Dietrofront di De Luca: non assume i navigator

La pace per i navigator campani è durata meno di un mese, giusto il tempo di far cambiare ancora idea al governatore dem Vincenzo De Luca. Sono già tornati nel limbo i 471 che a giugno hanno vinto il concorso per diventare figura chiave nello sviluppo del reddito di cittadinanza. “Apprendiamo con rammarico – ha scritto ieri l’Anpal Servizi – che la giunta non ha approvato la convenzione che definiva le modalità di assistenza tecnica dei navigator”. “All’impegno sottoscritto e diffuso a mezzo stampa – hanno aggiunto dall’agenzia guidata da Mimmo Parisi – non corrisponde la volontà del presidente De Luca di far partire le attività dei navigator”. Parole “sconcertanti” per il vicepresidente regionale Fulvio Bonavitacola: “La Regione – ha detto – non deve regolare con alcuna convenzione l’utilizzo di personale selezionato e convenzionato da Anpal”.

Come si è arrivati allo scontro? Che è successo nel frattempo? In teoria, niente che giustifichi una nuova clamorosa retromarcia. In pratica, a influire è stato il mutare degli equilibri politici. L’alleanza elettorale tra M5S e Pd ha avuto un pessimo risultato in Umbria e non sarà replicata nelle prossime tornate, nemmeno in Campania. Quindi a De Luca non serve più blandire gli umori dei pentastellati, che sbandierano il reddito di cittadinanza – e i relativi navigator – come una conquista epocale, ai quali aveva provato a rivolgere timide attenzioni dopo anni di insulti reciproci. A partire da una telefonata a un consigliere regionale, Tommaso Malerba, finita in pasto ai giornali e rispedita al mittente. De Luca – va ricordato – aveva per mesi rifiutato i navigator Anpal Servizi destinati alla sua Regione, 471 su un totale di 3 mila.

Occhio però alla tempistica. Il 7 ottobre il ministro del Sud Giuseppe Provenzano, che ad agosto da responsabile nazionale lavoro del Pd aveva severamente censurato lo stallo sui navigator campani, incontra De Luca e dichiara che sta lavorando per sbloccare la situazione. Il giorno dopo De Luca rilancia: “Sono pronto a convincere Anpal ad assumerli, mi impegno ad andare a Roma per questo”. Il 17 ottobre la stretta di mano a uso fotografi tra De Luca e Parisi, tra sorrisi e fanfare. Tutto risolto? Pareva. Il 27 ottobre c’è il tracollo in Umbria della nuova alleanza. E ieri il dietro front della Campania sui navigator. Questioni politiche a parte, fonti vicine al dossier raccontano di tante richieste di modifica al testo della convenzione pervenute da De Luca e, tra queste, una tanto singolare da sembrare un pretesto: la Campania voleva che i navigator non operassero fisicamente nei centri per l’impiego, ma nelle sedi Anpal.

Condizione difficile da realizzare, perché l’intesa Stato-Regioni dice che i navigator devono fornire assistenza tecnica proprio agli addetti degli ex uffici di collocamento nella creazione dei piani personalizzati destinati ai beneficiari del reddito di cittadinanza. Il patto per il lavoro, recita la legge che ha istituito la misura contro la povertà, va firmato nei centri per l’impiego. La presenza dei navigator in queste strutture è logica conseguenza delle norme. Tra l’altro, il ruolo dei navigator è stato definito da governo e Regioni il 16 aprile: in quell’occasione, i governatori accettarono il personale precario di Anpal Servizi da assumere subito perché l’esecutivo garantì anche l’assunzione di 11.600 nuovi operatori stabili nei centri per l’impiego regionali entro un triennio. De Luca incassò la promessa e non si oppose, salvo poi rifiutare i navigator motivando la scelta con la volontà di “non creare nuovo precariato”.

Sardegna: Italia Viva recluta la Barracciu, condannata a 3 anni

“Una festa di battesimo bellissima”. Il saluto di Francesca Barracciu a Teresa Bellanova, giunta a Cagliari per il primo incontro ufficiale di Italia Viva, ha un po’ il sapore del riscatto per l’ex sottosegretaria del governo Renzi ed ex candidata alla presidenza della Regione Sardegna, travolta nel 2013 dall’inchiesta sui fondi ai gruppi e sostituita in corsa da Francesco Pigliaru, il professore che poi vinse le competizioni regionali 2014 alla guida della coalizione di centrosinistra con l’investitura del Pd.

Ossia il partito dal quale Barracciu proveniva e da cui si è sentita abbandonata dopo lunghi anni di militanza ed un’ascesa quasi inarrestabile: prima sindaco di Sorgono per due mandati, poi consigliera regionale nel gruppo di area soriana, per un breve periodo segretaria del partito, poi candidata alle Regionali. Infine eurodeputata e sottosegretaria ai Beni Culturali con il ministro Franceschini fino al rinvio a giudizio nell’ottobre 2015 che ha portato alla condanna in primo grado a quattro anni per peculato aggravato legato all’utilizzo dei cosiddetti fondi ai gruppi, ridotti a tre anni e tre mesi in appello lo scorso mese di maggio.

