Lo strano Casu del segretario scomparso

Lo strano caso del segretario scomparso. Parliamo del Pd romano, creatura polimorfa, unica forza politica sul territorio nazionale ad aver cacciato, tramite notaio, un suo sindaco in carica, Ignazio Marino. Le ultime vicende lo vedono avvolto nella nebbia più fitta. A cominciare dal suo segretario, Andrea Casu. Eletto segretario cittadino nel 2017 con il 57% dei voti, Casu è un fedelissimo di Matteo Renzi, anzi di Luciano Nobili, il turborenziano capitolino passato armi e bagagli a Italia Viva insieme a Roberto Giachetti (con loro hanno lasciato il Pd anche il candidato sconfitto a Ostia Athos De Luca e la consigliera regionale Marietta Tidei).

Casu però non è stato lesto come loro nella decisione, si è preso il suo tempo. Tanto che dalla metà di settembre, quando Renzi ha annunciato l’addio al Pd, Casu è totalmente scomparso. In realtà i suoi compagni di partito ne avevano perso le tracce già all’inizio di settembre. Telefonate, nessuna risposta. Sms, stesso risultato. Messaggi su whatsapp, peggio che andar di notte. Magari qualcuno si è spinto fino a citofonargli sotto casa. Un vero giallo, degno del miglior Simenon. Nessun comunicato e nessuna dichiarazione politica. E nemmeno la convocazione degli organi di partito, che non si riuniscono da giugno.

Una direzione era stata convocata per il 16 ottobre, ma sconvocata il giorno stesso. Andrea Casu ha pure un sito, dove l’ultimo suo intervento risale al 26 aprile scorso. Twitter non lo usa, mentre su Facebook è sempre stato attivo. Uno degli ultimi suoi post è sulla fiaccolata a Centocelle dopo l’attentato alla libreria Pecora Elettrica. Ieri il Fatto ha provato a contattarlo, senza successo.

A colpire, però, è la totale assenza di azione politica. E dire che di cose dall’estate in poi ne sono successe: un cambio di governo con l’ingresso del Pd in maggioranza con possibili ricadute a livello locale (vedi il nuovo clima che si respira in Regione); la scissione di Renzi; le polemiche sui rifiuti; le débâcle di Roma Metropolitane e della Multiservizi. Cose di cui un partito come il Pd (che alle Europee è risultato primo in città col 30,6%) a livello cittadino dovrebbe discutere. E invece niente. Per non parlare del fatto che tra un anno e mezzo si vota per il Campidoglio. “Gli altri già iniziano a parlarne, si sentono nomi come Meloni e Bongiorno. Noi siamo ancora all’anno zero…”, racconta un esponente del Pd romano. “Segretario desaparecido e partito in coma”, afferma Livio Ricciardelli, membro della direzione, sul Foglio.

Nei quasi due mesi senza segretario il partito se l’è caricato sulle spalle il gruppo del Comune con iniziative e banchetti. Nicola Zingaretti, da par suo, ha riaperto i circoli Pd della Magliana e di Casal Bruciato. Dopo due mesi di silenzio, però, ora Casu si è rifatto vivo. Finalmente ha deciso: resta nel Pd, nell’area degli ex renziani (Lotti-Guerini), ma giocando di sponda con Area Dem. Secondo alcune fonti, infatti, avrebbe stretto un patto con Michela De Biase, moglie di Dario Franceschini. Mercoledì prossimo è stata convocata la direzione, dove probabilmente Casu annuncerà l’avvio di una fase congressuale, che porterà all’elezione di un nuovo segretario.

Sala, il sindaco del cemento ha deciso: nel 2021 ci riprova

“Ricandidarmi? Credo possa essere un’ipotesi molto solida”: ha risposto così Giuseppe Sala, sindaco di Milano, al giornalista del sito Linkiesta.it che ieri gli chiedeva se nel 2021 intendesse ripresentarsi alle elezioni comunali. “Però poi vedremo”. Ha comunque già qualche idea per la sua nuova giunta (in caso di vittoria): “Persone più giovani, nuove, più fresche, con capacità di innovazione, da affiancare a quelle più esperte”. Qualche assessore in carica può cominciare a tremare per la sua poltrona. In tv, a Daria Bignardi (L’Assedio) qualche settimana fa aveva confessato: “La politica mi piace e ho un grande amore per Milano. Forse sono tagliato per fare il sindaco, sono operativo e mi piace molto. Da un lato, non sono mai stato così felice in vita mia, anche per il lavoro che faccio. Dall’altro, sento la riconoscenza dei milanesi, ovviamente non di tutti”.

C’è chi, a sinistra, lo vede addirittura come candidato presidente del Consiglio. Ma prima dovrebbe vincere le elezioni politiche. Dovrà vincere anche quelle comunali del 2021, se vorrà restare sindaco di Milano: operazione non facile, il centrosinistra è forte in centro città, ma nelle periferie fatica a tener testa alla Lega di Matteo Salvini.

