Muore studente: “Colpa della polizia”

“Sciogliete le forze di polizia”. “Il popolo di Hong Kong grida vendetta”. “Un debito di sangue deve essere pagato con il sangue”. “Hong Kong è uno stato di polizia”. Sono alcuni degli slogan gridati durante la marcia dedicata a Chow Tsz-lok, 22 anni, studente. Per il movimento pro democrazia, Chow è il primo morto dello scontro con il governo che da giugno non conosce soste: la scintilla è stata la legge sull’estradizione verso Pechino – poi ritirata dal governo – ma le richieste sono proseguite: il movimento vuole le dimissioni della governatrice Carrie Lam e una indagine indipendente sulle violenze della polizia. La morte di Chow, i giovani che protestano nelle strade da sei mesi, la attribuiscono proprio alle forze di sicurezza; secondo la loro ricostruzione, lo studente, lunedì scorso, è caduto dalla terrazza di un parcheggio multipiano sul quale le squadre antisommossa avevano sparato i lacrimogeni; Chow è stato ricoverato in gravi condizioni e non si è mai ripreso. La polizia fornisce la sua versione: Chow era stato trovato in una pozza di sangue, ai piedi del parcheggio.

Gli agenti avevano sparato gas lacrimogeni per rispondere ai dimostranti che lanciavano oggetti dall’edificio. La polizia ha ammesso di esser entrata due volte nel parcheggio, ma sostiene che gli agenti non erano all’interno quando il giovane è caduto.

Alla Hong Kong University of Science and Technology (Ust), centinaia di studenti hanno commemorato il compagno di studi in modo pacifico, e hanno chiesto ai vertici dell’ateneo di prendere posizione e di condannare l’operato della polizia. La tensione però è salita e alcuni gruppi hanno devastato una caffetteria Starbucks e altre parti del campus. In molti si sono coperti il viso – a dispetto della norma promulgata da Lam che lo vieta – mentre marciavano verso la residenza del preside dell’università, Wei Shyy, che ha chiesto una indagine indipendente sulla morte del ragazzo. “Abbiamo visto le riprese delle ambulanze bloccate dalle auto della polizia, causando un ritardo di 20 minuti nelle operazioni di soccorso verso il nostro studente – ha detto Shyy – per questo chiediamo chiarimenti a tutte le parti, in particolare alla polizia, riguardo alla causa del ritardo nei momenti più critici che avrebbero potuto salvare una giovane vita. Saremo indignati se non ci verrà offerta una spiegazione accettabile”.

All’ateneo sono state rimandate le lezioni e le sessioni di laurea. Durante i cortei una filiale di Bank of China è stata attaccata. Un gruppo di poliziotti in borghese ha sparato in aria colpi di pistola, secondo la versione del Dipartimento “perché era stato circondato dai dimostranti”. Ieri sera diverse stazioni della metropolitana sono state chiuse.

“Piangiamo la perdita di un combattente per la libertà a Hong Kong, non lasceremo indietro nessuno: quello che abbiamo iniziato insieme, lo finiremo insieme. Date le perdite subìte dalla società di Hong Kong lo scorso mese, il governo deve pagare un prezzo”. Questo il commento su Twitter di Joshua Wong, leader del movimento degli ombrelli del 2014 e tra gli attivisti più in vista del fronte pro-democrazia.

“Inácio Lula in libertà”. Lo dice la Costituzione

Il giudice brasiliano Danilo Pereira Jr, del tribunale penale federale di Curitiba, ha accolto la richiesta della difesa dell’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva per la sua scarcerazione e lo ha autorizzato a lasciare la prigione di Curitiba. “Vengo a prenderti! Aspettami!”. Rosangela, la fidanzata di Luiz Inácio Lula Da Silva, ha accolto così, sui social, la notizia della scarcerazione; Lula stava scontando dal 2018 una pena di 8 anni e 10 giorni per corruzione e riciclaggio di denaro nell’inchiesta Lava Jato. “Lascerò la prigione più a sinistra di prima”, ha commentato Lula. A favorire la sua libertà è stata la Corte Suprema brasiliana che con cinque voti contro e sei, giovedì, ha annullato la sentenza che nel 2016 aveva stabilito che perché una condanna diventi esecutiva, è sufficiente il secondo grado di giudizio. Come da Costituzione, ora bisognerà esaurire tutti i ricorsi. E a Lula, dopo la sentenza del giudice Sergio Moro, ora ministro della Giustizia del governo di Jair Bolsonaro, manca l’ultimo appello.