Una vicenda che ora attende l’ultimo capitolo in Cassazione, ma che non impedisce alla Barracciu di militare, senza ruoli definiti per ora, nella nuova creatura di Matteo Renzi. “ Ho aderito con gioia”, spiega dal palco di un’affollatissima sala in un albergo cagliaritano “perché per aderire ad un’iniziativa come questa bisogna avere la passione e la voglia di misurasi con la politica che guarda ai problemi delle persone e dei territori”. Nel giorno della festa Francesca Barracciu decide di riprovarci, sentendosi a casa in un partito “democratico, liberale e garantista”, spiega con un rapido cenno alla sua condanna. “Sapete qual è la mia vicenda e quanto posso essere sensibile a questo tema. Il garantismo è un valore della politica ed è un principio di civiltà, mentre il giustizialismo fa del nostro paese un luogo poco affidabile per l’economia, gli investimenti, e nell’applicazione dei principi della Costituzione. Spero ancora di potermi impegnare in questo nuovo contenitore per le pari opportunità fra le persone, nella politica, nei territori”. Prima di Francesca Barracciu ha parlato Giuseppe Luigi Cucca, unico parlamentare del Pd sardo ad aver aderito al partito di Renzi ed ora assurto al ruolo di coordinatore regionale di Italia Viva, dopo essere stato segretario regionale del Pd nel breve interregno congressuale fra la gestione Soru e quella di Emanuele Cani, che ha riportato il baricentro del partito sardo a sinistra.

Gli ultimi mesi da segretario regionale, seguiti all’elezione di Zingaretti “sono stati mesi di totale isolamento, privi di un’interlocuzione con Roma”. Un’amarezza passata che lascia spazio all’entusiasmo nel giorno del lancio ufficiale nell’isola: “Ho deciso di esserci con convinzione, sin dalla sera in cui Bonifazi mi ha annunciato per telefono che il giorno seguente Matteo avrebbe lasciato. Ho ritrovato il gusto di fare politica. E prima o poi molti altri ci verranno appresso”.

Via D’Amelio, altro cambio di versione

Nelle indagini sul depistaggio di via D’Amelio, la Procura di Caltanissetta è a caccia di due utenze, una mobile e una fissa, quest’ultima “riservata’’, oggi non più attiva, ma in uso 25 anni fa “verosimilmente’’ ai pm allora titolari delle indagini, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, utenze sulle quali alcune telefonate con Scarantino non vennero registrate “per motivi tecnici’’. Non solo, “si è potuto constatare che tutte le pagine che compongono il brogliaccio (con le trascrizioni di 19 bobine, ndr) risultano essere sottoscritte da “un agente e un ufficiale di pg’’ .

Lo scrive la Dia di Caltanissetta in una relazione di 15 pagine circa depositata agli atti del processo sul depistaggio, nel quale sono imputati tre componenti del gruppo Falcone-Borsellino: Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, e oggi quell’agente e quell’ufficiale di pg potrebbero essere chiamati a spiegare i motivi di quelle interruzioni.

L’utenza è 0934599051 e, scrive la Dia che ha analizzato i brogliacci delle bobine custodite presso la procura di Messina che indaga i pm Petralia e Palma, “stando alle informazioni assunte presso il personale in servizio alla procura era in uso ai magistrati per le conversazioni ritenute riservate’’. Scarantino chiamò questo numero il 3 maggio 1995, ma la conversazione non venne registrata “per motivi tecnici’’. E altre due telefonate del 3 e 4 maggio ’95 non registrate per lo stesso motivo risultano all’utenza 336886560, “numero – ha scoperto la Dia – intestato alla procura di Caltanissetta che non faceva parte delle utenze fornite da Rosalia Basile (moglie di Scarantino, ndr) durante l’udienza del 21 marzo 2019’’.

Nella relazione la Dia chiede alla Procura di “visionare i fascicoli personali dei sostituti procuratori in servizio in quel periodo’’ per identificare il magistrato interlocutore del falso pentito. Nella relazione emergono discrasie nella presenza dei componenti il gruppo Falcone-Borsellino nello staff che si occupò delle intercettazioni mentre Scarantino era a San Bartolomeo a Mare, in Liguria: alcuni di essi non sarebbero risultati in missione dagli elenchi forniti dalla mobile di Palermo pur essendo presenti. E altre anomalie sono emerse dalle deposizioni di altri due del gruppo, Giampiero Guttadauro e Angelo Tedesco: il primo ha raccontato di essere stato inviato a Pianosa, dov’era rinchiuso Scarantino, “per fare presenza: stavo tre o quattro ore al massimo, capisco che per questo c’era il personale di polizia penitenziaria, ma se il procuratore Tinebra diceva a La Barbera di mandare personale a Pianosa…”. Tedesco ha ricordato di avere compiuto sopralluoghi notturni alla Guadagna con Scarantino, circostanza che aveva sempre negato prima, anche in aula: il pm Luciani ha chiesto la trasmissione degli atti al suo ufficio per procedere nei suoi confronti per depistaggio o falsa testimonianza.

Soros, gli Agnelli e Sindona jr: chi finanzia la galassia Radicale

Si fa presto a dire Radicali, o anche solo “galassia Radicale”, con un’espressione che vorrebbe tener dentro associazioni, partiti e movimenti le cui differenze sono invece profonde. Dopo il congresso del Partito Radicale del 2016 l’ala sconfitta – i Radicali Italiani, di cui fanno parte Emma Bonino e Riccardo Magi – si è messa in proprio, alleandosi poi con Bruno Tabacci per formare Più Europa. Ma le differenze riguardano anche – se non soprattutto – le casse della “fu galassia”. Da una parte il Partito Radicale di Rita Bernardini e Maurizio Turco, con le sue 1.300 tessere e gli ultimi tre anni impiegati a ripagare i debiti, dall’altra un movimento che alle Politiche ha contato su donazioni milionarie.