Gode di ottima stampa, Sala. Giornali e tv fanno a gara per magnificare le sue imprese. E danno credito al volto “verde” del sindaco, che regala borracce ai ragazzi delle scuole, sostiene Greta, manifesta con gli studenti contro i cambiamenti climatici, promette bus elettrici e 3 milioni di alberi da piantare a Milano entro il 2030 (ma il suo mandato scade nel 2021). La realtà è meno verde. Milano resta la città con l’aria più inquinata d’Italia. Ha il record nazionale del consumo di suolo. E i grandi progetti in cui Sala è impegnato in questi mesi promettono perfino di peggiorare la situazione. Sulle aree degli scali ferroviari – 1,25 milioni di metri quadrati dismessi dalle Ferrovie dello Stato, la più grande riconversione urbana d’Europa che potrebbe rendere Milano la città più verde d’Europa – ha lasciato la regia alle Fs che si comportano come un immobiliarista privato e cementificheranno lo scalo Farini con indici di edificabilità doppi rispetto a quelli previsti dall’appena approvato Piano di governo del territorio (Pgt). Idem per l’area (pubblica) di San Siro, su cui Sala prima concede al progetto di Milan e Inter la dichiarazione di “pubblico interesse”, poi promette cose che sa di non poter mantenere (edificazioni nei limiti del Pgt): il “pubblico interesse” fa scattare la legge sugli stadi, che raddoppia le volumetrie.

Gode di ottima stampa, Sala, anche grazie alla memoria corta dei suoi interlocutori e dei suoi agiografi. È stato condannato per falso in atto pubblico. Sì, il 6 luglio 2019 il Tribunale lo ha riconosciuto colpevole in primo grado per aver retrodatato due documenti, quand’era amministratore delegato di Expo. Nelle motivazioni della sentenza, i giudici scrivono che Sala era “consapevole delle illecite retrodatazioni”: dunque ha mentito ai giudici in aula (e da imputato poteva farlo), ma anche ai cittadini in innumerevoli interviste e dichiarazioni.

Ma la menzogna non gli è rimproverata e la condanna è dimenticata, quando non è esibita come una medaglia. La sindaca di Roma Virginia Raggi, per molto meno, è stata messa in croce per mesi. Stessa accusa di falso, per una dichiarazione sulla nomina in Comune di Renato Marra, in cui escludeva interferenze del fratello Raffaele, capo del Personale. Paginate indignate dei giornali per giorni. Richieste di dimissioni. Per Sala, solo applausi per l’annunciata ricandidatura. E ricordi adoranti per la gestione dell’Expo delle meraviglie. In verità Sala ha fatto una delle esposizioni universali con meno visitatori, ha speso 2 miliardi di soldi pubblici e ha incassato solo 700 milioni, ha scelto manager finiti tutti arrestati uno dopo l’altro sotto il suo naso attonito. Eppure Expo è un successo, un successo la sua gestione della città, l’aria limpida e la cementificazione che sta preparando per i prossimi vent’anni, quando non sarà più l’inquilino di Palazzo Marino.

Tamburi, l’appello al premier: “Adesso non ci dimenticate”

La giornata più lunga di Giuseppe Conte da quando è presidente del Consiglio si è chiusa a Taranto venerdì notte. La mezzanotte è passata da tempo quando si ferma tra le strade del quartiere Tamburi, il piccolo rione popolare, a pochi metri dalle ciminiere dell’ex Ilva, per osservare la targa di piazzetta De Vincentis. È buio e il colore rossastro del minerale che ammorba i palazzi e le vite degli abitanti non è ben visibile, ma la scritta che legge è chiara: “Nei giorni di vento Nord-Nord/Ovest veniamo sepolti da polveri di minerale e soffocati da esalazioni di gas provenienti dalla zona industriale dell’Ilva. Per tutto questo, gli stessi maledicono coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare”. Conte parla con tutti gli abitanti del quartiere Tamburi, ma soprattutto li ascolta. Un’idea – quella di venire a Taranto – che il premier aveva maturato dalla mattina, “appena sveglio”, perché decidere su un’emergenza così forte è impensabile senza “incontrare le ragioni dei familiari di persone nel frattempo decedute, degli esponenti delle varie associazioni, degli operai”.

“Gli ho spiegato – racconta al Fatto, Sabrina Corisi, una delle mamme del quartiere Tamburi – che chiudendo la fabbrica possono impiegare i lavoratori nelle operazioni di bonifica: solo così si salvano davvero lavoro e salute. Conte non mi ha risposto, ma credo che sia venuto qui per ascoltare, vedere con i suoi occhi e capire cosa fare: io voglio credere che non dimenticherà. Devo per forza sperare – aggiunge – perché senza speranza qui ai Tamburi moriamo prima del tempo”. La stessa richiesta, Conte la ascolta dalle associazioni – tra cui Giustizia per Taranto – che hanno firmato il “Piano Taranto”, una piattaforma di rivendicazioni che chiede la chiusura della fabbrica e la bonifica del territorio con il reimpiego degli operai.

