Ci vuole del fegato per affrontare una folla esasperata di operai che ti circondano, ti strattonano, ti insultano, ti scaricano addosso tutte le colpe, anche quelle di chi ha le colpe ma lì non c’è, non si è fatto vedere. Niente auto sgommanti o riunioni riservate in prefettura per poi scappare via di corsa, tanto un titolo nei tg e sui giornali è comunque assicurato. Nei tg vediamo invece un uomo, il presidente del Consiglio, un potente senza scorta e con il colletto della camicia slacciato, che risponde a brutto muso a un tipo col cappuccio che gli grida in faccia: “Sei un paraculo”. Forse l’incappucciato si aspetta che il “paraculo” se la fili via con la coda tra le gambe (gliele ho cantate), ma la scena ha uno scarto improvviso perché il potente con la camicia slacciata lo affronta (“togliti il cappuccio”) e gli chiede ragione dell’insulto. Sa di essere accerchiato da una pressione che è quella dei corpi agitati, ma anche della disperazione, dell’angoscia, della paura perché se finisce la fabbrica finisce tutto. I toni si abbassano. Se fossi un paraculo direi di avere in tasca la soluzione, spiega il potente e mostra la tasca vuota della giacca che è una dimostrazione di impotenza davanti alla complessità del problema. E anche di verità. Per questo ho provato rispetto per Giuseppe Conte, ieri sera a Taranto, davanti ai cancelli dell’ex Ilva. Ci ha messo la faccia.
Primi banchieri condannati Per Mps 7 anni a Mussari &C.
La stagione dei disastri bancari aperta nel 2012 dal terremoto del monte dei Paschi di Siena vede i primi banchieri condannati. E si parte proprio da Mps, dopo una sfilza di assoluzioni. Ieri i giudici di Milano hanno condannato gli ex vertici della banca senese per le irregolarità sulle operazioni finanziare messe in piedi dal dicembre 2008 al settembre 2012 per occultare le perdite causate dallo sciagurato acquisto di Antonveneta. Nel 2008 Mussari decise di strapagare la malconcia banca padovana scucendo 9 miliardi di euro (più 8 di debiti) contro un valore reale di circa 3, sotto l’occhio vigile di Bankitalia, consapevole che Antonveneta se la passava male e che Mussari stava scassando il più antico istituto di credito del Paese. Per coprire le perdite dell’operazione, a Siena vennero messe in piedi operazioni in derivati, i cui effetti negativi si cercarono in seguito di occultare a bilancio.
In primo grado, ieri, sono stati condannati Mussari (7 anni e 6 mesi), l’ex dg Antonio Vigni (7 anni e 3 mesi) l’ex responsabile area finanza Gianluca Baldassarri (4 anni e 8 mesi) e 5 anni e 3 mesi sono stati dati a Daniele Pirondini (ex direttore finanziario). I reati vanno dal falso in bilancio all’aggiotaggio all’ostacolo alla vigilanza. Tra gli imputati – tutti condannati – c’erano anche sei ex dirigenti di Deutsche Bank e due ex manager di Nomura: entrambe le banche sono state condannate e per loro è stata ordinata la confisca di oltre 150 milioni di euro. Condannati gli ex manager di Deutsche Bank: Michele Faissola e Michele Foresti, per entrambi la pena è di 4 anni e 8 mesi, stessa pena per Ivor Scott Dunbar per il quale la Procura aveva chiesto l’assoluzione. Di 3 anni e sei mesi la pena inflitta a Dario Schiraldi, Matteo Angelo Vaghi (anche per lui la procura aveva chiesto l’assoluzione) e Marco Veroni. Condannati anche gli ex manager di Nomura Sadeq Sayeed (4 anni e 8 mesi), in qualità di ceo di Nomura international plc London, e Raffaele Ricci (3 anni e 5 mesi), all’epoca responsabile delle vendite per l’Europa e il Medio Oriente. La banca senese è uscita dal processo con un patteggiamento nel 2016. Gli istituti coinvolti e gli imputati hanno contestato la sentenza e annunciato il ricorso. Al centro del procedimento c’erano soprattutto le operazioni sui derivati Santorini e Alexandria, che secondo l’accusa sarebbero servite a nascondere perdite per oltre 2 miliardi.
La storia è nota. Dopo l’acquisto di Antonveneta, Mps deve chiudere in utile ed è a quel punto che arrivano Santorini (con Deutsche Bank) e Alexandria (Nomura) per rinviare in futuro perdite su operazioni pregresse. Due derivati, mascherati però a bilancio come operazioni scomposte, contabilizzate come un acquisto di titoli di Stato finanziato da “pronti contro termine” (in gergo Repo) e non come un Credit default swap (Cds), un derivato assicurativo sul rischio Italia venduto da Mps. Solo nel bilancio 2012, dopo l’esplosione dello scandalo e l’uscita dei vertici, emergeranno perdite per 700 milioni. E solo tre anni dopo i derivati sono stati contabilizzati come tali, un ritardo avallato dalle authority di vigilanza (per il quale sono a processo a Milano i successori di Mussari, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola). Dal 2008 Mps ha varato sei aumenti di capitale, l’ultimo dei quali, nel 2017, ha visto l’ingresso dello Stato. In 11 anni sono stati bruciati 36 miliardi di valore.
La condanna di ieri apre un fronte imbarazzante per la Banca d’Italia. La vicenda deflagrò a fine 2011, quando il neo governatore Ignazio Visco allontanò i vertici di Mps, sostituiti da Profumo e Viola. A fine 2012 i due scoprirono in una cassaforte in uso a Vigni il famigerato mandate agreement, che dimostrava la natura di “derivato” di Alexandria. Per Mussari, Vigni e Baldassarri scattò la denuncia per ostacolo alla vigilanza.
Gli ispettori di Bankitalia hanno giurato di non aver mai potuto classificare Alexandria come derivato in mancanza del mandate.
