Non Italsider, ma sindaci e rentier vollero il Mostro in città

Ma come si è potuto costruire a Taranto il colosso fumigante del Centro siderurgico a ridosso della città, attaccato al quartiere Tamburi? Uno se lo chiede spontaneamente di fronte alle immagini della tragedia ambientale tarantina o alle cifre agghiaccianti dell’aumento delle forme cancerogene. E magari si risponde accusando di faciloneria i “boiardi di Stato” dell’Italsider responsabile del gigante di Taranto.

Invece no. La responsabilità maggiore ricade sulle amministrazioni comunali e regionali del tempo, tutti sindaci democristiani (in particolare Angelo Monfredi) i quali stravolsero le scelte della siderurgia di Stato. Questa si era affidata ad una delle più apprezzate società di pianificazione, la Tekne di Milano, diretta da Roberto Guiducci, sociologo e ingegnere, la quale aveva incaricato un maestro dell’urbanistica, Giovanni Astengo, del piano territoriale. In base ad esso (leggete bene) il IV Centro Siderurgico doveva sorgere a 7 Km dall’abitato potendo fruire di una sua fonte idrica autonoma. Fra l’Italsider e i primi quartieri urbani potevano essere piantati tutti gli alberi che si volevano. No, i proprietari dei terreni più prossimi alle case pressarono i politici locali e la stessa Italsider, che ebbe in grave torto di piegarsi a quelle assurde richieste. Da qui trae origine la tragedia ambientale della siderurgia a carbone nella città.

Non basta: avviato nel 1965 l’enorme complesso, si costruì in tutta tranquillità, nelle aree ancora libere fra la fabbrica e la città, il quartiere Tamburi. Condannato in partenza a essere fra i più inquinati della terra e i suoi abitanti alle più gravi malattie. Così la siderurgia carbonifera entrava in città appestandola. Mentre si svuotava e deteriorava l’antico centro storico restaurato alla fine degli anni 80 dal bravo architetto Franco Blandino.

Conti pessimi e crisi dell’acciaio in Europa: cosa c’è dietro la fuga del colosso da Taranto

L’abrogazione dello scudo penale sull’Ilva? Un’ottima scappatoia che consente ad ArcelorMittal di chiedere il recesso dal contratto con il quale ha affittato l’ex Italsider con l’obbligo di acquistarla. Una scappatoia prevista dall’addendum contrattuale siglato 14 mesi dal primo produttore mondiale: la revoca dell’immunità penale e amministrativa è indicata quale causa legittima per recedere. Ma le vere ragioni dell’uscita sono altre: la crisi dell’acciaio europeo e i conti del gruppo. Lo scudo penale per l’ex Ilva viene introdotto dal decreto Renzi del 5 gennaio 2015 e reiterato nel 2017, ma la Consulta il 23 marzo 2018 lo dichiara incostituzionale. A giugno 2015 la magistratura chiede il sequestro dell’altoforno 2 di Taranto per la morte dell’operaio Alessandro Morricella, ma a settembre 2015 la Procura pugliese, accogliendo un’istanza della società, annulla il sequestro a condizione della messa in sicurezza. Eppure proprio la norma del decreto Renzi, nonostante fosse già dichiarata incostituzionale, viene inserita nel contratto firmato da ArcelorMittal il 18 settembre 2018.

La gara per rimettere in carreggiata l’Ilva, dopo il tracollo dei conti e il commissariamento straordinario, inizia nel 2016 con l’interesse di una ventina di gruppi. Nel 2017 si riduce allo scontro tra la cordata AcciaItalia (Jindal, Cassa Depositi e Prestiti, Arvedi e Del Vecchio) e il consorzio Am Investco Italy, composto al 94,4% da ArcelorMittal e dal gruppo Marcegaglia al quale poi subentra Intesa Sanpaolo.

All’epoca il mercato consente di nutrire ottimismo, con la produzione italiana tornata oltre i 24 milioni di tonnellate, anche grazie all’industria di Taranto che però continua a perdere denaro. Il 5 giugno 2018 ArcelorMittal vince la gara e il primo novembre Ilva entra a far parte del gruppo lussemburghese. Ma da allora, se nel mondo le cose non vanno male, in Europa l’acciaio è tornato in crisi. WorldSteel, l’associazione di settore, prevede che a fine 2019 la domanda globale di acciaio crescerà su base annua del 3,9% a 1.775 milioni di tonnellate e l’anno prossimo di un altro 1,7% a 1.806. A trainarla sarà la Cina (+7,8% a 900,1 milioni di tonnellate) che da sola produce metà dell’acciaio totale, mentre il resto del mondo segnerà appena +0,2% a 874,9.