A beneficiare della decisione della Corte, oltre all’ex presidente anche altri 12 dell’Operazione Lava Jato e potenzialmente 4.895 detenuti. Previa richiesta degli avvocati, che, nel caso del leader del Partito dei Lavoratori (Pt), hanno vista accolta l’istanza di scarcerazione immediata. “Non c’è ragione di attendere oltre”, aveva commentato Cristiano Zanin, avvocato dell’ex presidente, dopo avergli fatto visita. “È una decisione molto importante che rinforza la democrazia e la Costituzione, minacciate dal governo di estrema destra”, gli ha fatto eco la presidente del Pt, Gleisi Hoffmann, mettendo l’accento sul risvolto politico della liberazione di Lula e aggiungendo che così il tribunale riconosce dopo un anno e sette mesi, che Lula “è stato in prigione illegalmente, per una decisione politica”. Sui social network, con gli hashtag a favore e contro la scarcerazione – diventati trending topic in poche ore – si sono scatenati, da un lato sotto #LulaLivre (Lula libero) i sostenitori dell’ex presidente convinti della sua innocenza e fautori della teoria del complotto, secondo cui l’intera Lava Jato fu solo un modo per impedire a Lula di candidarsi alle elezioni del 2018; dall’altro, i detrattori, compreso Bolsonaro jr. Ma la scarcerazione di Lula non coinciderà con la fine dei suoi problemi giudiziari: gli restano infatti altre cause pendenti per presunta corruzione, anche se – dopo la decisione del Tribunale – andrebbe in carcere solo dopo l’appello. Proprio ieri un Tribunale regionale federale ha fissato per il 27 novembre l’udienza dell’appello per il caso del podere di Atibaia, per il quale Lula è stato condannato in primo grado a 12 anni. Non è chiaro cosa farà Lula una volta libero. Nel partito si parla della preparazione di un grande evento politico il giorno dell’uscita dal carcere, e di una manifestazione a San Paulo, nel sindacato metallurgico dal quale iniziò la sua carriera e di un viaggio di Lula per il Paese per rafforzare l’opposizione a Bolsonaro che si chiuderebbe con un tour internazionale. Evitando, questo sì, problemi con il presidente.

La cosa certa è che l’obiettivo di Lula è ridare credibilità al partito, macchiato dallo scandalo della corruzione, denunciando “l’uso politico della giustizia” da parte del ministro. Teoria questa sostenuta dalle rivelazioni del sito di inchiesta The Intercept che ha divulgato le conversazioni tra Moro e i giudici del Lava Jato dalle quali si evincerebbe lo scopo politico dell’ex magistrato: creare un dossier Lula prima delle elezioni poi vinte da Bolsonaro. E proprio Moro ieri ha minacciato che il Parlamento, a maggioranza di destra, può mettere in discussione la decisione del Tribunale, cambiando la Costituzione perché la condanna sia definitiva già in secondo grado. “Ho sempre difeso l’esecuzione della condanna penale in seconda istanza e continuerò a farlo”, ha detto, aggiungendo che “i giudici interpretano la legge, i deputati la fanno”.

Donald: “No ad audizioni pubbliche”

C’è una seconda telefonata tra i presidenti Usa Trump e ucraino Zelensky. È proprio Trump a dirlo ai cronisti: “Se vogliono la trascrizione, gliela darò”. Una telefonata d’auguri: il 21 aprile, il giorno dell’elezione di Zelensky. Trump e i suoi non avevano ancora architettato la strategia del quid pro quo, io ti do gli aiuti, tu apri un’indagine sui Biden, emersa nella telefonata del 25 luglio all’origine della procedura di impeachment. Trump afferma di non essere preoccupato da nessuno dei testi che sfilano alla Camera. Ma, intanto, vieta al capo ad interim del suo staff, Mike Mulvaney di testimoniare. Mulvaney sfida il mandato di comparizione emesso nei suoi confronti, dopo aver ammesso in conferenza stampa che il congelamento degli aiuti militari a Kiev, deciso da Trump, era collegato alla richiesta di aprire un’indagine sui Biden. Mulvaney ha ritrattato, ma la sua era quasi una confessione. Trump è pure contrario che vi siano udienze pubbliche – cominceranno la prossima settimana –, dopo avere finora accusato i democratici di condurre indagini “segrete”, “a porte chiuse”. Giovedì George Kent, un funzionario del Dipartimento di Stato, ha paragonato l’atteggiamento degli Usa verso l’Ucraina a quelli condannati dagli Usa “nei Paesi più corrotti”. Anche in famiglia c’è chi si smarca da Trump: Ivanka, la “prima figlia”, dice che l’indagine è un tentativo di capovolgere le elezioni del 2016, ma pure che l’identità della talpa all’origine dell’inchiesta “non è particolarmente rilevante”, mentre il padre chiede che esca allo scoperto.

Bloomberg sfida Trump Casa Bianca, la politica è un affare da miliardari

Un nomignolo, Donald Trump glielo ha subito affibbiato, come fa sempre con gli avversari che teme: ‘Little Michael’, un po’ per ridicolizzarlo, un po’ per sminuirlo, un po’ per mettergli pressione addosso. Ma il magnate e showman fa l’esorcista più che il profeta, quando dice che Michael Mike Bloomberg, alias ormai ‘Little Michael’, “non farà bene” nella corsa alla Casa Bianca per Usa 2020: “Non c’è nessun altro contro cui preferirei correre più del ‘piccolo Michael’”.