Dove prendono i soldi, allora, i Radicali Italiani?

Dalle tessere, innanzitutto. Al 20 giugno gli iscritti erano 5.807 al costo variabile dai 25 ai 50 euro, buoni comunque a garantire un introito vicino ai 200.000 euro. Poi ci sono i donatori. Per le Politiche del 2018 sono stati circa 900, per un totale di 538.815 euro. Niente male, anche perché Più Europa può contare su sostenitori molto facoltosi. In testa c’è il professor Peter Baldwin: docente di Storia, filantropo e marito di Lisbet Rausing (erede dei fondatori della TetraPack), ha donato 100.000 euro alla lista e un altro milione e mezzo ai singoli candidati, tra cui 260.000 per Benedetto Della Vedova. Oltre ai coniugi Baldwin c’è poi George Soros, che a gennaio 2019 ha sborsato 99.789 euro, stessa cifra girata dalla moglie Tamiko Bolton. Senza dimenticare che già nel 2018 la Open Society Foundation dei due coniugi aveva scucito 50.412 euro direttamente al movimento, che si aggiungono ai 298.550 dollari elargiti un anno prima a sostegno di “Ero straniero – l’umanità che fa bene”, una campagna per l’abolizione della legge Bossi-Fini.

Il nome della Open Society compare poi anche nel bilancio 2017 (l’ultimo disponibile online) dell’Associazione Luca Coscioni, nota soprattutto per le battaglie sul fine vita che hanno costretto Marco Cappato a diversi guai giudiziari. La donazione è di 85.844 euro per coprire un progetto per la legalizzazione della cannabis, che si sommano ai 41.504 donati invece l’anno prima all’associazione No Peace Without Justice, fondata da Emma Bonino.

Per le Europee 2019, poi, Più Europa ha potuto contare su altri preziosi proventi. Trentamila euro li ha sborsati Emma Bonino, ben 45 mila Marco Marazzi, avvocato e già vicepresidente della Camera di Commercio Ue in Cina. E poi altri simpatizzanti, come Lupo e Delfina Rattazzi, nipoti di Gianni Agnelli e sponsor rispettivamente per 5.000 e 4.000 euro; o Marco Sindona (1.000 euro), figlio di Michele e sostenitore dei Radicali fin dai tempi di Marco Pannella. Lo stesso Pannella che per anni ha fatto da collante per anime, enti e personalità diverse, le cui frizioni sono esplose alla sua morte.

Ecco che allora a fare da contraltare ai Radicali Italiani e alle loro donazioni milionarie c’è un Partito Radicale tenuto in piedi solo dai tesseramenti. Nel 2017 “i proventi pari a 602.033 euro sono dovuti al 99,9% da contributi degli associati (601.093 euro)”, idem era stato nel 2016 (543.880 euro di proventi, 543.244 dagli associati). Il tutto in un mare di difficoltà, perché dopo la scissione il Partito Radicale si è dovuto far carico di oltre 1 milione di euro di debiti accumulati nei dieci anni precedenti dalle varie associazioni della galassia.

Per tre anni, il Partito ha dovuto quasi triplicare le tessere, arrivando ai 3.000 degli ultimi tre anni, licenziando anche 8 persone nel 2015. Oggi quel debito è ripagato, ma le tessere sono tornate su livelli ordinari, col risultato di una struttura ben diversa da Più Europa.

Oltre ai finanziamenti privati e ai contributi del 5×1000 destinabili alle associazioni, c’è poi una parte di proventi pubblici alla fu galassia. Radio Radicale, da tempo nel mirino del M5S, riceveva fino allo scorso anno 8 milioni dallo Stato frutto di una convenzione sulla trasmissione delle sedute del Parlamento, e altri 4 come fondo per l’editoria. Le cose però potrebbero cambiare presto: il fondo per l’editoria dovrebbe scomparire per tutte le testate entro il 2022 e la convenzione, al momento in proroga, potrebbe essere oggetto di una nuova gara entro tre anni.

Anche le associazioni, di volta in volta, stipulano convenzioni con le istituzioni per alcuni progetti. Per dirne due, nel 2016 No Peace Without Justice ha messo insieme 1.154.463 euro da “contratti con enti pubblici”, mentre Nessuno Tocchi Caino nel bilancio 2017 segna 234.879 euro dall’Ue e altri 65.600 come “contributi da enti pubblici”.

“Torture e omicidi nei lager libici”: chiesti 2 ergastoli

“Nessuno aveva accesso alle cure. Chi aveva problemi veniva lasciato morire. Ci chiedevamo come fosse possibile che umani facessero cose del genere ad altri essere umani”. Lo racconta chi è rimasto vivo tra più di 600 persone rinchiuse per mesi in un ex rifugio militare libico, dove si sarebbero praticate sevizie, torture e omicidi, prima della partenza per l’Italia.