Gli ex vertici di Mps sono però stati assolti in via definitiva a maggio scorso. Secondo la sentenza d’appello (confermata in Cassazione) gli ispettori avevano gli elementi per capire la natura delle due operazioni e non ci fu volontà di ostacolare la vigilanza. Insomma, secondo i giudici le operazioni per occultare le perdite, Mussari e compagnia le hanno commesse. E Bankitalia, almeno nel 2011, ne era a conoscenza.
“Er gnappa” e i suoi fratelli Roma, anziani di malavita
Quelli ancora vivi (e liberi) saranno in tutto una ventina. Hanno fra i 60 e i 70 anni e, nonostante fedine penali lunghe chilometri, girano indisturbati per la Capitale. E di appendere la pistola al chiodo non ne hanno ancora voglia. A cavallo fra gli anni 70 e 80, nella Roma controllata dalla Banda della Magliana, li chiamavano i “cassettari”, perché erano specializzati in cassette di sicurezza e casseforti. Hanno messo a segno migliaia di rapine, milioni di lire puntualmente sperperati nelle bische clandestine fra alcol, droga, scommesse e prostitute. Sono nati all’inizio degli anni 50, in gran parte nelle tante baracche romane del dopoguerra. Oggi hanno i capelli bianchi, rughe miste a cicatrici e qualche acciacco, ma la loro vita non è cambiata. Ogni tanto qualcuno si fa un giro di carcere, qualcun altro finisce ammazzato.
Uno di questi era Ennio Proietti, 69 anni, rimasto ucciso pochi giorni fa durante la rapina al Caffè Europeo di Cinecittà Est, che nel suo curriculum criminale vantava nientemeno che la partecipazione al rapimento (con omicidio) di Giovanni Palombini, nel 1981. Per lui una condanna a 24 anni, poi visite saltuarie a Rebibbia e Regina Coeli, incidenti di percorso rispetto alla media di una o anche due rapine al giorno. Per lui una fine simile a quella del suo omonimo Cosimo Proietti, il ladruncolo del film I Soliti Ignoti investito da un tram dopo lo scippo fallito a una vecchietta. Destino condiviso con quello del suo coetaneo Angelo Angelotti, ucciso nel 2012 da un gioielliere a Spinaceto durante una rapina, all’età di 62 anni: membro stabile della Magliana, lo chiamavano Er Giuda perché si dice fosse stato lui a tradire Renatino De Pedis nel febbraio del 1990.
“Io stavo cor Libanese”, gridava l’attore Mauro Cremonini nei panni di un anziano Bufalo nell’epica scena iniziale di Romanzo Criminale – La Serie, dopo aver sparato a dei giovani che poco prima lo avevano massacrato di botte. Ed è proprio quella l’immagine calzante degli ex cassettari romani, oggi soprattutto usurai, spacciatori e capi batterie. Il più pericoloso fra loro è di sicuro Manlio Vitale detto Er Gnappa, ritenuto fra i reggenti di quel che resta della Magliana, dalle cui intercettazioni sono nate altre inchieste che hanno finito per mettere nei guai personaggi legati all’imprenditoria e alla politica, come lo scomparso immobiliarista Sergio Scarpellini, Raffaele Marra (ex collaboratore dei sindaci Alemanno e Raggi), esponenti Udc. La Squadra Mobile di Roma, invece, tiene d’occhio Italo De Witt, detto Il Tedesco, 66 anni, che vanta una spettacolare rapina con ostaggi in una banca di Piazza di Spagna nel 1997. Fari puntati anche su Augusto Giuseppucci, fratello di Franco Er Negro (ucciso nel 1980, ha ispirato il “Libanese” del libro di Giancarlo De Cataldo), tuttora indagato come possibile mandante dell’omicidio di Andrea Gioacchini, avvenuto il 10 gennaio davanti a un asilo alla Magliana. Il 29 ottobre, invece, i carabinieri hanno sgominato una batteria di Acilia guidata da Silvano Cerroni di 75 anni, e Lucio Russo di 61 anni: alla loro età ancora a fare irruzioni con coltelli e pistole.
D’altronde, sull’epopea dei cassettari ci si potrebbe scrivere una serie degna di quella girata da Stefano Sollima. Storica è rimasta la rapina “in trasferta” al Banco Hispano-Americano di Barcellona, che vide coinvolti, fra gli altri, Mario Tocca Proietti, che sotto il falso nome di Bonifacio Garcia Molero, cambiava pesetas in lire al Casinò di Venezia. Ha chiesto ufficialmente di essere dimenticato, invece, Pietro De Negri, detto “er Canaro”, oggi 63enne, condannato per l’omicidio del pugile Giancarlo Ricci nel 1988, figura che ha ispirato il pluripremiato film Dogman di Matteo Garrone. Loro coetanei erano altri “grandi nomi” dell’epoca come Franco Manenti, detto er professore, Angelo Rinaldi, l’astigiano Roberto Sciarretta, Bruno Marella e Stefano Virgili, quasi tutti finiti fuori dai radar; in un solo anno, nel 1984 svaligiarono per tre volte la Bnl di Medaglie d’Oro portandosi via quasi 100 miliardi di lire, utilizzando tecnologie all’epoca all’avanguardia.
Giovani o anziani, italiani o stranieri, resta il fatto che alcuni quartieri romani sono abitati da un esercito di condannati, in gran parte ladri e rapinatori, che per vari motivi (salute, attenuanti, ecc.) hanno ottenuto i domiciliari. A Roma, in totale, sono 1.416 persone recluse in casa, con una cifra che arriva a 3.300 con i pregiudicati a piede libero. Solo a Tor Bella Monaca, secondo l’ultimo report della Questura di Roma, ce ne sono 348 che non possono uscire di casa e 434 sottoposti a misure di sorveglianza; a Fidene, Prenestino, Tuscolano, Romanina, San Paolo e Tor Pignattara in totale sono 300. A Ostia ci sono ben 1.250 condannati che scontano la pena con misure alternative. A Primavalle sono 895.
