun altro deve essere premiato per le azioni virtuose.

Luca Mercalli

 

Diritti Civili
Manca il ministro ad hoc, c’è un valore comune: tutti uguali davanti alla legge

Per Andy Warhol, “ciascuno dovrebbe essere come chiunque altro”. Un ministero dei diritti civili, se ci fosse, dovrebbe occuparsi di questo: assicurare a tutti “pari dignità sociale” e “eguaglianza davanti alla legge”. Il terreno comune, per le due forze di governo, c’è, o ci sarebbe. Anche se nel programma giallorosa si parla di diritti civili in un solo punto. Fidiamoci della dichiarazione di intenti, che prevede la promozione di “una più efficace protezione dei diritti della persona, anche di nuova generazione”. E, non avendo un ministro ad hoc, confidiamo in Bonetti e Lamorgese. Fare la differenza qui è semplice, vista la pagina bianca su cui scrivere. Alcuni disegni di legge sono già depositati in Parlamento, come l’introduzione del reato di omotransfobia e il matrimonio egualitario (“Non bastano le unioni civili?” No, non bastano). Va affrontata anche una riforma delle adozioni, per tutti. Soprattutto, il riconoscimento della cittadinanza per gli 800 mila bambini nati in Italia da stranieri: ius soli. E poi una nuova legge sulla fine vita. E, visto che dovrebbe esserci anche attenzione alle fragilità sociali, un piano nazionale di prevenzione al suicidio. Come avviso ai naviganti, per non perdere tutti i voti delle cosiddette “minoranze”, consigliamo al Pd di uscire dal consueto torpore e prendere coraggio; al M5S di guardare meno ai sondaggi.

Maddalena Oliva

 

Istruzione
Fioramonti è il più grillino di tutti: proprio per questo il migliore di tutti

Lorenzo Fioramonti è rimasto grillino. È uno dei pochi che incarni ancora le idee e lo stile che hanno portato all’ormai remoto trionfo del 4 marzo. Lo si è capito bene quando ha scoperto che una “manina” aveva infilato, a sua insaputa, nella legge di Stabilità, una sconcertante Agenzia della Ricerca controllata dal potere esecutivo e dunque di stampo totalitario-renziano. Fioramonti sembra un tremendo rompiscatole. Ma il Movimento sarebbe lì per romperle, le scatole. Per questo, anche se nessuno sembra prendere sul serio la minaccia, a gennaio potrebbe davvero dimettersi. La scuola e l’università, dice a ragione Fioramonti, hanno bisogno di aumentare il finanziamento ordinario, e di assumere a tempo indeterminato insegnanti e giovani ricercatori. E hanno bisogno di destinare i nuovi fondi ai più deboli, agli ultimi della catena. L’impegno del ministro (che ha ricostituito l’Osservatorio per l’inclusione scolastica) per l’assunzione e per la formazione di 40.000 insegnanti di sostegno entro l’anno scolastico 2021-22 è forse quello più chiaro: un’idea di scuola, e di società, che metta al centro i più fragili. Insomma, se Fioramonti riuscirà a fare anche solo una parte di quello che pensa e dice potrebbe essere il miglior titolare del Miur degli ultimi decenni. Se.

Tomaso Montanari

 

Editoria e informazione
Una nuova Rai è possibile, però finora non si è visto nessun rinnovamento

Niente. Finora la nuova maggioranza, M5S-Pd-Leu e Italia Viva, non ha fatto alcunché per riequilibrare il pluralismo dell’informazione nel nostro Paese e in particolare nel servizio pubblico radiotelevisivo. Tanto più dopo l’occupazione del fronte sovranista.
La nuova maggioranza non ha ancora rinnovato il consiglio dell’Autorità sulle Comunicazioni, scaduto in giugno, prorogandolo una prima volta per due mesi e rinviando poi la nomina del presidente (che spetta al “governo di svolta”) e quella dei quattro commissari (di competenza parlamentare) “entro e non oltre” il 31 dicembre prossimo.
Né i componenti giallo-rossi (o rosa) della Commissione parlamentare di Vigilanza sono riusciti a ottenere la verifica delle schede che, al secondo turno, hanno portato alla controversa elezione di Marcello Foa alla presidenza di Viale Mazzini. Eppure, come promette il titolo del convegno indetto l’8 novembre a palazzo Giustiniani su iniziativa del senatore Primo Di Nicola (M5S), “una nuova Rai è possibile”. Quello che occorre, innanzitutto, è una riforma della governance per rendere l’azienda indipendente dalla politica e in particolare dal governo.