Viene chiamata “La casa bianca”, a pochi km dal porto di Sabratha, in Libia, il luogo dove sarebbero state eseguite le torture per cui oggi sono imputate tre persone, accusate di essere gli scafisti arrivati nell’aprile 2017 a Lampedusa con altri migranti di cui erano gli aguzzini. Per due di loro, Goodness Uzor e Godwin Nnodum, è stato chiesto l’ergastolo: sono accusati anche di omicidio; mentre per Bright Oghiator la richiesta dei pm è di 30 anni di reclusione. “I migranti venivano bastonati, sequestrati, picchiati e torturati fino alla morte – racconta il pm Renza Cescon – con i cadaveri che poi venivano gettati nell’immondizia”. Chi osava ribellarsi veniva punito, anche con il fuoco: “Io mi ribellavo per il modo in cui ci trattavano – spiega un testimone mostrando le ustioni – ho fatto vedere che avevo una gamba completamente infetta e gonfia. Così un gruppo di arabi mi hanno detto ‘va bene’, hanno cosparso di benzina la gamba e con un fiammifero mi hanno dato fuoco”. A molti di loro, stando ai dettagli del racconto, veniva impedito anche di avere accesso al cibo e all’acqua: “Ci hanno rinchiusi tre mesi in una casa senza la possibilità di lavarci”. Così racconta una donna.

I più fortunati uscivano da lì con malformazioni e gravi ferite, per poi partire per Lampedusa. Altri morivano prima. “In una stanza di circa 8 metri per 15 venivano richiuse anche 100/150 persone – ha raccontato al pm uno dei migranti salvati – arrivati alla ‘casa bianca’ ci toglievano tutto, anche il telefonino. Pagavamo l’acqua da bere e ci facevano dormire a terra sui tappeti”. Stando ai racconti dei migranti le persone rinchiuse in quella prigione venivano ammassate in uno stanzino: “Ci dicevano ‘go down’ dentro una piccola stanza e per velocizzare l’atto ci lanciavano pietre, mattoni o ci picchiavano con i bastoni”.

Sulla pelle di queste persone ci sono le cicatrici, fatte con il calcio del fucile, con bastoni o pietre. “Io sono arrivato alla fine in Italia, almeno. Il mio amico invece – racconta un altro migrante salvato – è morto. Avevamo chiesto solo acqua e sapone per lavarci e hanno cominciato a picchiarci”.

Le violenze, commesse, secondo la parte civile, dai tre imputati, sarebbero continuate per mesi e non risparmiavano neanche i bambini. Il 15 novembre gli avvocati Diego Giarratana, Dino Giardina e Gloria Sedita procederanno con le arringhe difensive, dopo aver trovato dei testimoni che hanno riferito di non aver visto Bright Oghiator alla “casa bianca” e di non aver visto praticare torture agli altri due imputati per i quali è stato chiesto l’ergastolo.

L’emergenza non è in mare: “60 mila irregolari in più”

Sono solo stime, non esiste per definizione l’anagrafe degli stranieri in situazione irregolare, privi cioè di un titolo di soggiorno valido. L’aumento, però, è la (facile) previsione del rapporto Openpolis sui “Centri d’Italia”, intitolato “La sicurezza dell’esclusione”, che analizza i risultati della “stretta del decreto Sicurezza al sistema di accoglienza” per i richiedenti asilo, cioè l’effetto delle norme volute nell’ottobre del 2018 dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini: l’abolizione della protezione umanitaria prevista in precedenza accanto all’asilo e alla protezione internazionale; l’esclusione dei richiedenti asilo dal circuito Sprar, cioè i centri di accoglienza di più ridotte dimensioni orientati all’integrazione degli stranieri, ora riservati a chi ha già ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato (o la protezione internazionale).

A fronte di una riduzione drastica degli sbarchi (dai 180 mila del 2016 ai 119 mila del 2017, l’anno dell’accordo con i libici negoziato da Marco Minniti; fino ai 22 mila del 2018 quando sono arrivati i gialloverdi e ai 9.944 dei primi dieci mesi di quest’anno), Openpolis calcola che a fine anno gli irregolari saranno 591 mila, ovvero 58 mila in più rispetto alla stima della Fondazione Ismu al 31 dicembre 2019 (533 mila su circa 5,5 milioni di stranieri in totale). Potrebbero essere 693 mila alla fine del 2020 e 753 mila nel 2021.

Il conto di Openpolis si basa essenzialmente sull’analisi dell’andamento delle richieste di protezione. Le decisioni di rigetto, con la stretta salviniana seguita a quella minnitiana, sono passate dal 67% all’80 per cento dal 2018 al 2019; a fine anno si avvicineranno a 80 mila, gran parte di loro diventeranno irregolari perché – come è noto – non c’è modo di ottenere permessi di soggiorno per motivi di lavoro. Se si calcola che altri 5 mila stranieri circa l’anno entrano in Italia via terra, spesso senza chiedere asilo, la popolazione immigrata cresce, di poco, soprattutto nella sua porzione priva di diritti. “L’esito annunciato del decreto Sicurezza – osserva Oggi Openpolis – è quello di un’esplosione dell’emergenza degli irregolari. Di conseguenza si dovrà registrare una probabile crescita dei fenomeni di disagio sociale, di sfruttamento da parte del lavoro nero, di illegalità e di criminalità. Fenomeni che costituiscono le precondizioni per un aumento della devianza, del conflitto sociale e del razzismo”.

Era prevedibile e infatti l’avevamo previsto, il 22 settembre di un anno fa, sulla prima pagina del Fatto che riproduciamo qui a destra. Tanto più che il governo Conte 1 ha ridotto i fondi per i centri di accoglienza da 35 euro pro-capite al giorno a una media di 25, favorendo di fatto i grandi centri (Cas) dove gli stranieri sono “parcheggiati” senza programmi di integrazione (Openpolis cita il rapporto di “InMigrazione” di cui il Fatto ha dato conto nei mesi scorsi), peraltro in genere fonte di tensione sul territorio. Gli stranieri all’interno del circuito dell’accoglienza sono circa 100 mila all’agosto 2019, 30 mila in meno rispetto alla fine del 2018.