A Teramo la ricostruzione fa più paura del terremoto
La terra in Abruzzo trema ancora. Ma non fa paura. Un po’ perché gli abruzzesi il terremoto ce l’hanno nel Dna da sempre: qui ci fu uno dei più gravi terremoti italiani, quello di Avezzano, che uccise l’80% dei residenti nel borgo marsicano; un po’ perché, dopo L’Aquila e Amatrice, hanno capito che quello che deve davvero spaventarli non è il terremoto, ma la ricostruzione. Teramo è un paradigma. Perché a Teramo le scosse non hanno fatto vittime, ma hanno cacciato di casa più di quattromila persone su 50 mila abitanti. Tre anni fa. Da allora, non sono più rientrate. Un intero quartiere, quello di Colleatterrato, un bosco di palazzine di edilizia popolare, è oggi il monumento all’Italia delle lentezze e alla burocrazia delle soluzioni mancate. Eppure, di promesse, i quattromila teramani, ne hanno sentite tante, tutte identiche anche se cambiavano i commissari straordinari per la ricostruzione. Vasco Errani prima, Paola De Micheli poi, Piero Farabollini adesso. Due in quota Pd e uno in quota Cinquestelle. Tre, in tre anni, per scoprire che di straordinario c’è solo il fatto che, il 30 ottobre, a Colleatterrato si è amaramente festeggiato il terzo “compleanno” della scossa che svuotò il quartiere, senza neanche un cantiere aperto. Neanche uno. Neanche in quelle belle palazzine colorate, trentadue appartamenti costruiti nel 2013 con 4 milioni di finanziamento pubblico, assegnate nel 2014 e sfollate nel 2016.
Eppure, che questa fosse zona sismica lo sapevano tutti. La ricostruzione pubblica è totalmente ferma. Le case dell’Ater, l’Azienda Territoriale Edilizia residenziale, molte delle quali sono in categoria B, cioè “Edificio è in parte inagibile, ma è sufficiente eseguire lavori di pronto intervento per poterlo utilizzare in tutte le sue parti, senza pericolo per i residenti”, sono chiuse da tre anni. Basterebbero, in molti casi, poche migliaia di euro, per consentire alle famiglie di rientrare, invece si continua a pagare 40 euro al giorno a testa per chi vive in albergo, cioè più di 40 mila euro in tre anni. A persona. Più tutti i soldi spesi ogni mese per i Cas, i contribuiti di autonoma sistemazione, cioè il sussidio che va a chi ha deciso di non andare in albergo. Milioni su milioni, da tre anni.
E gli anni alla fine saranno molti di più, viste le previsioni del responsabile dell’Ufficio Speciale Ricostruzione, Vincenzo Rivera: “Quando sono arrivato, a gennaio, in questo ufficio lavoravano 22 persone, adesso siamo 42, le pratiche da gestire alla fine saranno 12 mila, io adesso riesco a fare 30 decreti al mese…”. Per “decreto” si intende la conclusione dell’iter burocratico che consente l’apertura del cantiere. Trenta al mese, significa che per avviare tutta la ricostruzione ci vorranno trent’anni. Più i tre già ingoiati dalla burocrazia. Tra 33 anni, i figli o i nipoti di quei quattromila sfollati teramani non avranno più alcun interesse a rientrare.
La grande scommessa è farcela in dieci anni, come se dieci fossero pochi: “Ma avrei bisogno di fare cento decreti al mese – continua Rivera – e per farne cento al mese dovrei triplicare la pianta organica”. Il governo lo sa, visto che lo Sbloccacantieri ha previsto 200 assunzioni proprio per rinforzare gli Usr. Ma non verranno tutti in Abruzzo, anzi: solo 30.
Non bastano: “Duecento assunzioni, per quattro Regioni, 138 Comuni e 4 uffici ricostruzione sono un numero ridicolo e offensivo – accusa il Sindaco di Teramo, Gianguido D’Alberto – senza considerare il fatto che, dallo Sbloccacantieri a oggi, sono già passati quasi cinque mesi e di quelle duecento assunzioni non si sa più nulla, ma intanto ci siamo già “mangiati” quattro mesi di copertura finanziaria sui diciotto previsti”.
Manca l’ordinanza del commissario Farabollini, che spieghi come assumere quei duecento. Poi si dovranno fare i concorsi. E non è l’unica ordinanza che il terzo commissario nominato in tre anni non ha ancora firmato: “Dal primo gennaio 2019 non c’è più un soldo per le case popolari e mi autodenuncio perché noi abbiamo fatto gare senza coperture di spesa e tutto ciò nell’attesa che il commissario Farabollini rinnovasse l’ordinanza”, ha spiegato alla Commissione Ambiente della Camera, durante un’audizione sul nuovo decreto terremoto, il presidente della Regione Abruzzo Marco Marsilio, aggiungendo: “Sono dieci anni, dal terremoto dell’Aquila che affrontiamo il tema della ricostruzione, il tempo è un fattore vincolante per la ricostruzione ma se si fa tardi i nostri bei borghi rischiano di diventare solo dei bei presepi vuoti”.
Già, i presepi: manca solo un mese al quarto Natale fuori casa per quattromila teramani.
“Dall’Irpinia a oggi, l’Italia non ha imparato nulla”
“Abbiamo sentito un forte boato e il pavimento che ci sfuggiva da sotto i piedi”. Ha ancora la paura nella voce, Sandro Bracciotti di Balsorano nel raccontarci il sisma, intensità 4.4 che giovedì sera ha fatto tremare la terra al confine fra Abruzzo e Lazio (epicentro fra Balsorano, provincia de L’Aquila e Sora in provincia Frosinone) ed è stata avvertita anche a Roma e a Napoli. Le persone rientrate in casa dopo essersi riversate in strada, poco dopo la mezzanotte sono state svegliate da un’altra scossa di 3.5.