Giovanni Valentini

 

Salute
Va bene l’abolizione del superticket, però la Sanità pubblica sta sparendo

Le prime due misure introdotte nella legge di Bilancio per volontà del ministro della Sanità, Roberto Speranza, sono positive: l’abolizione del superticket dal settembre 2020 e lo stanziamento di 2 miliardi per l’edilizia sanitaria, con dentro 235 milioni per dotare gli studi dei medici di base di strumentazione diagnostica di primo livello.
Finora si è finto di non vedere che la Sanità pubblica sta scomparendo a favore delle strutture private. Il superticket di 10 euro su visite e esami fu ideato nel 2007 dal governo Prodi e applicato da Berlusconi con la manovra del 2011 per supplire al taglio alle Regioni; a obiettivo raggiunto è rimasto lì. È il motivo per cui a Roma un emocromo nel pubblico costa 20,33 euro e nel privato, senza ricetta, 11 euro. Questo, unito a liste d’attesa indecenti, fa parte di un progetto preciso: costringere i cittadini a rivolgersi al privato, oppure a non curarsi, come già sono costretti a fare in 6 milioni.
Renzi e Lorenzin hanno tagliato 208 esami prima gratuiti ritenendoli “non necessari”. Se un paziente vuole fare una risonanza magnetica col Sistema Sanitario Nazionale deve essere già malato, oppure se la paga da solo; il medico che la prescrive può incorrere in sanzioni amministrative davanti alla Corte dei Conti. Che aspetta Speranza a reintrodurli?
Altri suggerimenti: ambulatori di cure primarie in ogni città per decongestionare i pronto soccorso. Uguaglianza tra Regioni. Aumento dei posti letto. Assunzioni di medici e personale (e loro formazione perché non scarichino sui pazienti la frustrazione di lavorare in condizioni da Paese non progredito).

Daniela Ranieri

 

Giustizia
È giusto resistere sulla prescrizione, adesso occhio alle falle nell’antimafia

L’inedito governo giallo-rosa, con screziature color “bottegaleopolda”, è ancora un calderone nel quale ribollono e mal si combinano ingredienti di “cucine” diverse, tuttora inclini ad accordi “salvo intese” (un tributo al bipensiero di Orwell). Un cantiere, dove i proclami prevalgono spesso sui calcoli razionali, da valutare perciò con prudenza. Specie in tema di Giustizia, terreno dove consumare vendette e scontri politici. Limitiamoci dunque alle principali prospettive.
Positivo è che il governo voglia tenere ferma la riforma della prescrizione e l’opposizione alla separazione delle carriere (interfaccia di una magistratura zerbino della politica). Benemerito, ma scontato, il disegno di riforma di un processo con costi e tempi che generano sfiducia e insicurezza; meglio ancora se si riuscirà, invece di accontentarsi di qualche palliativo, a operare una autentica rivoluzione, come sarebbe l’abolizione dell’attuale pletora di gradi di giudizio, così da impedire che la certezza della pena sia una pia illusione.
Bene il progetto di riformare il Csm, ma non con l’incostituzionale sorteggio, che per assurda coerenza si dovrebbe estendere a tutte le categorie professionali che esprimono i membri laici. Le “manette agli evasori” sarebbero un recupero di legalità e una distribuzione di risorse che non ci farebbero più vergognare parlando di giustizia sociale. Infine, sarebbe doveroso tamponare la falla che nell’antimafia ha aperto di fatto la Consulta, recuperando – contro le astrattezze – più sensibilità per un fenomeno criminale che controlla larga parte del territorio italiano e dell’economia nazionale.