“L’integrazione – scrive Openpolis – non è più, neanche formalmente, un obiettivo generale del sistema di accoglienza ma diventa un privilegio per pochi, i soli rifugiati e titolari di forme residuali di protezione. Per la grande massa dei richiedenti asilo, invece, è stato tracciato un percorso di esclusione. Che si articola attraverso una prima tappa nei “nuovi” Cas, dove i migranti attendono senza poter fare nulla l’esito della domanda di asilo che sarà negativo nell’80% dei casi. La tappa finale, per la grande maggioranza di loro, sarà la caduta nell’irregolarità”.

Gli irregolari dovrebbero essere espulsi, ma come tutti sanno i rimpatri sono difficili e costosi. Mancano i posti nei Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio, ex Cie), le identificazioni sono complesse, anche oggi che la detenzione amministrativa può durare sei mesi; i Paesi d’origine non hanno alcun interesse a riprendersi i loro concittadini che dall’estero spediscono a casa significative rimesse. Nel 2018, tra Minniti e Salvini, i rimpatri erano stati 5.615; a fine 2019 saranno di meno a fronte di spese che potrebbero essere in forte crescita: 11,4 milioni previsti per quest’anno contro i 3,8 del 2018, che poi però erano lievitati fino a 28 milioni. Vale sei milioni solo l’aumento di spesa per i Cpr (+46,9% dal 2018 al 2019), già programmato dal governo Gentiloni.

Quella dell’aumento degli irregolari sul territorio nazionale è la vera “emergenza” di cui il governo dovrà tenere conto nella revisione dei decreti cosiddetti Sicurezza, annunciata per la fine dell’anno, o al massimo gennaio, dal ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese.

Il quieto Ufficiale demorenziano che si ritrovò ministro coi grillini

Ricordate di aver mai visto Lorenzo Guerini, l’attuale ministro della Difesa, accapigliarsi in un talk show? Ma in generale: avete mai visto Lorenzo Guerini? Le teche Rai conservano video-epifanie fugaci tipo Prima Repubblica e un’ospitata del maggio 2018 a Porta a Porta, un tête-à-tête di mezz’ora con Vespa da deputato semplice a discettare dell’accattivante tema, poi obliterato dalla realtà, “Il Pd e il governo gialloverde”. Capelli grigi all’umberta, eloquio in pelle di daino, accento notarile-lodigiano (nessuna asperità, nessuno spigolo, molti “io credo” detti col tono di chi se avesse tempo di credere non starebbe dove sta), Lorenzo Guerini incarna l’ineffabile anima democristiana del Pd.

Di lui si sanno poche cose oltre l’astratta laconicità del curriculum, facilmente reperibile online (una mezza paginetta in Pdf nel sito di Riparte il futuro, uno degli inutili addentellati digitali di Renzi). Lodigiano, laureato, sposato, automunito.

Sindaco di Lodi per due mandati dal 2005. Riesce a schivare il caso Gianpiero Fiorani, stimatissimo sportellista della Banca Popolare, che per Guerini “porta il nome di Lodi nel mondo”, almeno fino a che non lo arrestano per associazione a delinquere, truffa e appropriazione indebita (“È un pugno nello stomaco”). A quel tempo Lorenzo è presidente di Anci Lombardia: è in questa veste che conosce Matteo Renzi, l’ancora innocuo sindaco di Firenze col pallino di rottamare il Pd.

Lorenzo, che di lavoro fa l’agente assicurativo, ne è ragionatamente attratto. Superando il deficit di non essere toscano, conquista Matteo con la meno renziana delle doti: la riflessione. Viene eletto alla Camera. È accanto a Renzi quando questi vince le primarie del 2013; diventatone portavoce, riceve dalle sue mani la carica di vicepresidente del Pd, in tandem con Debora Serracchiani. La cosa avrebbe schiantato chiunque; non Lorenzo, che, come la talpa di Marx, scava per salire.

Cardinalesco, non ciarliero, civile, dunque renziano atipico, Guerini – che Renzi chiama “l’Arnaldo” (per Forlani) – ascende al potere per centimetri, mai per strappi. In quel 2014 di perdizione, se Verdini è il dilatatore dell’operazione Nazareno, Guerini ne è il lubrificante. Una vita da mediano, da pontiere tra Renzi e resto del mondo (in merito all’elezione di Mattarella, alla candidatura di Martina, alla segreteria di Zingaretti, al Conte 2, persino al manifesto di Calenda, per “sollecitare energie”). Le cronache devono contentarsi di chiamarlo “il Gianni Letta di Renzi”, a dirne l’elusività; ma Guerini è anche altro: è il ceto medio dentro un partito ex popolare poi elitario; è un’iniezione di industrioso cattolicesimo di provincia nella capitale espugnata; è uno che parla come Andreotti dentro una combriccola di digitali compulsivi, tipo i bancomat in latino nel cuore di Roma, a Città del Vaticano.

Nel marzo 2018 Renzi vuole tantissimo il Copasir (almeno quanto avrebbe voluto la Cybersecurity, da affidare a Marco Carrai), dove vede bene il discreto Luca Lotti o addirittura Maria Elena Boschi. Prevale il buon senso. Alla Leopolda l’annuncio, che è zampata proprietaria: “Oggi posso realizzare il sogno della mia vita e fare il conduttore: fate un applauso a Lorenzo Guerini che adesso è il presidente del Copasir!”.