“Si tratta di una nuova faglia, sotto osservazione, diversa da quella de L’Aquila, in una zona altamente sismica. Nel 1654 Sora venne rasa al suolo”, ci spiega Carlo Meletti, direttore della sezione di Pisa dell’INGV e uno degli autori del modello di pericolosità sismica in Italia su cui si basa la normativa delle costruzioni. “Una faglia, recentemente, poco attiva che potrebbe generare anche terremoti forti” L’Appennino che si avvicina all’Adriatico è un processo inarrestabile? “Sì. Tutta la penisola, da milioni di anni, si sta spostando verso l’Adriatico con velocità diverse fra il lato adriatico e quello tirrenico. Quello adriatico essendo più veloce provoca una lacerazione lasciando spazio dove le faglie attive generano terremoti e provocano il ribassamento delle valli. Fra qualche decina di milioni di anni il mare Adriatico non esisterà più e la penisola italiana si troverà contrapposta alla Costa dei Balcani”. La sola salvezza resta la tanto promessa e disattesa prevenzione. “Anche se fra 20 anni, grazie alla ricerca, qualcuno riuscisse a prevedere i terremoti, potremmo salvare vite umane che, ovviamente, non è poco, ma non l’economia, invece, se avessimo edifici sicuri non avremmo vittime e neppure danni. Sono 30 anni che faccio questo mestiere, ho iniziato a occuparmi di terremoti da quello dell’Irpinia, ero ancora studente universitario, e nulla è cambiato. In 50 anni dal sisma del Belice a oggi, passando per l’Irpinia, il Friuli, L’Aquila, l’Emilia, per la ricostruzione abbiamo speso 150 miliardi di euro senza contare il terremoto del centro-Italia dove i costi si stimano attorno ai 20,25 miliardi. Se oggi non spendo 1 euro in prevenzione, domani ne spendo 5 per ricostruire. Nel 1960 in Cile – continua il dottor Meletti – ci fu il terremoto di magnitudo 9.5, il più forte mai registrato al mondo, lo tsunami attraversò tutto l’Oceano Pacifico. Ricostruirono tutto e il sisma di magnitudo 8.8 del 2010 non causò vittime e solo danni lievi. Gli americani, andati lì per capire come fosse stato possibile, hanno scoperto che la legge, approvata per la ricostruzione, stabiliva che il proprietario di una casa che non aveva rispettato le norme antisismiche ne restava responsabile anche dopo la vendita. In Italia, se vendo una casa è obbligatorio presentare la certificazione energetica ma non quella antisismica”. Sconcertante. “A L’Aquila, sono crollate anche case nuove ed edifici dove erano state apportate modifiche”. Come la Casa dello Studente. “E come la scuola di San Giuliano di Puglia dove il peso del piano aggiunto ha fatto crollare l’intera ala”.
Eni e la Virgin Naphta Amara faceva affari con l’Iran fin dal 2015
C’è anche l’operazione Virgin Naphta a preoccupare Eni. Oltre alla nave con il petrolio sbagliato, la White Moon, e alla vendita del polietilene ad alta densità, esiste anche un altro affare realizzato da Ets (Eni Trading&Shipping, l’azienda del gruppo che si occupa della compravendita di prodotti petroliferi) con Napag, la società riferibile a Piero Amara, ex avvocato esterno dell’Eni, arrestato a febbraio 2018 e indagato a Milano, Roma e Messina.
È l’estate 2018. Il responsabile Products Trading di Ets, Alessandro Des Dorides, acquista alcuni carichi di Virgin Naphta, un derivato del petrolio, per rivenderlo subito: è un’operazione in cui Ets fa solo da intermediario. Il primo acquisto è del 12 luglio e il prodotto viene caricato il 21 luglio. Segue un secondo acquisto il 2 agosto, con carico il 21 agosto. Un terzo, del 4 ottobre, viene cancellato il 30, ma comunque pagato il 26 di quel mese. Per le due forniture andate a buon fine viene utilizzata la petroliera Biendong Victory, che batte bandiera vietnamita. In entrambi i casi – dicono i documenti – la nave imbarca la Virgin Naphta nel porto di Sohar, nell’Oman, e la scarica nei porti di Fujaira e Jebel Ali, negli Emirati Arabi Uniti. L’affare è realizzato in euro: strano, per operazioni petrolifere che sono sempre regolate in dollari. Eni, dopo lo scoppio dello scandalo Amara, compie alcune verifiche, interroga i provider BigOceanData e Reuters e scopre che il 16 e 18 luglio la Biendong Victory era nei pressi del terminale di Bandar Abbas, in Iran. Da lì il 21 si sposta, presumibilmente già carica, al largo del porto di Sohar, dove è localizzata in ancoraggio, ma non agganciata al terminale. Eppure un documento (Bill of Lading) dice che il 21 la nave è stata caricata a Sohar. I dati dei provider lo smentiscono: la linea di galleggiamento è di 10,7 metri il 18 luglio, quando la nave si allontana dalle acque dell’Iran, e resta identica quando arriva nelle acque dell’Oman e poi degli Emirati. Nel giugno 2019 Eni compie ulteriori verifiche: al terminale di Sohar non c’è traccia dei due carichi di Virgin Naphta.
Chi è il venditore della Virgin Naphta a Ets? La società Napag, dell’imprenditore Francesco Mazzagatti, ma con sede nello studio romano dell’avvocato Amara. Dopo le verifiche, risulta chiaro che Ets ha venduto un prodotto petrolifero presentato come omanita, ma in realtà iraniano, agli Emirati, arcinemici dell’Iran. È la terza operazione Eni “irregolare” a emergere come realizzata dalla Ets di Alessandro Des Dorides con la partecipazione di Napag. La prima era scattata nel marzo 2018, quando Ets aveva avviato trattative per 25 mila tonnellate di polietilene ad alta densità (Hdpe), forniti da Napag e da rivendere a una società con base a Singapore, la Coral Energy. La Ets paga in anticipo a Napag 25,9 milioni di euro. Poi la Coral svanisce e l’affare sfuma. Ma la Procura di Milano sospetta che l’operazione volesse mascherare il pagamento del silenzio di Amara, che un mese prima, il 6 febbraio 2018, era stato arrestato per aver comprato sentenze e avrebbe potuto fare dichiarazioni pericolose per Eni e i suoi vertici.