Gian Carlo Caselli

 

Famiglia e pari opportunità
Dopo i leghisti sarà una passeggiata Meno “candore” non guasterebbe

Siamo onesti. Diventare ministro delle Pari opportunità e della Famiglia dopo Lorenzo Fontana e Alessandra Locatelli è un po’ come diventare ministro della Salute dopo Morgan e Paul Gascoigne. Diciamo che fare peggio di chi ti ha preceduto è difficile, a meno che non ti svegli una mattina e decidi che le donne incinte, sull’autobus, devono cedere il posto agli ultras dell’Hellas Verona, per legge.
Il ministro Elena Bonetti, dunque, si è trovata davanti una strada in discesa, così tanto in discesa da essersi fratturata un piede ad appena un mese dalla sua nomina. Va però detto che al momento sembra un’entusiasta, con idee progressiste nonostante il suo passato di capo dell’Agesci (gli scout cattolici), una in trincea nelle battaglie su famiglie arcobaleno e adozioni gay. Se Fontana sosteneva il Family Day, lei appoggia il Coming Out Day. Se Fontana flirtava con l’amico Pillon, lei ha archiviato il ddl Pillon definito “una risposta dannosa e inadeguata” e ammosciando definitivamente il papillon del neocatecumeno spelacchiato. Se Fontana era ossessionato dal problema delle culle vuote, lei è ossessionata da quello dei seggiolini pieni. Non solo ha chiesto (e ottenuto) i seggiolini col dispositivo anti-abbandono, ma vuole anche “un sistema di allerta in tutti gli asili nido per evitare episodi di dimenticanza dei bambini”. Insomma, la Bonetti sogna un mondo di donne affermate nel lavoro e pure pieno di bambini, ma poi teme – saggiamente – che tra una riunione e una pentola sul fuoco, i bambini ce li dimentichiamo. Certo, forse pecca di eccesso di candore (“Io sogno un mondo in cui se una dipendente va dal datore di lavoro a dirgli che è incinta, lui stappa lo champagne per festeggiare con lei!”), ma c’è da capirla: ha fatto parte della segreteria nazionale del Pd. Tra faide interne e coltellate alle spalle, ne ha viste talmente tante che, come John Lennon, sogna di trasformare il suo ministero in una sorta di Nutopia di pace e amore universale. Promossa.

Selvaggia Lucarelli

 

Difesa
Guerini obbedisce alle lobby e agli Usa, Almeno non ci fa vedere quelle felpe

Il ministro Guerini, impegnato nelle beghe di partito, non deve aver avuto tempo per i compiti di casa e prendere conoscenza delle molte peculiarità del suo ministero. L’unica uscita ufficiale è stata l’illustrazione delle “nuove” linee programmatiche” alle Commissioni Difesa di Camera e Senato da lui presentate come “proprie”. In realtà, tali linee non sono né nuove e nemmeno sue. Guerini, come le altre dei governi precedenti, ripete pari pari le affermazioni e le imposizioni statunitensi di Trump, Pompeo e il giubilato Bolton. Imposizioni supinamente recepite dal Segretario generale della Nato, Stoltenberg, riguardo la minaccia russa e cinese e l’aut aut sull’aumento delle spese militari. Poco importa se la posizione Nato-Usa porta di nuovo l’Europa a essere il prossimo campo di battaglia globale. La stessa sinergia Nato-Unione europea auspicata, come sempre, è in realtà un’allergia visto l’impegno profuso dalla Nato-Usa nel destabilizzare l’Ue per favorire un’Europa orientale fatta di razzisti e nazisti. Vi sono poi i soliti impegni nei confronti dell’apparato industriale militare, un “volano” per l’economia per la sua capacità di mantenere posti di lavoro, quasi fosse un’altra cassa integrazione. Perseguire la formazione di uno strumento efficiente ed “equilibrato” stride e appare rivolta ad acquietare le varie lobby che ormai abitano in via XX Settembre. I programmi di ammodernamento sono squilibrati e per giustificarli si reinventano minacce e incertezze sulla base di discutibili voli “geostrategici” come il “Mediterraneo allargato”. L’ovvia intenzione del ministro e del governo è di non scontentare nessuno in questo periodo di transizione. È comprensibile. Perciò, per avere linee veramente “nuove” e prodotto di un autentico pensiero politico nazionale ed europeo occorrerà aspettare molto. Nel frattempo, Guerini almeno ci risparmia le fanfaronate, le “felpate” e le comparsate televisive. L’augurio è che non siano i capi militari, i piazzisti industriali e gli ideologi a provocare pericolose fughe in avanti.