Per la prima volta in città sono in pochi a parlare di passerella elettorale. Nonostante i tradimenti, i decreti salva Ilva, le indagini della magistratura, a Taranto resiste la speranza. Alessandro D’Amone, del sindacato Usb, durante il consiglio di fabbrica non usa mezzi termini: “Presidente Conte, chi le dice che questa fabbrica così vecchia e insicura si può ambientalizzare, la sta prendendo in giro”. E anche le posizioni dei delegati di Fim, Fiom e Uilm non sono più così distanti. Come spiega Paolo Peluso di Cgil Taranto: “Dagli interventi degli operai è emersa, più che la rabbia per il rischio della perdita del posto di lavoro, la denuncia disperata di una condizione di lavoro dei diretti e degli indiretti ormai inaccettabile, anche sul piano della sicurezza, di una condizione socio ambientale fortemente compromessa, di un sistema sanitario non adeguato a dare risposte ai bisogni non solo di prevenzione ma anche di cura di tantissimi cittadini”. Insomma salvare il lavoro a tutti i costi non basta più.

Le anime di Taranto così profondamente divise fino a ieri tra lavoro e salute sembrano riavvicinarsi. E Conte lo sa. “Non ho la soluzione in tasca”, dice il premier. La sincerità che ha fatto breccia anche in una parte dei tarantini più arrabbiati e che ora accarezzano l’idea che la chiusura non sia solo un’utopia. La giornata infinita, iniziata con la partecipazione ai funerali dei vigili del fuoco morti durante l’intervento nella cascina di Alessandria, sembra non finire mai.

Dopo l’incontro con gli operai, Conte indossa tuta e casco rosso e visita l’Altoforno 2, l’impianto in cui ha perso la vita nel 2015 Alessandro Morricella e che a dicembre potrebbe essere nuovamente sequestrato, perché in questi quattro anni non sono stati completati i lavori di messa in sicurezza. La visita poi continua negli uffici della Prefettura in cui incontra sindaci e magistrati. Conte parla con il procuratore Carlo Maria Capristo e con l’aggiunto Maurizio Carbone, ma è solo un evento istituzionale, quasi un invito di cortesia. L’ultima tappa del premier è un locale della vicina via D’Aquino: da “Patties” Conte chiede un hamburger al piatto. Con il premier c’è anche Mario Turco, il suo sottosegretario che ai Tamburi è nato e vissuto fino all’età di 15 anni. In quel locale, Conte scopre una piccola storia, quella di Damiano Vacca, 35enne tarantino doc e inconsapevolmente sintesi di molte voci ascoltate quel giorno. A 30 anni l’uomo ha cambiato vita, ha chiuso l’azienda di trasporti e ha avviato questa hamburgeria-gourmet che presto diventerà più grande. Il sogno di un giovane, insomma, continua a crescere

Perché a Taranto non si vive solo di acciaio. Non si può più.

“A Taranto è stato sincero, basta con il ‘ghe pensi mi’”

Stefano Massini – scrittore, volto di Piazzapulita, il drammaturgo italiano vivente più rappresentato al mondo – si è occupato molto di capitale e lavoro. Basta pensare a 7 minuti e l’acclamato Qualcosa sui Lheman. Quando gli chiedi dell’Ilva la risposta svela l’istinto del narratore: “Ilva era il nome latino dell’Isola dell’Elba, dove si estraeva il ferro. Quella dell’acciaio è una storia antica. Almeno come il Novecento. Le grandi potenze si scontrano nella Prima guerra mondiale in nome dell’acciaio, della ghisa, della siderurgia. Oggi tra i gruppi più importanti al mondo per produzione ci sono cinesi, indiani, coreani. Noi siamo fuori. L’acciaio ci serve, ma non è più nostro”.

Il premier ieri è andato a Taranto. Ha fatto bene?

Benissimo. L’ho più volte criticato, ma mi è piaciuto che sia andato a incontrare le persone sulla cui vita si consuma questa crisi. Ha fatto un ottimo servizio alla politica quando ha detto, con onestà, “non ho la soluzione in tasca”.

Perché?

È dai tempi di Berlusconi che sentiamo dire che va tutto bene, che i ristoranti sono pieni, ghe pensi mì… Questo dare a vedere che la politica risolve tutto, subito, e sono gli elettori che non capiscono o gli eventi che remano contro, io lo trovo umiliante. La politica ormai coincide in larga parte con le tecniche della comunicazione. Il premier si è trovato davanti a persone che dicevano cose fortissime, “qui si muore”, eppure ha detto la verità, ha detto non ho una ricetta miracolosa. È un momento importante della nostra vita pubblica, lo dico da persona che con le parole ci lavora.

Il conflitto tra salute e lavoro è una contraddizione insanabile del capitalismo?

Il mondo del lavoro non riesce a sottrarsi a una patologia, di cui soffre dalla rivoluzione industriale, da quando nelle fabbriche è iniziata l’interazione con le macchine. La macchina non si ammala ed è indipendente dal contesto. Può lavorare nello stesso modo tra l’aria tersa delle Dolomiti o nello smog di Pechino. L’uomo no, l’uomo ha un organismo che reagisce a quello che ha intorno. Tendiamo a rimuovere che l’essere umano non è una macchina. L’Ilva insegna che sottovalutiamo questo aspetto. L’obiettivo della produzione, in qualunque campo, non può essere solo ottenere un ottimo prodotto nel più veloce tempo. Deve contemplare anche la sicurezza dei lavoratori.

