I segnali di fumo tra i due lati del campo di battaglia tarantino sono già iniziati, come pure la trattativa (al buio) per arrivare a un sanguinoso scontro politico-giudiziario. ArcelorMittal sa che la via legale per rescindere il contratto di Ilva è assai meno facile di come ha lasciato intendere con le sue mosse e ha capito che il sistema Italia è più coeso di quanto pensasse: la decisione unilaterale di Banca Intesa – peraltro azionista delle acciaierie col 5,6% – di sospendere per 12 mesi le rate di mutui e prestiti a dipendenti e fornitori della fabbrica ha spiegato al colosso franco-indiano che il Paese ha ancora qualche capacità di reagire collettivamente. Il governo d’altra parte, seppure non in maniera compatta e nonostante il comportamento inaccettabile della controparte, al momento non considera alcuna alternativa rispetto alla gestione ArcelorMittal dell’ex gruppo dei Riva.
Insomma, trattare si deve e dalla multinazionale sono iniziate a giungere – seppur indirettamente – aperture sostanziali e proposte di “mediazione”. Il punto non è tanto la tutela legale – che pure verrà pretesa, se non altro nella forma soft che vede d’accordo anche il ministro grillino Patuanelli – quanto le perdite che ArcelorMittal va accumulando nella gestione delle acciaierie per effetto di un piano industriale quantomeno fantasioso e delle pessime condizioni del mercato: ad oggi, sostiene l’azienda, il rosso è di due milioni al giorno, forse più. Anche ammesso che si tratti di una esagerazione (coi commissari di governo perdeva la metà), si tratta di un buco da centinaia di milioni di euro all’anno.
Arcelor deve smettere di perdere sangue in Puglia ed è questo che chiede al governo. La multinazionale, in sostanza, è disposta a dimezzare i 5mila esuberi proposti: si tratterebbe di 2.500 licenziamenti, che però il governo vorrebbe trasformare in altrettante “Cassa integrazione” (circa 1.300, peraltro, sono già in Cig da luglio) in attesa dell’avanzare del Piano ambientale e di un aumento futuro della produzione, che per l’azienda attualmente non può superare i 4 milioni di tonnellate l’anno invece dei 6 milioni promessi nel piano industriale.
Cosa vuole in cambio di tale gentilezza (tanto più che il risparmio da esuberi per l’azienda vale comunque poche decine di milioni)? Un grosso sconto sul prezzo di acquisto a partire dal canone d’affitto in vigore (45 milioni di euro a trimestre) fino al maggio 2021 quando, teoricamente, l’ex Ilva diverrà di proprietà del colosso franco-indiano: la cifra proposta da ArcelorMittal – la cui entità è l’unico motivo per cui vinse la gara contro la cordata tra Jindal, Cdp, Arvedi e Del Vecchio – fu di 1,8 miliardi totali. Dimezzarlo come chiede la multinazionale significa un risparmio di circa 1 miliardo di euro, capace di assorbire le perdite di un anno e mezzo, forse due, nella gestione degli stabilimenti in Italia.
Non è chiaro se il governo cederà su tutto, ma non pare che dalle parti di Palazzo Chigi e nei partiti di maggioranza vogliano fare le barricate: non è escluso che una parte dei soldi che servono a Mittal possano però arrivare, oltre che dallo “sconticino” richiesto, dall’ingresso di un qualche veicolo statale nel capitale.
Se non è pronto per le barricate, se non altro Giuseppe Conte ha voluto dimostrare di persona a Taranto quanto consideri la questione Ilva prioritaria. Ieri il premier ha partecipato al consiglio di fabbrica, prendendosi gli applausi degli operai presenti se non altro per il coraggio di essersi presentato: “Non ho la soluzione in tasca. Vedremo”, ha spiegato all’ingresso, promettendo però “battaglia”: “Se vanno via saremo durissimi”.
Conte a Taranto ha scoperto una città più divisa di quella raccontata dai media. Fuori dalla fabbrica, mentre era in corso lo sciopero di 24 ore indetto da Uilm e Fiom, è stato accolto da ex operai, associazioni ambientaliste e comitati di quartiere: “Uno deve avere il coraggio di affrontarla questa situazione e chiudere la fabbrica”, gli ha gridato una donna. “Qui ci sono più morti che nascite: abbiamo fiducia nelle istituzioni, non ce la faccia perdere”, gli ha detto una madre del quartiere Tamburi, quello più vicino all’Ilva e più affumicato dai suoi miasmi.
Ovviamente dentro la fabbrica il clima era diverso: la preoccupazione era tutta per il mantenimento dei posti di lavoro. È la normalità di una città in cui molti, moltissimi, sono costretti a conoscere l’inumano dilemma “salute o stipendio?”. Se il premier non ci aveva mai riflettuto, gli saranno di certo bastate le poche parole di un operaio alla portineria D: “Io lavoro qui e ogni giorno mi vergogno perché so che creo un danno alla mia famiglia”.