Fabio Mini

 

Draghi, Segre, Ppe e cravatta: adesso Salvini fa il moderato

Scordatevi capitan Mojito e la crisi di Ferragosto al Papeete. Acqua passata: oggi Matteo Salvini è un altro. L’uomo che si è divorato la destra italiana ora si prepara alla conquista del centro. Negli ultimi giorni ha provato a riavvicinarsi al Partito popolare europeo, ha proposto l’odiato Mario Draghi (dell’odiata Bce) come futuro presidente della Repubblica, ha flirtato con il cardinale Ruini, è andato a portare la sua solidarietà alla senatrice a vita Liliana Segre, finita sotto scorta per le minacce razziste (anche se ieri l’ex ministro ha timidamente smentito: “Gli incontri che faccio li comunico”).

Salvini s’è tolto la felpa per indossare un abito istituzionale e rassicurante, come la giacca e cravatta che si è messo per sfidare Renzi in tv da Bruno Vespa. Salvini, insomma, ha la forma dell’acqua: quella che assume di volta in volta cambiando contenitore.

L’operazione è evidente, scoperta. Ma funziona? Assolutamente sì. L’abbiamo chiesto a osservatori, studiosi della politica, sondaggisti. Sono tutti d’accordo: “La svolta di Salvini è un segno di estrema intelligenza”.

Ascoltate Piero Ignazi, di certo non uno dei massimi sostenitori dell’ex ministro dell’Interno: “Purtroppo Salvini è bravo, punto. Ha imparato dai suoi errori e sta mettendo in pratica un progetto di egemonia totale”.

Il pericolo, spostandosi verso il centro, potrebbe essere quello di disorientare il suo elettorato più radicale, abituato a un’agenda di destra. Ignazi smentisce questa ipotesi: “Salvini non perde gli elettori sovranisti. Quelli ormai se li è presi, sono suoi. Osservate l’esperienza della Le Pen in Francia: ha smesso di parlare di uscita dall’euro e ha moderato il suo linguaggio politico senza perdere terreno a destra”.

Salvini funziona comunque: in felpa o in doppio petto, “in ruspa o sulla Rolls Royce”, sostiene il politologo emiliano. “Il suo successo – aggiunge – è il risultato della pavidità del centrosinistra italiano: bisognava andare al voto dopo la crisi di questa estate, nell’unico momento in cui era indebolito e in difficoltà. Invece hanno avuto paura”.

“Salvini è intelligente”, ripete (quasi negli stessi termini di Ignazi) anche Gianfranco Pasquino, altro illustre studioso della politica italiana. “La sua è un’operazione cosmetica, è chiaro: ha solo cambiato maschera. Ma sa farlo bene. Non perde voti a destra e continua a prenderne altrove. Felpa o non felpa, la sua campagna elettorale è intensa, continua, efficace. L’ultima spiaggia sono le Regionali in Emilia Romagna: se dovesse vincere anche lì…”.

Come cambia il racconto della politica e la percezione dell’opinione pubblica: tre mesi fa, in piena estate, il capo della Lega veniva raccontato come un pugile suonato, un giocatore di poker che aveva perso tutto in una sola mano. Ora invece è tornato il coro di prima: “Salvini è intelligente”. Lo dice anche il sondaggista Nicola Piepoli. Molto di più: “È bravo. Sa fare politica. Un giorno gli si potrebbe affidare la fondazione di un’alta scuola della politica italiana, come l’École nationale d’administration che hanno in Francia (quella che ha “sfornato” anche Emmanuelle Macron)”. Piepoli conferma: “Dai sondaggi è evidente sia la crescita della Lega come partito, sia del suo consenso personale, dopo il crollo di questa estate”.