L’Europa è il secondo mercato mondiale, ma quest’anno la domanda è calata dell’1,2% a 166,8 milioni di tonnellate e solo l’anno prossimo dovrebbe tornare a 168,6. Eppure la siderurgia del Vecchio Continente sta tagliando la produzione. Tra le cause ci sono i dazi di Trump contro Cina, India e Turchia che hanno spinto i produttori di quei Paesi a inondare l’Europa del loro acciaio a basso costo. Il meccanismo di salvaguardia introdotto dall’Ue non riesce a fermare lo tsunami: i prezzi sono calati del 10% e molti impianti sono fuori mercato. Pesano anche la frenata della domanda del settore auto, in calo del 10%, e il rincaro delle materie prime.

A maggio ArcelorMittal ha così deciso di rinviare l’aumento della produzione dell’Ilva a 6 milioni di tonnellate, previsto per il 2020, e ha iniziato a tagliare di quasi 4,2 milioni di tonnellate, il 20% del totale, la produzione europea (che vale metà del suo fatturato). Dopo tre aumenti di capitale per 9,5 miliardi di dollari, nel piano al 2020 la società prevedeva di ridurre i debiti da 10 a 7 miliardi, ma il crollo verticale dei margini (nei conti di giugno erano 207 milioni da 1,43 miliardi dell’anno prima) non lo consentirà. L’azienda ha solo affittato l’ex Ilva per 180 milioni l’anno ma perde già, secondo stime di Reuters, circa 2 milioni al giorno. L’uscita dall’accordo consentirebbe ad ArcelorMittal un risparmio di circa 1 miliardo di euro l’anno e, grazie alla scappatoia legale, il colosso con sede a Lussemburgo ora può chiedere al governo il taglio della produzione e di 5mila dipendenti.

Quando per Mittal lo scudo penale non era “essenziale”

L’esimente penale per chi gestisce l’Ilva di Taranto è un tema scivoloso. Al di là del merito però, e persino del fatto che a oggi sia un falso problema, ArcelorMittal l’ha usata come una clava negli atti formali con cui ha annunciato l’intenzione di recedere dal contratto siglato con lo Stato il 31 ottobre 2018 per rilevare l’acciaieria. Problema: un paio d’anni fa non considerava affatto la cosa dirimente, un problema certo, ma non un ostacolo insormontabile. Andiamo con ordine. Questo scrive Arcelor lunedì: “Il Contratto prevede che, nel caso in cui un nuovo provvedimento legislativo incida sul piano ambientale dello stabilimento di Taranto in misura tale da rendere impossibile la sua gestione o l’attuazione del piano industriale, la Società ha il diritto contrattuale di recedere dallo stesso Contratto.

Con effetto dal 3 novembre 2019, il Parlamento italiano ha eliminato la protezione legale necessaria alla Società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, giustificando così la comunicazione di recesso”. Nell’atto di citazione depositato a Milano contro i commissari straordinari la società definisce lo “scudo penale” come “presupposto imprescindibile” del suo impegno a Taranto. E ancora: “La protezione legale costituiva un presupposto essenziale su cui Am Investco ha fatto esplicito affidamento – si legge nella lettera inviata ai sindacati – in mancanza del quale non avrebbe accettato di partecipare all’operazione né, tantomeno, di instaurare il rapporto disciplinato dal contratto”.

Non è così. E non solo perché nel contratto non è citata esplicitamente “l’esimente penale”, ma anche per un documento della stessa Am Investco, cioè la società attraverso cui ArcelorMittal ha preso l’ex Ilva. È il marzo del 2017 e la multinazionale franco-indiana s’avvia a fare la sua offerta “vincolante, irrevocabile e incondizionata” per rilevare le acciaierie italiane. In quel momento è in vigore lo scudo extralarge voluto da Matteo Renzi nel 2015, ma il decreto Milleproroghe ha appena modificato le norme su Ilva facendo slittare il completamento del piano ambientale all’agosto 2023.