L’avvio degli affari di Amara e Napag con Ets è però di molto precedente. L’avvocato manda a Eni la sua prima email sull’argomento tre anni prima, il 18 marzo 2015, per chiedere i prezzi di alcuni prodotti chimici, sostenendo di avere il mandato di una società sua assistita, la Qatar Global Energy and Resources. Chiede due catalizzatori: il Pbe-1 e il Pbe-2, prodotti da Versalis (azienda chimica del gruppo Eni), che possono avere uso anche militare. Amara aggiunge alla richiesta una postilla che profuma di servizi segreti: “In merito a questi prodotti, la nostra agenzia interna dei servizi (Aise) ci ha comunicato che, se necessario, ci fornirà un documento che attesti che saranno loro a occuparsi della tracciabilità sulla sicurezza della destinazione”.
L’affare polietilene del marzo 2018 era in gestazione da molto prima. C’è un documento, nelle mani dei magistrati di Milano che hanno sequestrato il computer di Des Dorides, che è datato 3 febbraio 2017: in una cartella chiamata “Mantovani” è contenuta una sottocartella chiamata “Napag Sales” che a sua volta contiene una presentazione dell’affare polietilene, con la proposta di vendere 160 mila tonnellate di Hdpe, prodotto in Iran da Mehr Petrochemical, a una azienda cinese, la Zhejiang Future Petrochemical. Il “Mantovani” a cui è dedicata la cartella è Massimo Mantovani, fino all’ottobre 2016 capo dell’ufficio legale dell’Eni, poi numero uno della divisione Gas & Power e presidente di Ets. Un’altra email di Des Dorides, del 18 gennaio 2018 (un mese prima dell’arresto di Amara), dice: “Riproviamo prepagamento impianto Iran”. Già nell’ottobre 2017, Des Dorides aveva proposto a Eni uno schema di finanziamento in cui Ets, con i suoi prepagamenti, fa da banca per gli affari Napag di Amara e Mazzagatti.
C’è molto Iran, nella storia di Napag. È iraniana la famiglia Jahanpour, proprietaria della Qatar Global Energy che nel 2015 voleva comprare il Pbe-1 e Pbe-2; iraniano il polietilene comprato da Ets nel 2018; iraniano l’impianto di Tabriz che Napag progetta di ristrutturare; iraniano (dunque sotto embargo Usa) il petrolio fatto passare per iracheno della nave White Moon, bloccata davanti al porto di Milazzo nel giugno 2019. Ecco perché gli affari di Napag con Ets sono sempre regolati in euro e non in dollari.
Dopo la bufera, Eni cerca di correre ai ripari, cacciando quello che ritiene il gruppo “che si era infiltrato nell’azienda come un cancro”. Des Dorides è licenziato il 28 maggio 2019. Mantovani il 16 luglio. Amara è denunciato alla Procura di Milano il 15 luglio. Tutti cambiati i manager di Ets, che non potrà più fare intermediazioni, ma solo acquisti di prodotti per Eni.
Basterà, per diradare i sospetti sui vertici della compagnia e per convincere i magistrati di Milano che i rami tagliati non siano solo il capro espiatorio di questa brutta storia?
I soldi delle cosche nei ristoranti del Nord. Un giro di affari da dieci milioni di euro
Giro pizza in franchising e interessi criminali con personaggi collegati alla ’ndrangheta. La direzione distrettuale antimafia di Milano coordinata dalla dottoressa Alessandra Dolci mette a segno un’inchiesta storica. Per la prima volta, infatti, viene certificata l’infiltrazione nel ricco settore del food milanese, esploso dopo l’Expo. Dominus di questa storia è il calabrese Giuseppe Carvelli con alle spalle una condanna a vent’anni per traffico di droga. Si tratta dell’indagine Decollo dalla quale emergono i suoi contatti con i maggiorenti delle cosche Mancuso di Vibo Valentia e Pesce di Rosarno. Chiuso il cerchio criminale e dopo la galera, Carvelli detto Pino, stando alla ricostruzione della Procura e della squadra mobile coordinata dal dottor Marco Calì, mette sul piatto circa 400 mila euro per far partire l’affare dei ristoranti, la nota catena Tourlè che ha punti vendita in buona parte della Lombardia e anche in Piemonte. L’indagine, durata oltre un anno, si è chiusa ieri con nove arresti, diverse società e un albergo sequestrati, e un giro d’affari nel tempo quantificato in circa 10 milioni di euro. Accuse chiare: associazione a delinquere e trasferimento fraudolento di valori, il tutto, però, non è aggravato dal metodo mafioso. La mafia, in questo caso, resta sullo sfondo. Tra i soci di una delle srl messe in piedi da Carvelli c’è poi anche il nipote (non indagato) del boss Antonino Lamarmore, capo della locale di Limbiate, coinvolto nella maxi inchiesta Infinito con il ruolo di “mastro Generale della Lombardia e il compito di fungere da raccordo tra le locali”.
Nel 2015 Carvelli esce di galera, nonostante il suo fine pena fosse 2026. Nel 2017 risulta in affidamento ai servizi sociali e lavora al ristorante Tourlè di Sesto San Giovanni. La scalata inizia ora. Il marchio Tourlè viene dato in franchising dalla società Myob srl riconducibile, secondo la polizia, al figlio di uno stretto sodale di Carvelli. Le intercettazioni, poi, confermano il ruolo di regista dello stesso Carvelli che in auto spiega: “Sesto San Giovanni, Piacenza (…) quelli sono rimasti (…), Sesto San Giovanni l’ho fatto dopo, ci ho messo i soldi”. Ancora più esplicito: “Ma non c’è bisogno che io vada, io comando là, non è che comanda qualcun altro, là ci sono io (…). Io sono uno che i problemi li crea”. Nel febbraio del 2018, poi, la cordata capeggiata da Carvelli progetta di allargarsi anche nella città di Torino. Qui la società Torino food srl intende aprire un nuovo Tourlè. Ed è in questo frangente che, stando alla ricostruzione della Procura, emerge la caratura e il livello criminale di Carvelli. A fine marzo, addirittura, Carvelli ottiene il permesso per partecipare all’inaugurazione del locale. Di rientro a Milano in auto, Pino Carvelli spiega: “Lui è ammanicato, invece l’altro è tipo me, però a Torino, anzi forse un pochettino di livello più alto rispetto a me, però quello là, per cortesia, si è abbassato a me”. Il riferimento, secondo gli investigatori, è al rapporto con i clan. Un quadro supportato da un’altra intercettazione.