Anche i numeri consultati da Alessandra Ghisleri accompagnano questa sensazione: “Salvini – spiega la sondaggista – sta cercando di allargare il suo elettorato in un momento in cui tutti gli altri si restringono. Forza Italia è in grande difficoltà. Pd e Movimento 5 Stelle al governo stanno ‘donando il sangue’ e perdono percentuali che finiscono nell’astensione. La Lega nel mio ultimo sondaggio non supera il 33%, ma così cresce. E lo farebbe anche se restasse ferma”.

Occhetto, un’altra Bolognina 30 anni dopo. Il Pd prende appunti per una nuova svolta

Trent’anni più tardi, Achille Occhetto ritorna proprio lì, sul luogo di quello che è stato considerato un delitto epocale. Martedì sarà a Bologna per parlare della sua svolta, la fine del Pci: l’atto con cui ha chiuso la storia del comunismo italiano. Al dibattito parteciperanno anche Romano Prodi e Piero Fassino. Era atteso anche Nicola Zingaretti, il segretario del Pd che vuole fare “un partito completamente nuovo”. Ma non ci sarà: è in viaggio negli Stati Uniti, manderà un video messaggio di saluti. Sarebbe stato interessante vederli l’uno accanto all’altro: l’uomo che ha cambiato nome e simbolo al Pci e quello che potrebbe cambiare nome e simbolo al Pd. Ma la storia della sinistra è fatta di rimozioni e occasioni perse.

Trent’anni dopo dunque Occhetto torna a Bologna, ospite della Fondazione Duemila, dell’associazione Enrico Berlinguer e del Pd locale.

Era il 12 novembre 1989, il muro di Berlino era appena franato ai piedi di un continente sbalordito, seppellendo quello che rimaneva dell’utopia del socialismo reale. Quella mattina il segretario del Pci fu ricevuto da un’associazione di partigiani nella sezione della Bolognina. Sembrava un incontro qualsiasi, una giornata come le altre. Invece Occhetto disse che era necessario “andare avanti”. Che nulla sarebbe stato come prima: era tempo di mettere da parte il nome e il simbolo del Partito comunista italiano per far nascere una nuova formazione e iniziare una nuova storia.

Sono passati trent’anni e la sinistra sembra immobile: da partito a partito, da sigla a sigla, da crisi a crisi.

In tutti questi anni Occhetto è stato il protagonista di un clamoroso caso di rimozione politica. Sepolto anche lui sotto le macerie del muro: l’uomo della svolta è stato dimenticato, messo da parte, escluso anche dalla narrativa “padri nobili” della sinistra italiana. L’ex segretario non manca mai di lamentarsene: “La nostra storia – dice – viene raccontata come se si fosse passati direttamente dall’epoca luminosa di Enrico Berlinguer a quella buia del Partito democratico, saltando il grande travaglio culturale e politico che c’è stato in mezzo. È una vera infamia storica”.

Eppure dopo tutti questi anni di silenzio, martedì 12 novembre Occhetto sarà accolto a Bologna per parlare di quella svolta ignorata – fondamentalmente fallita – e della nuova svolta che potrebbe arrivare. Zingaretti non ci sarà, ma farebbe bene a prendere appunti.

Renzi cerca Mara per i “Responsabili”, ma Meb non vuole

“Se Renzi dichiarasse di non voler sostenere più il governo di sinistra, ma di avere altre ambizioni, Forza Italia Viva potrebbe essere una suggestione”. Sul palco de Linkiesta Festival Mara Carfagna lancia una provocazione. E il leader di Italia Viva risponde: “Porte aperte a chi vorrà venire non da ospite, ma da dirigente. Vale per Mara Carfagna e per gli altri dirigenti del suo partito, ma noi non tiriamo la giacchetta”. La chiamata a Forza Italia è stato il leitmotive della Leopolda. Fino ad ora, non con grandi risultati. Ma Matteo non demorde. E dopo mesi e mesi di corteggiamento e di inseguimento da parte dell’ex premier a Mara e alle sue truppe, l’interessata rovescia la questione: non è lei che si deve renzizzare, ma lui che si deve carfagnizzare, per dirla in battuta.