Presentando l’offerta il 6 marzo, ArcelorMittal acclude l’allegato n. 15: “Nota su una questione normativa che intendiamo portare alla vostra attenzione”. La tesi della multinazionale, in breve, è che il Milleproroghe abbia allungato la scadenza del Piano ambientale, ma non quella dello scudo penale: “La modifica introdotta prevede che la durata del periodo di non punibilità applicabile ad acquirenti e affittuari non sia più allineata al termine ultimo per l’attuazione del Piano ambientale e che possa terminare al più tardi entro il 31 marzo 2019”. Insomma, come ha spiegato il ministro Stefano Patuanelli in Parlamento, allora l’esimente penale era sì un problema, ma non certo “un presupposto essenziale” per decidere di investire a Taranto: tanto che Arcelor lo solleva mentre presenta l’offerta vincolante di acquisto per poi firmare, mesi dopo, un contratto in cui la questione non è menzionata.

Solo in seguito,l’Avvocatura generale dello Stato invierà un parere al ministero dello Sviluppo in cui si sostiene che in realtà il decreto Milleproroghe, rinviando l’attuazione del Piano ambientale per Ilva, aveva automaticamente allungato anche la tutela penale per i gestori, poi eliminata per ArcelorMittal col decreto Crescita della primavera 2019. Insomma, la multinazionale comprò Ilva essendo convinta che lo scudo sarebbe terminato il 31 marzo 2019: difficile sostenere in tribunale, dove si avvia questo contenzioso, che fosse invece un “presupposto imprescindibile” dell’investimento. Anche per questo i legali dell’azienda hanno avanzato anche altri motivi di rescissione del contratto, tra cui addirittura “il dolo” dei commissari, che avrebbero nascosto il reale stato dell’altoforno 2. E qui, la confessione: “Anche se la protezione legale fosse ripristinata, non sarebbe possibile eseguire il contratto”.

Partita la trattativa sull’Ilva: metà esuberi, ma metà soldi

I segnali di fumo tra i due lati del campo di battaglia tarantino sono già iniziati, come pure la trattativa (al buio) per arrivare a un sanguinoso scontro politico-giudiziario. ArcelorMittal sa che la via legale per rescindere il contratto di Ilva è assai meno facile di come ha lasciato intendere con le sue mosse e ha capito che il sistema Italia è più coeso di quanto pensasse: la decisione unilaterale di Banca Intesa – peraltro azionista delle acciaierie col 5,6% – di sospendere per 12 mesi le rate di mutui e prestiti a dipendenti e fornitori della fabbrica ha spiegato al colosso franco-indiano che il Paese ha ancora qualche capacità di reagire collettivamente. Il governo d’altra parte, seppure non in maniera compatta e nonostante il comportamento inaccettabile della controparte, al momento non considera alcuna alternativa rispetto alla gestione ArcelorMittal dell’ex gruppo dei Riva.

Insomma, trattare si deve e dalla multinazionale sono iniziate a giungere – seppur indirettamente – aperture sostanziali e proposte di “mediazione”. Il punto non è tanto la tutela legale – che pure verrà pretesa, se non altro nella forma soft che vede d’accordo anche il ministro grillino Patuanelli – quanto le perdite che ArcelorMittal va accumulando nella gestione delle acciaierie per effetto di un piano industriale quantomeno fantasioso e delle pessime condizioni del mercato: ad oggi, sostiene l’azienda, il rosso è di due milioni al giorno, forse più. Anche ammesso che si tratti di una esagerazione (coi commissari di governo perdeva la metà), si tratta di un buco da centinaia di milioni di euro all’anno.

Arcelor deve smettere di perdere sangue in Puglia ed è questo che chiede al governo. La multinazionale, in sostanza, è disposta a dimezzare i 5mila esuberi proposti: si tratterebbe di 2.500 licenziamenti, che però il governo vorrebbe trasformare in altrettante “Cassa integrazione” (circa 1.300, peraltro, sono già in Cig da luglio) in attesa dell’avanzare del Piano ambientale e di un aumento futuro della produzione, che per l’azienda attualmente non può superare i 4 milioni di tonnellate l’anno invece dei 6 milioni promessi nel piano industriale.