Dice Carvelli. “Prima di aprire il locale (di Torino) m’hanno mandato a dire: guarda digli a tuo zio (cioè Carvelli) perché c’è lui, e ci siete di mezzo voi, perché altrimenti non apriva”. Il procuratore aggiunto Alessandra Dolci ha poi spiegato: “Questa operazione rappresenta un momento significativo perché dimostra gli investimenti della criminalità organizzata nel campo del food in Lombardia”.
Francesco Messina, direttore centrale dell’Anticrimine ha sottolineato come “le cosche hanno soprattutto un potere economico, più che militare”. Del resto l’ultimo rapporto di Agromafie spiega come oggi in Italia la malavita organizzata controlla cinquemila locali della ristorazione con il business che è salito a 24,5 miliardi di euro nell’alimentare dal campo alla tavola.
“Rischio Casalesi” nella security dei lavori del metrò
Il contratto d’appalto sarebbe dovuto scadere il prossimo dicembre, ma un’interdittiva antimafia firmata dal prefetto di Milano Renato Saccone ha chiuso prima la partita. Destinataria dell’atto amministrativo è la società Newpol con sede a Paderno Dugnano specializzata nella guardiania armata di importanti cantieri e non solo. Negli ultimi anni la società ha gestito gli ingressi dei camion nei cantieri della linea 4 della metropolitana, una delle opere strategiche della nuova Milano. Con ricavi quantificati in circa mezzo milione all’anno. Tra i vari appalti vinti anche quello bandito dal Comune per la guardiania in alcuni cimiteri della città. Oggi, però, la prefettura di Milano certifica che questa società è a rischio di infiltrazione da parte di clan di camorra, quello degli Amato-Pagano e quello potentissimo dei casalesi.
Insomma, ancora una volta, la città si scopre vulnerabile agli interessi della mafia. Ma questa è anche una storia di ritardi e disattenzioni istituzionali. Newpol, infatti, dal 2015 chiede alla Prefettura di Milano di essere iscritta nella whitelist, ovvero l’elenco di quelle società che hanno un certificato antimafia. La Prefettura però non ha mai risposta alla richiesta e nonostante questo Newpol ha lavorato per M4, appalto non pubblico perché ottenuto dalla società privata Metroblu scarl. Nessuna reazione istituzionale anche dopo che M4 e soprattutto lo stesso comune di Milano nel 2017 inviano una richiesta di informazione antimafia già completa di tutti i presunti legami con i boss della camorra. Mentre Newpol controlla i cantieri della M4, un’indagine della Dda di Napoli fotografa i rapporti di alcuni titolari della società con i colletti bianchi sospettati di contatti con la camorra. È il 2017, ma nulla succede. Newpol continua a lavorare. La società nasce nel 2002 “e – si legge nell’interdittiva – negli anni ha subito vari passaggi di proprietà”.
Nel 2015 le quote sono suddivise tra due soggetti: Crescenzo Marrone e l’avvocato Michelina D’Aniello. Nel cda è presente anche Giusi Marrone, figlia di Crescenzo. Un anno dopo Newpol aderisce al consorzio Altair, di cui fa parte la società Dm security riferibile a Marrone fino al 2015. La società passerà di mano, amministratore unico Bartolomeo Vitiello “già condannato per mafia e considerato – annota la Prefettura – esponente del clan dei Casalesi capeggiato dal gruppo Bidognetti-Setola”. La Dm è stata interdetta nel giugno scorso dalla Prefettura di Napoli, dopodiché è finita in liquidazione volontaria. Fino a poco prima lo stesso Marrone, pur avendo passato le quote, aveva, secondo la Prefettura, interessi interni. Nel 2016-17, poi, viene resa pubblica l’indagine Nives che coinvolge il clan Amato-Pagano. C’è droga ma anche riciclaggio e colletti bianchi. Con questi, secondo la procura di Napoli, Crescenzo e Giusi Marrone (che non hanno precedenti per mafia) erano in contatto. Tanto che sarà disposto un sequestro delle quote della Newpol subito revocato. “A partire dal 2016 – si legge nel documento della Prefettura – a seguito delle vicende giudiziarie sono messe in atto secondo una sapiente concatenazione temporale e con cesellata precisione variazioni di assetti societari che hanno come fine la fuoriuscita solo formale della famiglia Marrone e di Michelina D’Aniello dalla gestione dell’impresa”. Nel gennaio scorso, poi, il prefetto di Milano dispone un’ispezione nella sede della società. Qui emergono due aspetti: gli interessi ancora presenti del duo Marrone-D’Aniello nonostante la società ora faccia capo ad altra persona e le intestazioni di quote societarie a ignari dipendenti. Uno di loro, sentito a verbale, dichiara che il suo ingresso nella società era legato alla volontà di D’Aniello di “apportare alcune modifiche all’assetto societario”. Tanto che l’operaio-socio dirà di non aver mai partecipato ad alcun consiglio di amministrazione. Un altro operaio dirà che lui riferisce gli andamenti dei lavori sempre a Marrone, nonostante il cambiamento degli assetti societari. Siamo, si badi, nel gennaio scorso.