Così si riducono i profitti: è la contraddizione del capitalismo.

Quando furono inserite le prime macchine nel processo produttivo, i luddisti cominciarono a sabotarle. Ma i padroni dicevano: è sciocco sabotare le macchine, solleveranno gli uomini dai lavori più pesanti e rischiosi. Com’è sempre stato, dall’aratro in poi. Allora questo meccanismo non si deve inceppare: la macchina deve servire a far sì che i lavoratori siano più protetti. Non ci possiamo trovare nel 2019 con persone che si ammalano al lavoro e muoiono per consentire di fare più profitto. Non è tollerabile.

Cosa ci racconta la crisi dell’Ilva?

Dino Buzzati andò nel 1964 a Taranto, all’apertura dello stabilimento, per un documentario scritto da lui con la voce narrante di Arnoldo Foà. In sostanza scrive: la sensazione è che qualcuno abbia deciso che gli ulivi e la quiete millenaria di questa terra rossa, le cicale, le rocce, rappresentino ormai la morte di un popolo. Mentre la vita sarebbe questa cattedrale che produce acciaio, che sta crescendo tagliando gli ulivi. Oggi facciamo i conti con la cattedrale diventata luogo di morte: la crisi dell’Ilva è anche la crisi di quel modello produttivo. Nel Dopoguerra le potenze occidentali hanno cercato nell’industria pesante il proprio motivo di orgoglio: in qualche caso la ricerca ossessiva del profitto ha trasformato le nostre fabbriche in cimiteri. Una follia di fronte alla quale la classe lavoratrice dev’essere coesa. Al ricatto nessuno deve cedere più.

Conte frena lo scudo. Ora ricorso e ispezioni

Niente scudo penale, almeno per ora. Perché il Movimento non lo potrebbe mai reggere in Parlamento, e perché l’avvocato che fa il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, nutre seri dubbi giuridici su questa strada. Così arriverà il contrattacco contro Arcelor Mittal: innanzitutto a livello giudiziario, perché i commissari dell’Ilva di Taranto impugneranno con un ricorso urgente al tribunale di Milano l’atto di recesso di Arcelor Mittal dal contratto di affitto dell’acciaieria. E si muoveranno con il pieno consenso di Conte, convinto che l’azienda franco-indiana non possa lasciare così facilmente Taranto. È questa la fotografia della guerra di nervi e carte giudiziarie tra il governo giallorosso e il colosso della siderurgia.

Un confronto su cui la politica pesa, eccome, sulle valutazioni tecniche. Per questo Conte deve prima di ogni cosa cercare un punto di equilibrio tra i partiti che lo sorreggono a Palazzo Chigi. Perché il Pd vuole ripristinare a ogni costo l’immunità per Mittal, tanto da essersi presentato nel Consiglio dei ministri di mercoledì con la bozza di un decreto apposito, mentre il M5S di Luigi Di Maio alla vista di quel testo si è infuriato. Per poi farlo sapere chiaramente ai dem venerdì: “Se presentate un emendamento per lo scudo e cercate i voti in Parlamento, sarà come cercare una maggioranza alternativa, e allora sarò io ad aprire la crisi di governo”.

Sa di non poter tenere i suoi, il capo politico. Quasi tutti i 39 parlamentari pugliesi del Movimento (di cui 14 in Senato, dove i numeri della maggioranza sono ovviamente più stretti) erano e restano contrari all’immunità. “Perché mai votare lo scudo, per favorire altri disastri? La gente di Taranto è contraria e lo ha fatto chiaramente anche al presidente Conte”, conferma al Fatto il deputato tarantino Giovanni Vianello. Non a caso il premier ha chiesto ai vertici dem di fermarsi, di mettere in ghiacciaia l’immunità. Dubita che possa servire, e comunque “non è certo quello il punto nodale della vicenda” ripetono da giorni a Palazzo Chigi. Anche se l’ipotesi di rimettere in campo lo scudo per togliere un alibi a Mittal non è tramontata del tutto. Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli continua a lavorare dietro le quinte a un’immunità “morbida”, che di fatto ribadisca le garanzie giuridiche generali per le aziende già previste dall’articolo 51 del codice penale.

Lo stesso Di Maio spera di poterne riparlare con i suoi, dopo la difficile riunione di giovedì scorso al Mise, in cui gli eletti pugliesi hanno fatto muro, facendolo infuriare. “Ma serve tempo, per adesso Luigi deve rimanere sulla linea del no allo scudo e tenere compatto il M5S” sussurra un big. E comunque gli stessi parlamentari pugliesi vogliono incontrare Conte. Si sta già cercando una data per una riunione. Però il tempo è poco, e il premier non può stare fermo.