Il saper-fare, i modi geometrici cartesiani e l’impersonalità assurta a stile gli valgono una menzione di Conte in piena crisi di governo: “L’unico esponente dell’opposizione che ho sentito o incontrato è stato Lorenzo Guerini”. A differenza della Trenta, lui piace ai generali.

Nell’interregno che anticipava l’autocombustione del Pd, Guerini non si schierò mai a favore di una corrente, né della “ditta”, né del metaforico (?) lanciafiamme neutralizzante. Oggi guida con Luca Lotti la corrente pseudo-oltre-renziana Base Riformista. Sarebbe, questa Base Riformista (1727 fan su Facebook e un’ottantina di parlamentari), un progetto per “rilanciare il Pd”, e non si pensi che a ciò osti il fatto che uno dei due leader si sia auto-sospeso proprio dal Pd. Come dice il portavoce di Br Andrea Romano, la corrente – lanciata due giorni dopo la Leopolda 2019 – è nata per “dare stabilità al governo”, e qui i ricettori dell’opportunità vanno in tilt, se si pensa che i suoi aderenti sono (stati) tutti arditi renziani (Marcucci, Morani, Faraone, Fiano, etc.), i quali oggi, con destrezza da gattopardi, non seguono l’avventuriero in Italia Viva, ma restano nel Pd, che ancora rantola un poco, forse a finire il lavoro.

Nella mitopoiesi renziana Guerini è un esecutore. Supplisce con metodo e controllo al marasma dei pasticcioni. L’anno scorso pure lui riteneva che gli elettori lo volessero all’opposizione: mai #senzadime sguaiato à la Scalfarotto, si è ritrovato con agio ministro coi grillini.

Un piccolo mistero ci intriga: il 27 dicembre del 2007 (governo Prodi) gli è stato dato il titolo di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica. Dice il Quirinale: “A nessuno può essere conferita, per la prima volta, un’onorificenza di grado superiore a quella di Cavaliere”, e quella di Ufficiale lo è, la gerarchia essendo, a scendere: Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone, Cavaliere di Gran Croce, Grande Ufficiale, Commendatore, Ufficiale, Cavaliere. “Fanno eccezione alcune situazioni particolari”. Non risulta che Guerini sia mai stato Cavaliere: deve aver meritato la ricompensa eccezionalmente, per “benemerenze acquisite verso la Nazione nel campo delle lettere, delle arti, della economia e nel disimpegno di pubbliche cariche e di attività svolte a fini sociali, filantropici ed umanitari, o per lunghi e segnalati servizi nelle carriere civili e militari”. Aggiorneremo freneticamente la pagina Facebook di Base Riformista in attesa di delucidazioni, o – se del caso – del conferimento del Gran Cordone.

“Mattarella può anche far votare subito ma così il taglio dei parlamentari decade”

Professor Flick, si parla insistentemente di una crisi di governo, mentre ancora non si è perfezionato l’iter della riforma costituzionale del taglio dei parlamentari. Cosa può accadere?

Quella riforma non è ancora entrata in vigore perché non è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti: entrerà in funzione solo in caso di mancata richiesta del referendum confermativo nei termini previsti dalla legge. Oppure quando si sarà svolta, con esito positivo, la consultazione popolare. Prima che si completi l’esito della riforma nessuno potrebbe impedire al presidente della Repubblica di sciogliere le Camere, ma in questo caso la riforma sul taglio dei parlamentari decadrebbe sic et simpliciter, come se non fosse mai stata approvata dal Parlamento. Ma il presidente si assumerebbe una responsabilità politica significativa impedendo la conclusione dell’iter della riforma.

E allora facciamo finta che il referendum si sia tenuto e sia stato confermato il taglio dei parlamentari. In quel caso che succede?

Succede che la promulgazione della riforma può avere luogo soltanto se eventuali elezioni potessero svolgersi con la legge elettorale attuale e con la modifica dei collegi elettorali. Le altre riforme che la politica si era impegnata a fare, per evitare disarmonie e disfunzioni, dovrebbero essere poi essere adottate dal Parlamento eletto con la nuova legge. L’unico vincolo insuperabile dal punto di vista costituzionale mi sembra quello della possibilità di celebrare in qualsiasi momento le elezioni con la legge attuale, nonostante il taglio dei parlamentari.

Scusi ma se la maggioranza va in crisi chi dovrebbe farsi carico di fare questa legge elettorale?

Guardi, il taglio dei parlamentari fin dal principio sarebbe dovuto andare di pari passo a tre altre riforme Costituzionali annunziate. Ossia l’equiparazione dell’elettorato attivo e passivo di Camera e Senato (oggi fissati a 18 e 25 anni); l’armonizzazione del numero dei delegati regionali rispetto alla procedura di elezione del Presidente della Repubblica e la modifica dell’elezione del Senato su base circoscrizionale anziché regionale come è attualmente. Invece si è deciso diversamente dimenticando questi ostacoli che pur non essendo impeditivi della promulgazione della riforma sul taglio dei parlamentari, non sono marginali. Insomma sono state fatte prevalere esigenze di natura politica su quelle di carattere squisitamente costituzionale, se non di buon senso.

Ci sono altre soluzioni?

Un’altra soluzione possibile potrebbe forse essere quella di rinviare di un anno il referendum confermativo nel caso di scioglimento delle Camere, in applicazione analogica della norma prevista per i referendum ordinari previsti dall’articolo 75 della Costituzione; in tal caso, evidentemente si andrebbe a votare senza il taglio dei parlamentari.