In realtà, e Trump lo sa, sarebbe una sfida ostica fra due uomini d’affari prestati alla politica: entrambi newyorchesi, entrambi miliardari, uno che ha fatto i soldi col mattone-, l’altro che è riuscito a farli con un’agenzia di stampa, impresa più unica che rara. Trump, che non ha mai mostrato una sensibilità per il sociale, è giunto alla politica tardi ed ha subito puntato alla carica più alta, la presidenza degli Stati Uniti; Bloomberg è già stato sindaco di New York per due mandati ed è un ermafrodita della politica, repubblicano per censo e per inclinazione economica, democratico per idee sociali e liberal sui diritti civili.

Quattro anni fa, tutti l’aspettavano in corsa e lui restò a guardare. Questa volta, Michael Bloomberg è pronto a scendere in campo e a cercare di ottenere la nomination democratica: secondo i giornali di New York, s’appresta a presentare la documentazione: ieri, in Alabama, scadeva già il termine per essere sulla scheda delle primarie. Bloomberg è uno dei ‘cavalieri bianchi’ cui i democratici potrebbero affidarsi, se il loro attuale battistrada, Joe Biden, dovesse rivelarsi “debole” e se l’alternativa fossero Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, troppo di sinistra per conquistare la Casa Bianca. Più che Trump, a doversi preoccupare di Bloomberg, per ora, sono proprio i tre ‘grandi vecchi’ democratici: Biden perché Bloomberg si colloca nel suo spazio, al centro; Sanders e la Warren perché può coagulare abbastanza consensi da ottenere la nomination. Agrodolci i commenti dei rivali di partito. “La classe dei miliardari è impaurita e fa bene a esserlo”, dice Sanders, che, come la Warren, vuole tassare di più i ricchi. Pure la senatrice del Massachusetts punta sulla ‘paura dei ricchi’: “Benvenuto nella gara, Mike Bloomberg! Se stai cercando programmi che fanno la differenza per la gente che lavora e che sono molto popolari, comincia da qui”, scrive su twitter, postando un calcolatore con cui i miliardari possono calcolare quanto pagheranno in base alla sua proposta. L’ex sindaco miliardario ha fama di essere un po’ ‘tentenna’. Però, depositando i documenti lascia le porte aperte per decisioni ‘last minute’. Non ha il problema di molti altri, la raccolta di fondi; può finanziarsi in proprio, almeno all’inizio; e se poi le cose andranno bene, i finanziamenti arriveranno. Michael Rubens Bloomberg non è un ragazzino: nacque a Boston 77 anni or sono, l’ennesimo ‘grande vecchio’ di questa campagna democratica che pare un gerontocomio. Viene da una famiglia di emigrati ebrei di nazionalità russa. Laurea in Ingegneria elettronica alla John Hopkins University di Baltimora, master in Business Administration presso la Harvard Business School, scalò rapidamente il mondo degli affari e dell’informazione. È fra i dieci uomini più ricchi del pianeta, con una fortuna stimata di 18 miliardi di dollari: il doppio di Trump, le cui cifre sono molto ballerine. Lui democratico, nel 2001 si affiliò ai repubblicani per essere candidato ed eletto sindaco. Poi, fece la campagna per il rinnovo del mandato da indipendente. Guidò la ‘rinascita’ della Grande Mela dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e rimase in carica fino a tutto il 2013. Nel 2018 è tornato fra i democratici: favorevole all’aborto e alla legalizzazione del matrimonio fra persone dello stesso sesso, a controlli sulla vendita delle armi, le sue posizioni sui diritti civili ne fanno un ‘liberal’.

Giù il muro: una sola Berlino e la doppia vita tra est e ovest

Baciami ancora, Breznev. Da trent’anni Erich Honecker, leader della scomparsa Repubblica democratica tedesca, ha le labbra strette intorno a quelle del capo dell’altrettanto svanita Unione Sovietica su un muro di Berlino. Il giornalista Regis Bossu fece la foto, il pittore Dimitry Vrubel fece il disegno e la Storia ha fatto tutto il resto. Nella notte la scritta East side, in inglese, scintilla rossa per illuminare chi passeggia sotto quelle pareti memorabili, le poche a essere rimaste ancora in piedi. “Lato est”: il neon della scritta è quello di un centro commerciale, sotto le lettere si leggono i marchi globali di un mondo senza più muri visibili. Né rosso, né giallo, né blu. Colori e ritmi dell’emisfero est gli sono rimasti incastrati sotto pelle: “Non ho ricordi precisi del mondo prima del 1989 se non di un colore: era tutto grigio, senza colori, però mi ricordo che le persone erano più vicine, io non mi sentivo mai solo, mai”. Wojtek Szczucki, nato in Polonia nel 1983, snocciola memorie a telefono per le strade della Capitale tedesca, che è oggi la sua città. Dell’acquario socialista in cui è nato chiosa che “aveva la sensazione che tutto fosse senza alternativa, c’era un’unica, sola dimensione. Mi ricordo la scheda della carne, negozi vuoti”. È l’atlante-memoria collettiva di ogni ex cittadino della galassia sovietica e dei Paesi compressi nella sua sfera d’influenza: ognuno ha cerchiato il punto esatto sulle mappe in cui ha patito fame o freddo, in fila in attesa di cibo.