Domani potrebbe rivedere Mittal, ma ieri sera da Palazzo Chigi non davano per sicuro l’incontro. Nell’attesa, il governo può e forse deve mostrare i denti. Così ecco il ricorso ex articolo 700 dei commissari, di certo non sgradito a Conte. E nei prossimi giorni potrebbero arrivare ispezioni all’Ilva, così da raccogliere dati sulla gestione dell’impianto: possibili prove indirette sulla volontà di Mittal di fuggire, già da tempo. “Certi magazzini sono semi-vuoti, gli ordini fermi” notava ieri sera una fonte di governo. Non solo. Ieri su Facebook un altro deputato tarantino dei 5Stelle, Nunzio Angiola (l’unico finora dichiaratosi a favore dello scudo penale) ha pubblicato un post bellicoso: “Visto che l’azienda non è in grado di rispettare un piano industriale redatto solo un anno fa, vogliamo acquisire tutti i pareri degli organi di controllo legale e contabile al fine di conoscere in che termini si sono espressi sui piani industriali della capogruppo e delle società del gruppo” scrive Angiola. Che chiosa: “Speriamo vivamente di non trovarci di fronte ad una delle più grandi truffe degli ultimi anni”. E non sono parole casuali. Piuttosto, l’indizio di una linea. Perché l’obiettivo è riportare al tavolo Mittal, in qualunque modo.

Del resto a Palazzo Chigi hanno notato anche che l’azienda non ha premuto il bottone rosso, cioè non si è mossa con il ricorso d’urgenza a cui invece sono pronti i commissari. “Un margine per trattare è rimasto” confermano anche un paio di eletti pugliesi. Ma lo scudo non è la strada primaria per tenere in piedi la trattativa, è la convinzione di Conte, che in serata rilancia: “Dobbiamo rendere Taranto il polo delle innovazioni e dello sviluppo sostenibile, ho una squadra di governo di persone in gamba e lavorando tutti assieme nella stessa direzione riusciremo a offrire alla città la giusta prospettiva di riscatto”. Tradotto, il premier chiede unità. Perché sull’Ilva i giallorossi si giocano tutto.

Ma quale scudo

Sullo “scudo penale” per chi gestisce l’Ilva, introdotto da Renzi nel 2015, bocciato in parte dalla Consulta nel 2018 e, dopo varie giravolte, cancellato un mese fa, mentono tutti. Mentono i due Matteo e il Pd, che lo rivogliono dopo averlo abolito. Mentono politici, sindacalisti e opinionisti che, per malafede o ignoranza, ripetono che, senza scudo, i commissari e Mittal rischiano di pagare per i reati dei predecessori: la responsabilità penale è personale e ciascuno risponde di quel che fa lui, non altri. Mente, o non sa quel che dice, chi chiede una norma per interpretare l’art.51 del Codice penale: “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”. Questa “scriminante”, che nei processi comporta la non punibilità di chi ha violato una norma (di solito per omissione), già si applica al manager che deve attuare il piano di risanamento imposto dalla legge o dal giudice in una fabbrica vetusta e insicura: se la messa in sicurezza richiede tempo, chi deve gestirla può violare provvisoriamente la 231 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e le norme a tutela dell’ambiente e della salute.

Ora si chiede una nuova norma per richiamare l’articolo 51. Ma, semprechè le bonifiche siano in corso (e finora nessuna gestione dell’Ilva ha rispettato i tempi e i modi imposti dai giudici), l’art. 51 già esime chi le fa da condanne penali. Senza bisogno di scudi: che senso avrebbe una nuova legge sull’art. 51 se questo è già in vigore? Qui, trattandosi di reati colposi, non c’è neppure il rischio di rispondere “in continuazione” dei reati dei predecessori: per essere “continuati”, i reati in serie devono essere commessi nel “medesimo disegno criminoso”, cioè dolosi. Ma, si obietta, l’esimente dell’art. 51 scatta durante le indagini o addirittura il processo: intanto finisci indagato, forse imputato e le spese legali te le paghi tu. Vero, ma siccome l’applicabilità dell’esimente al caso concreto deve stabilirla il giudice, un’indagine e a volte un processo sono inevitabili. E non c’è legge che possa impedirli (salvo che sia incostituzionale, ma allora verrebbe bocciata dalla Consulta). Invece si può pensare a uno “scudino” non penale, che copra le spese legali di chi viene indagato o imputato adempiendo il dovere di realizzare gradualmente il piano ambientale; e magari gli dia più tempo, fissando però non solo il termine finale, ma anche un cronoprogramma a tappe intermedie. Così governo e magistratura potranno verificare day by day il rispetto degli obblighi di bonifica. Cosa che, nella vergognosa storia dell’Ilva, non è mai avvenuta.

Adriano è sempre “Adrian”, sono i tempi a essere cambiati

Qual è il colmo per un orologiaio? Arrivare fuori tempo massimo. Così è stato per Adriano Celentano, tornato un anno dopo sul luogo del flop che aveva accompagnato il tormentato debutto su Canale 5 di Adrian, il cartoon da lui scritto e diretto. Per vendicare l’onta è stato scelto il giorno della settimana più agguerrito dalla concorrenza, giovedì, e stavolta nel prologo Adrian Live-Questa è la storia non solo lo sposo è arrivato all’altare, ma si è fatto accompagnare da ben cinque damigelli d’onore: Paolo Bonolis, Gerry Scotti, Piero Chiambretti, Carlo Conti, Massimo Giletti. Muoia Sansone con tutti i filistei?