Casalesi da un lato e camorra napoletana d’altro. Inoltre sono emersi, secondo il documento, rapporti di Marrone con un imprenditore titolare di due società già interdette per mafia. Per la Prefettura “il quadro complessivo” svela “l’esistenza di elementi di fatto rivelatori di pericoli di permeabilità della società con la criminalità organizzata”. Inoltre “la pletora di modifiche societarie (…) rappresenta un espediente finalizzato alla creazione di uno schermo formale dietro al quale dissimulare la proprietà reale dell’impresa”. E ancora: “Siffatte variazioni” sono “elusive della normativa sui controlli antimafia”. Dal primo ottobre Newpol ha lasciato i cantieri della M4.
Stadio: le condizioni di Sala che i club potranno ignorare
La decisione sullo stadio è arrivata: il sindaco Giuseppe Sala ha detto sì. La giunta del Comune di Milano ha concesso ieri a Milan e Inter la dichiarazione di “pubblico interesse” per il progetto di nuovo impianto da realizzare a San Siro. Con due condizioni: che non si abbatta il Meazza; e che non si superino i limiti di edificabilità concessi dal Piano di governo del territorio (Pgt). Due condizioni, però, difficili da mantenere. “Alla luce del percorso tecnico e politico compiuto finora”, dichiara Sala, “la giunta ha deliberato il pubblico interesse alla proposta di Milan Ac e Inter Fc sullo stadio. Ma eventuali altre opere (per esempio spazi commerciali, uffici, hotel) saranno autorizzate solo nella misura prevista dal corrente Piano di governo del territorio del Comune di Milano”.
Il sindaco prosegue affrontando il tema del destino del Meazza: “La costruzione di un nuovo impianto sportivo ha, comunque, aperto la questione sul futuro di San Siro. Ribadiamo la nostra volontà di rifunzionalizzarlo e pertanto siamo pronti a valutare soluzioni che non prevedano la rinuncia all’attuale impianto, bensì la sua rigenerazione attraverso altre funzioni”.
La dichiarazione di “pubblico interesse” fa scattare la legge sugli stadi, approvata nel 2017 dal governo Gentiloni. Permette a chi costruisce un nuovo impianto di vedere remunerato l’investimento, con la possibilità di edificare nell’area proprio quegli spazi commerciali, uffici e hotel citati da Sala, e con volumetrie doppie rispetto al Pgt: dunque 0,70, visto che il Piano appena varato dalla giunta di Sala concede in città lo 0,35. La dichiarazione del sindaco fa a pugni dunque con la legge. O, peggio, cerca di dare l’impressione che l’amministrazione si opponga alla grande operazione immobiliare proposta da Milan e Inter, sapendo che invece la legge la permette. E dunque darà il via libera ai quasi 300 mila metri quadrati di edificazioni, torri e grattacieli attorno al nuovo stadio: 180 mila metri quadrati di spazi commerciali, 66 mila di uffici, 15 mila di hotel, 13 mila per intrattenimento, 5 mila di spazio fitness, 4 mila di centro congressi. La legge sugli stadi indica anche tempi stringenti: una volta ottenuta la dichiarazione di “pubblico interesse”, Milan e Inter possono presentare il loro progetto (in parte già anticipato); poi il Comune ha 120 giorni per dire sì o no. Se dice sì, parte la costruzione; se dice no, la palla passa al governo, che potrà gestire direttamente l’operazione da Roma.
È chiaro che Milan e Inter non accetteranno di restare entro lo 0,35 indicato dal Pgt. Il loro progetto prevede di spendere 650 milioni per costruire lo stadio, da lasciare in proprietà al Comune, ma da affidare in concessione ai due club per 90 anni, che pagherebbero, a regime, un canone annuo di 5 milioni. I ricavi per Milan e Inter sarebbero di quasi 200 milioni l’anno, 70 dallo stadio e 125 da quello che chiamano “polo ricreativo”, commerciale e terziario, con il rientro degli investimenti in 32 anni.
Paolo Scaroni, presidente del Milan, ha già dimostrato di avere fretta: vuole ottenere tutti i permessi entro il 2021, perché in quell’anno a Milano ci sono le elezioni e, se Sala non fosse rieletto, i club dovrebbero ricominciare a trattare con un altro sindaco.
Che cosa farà ora Sala? Dopo aver detto di concedere solo lo 0,35, ha due strade davanti. O rompere con i club, che 120 giorni dopo la presentazione del loro progetto dovranno andare a Roma a chiedere al governo di rispettare la legge sugli stadi. Oppure potrà cominciare una trattativa per ridurre le volumetrie, aumentare un po’ il verde, alzare un poco il canone.
Ancor più difficile tenere in piedi il Meazza, dopo aver concesso di costruire un nuovo stadio. Costose le manutenzioni, difficile trovare usi alternativi alle partite, per coprire i costi. Lo stadio milanese viene usato per l’incontro annuale dell’arcivescovo di Milano con i cresimandi e per una decina di grandi concerti: un’attività certo non sufficiente a mantenere la struttura. Ma Sala rivendica di aver fatto le cose per bene: “Sulla questione stadio ci siamo sempre mossi con trasparenza e coerenza. Da subito avevamo detto che avremmo coinvolto prima il Consiglio comunale e, dopo aver avuto il parere di chi rappresenta i cittadini, ci saremmo assunti la responsabilità di decidere”. I club protestano: “Ci riserviamo di analizzare l’atto e valutare se le condizioni poste siano compatibili con la fattibilità e la sostenibilità economica del progetto”. Le incertezze sul futuro restano molte.
Corruzione, indagati a Roma due commissari di Astaldi
La telefonata che ha fatto finire sul registro degli indagati con l’accusa di corruzione in atti giudiziari due commissari giudiziali su tre del concordato di Astaldi e cioè Stefano Ambrosini e Francesco Rocchi, in concorso con l’asseveratore, nominato dalla società, Corrado Gatti, è avvenuta il 4 febbraio 2019.
Il professore di economia all’università di Roma Corrado Gatti, 44 anni, parla con uno dei tre commissari della più ricca procedura degli ultimi anni: il commercialista romano Francesco Rocchi.