“Mi ricordo che quando passammo il confine con la Germania Est i soldati erano così devoti alla loro missione” – difesa dell’integrità e sicurezza della Repubblica – “che perquisirono tutto, per la furia distrussero il cruscotto”. Quell’oggetto andato in frantumi è il primo simbolo che viene in mente a Wojtek se parli del muro. “Un giorno abbiamo attraversato il confine ovest: ho visto per la prima volta quelle autostrade, come andavano veloce le macchine, come capì che anche tutto il resto andava più veloce del mondo da cui venivo io”.

Ad est per le strade si susseguivano le iconiche Trabant. Sui marciapiedi i bambini marciavano in divise blu con lo stemma dello Stato sulla spalla, il compasso. Non esistevano statistiche sulla disoccupazione né esisteva la disoccupazione. Der Augenzeuge, “il testimone oculare”, era il telegiornale visto all’ora di cena quando sulle tavole c’erano i cetrioli Spreewald, oggi introvabile memorabilia vintage. Quatto anni dopo l’unificazione delle due Germanie nel dizionario tedesco comparve la parola Ostalgie, la nostalgia di un mondo che non esisteva più. Dopo i festeggiamenti di quel novembre ci furono i poco raccontati suicidi di chi si sentiva disorientato cittadino di un universo cancellato. I segreti raccolti dalla Stasi in quegli anni sono stati desecretati, sono lunghi 111 chilometri, pesano 23mila tonnellate. Questa storia i tedeschi invece di metterla sotto terra, l’hanno messa sotto teca: un museo della Ddr è stato aperto nel 2006 grazie alle donazioni degli oggetti superstiti.

Ieri il confine tra capitalismo e comunismo, oggi frontiera scomparsa. Vive di offerte di giapponesi il ragazzo travestito da soldato al Check Point Charlie, dove la storia è diventata souvenir illuminato a giorno dai neon dei fast food. Nel negozio di fronte una cinese vende pezzi del muro che ti assicura essere autentici. Un memoriale per le 138 vittime, cittadini dell’est che tentarono la fuga, è stato innalzato nell’unico posto dove c’era spazio per loro. Dove c’erano i carri armati ora c’è un Hard Rock café. Le decine di chilometri di cemento e ferro che 30 anni fa oggi andarono in pezzi sono ancora visibili come una cicatrice nera sotto le suole di chi passeggia per le strade.

“La prima crepa che si apriva, come una porta da cui poi sarebbero passati tutti”. Questo giorno 30 anni fa “ho pensato che i ragazzi che avevo conosciuto a Berlino Est avrebbero potuto finalmente viaggiare, dalla Germania il cambiamento sarebbe arrivato a Mosca, avrebbero aperto le frontiere per la mia amica Natascia”. Questa ex studente di letteratura russa, ieri entusiasta firmataria di lettere dall’Urss nei ’70, incapace di scindere storia e biografia, ha tenuto per 40 anni le foto della vecchia Germania est chiuse nella stessa valigia. Nessuno rimpiange mai il passato ad alta voce, soprattutto se sconfitto, e oggi dice che il 9 novembre 1989 “un sogno si avverava”. Ma allora perché non sei mai più tornata a Berlino, mamma?

Non sarà Fiorello a fondare la nuova Rai

“La domanda più imbarazzante, però, è la seguente: le carte che riguardano il Servizio pubblico sono davvero tutte in regola se, mentre rivendica il diritto alla propria autonomia gestionale, non modera, non media, non respinge la pressione politica sulle nomine e persino sulle strategie dell’azienda?”.

(Sergio Zavoli, ex presidente della Rai e della Commissione di Vigilanza – Abstract degli Atti Seminario al Senato, 2010)

 

Con tutto l’apprezzamento e la simpatia per Rosario Fiorello, non basterà il suo nuovo show televisivo – on demand dal 13 novembre sulla piattaforma digitale RaiPlay – a cambiare la nostra vecchia Rai. Nonostante il lusinghiero 25% di share registrato dalle anteprime del programma, con la “benedizione” inaugurale di Sua Maestà Pippo Baudo; la finta intervista promozionale sul prossimo libro del collega “artista” Bruno Vespa; i revival di Raffaella Carrà, Mina e Mara Venier, il futuro della radio-tv pubblica resta affidato innanzitutto alla politica, alla sua capacità e volontà di rifondare quella che è tuttora “la più grande azienda culturale del Paese”: a cominciare dal trasferimento della sua proprietà dal ministero dell’Economia a una Fondazione o a un soggetto terzo di garanzia.