Per evocare le potenze degli inferi, e di conseguenza l’Evento, più di così non si poteva; eppure i sessanta minuti di show, non tutti dal vivo ma quasi del tutto privi di interruzioni pubblicitarie, hanno ottenuto il 15.4 per cento di share (pari a 3,8 milioni di spettatori) contro il 19,9 di share e i 4,4 milioni di Un Passo dal Cielo su Rai1, cui è seguito il prevedibile crollo delle nuove puntate di Adrian. Share del 10.4, con spot a iosa, dato in linea con gli ascolti dello scorso anno e difficilmente migliorabile perché cambiare l’antipasto non cambia il sapore della pietanza.

Insomma, la ricomparsa del Molleggiato non è stata un flop, ma “un passo dal flop”, l’ordinaria amministrazione, che però per un uomo della pioggia come lui è quasi peggio. Questo ritorno suona speculare a quello di Fiorello con Viva Raiplay!; Fiorello è sempre Fiorello e funziona proprio per quello, ma è anche attentissimo a non ripetersi, a rimodularsi al passo coi tempi; per esempio, come testimonial quotidiano delle modalità di ascolto delle piattaforme streaming, e gli ascolti gli hanno dato ragione.

Uno potrebbe dire, vedi?, invece Adriano non è più lui. Niente affatto. Il carisma della presenza, della voce, dei sorrisi è intatto. L’inizio di Adrian Live ha avuto qualcosa di memorabile, l’arrivo in silenzio degli invitati usati contro loro stessi, l’inconfondibile suspense sul nulla, la tavola rotonda sulla televisione – o era una seduta spiritica? – , “i magnifici cinque” del video generalista sulle sedie a rotelle, il Conduttore a stuzzicarli sul filo del grottesco e del non senso (“Perché non mi rispondete?” “Dipende se fai la domanda”).

Venti minuti memorabili prima di un seguito più scontato, in linea con tutti gli eventi del passato più o meno annunciati; l’intemerata sull’emergenza ambientale, l’elogio di sorella acqua con Ligabue, il riassunto delle puntate precedenti del cartoon affidato ad Alessio Boni, il sermone contro l’omofobia appaltato a Ilenia Pastorelli nelle vesti (succinte) di barista-predicatrice.

Sì, Adriano è ancora lui. Fin troppo. Ma nell’ora di Netflix e di Amazon sono i tempi a essere cambiati, prima di fare la morale agli spettatori meglio assicurarsi che gli spettatori siano ancora dove li avevamo lasciati. La tv generalista conta ancora, ma il tempo degli eventi è agli sgoccioli e la saga di Adrian ne è la controprova; se a resuscitarli non ci riesce Celentano, che ha avuto la massima potenza di fuoco al massimo dello splendore nazional-popolare, in futuro non potremo stupirci di nulla, nemmeno di vederlo da Carlo Conti come giudice della giuria di Tale e quale show.

È la televisione-focolare, “la finestra sul mondo attraverso cui ci arriva il bello e il brutto dell’umanità” a non essere più lei; quella televisione che nessuno come Celentano ha saputo registrare, smontare e riparare come nuova, finché funzionava come un orologio.

Nelle estati della Rotonda sognare era ancora possibile

Itermolesi non la presero bene. Molti anni dopo quell’estate lì, Fred confessò che la rotonda sul mare che aveva ispirato la sua “signature song” non era al Lido Panfilo, dove la struttura era pure quadrata. Bisognava risalire la costa verso nord, e a Senigallia avresti trovato quella costruzione in stile Belle Époque: là sopra Bongusto aveva spinto tutta l’Italia pomiciona e democrista. Era il 1964, se lasciavi cadere le 50 lire nel juke-box scoprivi il fedifrago Gianni in ginocchio da lei, notavi che Gigliola non avesse l’età, Mina che si lagnava perché senza di lui la città era vuota e a Bobby scorreva una lacrima sul viso. Formidabili quelle estati. Più o meno. Perché a riguardarle senza le lenti opache di una mitizzante nostalgia, scopri che le cose erano più complicate. Sì, il boom dell’Italia che aveva spiccato il volo l’aveva celebrato Modugno, ma erano sei anni prima: nell’ottobre ’63 la spregiudicatezza imprenditoriale aveva seppellito l’ottimismo accanto ai duemila morti del Vajont. In un rombo d’acqua.