“Io gliel’ho chiesto anche due giorni fa a Mara di venire con noi. Per ora non la convinco”, confessa Matteo agli amici. Perché oltre alle valutazioni politiche degli azzurri critici – per la serie: conviene andare in Italia Viva? E se sì, quando e come farlo per contare di più? In caso di voto anticipato, Renzi può garantire un seggio? E ha senso fare da stampella a questo governo o a uno simile? – ci sono pure le questioni personali.

In questo caso, una guerra tra donne: quando la Boschi è diventata capogruppo alla Camera, il commento di Mara è stato: “Perché dovrei andare in un partito in cui potere e visibilità sono tutti per un’altra?” Dal canto suo Maria Elena non è affatto entusiasta all’idea di accogliere Mara, una che può decisamente farle ombra.

Invece, venerdì a invitare a cena la Carfagna è stato Silvio Berlusconi. Una mozione degli affetti per convincerla a non andare da nessuna parte, né con Giovanni Toti, come sembrava quasi deciso, né con l’ex Rottamatore. “Chi va con Renzi, sceglie la coalizione perdente”, ha ribadito ieri. Al netto delle aspirazioni di “Matteo”, quello che sta accadendo è che ci sono una serie di truppe in movimento. Che soppesano vari e diversi progetti. In Senato, i forzisti critici col sovranismo, che pensano che non si possa morire salviniani (ma neanche renziani senza una convenienza precisa) sono Schifani, Cangini, Mallegni, Causin, Dal Mas, Sandra Lonardo, Barbara Masini, Causin, Raffaele Fantetti. Alla Camera, tra gli altri, Renata Polverini, Alessandro Cattaneo, Matteo Perego.

Numeri in movimento, oscillazioni personali continue. C’è chi pensa addirittura a un nuovo partito, chi ha accarezzato l’idea di lavorare con calma, per entrare in Italia Viva in corso di legislatura. Ma davanti all’ipotesi di elezioni anticipate, può succedere di tutto.

La “suggestione” della Carfagna a Renzi vola alto: “Fai cadere il governo, rinuncia ai ministri, presentati alle elezioni da solo, dimostra di avere i voti e poi vediamo”, è il sottotesto. Renzi dal canto suo spera che i suoi uomini di collegamento, Pier Ferdinando Casini in Senato e Gianfranco Rotondi alla Camera, portino gli azzurri critici a fare da stampella alla legislatura, magari andando a rinforzare le file del suo partito. Appoggiando o lo stesso Conte, o meglio un premier del Pd, tipo Dario Franceschini, convinto che se Nicola Zingaretti volesse andare alla rottura, il Pd di spaccherebbe. Ma il punto centrale è che l’ex premier non può permettersi di andare alle elezioni. Il che lo porta – come d’altra parte è sua consuetudine – a intestarsi operazioni spregiudicate. “Salvini ha fatto bene ad andare a trovare Liliana Segre (anche se non è chiarissimo se l’incontro c’è stato, ndr) e a dire che l’euro è irreversibile. Da cittadino penso che sia merito di quello che noi stiamo facendo. Stiamo producendo un cambiamento di linguaggio e toni. Salvini ha capito che non si va a votare. Comincia a cambiare posizionamento”, ha detto ieri mattina. Una frase dietro la quale si nascondono i sogni e i progetti di alcuni dei suoi. “Se Salvini fa qualcosa di buono, noi gliene diamo atto”, spiega uno dei vicinissimi.

E non è un mistero che i due Mattei mantengano un ottimo rapporto in privato fin dall’inizio della legislatura. Fino a dove può portare questa cosa? Al sostegno a un governo Salvini da parte dei renziani? “Se ci fosse una specie di governo tecnico su 10 punti, noi ci staremmo. Per evitare di far salire lo spread e impoverire ulteriormente gli italiani. In quel caso, non saremmo noi i responsabili, ma gli altri a essere irresponsabili”.