Secondo lei è invece possibile una promulgazione condizionata della riforma?

Non credo proprio, sarebbe una contraddizione in termini e non è prevista in alcun modo.

E un’attesa tecnica prima della promulgazione?

Sarebbe più logico allora un rinvio al Parlamento della riforma già confermata dal referendum, prima della promulgazione in analogia con quanto previsto per le leggi ordinarie dall’articolo 74 della Costituzione. Ma si tratta di un ragionamento azzardato perché in questo caso sarebbe anche già intervenuta l’espressione della volontà popolare.

Ma come siamo arrivati a tanto?

A me sembra che se siamo arrivati a questo punto è perché si è presa l’abitudine di utilizzare la Costituzione e le sue riforme come strumenti della politica ordinaria da parte di tutti i contendenti. Penso ad esempio accanto alle complicazioni di cui abbiamo parlato, alla proposta dell’attuale opposizione di un referendum per trasformare il sistema elettorale da proporzionale a maggioritario attraverso tagli chirurgici dell’attuale legge: è ordinaria, ma con evidenti effetti costituzionali.

Nel caso si trovasse al posto di Mattarella cosa farebbe?

Non lo invidio e non mi permetto di prendere il suo posto nemmeno idealmente.

Taranto e Regionali: generali e soldati 5S contro il loro “capo”

Il Movimento che voleva essere liquido si è fatto gassoso, cioè grosso modo incontrollabile. Così generali e soldati semplici invocano una segreteria politica, e il capo politico un po’ risponde e un po’ divaga parlando di fase costituente e facilitatori. Gli eletti vogliono andare alle Regionali da soli ma il leader preferirebbe non presentarsi, per evitare di contarsi. Soprattutto, diversi parlamentari urlano che uno scudo per i padroni dell’Ilva non lo voteranno mai e poi mai, e lui invece vuole, anzi deve riprovare a rimetterlo in campo perché altrimenti per il governo potrebbe essere già il rompete le righe. Per titoli, è lo stato dei rapporti tra (molti) Cinque Stelle e Luigi Di Maio. E sono guai, non solo per il Movimento. “Da giorni nelle riunioni i parlamentari del Pd ci chiedono come siamo messi, come sono i nostri rapporti con Di Maio” racconta un sottosegretario grillino. E dai dem segue sempre una raccomandazione: “Attenti, se voi non reggete andiamo tutti a casa”. Il capo del M5S ovviamente lo sa benissimo: e in sostanziale assenza di Beppe Grillo, “provato”, raccontano, da problemi personali, tenta di rimettere assieme i pezzi.

Per questo in un venerdì in cui Roma annega nella pioggia incontra e sente più o meno tutti i 5Stelle da sentire. Comincia con i direttivi di Senato e Camera, e siamo già al paradosso, perché a Montecitorio i grillini non riescono (e non vogliono) eleggere un nuovo capogruppo. Comunque sia, Di Maio e i vertici parlamentari discutono ad ampio raggio. E il primo nodo sono le alleanze, perché è ormai chiaro che diversi maggiorenti del cosiddetto “caminetto” vogliono schivare le urne in molte regioni. “Inutile perdere energie andando continuamente a elezioni, meglio fermarsi e lavorare alla riorganizzazione” teorizza un big.

Anche perché “ad oggi in regioni come l’Emilia-Romagna siamo attorno al 5 per cento, che senso avrebbe rimediare un’altra batosta?”. Ergo, l’idea sarebbe quella di presentarsi solo in Campania e in Puglia, dove sembrano esserci condizioni politiche e sondaggi migliori per il Movimento. E fermarsi altrove, anche per favorire una silente desistenza con il Pd. Di Maio inizialmente non era troppo convinto, raccontano. Ma nelle scorse ore si è persuaso. E allora il capo lo dice così ai direttivi del M5S: “Se vogliamo presentarci in Emilia-Romagna o in Calabria servono candidati credibili e accordi con liste civiche”. Altrimenti “meglio creare civiche senza il nostro simbolo”. La soluzione preferita, per la Calabria. Ma gli emiliani presenti storcono il naso. “Sono già settimane che andiamo avanti con i tavoli di lavoro nelle vari province e tutti, eletti e attivisti, siamo concordi nel voler fare la lista” conferma al Fatto il senatore Gabriele Lanzi, di Sassuolo (Modena). E la fase costituente? “Capisco che i processi possano essere ravvicinati, ma la lista va fatta, da qui a pochi giorni dobbiamo trovare un candidato presidente.

Se ci mettiamo d’impegno possiamo arrivare a un ottimo risultato”. Ma l’ipotesi di restare a guardare non piace neppure all’ex ministro e tuttora senatore Danilo Toninelli, che su Facebook è corrosivo: “Noi siamo il M5S, e a me pare che non candidarsi sia l’esatto opposto di quel ‘non mollare mai’ che da sempre ci ispira. Una scelta che sembra voler servire solo a non incolpare qualcuno in particolare, Luigi (Di Maio, ndr) in primis, per l’ennesima sconfitta”.