Ma il Paese non sapeva neppure dove fosse Longarone, un luogo remoto e comunque distante da quel mare dove le canzoni ti spingevano verso esotici flirt: Fred il seduttore aveva ammaliato Frida, convinto un’altra sussurrandole “amore fermati”, gloriandosi per giunta di una terza conquista nata a Malaga. I giovani acchiapponi, in tempesta ormonale, lo eleggevano a bardo da 45 giri, lui e il suo amico Peppino Di Capri. Le turiste erano terreno di caccia, le spiagge andavano raggiunte con ogni mezzo. Le 600, ad esempio. Ne circolavano due milioni, su una rete viaria che era ancora quelle delle statali, l’Autosole l’avrebbero inaugurata solo in quell’autunno del ’64, e allora si sgassava sulla Salaria o l’Aurelia, tanto le utilitarie non correvano mica come la spider funesta di Gassman e Trintignant. Via, via ad accalappiare tutte quelle bellezze in costume, anzi senza! Era la prima stagione del topless, e se arrivavi a Saint-Tropez vedevi l’elicottero della Gendarmerie che ronzava per intercettare le svergognate. Da noi, in Versilia o in Romagna, quelle senza reggiseno le arrestavano.

Qualche pretore si incaponì anche contro i manichini nudi nelle vetrine, facendoli sequestrare come “oggetti osceni esposti”. Ma il disco di Fred girava senza posa, tra sospiri, speranze e due di picche, mentre gli amori coniugali annoiavano, le separazioni erano alle stelle. I ragazzini godevano per vie alimentari, quella crema succulenta appena uscita sul mercato si chiamava Nutella. I padri corrucciavano la fronte perché sì le cambiali, adesso abbiamo anche noi il televisore e il frigo, ma se fai un po’ di conti andrà tutto a puttane molto presto, il governo ha indotto gli italiani a comprare ogni ben di Dio, però ora han bloccato le rate, altro che boom, il ministro del Tesoro Colombo tuona contro “l’eccessivo aumento dei salari rispetto al reddito nazionale, qui si va verso il collasso del sistema!”, e infatti il governatore di Bankitalia Carli si dimetterà mentre Cuccia, già ingobbito, teorizza i prodigi dei capitali centralizzati. Però perché angustiarsi proprio nella bella stagione?

Al mare! Al mare! A Rimini o Bellaria una pensione costa mille lire al giorno, un operaio guadagna 86 mila al mese. Si può fare, in città si soffoca. Lì sono rimasti solo i carabinieri del generale Di Lorenzo, pronti al golpe della notte del 18 luglio, il Piano Solo che all’ultimo momento non scatterà, nessuno occuperà la Rai o la Sip, non porteranno al confino gli epurandi come Nenni, che poi minimizzerà: “Colpo di stato? Solo un rumore di sciabole”. Ma chissà cosa dissero Moro e Saragat al Quirinale per far venire un ictus al capo dello Stato Segni, che non si riprenderà mai più. Estate fatale, quella del ’64, che si porta via Togliatti ma non il suo testamento critico contro l’Urss, il “Memoriale di Yalta” che apre la nuova era dentro il Pci, naturalmente escluso dall’esperienza del centro-sinistra.

Memorabile, l’estate delle coppiette pigiate nella rotonda. Che si scorderanno di Fred per altri nove anni, quando Tre settimane da raccontare lo riporterà sugli scudi, ma l’Italia sarà ormai quella dell’austerity. E degli anni di piombo, che gli entreranno dentro casa, quando sua moglie e la governante furono legate e rapinate, nel ’79, dai terroristi fascisti Cristiano Fioravanti e Alessandro Alibrandi.

Quante insidie e paradossi, nella vita di Bongusto. Che, coerentemente, amava circumnavigare le coste pilotando, da Ischia, il suo motoscafo Riva. E che se n’è andato, a 84 anni, ormai sordo e sfinito, in una notte di tempesta, quando in riva al mare non ci trovi più nessuno.

Nell’“errore” di Annie il dolore delle donne

Un bisturi numero 12, quello a punta utilizzato di solito per le formazioni cavitarie. Perché qui di una caverna si tratta, e non soltanto dell’incavo fisico di un ventre che non è più quello dell’adolescente di provincia e non ancora quello della madre e scrittrice affermata. La caverna che Annie Ernaux si porta dentro, per tanti anni, è quella in cui a fatica ogni essere umano si spingerebbe a entrare. Perché lì dentro è talmente buio che il dolore fisico passa in secondo piano.

Sul tavolo operatorio, dunque, ci sono una donna e il suo errore, al tempo in cui non ci si poteva permettere di rimanere incinte senza una fede al dito. E davanti al tavolo operatorio, pronti a una vivisezione socio-culturale (e per certi aspetti economica) ci siamo noi, donne che l’hanno provato e donne che non lo proverebbero mai. E uomini, che si girano dall’altra parte per evitare la vista del sangue o che sono pronti a giudicare perché tanto il corpo non è il loro. La sala operatoria è fredda, ma il passaggio è obbligato. Ed è il passaggio tra la vita e la morte, ma ancor più tra la morte e la vita.