Rocchi chiede a Gatti di inserire nella sua relazione sul piano di risanamento un compenso più alto per lui e gli altri commissari. Ambrosini è indagato perché per i pm avrebbe condiviso il progetto con Rocchi mentre il terzo commissario Vincenzo Ioffredi è estraneo e non è indagato.
I pm hanno perquisito il 30 ottobre Gatti, i due commissari, più un quarto professionista. Sono stati sequestrati cellulari e pc dalla Guardia di Finanza. Le intercettazioni, con i trojan iniettati in molti cellulari, sono in corso da quasi un anno e riguardano altri scenari, altre società, altre procedure. Astaldi è finita nella rete per caso.
In questa telefonata del 4 febbraio ballano 15 milioni. Così la sintetizza la Finanza e poi i pm di Roma nel decreto di perquisizione. “Gatti parla dell’onorario dei commissari dicendo che il valore minimo è pari a 21 milioni”.
La questione va spiegata. I compensi sono fissati dai giudici fallimentari e commisurati all’attivo e al passivo del gruppo in crisi, seguendo una tabella di minimi e massimi. Quindi Gatti e Rocchi sanno che la torta da dividersi tra i tre commissari oscilla da 21 a 36 milioni.
Gatti al Fatto spiega: “Io non posso suggerire o stabilire il compenso dei commissari. Perché lo stabilisce un giudice. Posso solo dire se sia all’interno delle famose tabelle con i minimi e i medi”. L’asseveratore però attesta anche se quel compenso è sostenibile nell’ambito del piano? Gatti al Fatto sul punto risponde “Questo sì”.
E di questo gli parla quel giorno di febbraio il commissario: “Rocchi – sintetizzano i pm – fa il seguente commento: ‘Se quelli sono i numeri non andranno mai oltre il minimo, sarebbe una follia, per cui secondo me se tu ti metti i medi sei più che prudente’. Gatti replica – prosegue la sintesi dei pm – che per ora avevano indicato il minimo pari a 21 milioni di euro mentre i medi sono pari a 36 milioni di euro. Rocchi chiede: ‘Ti sposta molto se tu metti il medio?’, Gatti risponde che deve fare una verifica poi – proseguono i pm riportando quanto scritto dalla GdF – chiede conferma di quanto detto da Rocchi e in particolare dice: ‘Ma tu dici di valutare di mettere il dato medio?’. Rocchi risponde di sì spiegando che Stefano Ambrosini sarebbe orientato su quello commentando: ‘Stefano è l’unica cosa di cui si sta realmente preoccupando… mi sta scrivendo da Abu Dhabi’”.
Stefano Ambrosini, 50 anni, è un professore ordinario dell’Università del Piemonte Orientale, ed è considerato il professionista “più nominato” nelle procedure concorsuali “ricche”: nel 2011 il governo Berlusconi lo ha nominato nella terna dei commissari Alitalia. Il ministro dello Sviluppo del governo Renzi, Federica Guidi, lo ha fatto commissario di Tirrenia e Siremar. Lo troviamo poi in Itavia, Infocontact, Bertone SpA, Consorzio Asa, Fondazione Salvatore Maugeri Irccs, Porto di Imperia, Fashion Network del Gruppo Burani e Grandi Molini Italiani.
Ambrosini da qualche anno ha spostato il baricentro della sua attività a Roma con studio in via Pierluigi da Palestrina. Secondo Rocchi sarebbe lui a insistere per il mega-compenso e Gatti effettivamente presenta una prima relazione nella quale propone i medi di tariffa: 36 milioni, 12 milioni a testa.
Più avanti però, nella seconda relazione per il piano di risanamento aggiornato, scende ai minimi di tariffa.
Il 5 agosto il concordato è stato ammesso dalla sezione fallimentare (presidente Antonino La Malfa, giudice delegato Angela Coluccio) ma deve ancora ottenere l’approvazione dei creditori e l’omologa del Tribunale. I compensi non sono stati pagati.
I procuratori aggiunti Paolo Ielo e Rodolfo Sabelli e i sostituti Fabrizio Tucci, Rosalia Affinito e Gennaro Varone, contestano anche l’istigazione alla corruzione, a carico del solito Ambrosini insieme al professionista romano Marco Costantini per un altro fatto. Secondo i pm Ambrosini avrebbe pensato di dare un incarico a Costantini. Però, poiché il presidente della sezione fallimentare del tribunale Antonino La Malfa aveva sconsigliato la sua nomina in quanto Costantini è considerato suo amico e questo lo avrebbe imbarazzato e poiché anche il giudice delegato Coluccio riteneva che Costantini avesse già avuto troppi incarchi legali, i due avrebbero pensato a uno stratagemma: l’incarico sarebbe stato affidato a una società che poi avrebbe fatto fare il lavoro a Costantini. Il presidente La Malfa, che non c’entra nulla nell’indagine, era ignaro. La società milanese contattata per prendere l’incarico formalmente però si è rifiutata.
La Procura di Roma in una nota precisa che “l’accertamento dei fatti mira a garantire che la procedura sia tenuta indenne da ogni possibile illecito, ove sussistente, e comunque da ogni dubbio a tale riguardo”. Le indagini, prosegue il comunicato “riguardano persone fisiche “e non coinvolgono le attività tuttora in corso dell’azienda”. Astaldi vanta 10 mila dipendenti. Intanto Rocchi si è dimesso e al Fatto dice: “I miei comportamenti sono stati sempre improntati all’assoluto rispetto delle norme. Sono certo di poterne dare piena evidenza e darò la mia più piena collaborazione agli inquirenti. Nel frattempo ho ritenuto opportuno e doveroso secondo i miei principi morali e professionali rassegnare le dimissioni al fine di non creare alcun potenziale pregiudizio alla procedura al cui buon esito è legata la salvaguardia di migliaia di posti di lavoro”. Astaldi fa sapere di non avere avuto alcuna comunicazione dai commissari dopo le perquisizioni.