E questo non perché l’intrattenimento non sia parte integrante della sua mission editoriale. Bensì perché la funzione istituzionale di un servizio pubblico degno di questo nome, finanziato dai cittadini attraverso il canone inserito nella bolletta elettrica, non può che essere in primo luogo l’informazione. Un’informazione pluralista, equilibrata ed equidistante, non schierata né di parte, capace di promuovere la coesione sociale e la convivenza civile. Altrimenti, il servizio pubblico diventa un disservizio e rischia di perdere la sua stessa ragion d’essere.

È proprio con l’ambizione di rifondare la Rai che, su iniziativa del senatore (M5S) Primo Di Nicola, vicepresidente della Commissione di Vigilanza, s’è svolto a Roma un convegno pubblico a palazzo Giustiniani in cui si sono confrontati insieme a lui il presidente e l’altro vicepresidente della stessa Commissione, rispettivamente Alberto Barachini (Forza Italia) e Antonello Giacomelli (Pd); con Fabrizio Salini, amministratore delegato della Rai, e Vittorio Di Trapani, segretario dell’Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti. All’incontro è intervenuto anche Raffaele Lorusso, segretario generale della Federazione nazionale della Stampa.

L’obiettivo comune della Santa Alleanza, almeno a parole, è quello di unificare le varie proposte sulla riforma della Rai, per modificarne la governance e renderla finalmente indipendente. Il disegno di legge presentato dai Cinquestelle s’impernia sull’Autorità di garanzia sulle Comunicazioni, a cui spetterebbe il compito di bandire un avviso pubblico per raccogliere le candidature alla carica di consigliere d’amministrazione dell’azienda. Queste auto-candidature richiederebbero, da una parte, “una significativa esperienza manageriale nei settori della radiotelevisione, delle nuove tecnologie dell’informazione e delle reti di comunicazione elettronica”; dall’altra, “competenze distinte e specifiche”, oltre ai requisiti di indipendenza e onorabilità.

Alla fine, però, la stessa Agcom procederebbe a un sorteggio dei nominativi, in modo da garantire “una netta indipendenza della Rai dalle forze politiche e, più ancora, dal potere governativo”. A chi scrive, chiamato a coordinare il dibattito, quest’ultima soluzione appare francamente occasionale e aleatoria. Non sempre il caso sceglie per il meglio. E anzi, a volte, può anche scegliere il peggio.

Il retroscena non esiste, serve solo alla rissa

Copiosamente pralinato di un sudore rancoroso, lucido come un sanitario di media fattura e sempre fiero di quel capino gioiosamente implume, Alessandro De Angelis ci ha fatto sognare anche giovedì sera a Piazzapulita. Egli, del resto, vive o per meglio dire pascola e pastura in tivù. A inizio carriera era un retroscenista, branca inutile del giornalismo che esalta solo lui e consiste sostanzialmente nel farci sapere se Renzi ordini alla buvette il cornetto alla crema o alla sugna. Meglio ancora apprendere, magari da qualche riottoso 5 Stelle durante la minzione, che Paola Taverna ci ha la rogna e Nicola Morra colleziona pitoni sgozzati vivi a morsi. Insomma roba forte, nonché altamente pregnante, di cui lo sbarazzino Alessandrino un tempo viveva.

Oggi invece De Angelis, squisitamente privo di pubblico e idee, non è niente: solo che nessuno ha il coraggio di dirglielo. Così va in tivù per fingersi politologo. Dotato di una visione generale originale come un singolo minore di Ligabue e forte di un eloquio avvincente come un gargarismo abortito di Giusy Ferreri, De Angelis è uno dei più instancabili salviniani in forza al centrosinistra giornalistico: una sorta di Marianna Aprile uomo, il che – capite bene – è un gran bello sbocco professionale. Durante il Salvimaio frantumava le gonadi in servizio permanente straparlando di fascismo e incompetenza. Ora che il suo amato Salvini non è al governo lui fa di tutto per rimandarcelo, bombardando pretestuosamente e a caso il Mazinga. De Angelis odia mortalmente i 5 Stelle, quasi che da piccolo Di Maio e Patuanelli gli avessero strappato a ciocche l’antico crine alfin fuggito. Due sere fa, il nostro Marianno ha toccato epiche vette lisergiche, trattando il ministro del Sud Provenzano neanche fosse Mengele. Persino Formigli, mai tenero con Conte I & II, ha cercato di frenarlo. Macché: sempre più madido e pralinato, De Angelis infieriva sul povero Provenzano con violenza e gratuità aberranti. Faceva pure il gradasso, approfittando della minore esperienza catodica dell’ingenuo giovine ministro, reo (secondo Marianno) di esser prono ai 5 Stelle (e te pareva) sul caso Ilva. Un caso di cui ovviamente De Angelis non sa nulla, ma di cui lui discettava lividissimo, alludendo a misterici retroscena (eddai) a lui e solo a lui noti. Per il mai retorico e sempre rutilante De Angelis, Provenzano era addirittura di fronte a un bivio: da una parte il bene supremo del Paese, dall’altra l’oscena subalternità a quei minchioni tonnati dei grillini. Per questo Lui, autoproclamatosi depositario della democrazia per mancanza di testimoni e di neuroni, esigeva dal ministro nondimeno che la pubblica abiura. Uno spettacolo comico, aberrante e repellente. L’indomito Marianno era proprio un fiume moscio in piena: sbuffava, cianciava, sbraitava.