Un altro bistrot in fiamme: ancora incendi a Centocelle

La prima pista è il racket della movida, la lotta per il controllo del territorio in un quartiere letteralmente esploso negli ultimi cinque anni. La seconda è totalmente diversa, ma gli investigatori non vogliono escluderla: quella di uno squilibrato, una specie di “piromane dei locali”. Sono queste le ipotesi che gli inquirenti reputano più verosimili dietro gli incendi dolosi che hanno colpito nelle ultime settimane i locali del quartiere romano di Centocelle. Il 9 ottobre la pinseria Cento55 di via delle Palme, il 6 novembre la caffetteria-libreria La Pecora Elettrica sempre in via delle Palme, e la scorsa notte il Baraka Bistrot di via dei Ciclamini. Una concatenazione di eventi simili verificatisi in meno di un mese (gli ultimi due in poche ore) e a distanza di poco più di 200 metri l’uno dall’altro.

Fatto sta che al momento i carabinieri della compagnia Casilina, che indagano, in mano hanno poco o nulla. Solo alcuni frammenti di immagini che i sistemi di sorveglianza hanno ripreso all’interno dei locali dati alle fiamme. Indagine che deve ripartire da zero, visto che quella relativa al primissimo rogo della serie, quello del 25 aprile sempre alla Pecora Elettrica, era arenata quasi subito. Il pool del procuratore reggente di Roma, Michele Prestipino, sta ricostruendo le dinamiche mafiose in un territorio di competenza del clan Senese, oggi messo a dura prova dalla ’ndrangheta che controlla la movida di Trastevere e Ponte Milvio.

Sul posto ieri pomeriggio è arrivata anche la sindaca Virginia Raggi, che ha smentito l’ipotesi del suo delegato alla Sicurezza, Marco Cardilli, di chiedere l’intervento dell’esercito, ma ha espresso solidarietà ai gestori dei locali colpiti: “Non vi arrendete, le istituzioni sono con voi”. Marco e Marina, che vivono a Centocelle, hanno rilevato il Baraka da un mese e mezzo, investendo 70mila euro.

Roma, tutti la vogliono ma nessuno se la piglia

“No, no e poi no” ha detto. Tenere recintate le sue ambizioni dentro il grande raccordo anulare sarebbe un’assurdità. Visto come si stanno mettendo le cose, almeno il Viminale! Giorgia Meloni perciò si tira fuori dal pericolo nel quale quel diavolo di Matteo Salvini la stava cacciando. Avanti un altro per il Campidoglio.

Roma sembra la Bella di Torriglia: tutti la vogliono ma nessuno se la piglia. Nicola Zingaretti, che adesso ha la rogna del Pd, fu il primo a capire che Roma è un lanciafiamme: “Manco morto!” disse quando gli chiesero di fare un passo avanti e provarci. Da presidente della Provincia, impegnandosi in un lungo periplo dell’amata città, giunse alla Pisana, la sede della Regione Lazio e lì si acquietò.

“Roma è una città collerica e mediamente cialtronesca. Sbuffa, s’indigna, sputa veleno ma seduta sul divano. È ignava, viziosa, e non sa cos’è la responsabilità. Perciò regredisce: anno dopo anno si sporca di più, si rompe di più, si spegne, nel senso proprio del termine. L’illuminazione delle strade si fa carente, viene il buio e serve cacciare dalla tasca il cellulare per farsi luce. Roma è ritornata a essere quella di Federico Fellini all’inizio del suo film sulla città (Roma, ndr): ingorgo epocale sul raccordo mentre dal cielo viene giù un temporale mai visto. Imbottigliata e ciancicata l’umanità caotica e dolente degli automobilisti. Nel traffico chi si rifà il rossetto, chi magna, chi rutta”. Carlo Verdone è l’antropologo della Capitale, il numeratore cinematografico dei vizi, dei tic, delle mode di questa città eterna, bellissima e insopportabile. Chi la guida è perduto.

“Numero uno: bisogna far dimettere Virginia Raggi”, annuncia Carlo Calenda. Che però non ha i voti, e si ritorna al punto.