Cosa vuole in cambio di tale gentilezza (tanto più che il risparmio da esuberi per l’azienda vale comunque poche decine di milioni)? Un grosso sconto sul prezzo di acquisto a partire dal canone d’affitto in vigore (45 milioni di euro a trimestre) fino al maggio 2021 quando, teoricamente, l’ex Ilva diverrà di proprietà del colosso franco-indiano: la cifra proposta da ArcelorMittal – la cui entità è l’unico motivo per cui vinse la gara contro la cordata tra Jindal, Cdp, Arvedi e Del Vecchio – fu di 1,8 miliardi totali. Dimezzarlo come chiede la multinazionale significa un risparmio di circa 1 miliardo di euro, capace di assorbire le perdite di un anno e mezzo, forse due, nella gestione degli stabilimenti in Italia.

Non è chiaro se il governo cederà su tutto, ma non pare che dalle parti di Palazzo Chigi e nei partiti di maggioranza vogliano fare le barricate: non è escluso che una parte dei soldi che servono a Mittal possano però arrivare, oltre che dallo “sconticino” richiesto, dall’ingresso di un qualche veicolo statale nel capitale.

Se non è pronto per le barricate, se non altro Giuseppe Conte ha voluto dimostrare di persona a Taranto quanto consideri la questione Ilva prioritaria. Ieri il premier ha partecipato al consiglio di fabbrica, prendendosi gli applausi degli operai presenti se non altro per il coraggio di essersi presentato: “Non ho la soluzione in tasca. Vedremo”, ha spiegato all’ingresso, promettendo però “battaglia”: “Se vanno via saremo durissimi”.

Conte a Taranto ha scoperto una città più divisa di quella raccontata dai media. Fuori dalla fabbrica, mentre era in corso lo sciopero di 24 ore indetto da Uilm e Fiom, è stato accolto da ex operai, associazioni ambientaliste e comitati di quartiere: “Uno deve avere il coraggio di affrontarla questa situazione e chiudere la fabbrica”, gli ha gridato una donna. “Qui ci sono più morti che nascite: abbiamo fiducia nelle istituzioni, non ce la faccia perdere”, gli ha detto una madre del quartiere Tamburi, quello più vicino all’Ilva e più affumicato dai suoi miasmi.

Ovviamente dentro la fabbrica il clima era diverso: la preoccupazione era tutta per il mantenimento dei posti di lavoro. È la normalità di una città in cui molti, moltissimi, sono costretti a conoscere l’inumano dilemma “salute o stipendio?”. Se il premier non ci aveva mai riflettuto, gli saranno di certo bastate le poche parole di un operaio alla portineria D: “Io lavoro qui e ogni giorno mi vergogno perché so che creo un danno alla mia famiglia”.

Astenersi incensurati

Renzi piazza un altro colpaccio nella campagna acquisti della cosiddetta Italia Viva: l’ingaggio a parametro zero di Francesca Barracciu, condannata in appello a 3 anni e 3 mesi per peculato ai danni della Regione Sardegna, nel processo per 80mila euro di rimborsi pubblici per spese private che, quando era solo imputata, aveva indotto Renzi a cacciarla dal suo governo. La prestigiosa new entry consolida Iv nel ruolo di bad company del Pd, che al confronto pare un convento di orsoline. Presto anche FI, da sempre più simile al bar di Guerre stellari che a un partito, sembrerà un collegio di educande. Soprattutto se, in aggiunta a Francesco Bonifazi indagato per finanziamento illecito da Parnasi, arriveranno l’ex governatrice umbra Catiuscia Marini (inquisita per abuso d’ufficio, rivelazione di segreto d’ufficio, favoreggiamento e falso nella Sanitopoli perugina) e il governatore calabrese uscente Mario Oliverio (imputato per associazione a delinquere e corruzione). La loro illustre presenza, in aggiunta a quella di vari indagati e imputati minori, aumenterebbe a dismisura la densità di impresentabili in rapporto non tanto agli elettori del partitucolo (al momento inesistenti), quanto agli eletti (sempre più numerosi, almeno fino alle urne).