L’evento di Annie Ernaux è il racconto di quell’errore e di quel tavolo metallico. Un segreto custodito nella caverna dalla fine del 1963 all’ottobre del 1999. Con la magistrale traduzione del fedele Lorenzo Flabbi, esce lunedì in Italia (per L’Orma editore) questo diario spietato, eppure così sentimentale, intimo, eppure universale. L’autrice francese – che incredibilmente non ha ancora vinto l’Oscar per la Letteratura – ha come sempre la capacità di puntare il laser (visto che di attrezzatura chirurgica stiamo parlando) su una vicenda dolorosa appartenuta alla sua vita, rendendola universale. Un aborto, appunto, avvenuto faticosamente e pericolosamente all’inizio del 1964, tre mesi dopo il concepimento di un figlio non cercato e quando ancora in Francia, come in Italia, era un reato. Quando le mammane, chiamate “fabbricanti di angeli”, ti ricevevano per 400 franchi nella camera da letto del loro bivani parigino e ti infilavano una sonda rossa nell’utero, dopo averla immersa nell’acqua bollente e con la speranza che facesse effetto. “Se non succede, mi richiami”.

Non c’è espiazione in questo scritto, perché non c’è il senso di colpa. Annie si limita a raccontare, con la potenza che le sue parole sempre hanno, passo dopo passo quei tre mesi, come un chirurgo che opera se stesso. Sul tavolo c’è lei, ma c’è anche il bigottismo cattolico che si sviluppa intorno a lei, il modo in cui la guardano gli stessi compagni di università – all’epoca aveva 23 anni – e quello in cui l’addita il medico che probabilmente le salva la vita: “Non sono mica l’idraulico”. Parole che continuano a “deflagrarle dentro” ma anche affermazioni che sarebbero cambiate, ci spiega Ernaux, se solo quel dottore avesse saputo che anche lei era “come lui”. E cioè non figlia del “popolino”, ma parte di un mondo illuminato dagli studi e dalla futura carriera, seppur costretta in quel lazzaretto di Parigi. Come se i “lor signori” si potessero collocare al di sopra delle leggi.

Non ha pietà, Annie, prima di tutto verso se stessa. Perché nel momento in cui partorisce la vita, infonde la morte. E non se ne pente. Anzi. “Ho cancellato l’unico senso di colpa che abbia mai provato a proposito di questo evento – ci racconta –, che mi sia successo e non ne abbia fatto nulla. Come un dono ricevuto e sprecato. Perché al di là di tutte le ragioni sociali e psicologiche che posso trovare per quanto ho vissuto, ce n’è una di cui sono sicura più di tutte le altre: le cose mi sono accadute perché potessi renderne conto”.

Ritorna spesso questo concetto nei libri della Ernaux: la scrittura è un dono, ed è questo il senso di tutto. Vivere per raccontare, testimoniare, trasmettere. Perché l’evento accaduto a una di noi appartiene a tutte noi. Oggi ancora di più, quando in Italia si regalano feti di plastica e i diritti acquisiti vengono rimessi in discussione. Quando per abortire bisogna fare la fila all’alba nei pochi, pochissimi reparti di ostetricia in cui ancora è possibile porre rimedio all’“errore”. E provare a tornare a una vita che non sarà più la stessa, ma che nessuno si deve permettere di giudicare. “Per anni, la notte tra il 20 e il 21 gennaio è stata un anniversario”. E ancora: “Ero ebbra di un’intelligenza senza parole”, ma per fortuna Annie le parole dopo le ha trovate.

Parigi, il corteo sull’islamofobia ora imbarazza la gauche

Una “marcia contro l’islamofobia” prenderà il via domani alle 13 alla Gare du Nord di Parigi. Sarà un fiasco o un successo? Gli organizzatori sperano di riunire 10-15 mila persone. Ma l’iniziativa, lanciata su Libération il primo novembre, e subito appoggiata da personalità della gauche – associazioni, intellettuali, femministe, circa 400 persone in poche ore – si è sgonfiata giorno dopo giorno, sollevando anzi diversi imbarazzi. A firmare l’appello sono stati anche Philippe Martinez, carismatico segretario del sindacato Cgt, il leader verde Yannick Jadot, l’ex PS Benoît Hamon e Jean-Luc Mélenchon (nella foto) della France Insoumise, sinistra radicale. Il testo seguiva di poco l’attacco alla moschea di Bayonne per mano di un ex militante dell’ultra destra e un nuovo acceso dibattito sul velo, dopo che una donna musulmana è stata allontanata da un consiglio regionale a Digione. Un sondaggio Ifop indicava inoltre che il 40% dei musulmani è vittima di discriminazione in Francia. La “marcia” sembrava quindi un’ottima iniziativa di solidarietà. Solo che si è saputo che tra gli organizzatori c’è anche il ‘Collettivo contro l’islamofobia’ in Francia, notoriamente vicino ai Fratelli Musulmani. L’appello è stato firmato poi da due imam “integralisti”. Contestato un passaggio che definisce “leggi liberticide” il divieto del velo a scuola del 2004 e del burka nel 2010, di cui la Francia laica va molto fiera. É nato anche un dilemma molto francese sul senso reale della parola “islamofobia”. Insomma alla fine diverse personalità si sono ritirate dalla petizione, rimpiangendo di aver firmato. Altri, come Jadot e Martinez, hanno fatto sapere che domani hanno altri impegni già previsti. Il Partito Socialista ha preso le distanze dall’iniziativa e, insieme al Partito Comunista, starebbe pensando a un’altra manifestazione “più repubblicana”.