C’è qualcuno che abbia la forza di redimerla? Qualcuno che sappia fare meglio di Virginia Raggi? La Raggi è in testa alla classifica dei sindaci più sbeffeggiati, accusati, ridicolizzati. La monnezza, le buche, la criminalità. “Riducendo tutto al nome del sindaco e alla sua responsabilità si nega quel grande buco che c’è sotto”. Walter Tocci, vicesindaco e assessore alla mobilità della giunta Rutelli, uno dei politici più pragmatici e più documentati sulla crisi della Capitale, ha tenuto alla Camera di Commercio di Roma un intervento magistrale sui guai metropolitani. “La pubblica amministrazione è divenuta anarcoide e anziana con un’età media di 54 anni. Nessun funzionario firma più nulla, Atac e Ama non sono servizi pubblici ma pericoli pubblici. Non c’è responsabilità a nessun livello. Chi mai metterebbe le mani in uno stagno così putrido? Il più bravo se le sporcherebbe, senza che fosse visibile un cambiamento significativo. O cambi i termini del governo del territorio, e riformi, delocalizzi i poteri legati alla gestione della vita quotidiana della città e li trasferisci nei municipi lasciando al Campidoglio solo quelli di Roma Capitale oppure non vai da nessuna parte”.

L’Atac, per esempio. Di ieri uno spot di questa disastrata azienda dei trasporti, che annaspa e s’inchioda quando non s’incendia, impegnata a realizzare un casting per la festa di Natale dei suoi dipendenti. Il casting, il Natale, la festa. Un’azienda che ha il livello più alto di assenze dal lavoro e il più basso tra chi riceve lo stipendio e chi guida i bus. Il caso dell’autista dell’852 (azienda Tpi) che, per non dover tornare al deposito e riprendere il suo scooterone, lo carica sul mezzo. L’ha fatto lui solo? L’ha già visto fare?

“Roma è irriformabile. Certo, a mio avviso una follia darla in mano a una ragazza sprovveduta come la Raggi. Ma non vedo Churchill in giro. Dove sono?”, chiede Domenico De Masi che da poco ha licenziato un libro sul futuro della città (Roma 2030).

In giro, abbiamo detto. La Meloni, ora che la destra è col vento in poppa, sembrava la candidata naturale. E invece niente. Dal Pd neanche un cenno, ancora inchiodato al suicidio politico realizzato con le dimissioni di Ignazio Marino. Il Pd ha lasciato che il nome di Roberto Morassut, assessore all’urbanistica con Veltroni, oggi nella segreteria di Zingaretti, fosse lasciato scivolare nella ridda dei pretendenti. Ma chi ci crede? Chi vorrebbe non ha la forza elettorale. “Sarebbe un’idea interessante”, dice Carlo Calenda. Lui c’è ma i voti no.

“Il guaio di Roma è questo: avrebbe bisogno di un grandissimo nome e di una grandissima idea per risorgere, però in giro non vedo nulla. E il nulla – spiega De Masi – tradisce un’alterata percezione della realtà. Nei secoli Roma è stata sempre descritta in malo modo, ieri l’abbiamo sempre vista peggio di oggi. Quindi abbiamo ricordi viziati dalla memoria. Ho fatto un po’ di ricerche e nel tempo tutti a lamentarsi. Roma oggi è peggio di ieri, e ieri dell’altroieri”.

Vero, Diderot e D’Alembert (Encyclopedie, 1751) scrivevano: “La maggior parte delle abitazioni private è miserabile, il selciato cattivo, le strade sudicie”. Poi Goethe (1786): “Del popolo di Roma non saprei dire se non che è un popolo allo stato di natura”, quindi Vittorio Alfieri: “Roma ogni lustro cangiar vede, ma in peggio”. E Stendhal già nel 1816 s’indignava: “Questo soggiorno a Roma tende a infiacchire lo spirito. Mai uno sforzo, mai un po’ di energia: niente che vada di fretta”.

E dunque Verdone, che si fa? “Io dico che Roma non si merita la democrazia. Dev’essere commissariata. Per un po’ di tempo. Voglio di nuovo uno come il prefetto Tronca!”.