La selezione della classe dirigente italo-viva è chiaramente ispirata alla scena madre di Mezzogiorno e mezzo di fuoco, capolavoro di Mel Brooks. Lì il cattivo che deve arruolare una sporca dozzina per assaltare Rock Ridge si siede dietro un banchetto ed esamina i curricula dei candidati in fila indiana con la domanda: “Precedenti penali?”. Il primo risponde: “Stupro, assassinio, incendio doloso, stupro”. E lui: “Hai detto due volte stupro”. “Sì, ma mi piace tanto lo stupro!”. “Ottimo, firma qua. Avanti il prossimo… Precedenti penali?”. “Atti di libidine in luogo pubblico”. “Non è mica tanto grave”. “Sì, ma in una chiesa metodista!”. “Ah carino! Arruolato! Firma qua!”. Questo spiega come mai l’auspicata (da Renzi) transumanza di parlamentari da Forza Italia proceda tanto a rilento: in simile compagnia, persino chi conviveva amabilmente con B., Dell’Utri, Previti&C. teme di perdere la faccia. Resta invece insondabile il motivo per cui Matteo la Cozza faccia causa a chiunque lo accosti a scandali personali o familiari. Dovrebbe ringraziarci, invece: più aumentano i sospetti, più si rafforza la sua leadership nella bad company, più nuovi adepti arrivano. Il prossimo passo sarà un’inserzione sui social: “AAA cercansi condannati, imputati e indagati purché avviso-muniti. Astenersi incensurati. Telefonare Matteo, ore pasti. Cioè h 24”.

Le felicità è un concerto tra le crepe

Una bambina accovacciata sulle ginocchia, la coda di cavallo malferma e un piumino consunto troppo grande per lei, osserva da vicino la commessura di una crepa in quella costruzione (dis)umana che è stata il Muro di Berlino; un uomo di spalle di cui scorgiamo solo i capelli crespi e ricci ma che indoviniamo essere un deraciné, da dietro una fessura spia la vita della città est; e ancora genti di tutte le età picconano e sconficcano mattone per mattone la lunga divisione, l’ormai perito Berliner Mauer, che per anni aveva impedito loro di vedere per intero la Porta di Brandeburgo, alle cui spalle oggi molte croci rammemorano le vittime di quel muro in Platz 18 März. Volti ancora preoccupati e incerti, appena rincuorati e sollevati, già speranzosi e felici sono i protagonisti narrati dal maestro della fotografia Lorenzo Capellini nella sua mostra monografica Cade il Muro di Berlino: 9 novembre 1989-9 novembre 2019, da visitare all’interno della Biblioteca della Camera dei deputati “Nilde Iotti” senza indugiare troppo, poiché dura – sventuratamente e incomprensibilmente – soltanto per una settimana, fino al 15 novembre.

“Il 9 novembre 1989 mi trovavo a Parigi al Beaubourg quando arrivò la straordinaria notizia che da quella sera i berlinesi dell’Est avrebbero potuto varcare il muro e passare a Berlino Ovest,” ci racconta Capellini alla vigilia della vernice, mentre apporta gli ultimi accorgimenti all’allestimento. “Sono partito immediatamente. Volevo partecipare e documentare. Non appena sono arrivato alla Porta di Brandeburgo: ho visto la felicità. Centinaia di persone abbracciate. La grande festa è durata tutta notte. Poco più in là, ho assistito all’apertura di un varco sulla Kreuzbergstrasse. Indimenticabile la gioia sui visi dei giovani che oltrepassavano il muro per la prima volta e che con il muro eretto ci erano nati”.

La straordinaria umanità colta da Capellini in cinquanta scatti irripetibili – istantanee ora nervose, ora luminose, ora semplicemente vivissime e palpitanti – è un romanzo sotto mentite spoglie, che racconta della vita che torna a inondare una città in passato cuore di una monarchia imbelle, di una repubblica litigiosa, poi di due dittature e offesa dall’oscurantismo. “Ricordo che i Filarmonici di Berlino aprirono la Philarmonie a tutti con concerti straordinari”, aggiunge Capellini, “e che Rostropovich, con il suo violoncello, si mise a suonare sotto al muro appena bucato”. Ciò testimonia ancora una volta come l’arte sia l’unico strumento di conoscenza non ideologico di cui disponiamo.