E pretendeva pure di saperne più di Provenzano su come fosse andata la serata del Consiglio dei ministri. Sedie che volavano, urla, guerriglia: più che una seduta politica, un sanguinoso Ok Corral. Chiaramente De Angelis non citava né fonti né pezze d’appoggio, lasciando che l’ormai defunto retroscenismo subisse grazie a lui l’oltraggio osceno del vilipendio di cadavere. E il povero ministro, di fronte a quel capino implume che insisteva nel raccontargli un evento al quale lui aveva partecipato e l’altro no, non poteva che teneramente trasecolare. Dicono che Salvini sia riconoscente con gli amici: se davvero così fosse, il Cazzaro Verde non potrebbe non garantire a De Angelis un dicastero di peso nel prossimo Salveloni, perché pochi come lui stanno tirando la volata a questo gran bel centrodestra che non si alza neanche di fronte a Liliana Segre. E che ci ritroveremo presto al potere, grazie anche a fenomeni così. Complimenti, compagno Marianno.

A denti stretti: resistere a Taranto

È uno dei lasciti più frequenti. Non ci si pensa, perché è diffuso anche nella popolazione sana. E, per quella malata, non è certo il primo problema. Eppure il fenomeno del serrare i denti, del mordere digrignando, si presenta spesso proprio all’arrivo di un tumore. Solo che tu, malato, all’inizio non ti rendi conto. Lo realizzi solo dopo, una volta che sei arrivato – fortunato tu, fortunati meno tanti altri – a poterne parlare. Perché A DENTI STRETTI sei voluto rimanere aggrappato alla vita. Perché, se pur A DENTI STRETTI, vuoi resistere.

È un popolo di resistenti quello che documenta Stefano Maria Bianchi nel suo fortissimo film A DENTI STRETTI, andato in onda giovedì in seconda serata, sulla Raidue di un Freccero a fine mandato. Un documentario corale, quello del giornalista e inviato tv cresciuto alla scuola di Michele Santoro, su una città – Taranto – e i suoi abitanti, realizzato con il rigore dell’inchiesta e la forza drammatica della presa diretta. Capace di entrare, con la delicatezza che solo alcuni giornalisti continuano a mostrare, nelle vite di Chiara, Floriano, Luciano, il dottor Cicinati, Rita, Luciano, il dottor Mazza, Gianluca, Carla. Tutti arrivano come dei pugni in pancia.

“A denti stretti anche lassù” è quello che gli amici di Claudio hanno scritto sul muro del loro vecchio liceo, il Battaglini di Taranto. Claudio è uno dei tanti, troppi, morti d’Ilva. “Stringiamo i denti anche questa volta”: è quello che dice il dottor Valerio Cecinati, primario di oncologia pediatrica dell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto, al padre di Chiara (quattro anni e una leucemia linfoblastica acuta). Davanti, c’è il calvario. Prelievo di midollo, chemioterapia, radioterapia. E ancora reinduzione, prelievo di midollo, nuova infusione di chemioterapia. E Chiara – che minuto dopo minuto si trasforma, davanti al nostro sguardo, per il cortisone che le deturpa i lineamenti e la paura che le fa gli occhi piccoli piccoli – è sempre nelle braccia del suo papà Floriano. Abitano nel quartiere Paolo VI. Così come la famiglia di Giorgio di Ponzio, morto a 15 anni per un sarcoma ai tessuti molli, l’unico cancro che per la scienza è fra quelli riconducibili all’esposizione alla diossina. “Pensavamo che vivere a Paolo VI – dice la mamma Carla – significasse non prendere le correnti d’aria dall’Ilva, pensavamo che arrivassero di più i venti da Martina Franca… Ci siamo sbagliati di grosso”.

“I bambini non si salvano con le chiacchiere”, dice il governatore Emiliano. Nel film si ritrova assediato da mamme che chiedono solo la chiusura dell’impianto. “E che fine fanno gli 11mila lavoratori dell’Ilva? Le loro famiglie?”.

Sono almeno dieci i procedimenti penali che riguardano lo stabilimento di Taranto. Dal maxi-processo “Ambiente svenduto” a quello per l’omicidio colposo di Alessandro Morricella, morto per la fiammata sprigionatasi dal famoso altoforno 2. Come hanno raccontato su queste pagine Francesco Casula, Carlo Di Foggia, Marco Palombi, e Giorgio Meletti, la storia dell’Ilva non è solo la storia di una raffica di morti e di veleni. È anche la storia dell’arroganza e del ricatto del potere: di quello scambio salute-lavoro con cui troppo spesso, negli anni, è stato depredato, distrutto e avvelenato il nostro Sud. Ha ricordato Marco Travaglio: “Dal 2012, quando i giudici sequestrarono l’Ilva come arma del delitto usata da (im)prenditori-serial killer per fare strage di operai e residenti in cambio di profitti da favola, c’è uno scontro all’ultimo sangue (degli innocenti) fra chi vuol produrre e guadagnare in pregio al Codice penale e al diritto alla salute e alla vita tutelati dalla Costituzione, e chi tenta di riportare la legalità in quel Far West chiamato Taranto”.