E Barbara Lezzi sottoscrive: “Condivido la riflessione di Toninelli, il Movimento non ha alcuna ragione per fermarsi”. La sola certezza è che mercoledì il capo rivedrà gli eletti emiliani e calabresi. Ma sopra di lui incombe un nuvolone sempre più denso di malessere, perché ormai quasi tutti gli chiedono di scegliere, tra il ruolo di ministro e capo politico. E pretendono una segreteria politica, che decida assieme a lui. “Serve più collegialità, Luigi” gli ripetono in riunione. E lui replica che certo, la riorganizzazione con i facilitatori nazionali e regionali servirà proprio a quello. E comunque lui a scegliere tra ministro e capo proprio non pensa. “Posso fare entrambe le cose” assicura nei colloqui privati con i big. Però ora a pesare è soprattutto l’inferno dell’Ilva. “Ad oggi i gruppi non reggerebbero un voto sull’immunità, soprattutto in Senato” è la verità che Di Maio e i dirigenti si raccontano.

D’altronde è difficile contare sulla tenuta dei parlamentari se alla Camera lunedì e martedì saranno costretti a fare delle pre-consultazioni per il voto sul capogruppo, dopo quattro fumate nere che sono il sintomo rumoroso dello scollamento interno. “Non ci sono i numeri” conferma Di Maio nelle riunioni. “Non riusciranno mai a convincere i pugliesi a votare lo scudo” sussurra una fonte di governo. I deputati tarantini Giovanni Vianello e Gianpaolo Cassese confermano: “Non voteremo l’immunità”. Ma anche la campana Doriana Sarli, vicina al presidente della Camera Roberto Fico, sale sulla barricate: “Lo scudo è assolutamente incostituzionale”. Martedì sarà assemblea congiunta dei parlamentari, con Di Maio. E il Movimento gassoso tornerà per forza solido: di rabbia.

“Un atto del Pd sullo scudo e il governo salta subito”

Per il Pd l’Ilva è la partita da dentro o fuori, e va giocata con lo scudo penale per Mittal. “Dobbiamo giocarci almeno questa carta per tenere l’azienda al tavolo, altrimenti il governo può anche finire qui”, riassume al Fatto un dem di primo piano. E ad Accordi & Disaccordi, il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio, suona la stessa nota: “Se il governo molla su Ilva non avrà più nessuna credibilità”. Ma il Luigi Di Maio che non controlla più i suoi gruppi parlamentari fiuta la trappola, mortale. E allora davanti a un pugno di ministri 5Stelle dentro la Farnesina rilancia, minacciando di rovesciare per primo il tavolo: “Se il Pd presentasse un emendamento con l’immunità verrebbe votato da una maggioranza diversa da quella di governo, e allora sarei io a salire al Quirinale”. Tradotto: se i dem proveranno a forzare cercando in aula i voti di Forza Italia e Lega, per i 5Stelle sarà già crisi di governo.

Così scandisce il capo politico del Movimento di fronte ai ministri più fidati, Stefano Patuanelli, Alfonso Bonafede, Riccardo Fraccaro e Vincenzo Spadafora. E incrociando voci e umori dei due principali fronti giallorossi, è evidente che il governo balla sull’orlo del precipizio. Tanto che nei Palazzi romani circola già una data per nuove elezioni, il 26 marzo. Classica reazione da paura di fine corsa, figlia di un’aria da trincea. E lo conferma il virgolettato di Di Maio diffuso dai suoi sulle agenzie: “Se il Pd presenta un emendamento per ripristinare lo scudo a Mittal è un problema per il governo”.

Però il no all’emendamento non è necessariamente un no allo scudo. Perché Di Maio dice ai suoi quanto ripetono anche i dem: “Dobbiamo togliere all’azienda almeno questo alibi”. Così, anche se al Forum dell’Ansa in mattinata ribadisce “no all’immunità”, il capo ragiona su uno scudo come quello proposto sul Fatto dal ministro dello Sviluppo economico Patuanelli. Cioè una norma che chiarisca quanto già previsto dall’articolo 51 del codice penale: “L’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità esclude la punibilità”. Soluzione accettabile anche per il Pd, che pare ormai aver archiviato l’emendamento. “Se lo inserissimo nel decreto fiscale sarebbe dichiarato inammissibile” riconosce un maggiorente dem. E in serata dai vertici del partito, letti gli avvertimenti di Di Maio, giurano: “Non forzeremo”. Però ora i giallorossi dovrebbero mettersi d’accordo su un provvedimento di tutto il governo, ossia un decreto apposito. Non semplice, visto anche il Consiglio dei ministri di mercoledì in cui sono volati stracci. Ma il vero nodo è la frammentazione nel Movimento. “Ad oggi non abbiamo i numeri in Parlamento per far passare lo scudo” riconoscono gli stessi 5Stelle. E la pioggia di agenzie contrarie di ieri, soprattutto di parlamentari pugliesi, lo ha ricordato.

Così dal Pd ributtano la palla nel campo di Di Maio: “Spetta al capo tenere i suoi”. E il giovane ministro pensa a come trovare un punto di caduta con i parlamentari. Magari spiegando che l’immunità soft è l’unica strada per mettere in difficoltà Mittal. “Di certo Luigi non ha paura del voto anticipato” assicura una fonte di governo. Difficile uscire da un grattacapo del genere. E lo sa bene la Lega, pronta a seminare tossine con un suo emendamento a favore dello scudo in Senato, un invito a colpire anche per qualche grillino critico. E infatti Matteo Salvini già (ri)provoca: “Da altre forze politiche ci chiedono di continuare la propria battaglia con la Lega. Se sono persone perbene, nessun problema ad accoglierle”. Di Maio invece prova a guardare avanti, e chiede al Pd di stringere i bulloni alla maggioranza: “Dobbiamo metterci di nuovo al tavolo per creare un patto di governo più stringente”. Ma per farlo bisogna prima uscire dalla palude dell’Ilva. Vivi.

@lucadecarolis