 

Cade il Muro di Berlino

Biblioteca della Camera, fino al 15.11

Alla scoperta del mondo con la piccola e curiosa Pat

Pat è una giovane lontra marina e le piace fare domande quanto galleggiare in mare a pancia in su. Quando sua madre le rimprovera l’eccesso di curiosità lei risponde: “È solo che non so ancora molto e voglio sapere”. Il suo amico Bobby allora, tra una caccia al riccio e uno spuntino a base di granchi e “ostriche di scoglio”, la introduce alla cricca tutta al maschile di Gaffer, vecchia lontra “che conosce tutte le storie”. Il racconto di Jill Tomlinson descrive dolcemente il passaggio di Pat, che “non è semplicemente una femmina ma una lontra che vuole sapere tutto”, a una nuova condizione di responsabilità, raggiunta grazie ai tesori della conoscenza che si schiudono giorno dopo giorno come conchiglie. Imparerà cosa sono le querce marine, le alghe, i polpi, a difendersi dalle “lontre cattive” che rubano molluschi, a fingersi morta davanti alle balene e a trovare da mangiare in mare aperto quando c’è burrasca. Fino a quando due umani buoni, Faccia di Pesce e Capelli Bianchi, aiuteranno la colonia di Pat e Bobby a trovare un’isola piena di cibo dopo un viaggio in aeroplano, “l’uccello costruito dagli uomini che non muove le ali e non depone uova”. Sarà quello il momento per Pat di non avere più paura delle “cose nuove” e di dare risposte a sua volta, per rincuorare le giovani lontre spaventate dal mondo.

 

La lontra che voleva sapere tutto

Jill Tomlinson

Pagine: 90 Prezzo: 15

Editore: Feltrinelli

“Sniff”: a volte la fine dolorosa di un amore può essere soltanto una questione di naso

Ci vogliono parecchie pagine per capire qual è la brillante intuizione narrativa su cui si regge Sniff, anche se il titolo avrebbe dovuto dare un indizio: lui e lei sono in vacanza insieme sulla neve. È una specie di ultimo tentativo prima di lasciarsi, o forse è soltanto un ultimo tentativo di lei e un’ultima concessione di lui. Però, anche se il contesto è chiaro e la posta in gioco pure, i dialoghi tra i due protagonisti sembrano seguire un altro registro. Nelle nuvolette piene di parole ci sono dichiarazioni di amore eterno, la paura di struggenti solitudini imminenti. Il tutto nell’atmosfera rarefatta di un resort di montagna che sembra una via di mezzo tra l’albergo di Shining e una stazione spaziale. Non ci sono rumori, nessun altro parla, soltanto i due protagonisti. O così almeno crediamo. Perché il trucco della sceneggiatura di Fulvio Risuleo, supportato dai disegni eterei di Antonio Pronostico, è che a lasciarsi sono un uomo e una donna, ma a parlare (spoiler) sono i loro nasi.

Potrebbe essere soltanto un gioco pirandelliano, un omaggio a Uno nessuno e centomila, ma Sniff va un po’ oltre. I dialoghi verbali tra i nasi e quelli fisici tra i corpi non riescono a sciogliere l’eterno dilemma con cui tutte le coppie che si lasciano devono confrontarsi: la separazione è frutto di una scelta consapevole ed egoistica di uno dei due oppure è l’esito doloroso ma inevitabile di una concatenazione di eventi che porta a una soluzione inevitabile e assolve tutti da ogni responsabilità? I due protagonisti, come i loro nasi e come i lettori, potranno dare la loro risposta. Come nella vita reale, anche in Sniff entrambe le tesi hanno argomenti a proprio sostegno.

 

Sniff

Fulvio Risuleo e Antonio Pronostico

Pagine: 112

Prezzo: 20

Editore: Coconino

 

Intrigo capolavoro in Svezia e l’incontro fatale tra due grandi investigatori

Finalmente arriva un po’ di freddo in questo autunno caldo, la temperatura giusta per gustarsi in un pigro pomeriggio di festa e di pioggia l’ultimo giallo di Håkan Nesser, maestro scandinavo che ha partorito due grandi detective: il commissario Van Veeteren e l’ispettore italo-svedese Gunnar Barbarotti, protagonisti di due grandi serie di successo. Prima o poi il fatale incontro tra i due investigatori doveva avvenire e galeotta è un’antica “confraternita” fondata nel lontano 1958 da due ragazzini tormentati e mancini nella località costiera di Oosterby. Nesser è svedese ma il Paese di Van Veeteren è immaginario, dove i soldi sono i gundel. Probabilmente fonde la madrepatria con un richiamo ai Paesi Bassi.