Ripreso dalle telecamere di Bianchi, Angelo, chimico ed ex responsabile del laboratorio Ilva finito sotto accusa per le analisi di monitoraggio e controllo “pilotate”, racconta come quel “sistema Ilva” continuerebbe anche sotto Mittal: “Le persone sono le stesse e il modus operandi pure”. Documenta – lo farà anche davanti ai magistrati di Taranto, che dopo la messa in onda l’hanno chiamato a riferire – come “sotto i parchi minerari c’è di tutto. Hanno fatto le caratterizzazioni già nel 2008: ho trovato io valori di benzopirene nelle falde che sfondavano i limiti di legge”. E poi ci sono gli operai dello stabilimento che, sotto copertura, denunciano la mancanza assoluta di un “un sistema di cappaggio per i fumi dell’altoforno 4”, così come degli “elettrofiltri anti diossina nel camino E 312”.

“Questo è il momento di far sapere a tutti che vogliamo l’Ilva chiusa e un futuro sostenibile per la città”, gridano dal Comitato cittadini liberi e pensanti. Il governo faccia un atto di coraggio, e di responsabilità. Solo questa stramba compagine può avere la forza di rendere giustizia a quella terra, a quelle persone. L’unico modo per salvare i bambini, altrimenti, sarà non farli nascere. Del tutto.

Mail box

 

La separazione delle carriere è deleteria per la giustizia

Condivido pienamente la battaglia del Fatto Quotidiano contro le improvvide pronunce della Cedu di Strasburgo e della Corte costituzionale contrarie all’ergastolo ostativo. Crediamo forse di vivere con Alice nel Paese delle meraviglie? Un’ulteriore furbata di coloro che si prefiggono, continuamente e tenacemente, di indebolire la magistratura rifacendosi, altresì, alla dottrina della “parità tra accusa e difesa” – scopiazzata dal sistema anglosassone – è quella di “riformare” la giustizia con la separazione delle carriere dei magistrati. Tale separazione, di natura meramente burocratico/ordinamentale, non ha alcuna utilità, anzi, probabilmente è deleteria avuto riguardo alla finalità istituzionale della magistratura di perseguire i disonesti e tutelare le vittime dei reati. Non si mette mai bene in chiaro che quel poco di tutela della giustizia in Italia è dovuto all’impegno e dedizione della magistratura, requirente e giudicante, e delle forze dell’ordine (che spesso pagano con la vita il loro lavoro). Un’altra verità che molto raramente viene presa in considerazione dai media, in relazione al rapporto dialettico giudiziario tra accusa e difesa, è che il pubblico ministero opera sia contro che a favore dell’indagato/imputato. Lo stesso non può dirsi per la difesa.

Piero Angius

 

Ilva, il consenso a breve termine non salva le vite

L’ambientalismo si proclama bene ma, quando si deve mettere mano al portafoglio, arrivano puntuali i ripensamenti. Questo vale per la plastica, ma è ancor più evidente per l’Ilva. Dove costose bonifiche dell’impianto sono state previste, ma mai attuate, con l’unica strategia di governi e proprietà di tirare a campare. Anzi a morire, perché l’impianto così com’è genera tumori. A questo serviva lo “scudo penale”: rendere immuni i responsabili di queste morti dalle conseguenze penali, nonostante una palese violazione della Costituzione. Con il recesso di Arcelor-Mittal il quadro è drammatico, ma più chiaro: o escono i soldi (tanti) per la bonifica dell’impianto con un piano industriale che tenga insieme controllo delle emissioni ed equilibrio gestionale; o si chiude, con una mega-piano di rioccupazione-cassa integrazione degli ex-operai, per evitare una bomba sociale. In entrambe le ipotesi ci vuole visione e coraggioso sprezzo del consenso a breve, due qualità che una modesta classe politica non ha. La terza via, la peggiore, è la “sindrome Alitalia”. Il sonno della politica industriale nazionale genera mostri.