Col passare degli anni, nemmeno troppi, nella confraternita entrano altri tre elementi e nel 1969 il quintetto è protagonista di un tragico fatto di sangue che qui non sveliamo. Ventidue autunni dopo, nel 1991, c’è il redde rationem: quattro dei cinque mancini muoiono nel rogo di un albergo dove erano stati invitati con una misteriosa lettera. Ovviamente il sospettato numero uno è il quinto che non si trova più e il caso viene dichiarato risolto. Sbagliato. Ché nel 2012, la terra lì intorno restituisce il cadavere del quinto confratello, che tutti credevano colpevole. All’epoca, nel 1991, indagava anche Van Veeteren, che ventuno anni dopo ritorna sul luogo delitto in compagnia dell’amata Ulrike. Il poliziotto ha ormai 75 anni ed è ancora più esistenzialista del solito, da titolare di un’esclusiva libreria. L’ispettore Barbarotti entra in scena nella seconda parte, in servizio a Kymlinge, cittadina immaginaria della Svezia e Nesser, di suo già bravissimo, riesce davvero a superarsi.

 

La confraternita dei mancini

Håkan Nesser

Pagine: 511

Prezzo: 19,50

Editore: Guanda

Leone Ginzburg, morto senza l’ultima parola

Nella primavera del 1943, in un saggio sul Risorgimento che sarà pubblicato postumo, scriveva come “l’azione concreta del Mazzini fosse fatalmente sottovalutata dai machiavellici suoi concorrenti e avversari, incapaci di persuadersi che nella politica, come in qualsiasi altro aspetto della vita degli uomini, le forze morali hanno un peso che nessuna astuzia o prepotenza potrà mai usurpare”.

Leone Ginzburg (Odessa, 1909-Roma, 1944), intellettuale e “suscitatore” di cultura, fondatore con Giulio Einaudi della casa editrice torinese dello Struzzo, esponente di primo piano di Giustizia e Libertà, incarnò quelle “forze morali” fino all’ultimo giorno della sua vita, che venne stroncata alle sette del mattino del 5 febbraio del 1944 nel carcere di Regina Coeli. Sandro Pertini e Vittorio Foa, anche loro reclusi dai nazifascisti, lo avevano incontrato poco prima. Lo videro sofferente per le botte ricevute, gli avevano staccato la mandibola. Morì forse in seguito alle torture, sebbene le circostanze del decesso non siano mai state chiarite. In ogni caso, Leone disse loro: “Coraggio, poco sangue è stato versato in Italia per la causa della libertà”.

A Ginzburg, che Giulio Einuadi definì “il mio Benedetto Croce”, lo storico Angelo d’Orsi, studioso autorevole di Antonio Gramsci, ha dedicato ora una biografia, che è la prima seria e documentata sul martire della Resistenza. È un libro che già nel titolo, L’intellettuale antifascista. Ritratto di Leone Ginzburg (Neri Pozza), declina la “splendida eccezione” che Leone rappresentò nell’Italia fascista. Cioè in quell’Italia dove la gran parte degli intellettuali – come lo stesso d’Orsi aveva raccontato nel saggio La cultura a Torino tra le due guerre – almeno fino all’8 settembre del ’43 accettò il regime mussoliniano. Ginzburg, che dal Risorgimento, dal “pensiero e azione” di Giuseppe Mazzini, traeva la linfa morale del suo antifascismo, fece esattamente il contrario. Già agli inizi del ’34, narra d’Orsi, convocato come libero docente per il giuramento al fascismo, comunicò al preside della sua scuola il suo rifiuto. “Ho rinunciato da un certo tempo”, gli disse, “come Ella sa bene, a percorrere la carriera universitaria, e desidero che al mio insegnamento non siano poste condizioni se non tecniche e scientifiche. Non intendo perciò prestare il giuramento sopra accennato”.

Leone morì troppo presto per potere lasciare in eredità un’opera organica di studioso, della storia come della letteratura. A differenza di Piero Gobetti, che pure morì giovanissino, privilegiò l’azione politica e cospirativa. E durante la Resistenza, a Roma, mentre redigeva il giornale L’Italia Libera, venne arrestato e portato a Regina Coeli. Disse Norberto Bobbio di lui: “Leone è morto senza dire la sua ultima parola, senza dire addio a nessuno, senza concludere la sua opera, senza lasciarci un messaggio. Per questo non possiamo rassegnarci; né perdonare. È morto solo, come se non avesse più nulla da dire. E invece il suo discorso era appena cominciato”.

 

L’intellettuale antifascista

Angelo d’Orsi

Pagine: 447

Prezzo: 19

Editore Neri Pozza