Massimo Marnetto

 

Ambiente: le scelte politiche si fanno in base agli affari

Abbiamo ormai poche speranze. In Italia Matteo Salvini e Matteo Renzi non vogliono nemmeno la tassa sulle plastiche monouso. Il presidente americano Donald Trump, che fa le cose più in grande, ha presentato formalmente la documentazione per uscire dall’accordo di Parigi sul clima. Tra un anno, gli Stati Uniti si ritireranno dall’intesa. Un’intesa minimale che, se non risolve molto, almeno prova a limitare i danni. Il mondo rischia di andare in malora. Sconvolgimenti climatici, tempeste mai viste, riscaldamento e siccità sono già la realtà. Gli allarmi si susseguono e ciascuno di noi può vedere cosa sta succedendo. Il tempo delle scelta va finendo ma, alla prova dei fatti, quasi nessuno fa niente. Chi non vuol perdere voti e difende gli interessi industriali dell’Emilia, chi quelli dei petrolieri, chi persegue a ogni costo l’egemonia economico-commerciale globale. La California e mezzo mondo possono bruciare, i ghiacciai sciogliersi, la desertificazione e la fame provocare ecatombi ed esodi di milioni di individui, la biodiversità scomparire, ma per questi “statisti” alla base delle scelte rimangono sempre i soldi e gli affari.

Mario Frattarelli

 

La stampa che parla di “anima” merita di esser presa in giro

Grazie per aver preso nell’unico modo giusto, ossia per culo, i carissimi nostri giornalisti santi. È indecente ciò che vedo nei talk, ciò che leggo, è indecente che questa stessa gente osannava Renzi e oggi è tutto uno storcere il naso poiché nel governo ci sono quegli zozzoni dei 5s e dunque non perviene Anima. Santo Salvini o Santo Silvio sarebbero certo opzioni paradisiache al confronto (come disse il grade saggio Veronesi). Questi intellettuali di sistema sono stati così di sistema imprenditoriale da essersi scordati cosa sia il libero pensiero. La cosa è preoccupante, non parliamo di disadattati che si bevono le frescacce di Salvini/Renzi, parliamo di gente istruita e benestante, gente che ha tempo per riflettere e che non dovrebbe neanche più baciare la pantofola dell’editore poiché la famiglia l’ha già messa al sicuro… ma sono anche loro profondamente Italiani! Bellissimo editoriale ieri.

Francesca Della Pietra

 

I transfughi in disaccordo finiranno in confusione

Un’altra parlamentare del M5S emigra nel Gruppo misto come tanti altri anche di altri partiti; ma se sono in disaccordo con la linea del partito che hanno scelto liberamente come fanno andare d’accordo nel Gruppo misto che è un calderone di pensieri e idee diverse?

Orietta Daglia

Tutti stranieri, niente campionato: le regole federali e la sfida dell’umanità

Ci sono paradossi che proprio non comprendo. Una squadra di basket di Castel Volturno si è vista rifiutare il tesseramento dalla Federazione (e dal Tar, che ha dato ragione alla Federazione) perché i suoi giocatori sono nati in Italia da genitori di origini africane. Credo che il regolamento imponga un numero ridotto di stranieri per squadra. Però possibile che in Italia riusciamo in qualche modo a bloccare anche le esperienze di integrazione e, in qualche modo, di rinascita che funzionano?

Il Medioevo dello sport made in Italy pare aver piantato le tende, in questi scombiccherati giorni, a Castel Volturno, Caserta, eletta a nuova capitale. È qui che i giocatori del Napoli, dopo il match di Champions con il Salisburgo, si sono rifiutati di tornare a continuare il ritiro punitivo cui il patron del Napoli, nonché padrone delle ferriere Aurelio De Laurentiis, voleva destinarli, insoddisfatto del loro rendimento. Ed è qui che si è svolta, e compiuta, la storia narrata dal nostro lettore; il permesso negato (a norma di regolamento: nel basket non ci possono essere più di due stranieri per squadra) ai giovani della Tam Tam Basket di accedere al campionato di Eccellenza dopo aver vinto quello regionale. Motivo: la squadra è interamente composta da figli di immigrati, nati in Italia sì, ma privi della cittadinanza italiana. E così, mentre ai giocatori del Napoli i tifosi urlano “Andate a lavorare!”, i ragazzini della Tam Tam, tutti minorenni tranne uno, vorrebbero solo andare a giocare (là dove hanno dimostrato di meritare) e invece no. Per capirci: agli ordini dell’allenatore Massimo Antonelli ci sono 50 ragazzi che in attesa di trovare un’identità di cittadini hanno trovato, miracolosamente, un’identità di giovani uomini grazie allo sport: ma ecco che il regolamento occhiuto della Fip arriva a sbriciolarla. E dire che in tutti gli sport del mondo esiste un istituto, quello della wild card; e cioè il permesso di partecipare a una competizione anche in mancanza dei requisiti regolamentari. Nel 2001 Goran Ivanisevic, 125° nella classifica Atp, partecipò a Wimbledon grazie all’invito (wild card) degli organizzatori e incredibilmente vinse. Nel 1992 la Danimarca ottenne la wild card per partecipare agli Europei di Calcio in Svezia al posto della Jugoslavia esclusa per motivi bellici, arrivò all’ultimo momento richiamando i giocatori dalle vacanze e inopinatamente vinse. E insomma: visto che è così facile, aiutiamo i ragazzi della Tam Tam. Che il tam tam abbia inizio.