La comunità Lgbt si mette in “Pose”: è l’ennesimo successo di Murphy

Se siete appassionati di serie tv, molto probabilmente ne avete vista una di Ryan Murphy. Con 31 nomination agli Emmy Awards alle spalle, è il creatore di alcuni dei prodotti di successo degli ultimi 15 anni: Nip/Tuck, Glee, American Horror Story, American Crime Story, Feud, 9-1-1…

Murphy è da poco sbarcato su Netflix con The Politician, ma c’è un altro titolo che porta la sua firma e che in Italia è disponibile in streaming: Pose. Al centro della serie, che ha ricevuto due nomination agli ultimi Golden Globe e vinto una statuetta agli Emmy, c’è la comunità transgender newyorchese tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90. La prima stagione racconta della ballroom, un substrato della cultura Lgbt americana che si caratterizzava per i ball, competizioni di ballo e travestimenti. Nella seconda, da qualche giorno su Netflix, c’è un salto temporale dal 1987 al 1990, ma soprattutto un salto tematico. Il primo episodio si apre con la visita di Pray Tell e Blanca, due dei protagonisti, a Hart Island, l’isola del Bronx dove all’epoca venivano seppelliti in massa i morti di Aids. È il momento storico in cui l’Aids ferisce con più forza e la comunità Lgbt è quella più colpita: “Ho partecipato a tre funerali oggi” si lamenta Pray Tell, “dov’è la cura?”.

In Pose 2 i ball diventano, da fulcro della serie, il contorno, perché tutti i personaggi devono fare i conti con la morte e la malattia. Ma non è questo l’unico cambiamento significativo. Nel 1990 le radio trasmettono a ripetizione una canzone di Madonna, Vogue, ispirata a un ballo molto diffuso nei locali gay. E per la prima volta la comunità Lgbt si sente non certo accettata, ma perlomeno vista dal resto della società, e prova a immaginare per sé un futuro diverso. Pose ha regalato grande notorietà ad alcuni degli attori del cast (Indya Moore, che interpreta Angel, è diventata testimonial di Louis Vuitton ed è stata inserita dal Time fra le 100 personalità più influenti del 2019). Ma soprattutto ha il merito di aver gettato uno sguardo diverso sulla comunità transgender, che oggi soffre di problemi simili a quelli di cui soffriva negli anni Ottanta e Novanta.

 

L’indicibile orrore di Primo Levi

C’è qualcosa che non torna: nei giorni dello spettacolo Se questo è un uomo di Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, alla senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, viene assegnata una scorta per ripetuti insulti e pericolose minacce antisemite. C’è qualcosa che non torna, ma se torna è peggio.

Realizzato nell’anno del centenario della nascita del chimico-scrittore (1919-1987), e in scena a Roma come ultima tappa della tournée, Se questo è un uomo è diretto e interpretato da Valter Malosti, che firma anche l’adattamento teatrale insieme con Domenico Scarpa. “Volevo creare un’opera – spiega il regista nelle note – che fosse scabra e potente, come se quelle parole apparissero scolpite nella pietra”. Così è, anche grazie alla ruvida scena di Margherita Palli, che sovrappone le baracche del lager alle “nostre tiepide case”: un inferno freddo, scarno, squallido, grigio, in cui si agitano fantasmi e fantocci, non uomini, interpretati da Antonio Bertusi e Camilla Sandri. Concertano in questa direzione macabra, mortifera anche le luci e le videoproiezioni, ma l’opera è soprattutto “acustica”, affidata alle parole del protagonista-narratore, alla livida partitura sonora di Gup Alcaro e ai tre madrigali di Carlo Boccadoro, creati a partire dalle poesie di Levi.

E qui il cortocircuito, come da felice intuizione registica: un cortocircuito tra il racconto dell’orrore e l’indicibilità dell’orrore. Nel lager le parole mancano: restano solo numeri tatuati sulle braccia, sopravvivono soltanto suoni disarticolati, una babele di lingue incomprensibili, ordini o lamenti, marcette popolari tedesche e grida di prigionieri stranieri. Due sono le regole del discorso: non fare mai domande e fingere di aver capito. La terza via è il forno crematorio.

“Ogni straniero è nemico”, questo è il pensiero che sostanzia lo sterminio: prima è solo una infezione latente, poi diventa sillogismo e infine si traduce in lager. “Sognavamo nelle notti feroci… di tornare, mangiare, raccontare”: Levi ce l’ha fatta, con tutto il corredo di dolore, vergogna e senso di colpa dei sopravvissuti. Ne I sommersi e i salvati scrisse infatti: “Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti”.

Malosti sta in scena da solo, con cappotto e valigia, come un profugo, un deportato, un uomo defraudato della propria umanità. L’interprete si muove poco, perlopiù fronte pubblico: fa poco, ma non abbastanza poco da magnetizzare e inchiodare gli spettatori. Lo spettacolo – di quasi due ore – non è sempre teso, risente di più d’un calo di intensità e temperatura emotiva, soprattutto verso la fine, sfilacciandosi proprio nel groviglio di versi dell’Inferno dantesco. Non importa, il materiale è così denso e incandescente da reggersi da sé, da vivere di vita propria: non sempre sopravvivono i peggiori, e i migliori non sono morti tutti.

 

Roma, Teatro Argentina, fino al 17 novembre

Se questo è un uomo

Da Primo Levi

Valter Malosti

Ritorno al passato (degli anni 90) con Zemeckis

Robert Zemeckis ha acquistato i diritti del romanzo di Chiara Barzini Terremoto, intenzionato a dirigerne una trasposizione per il cinema di cui sta scrivendo la sceneggiatura insieme alla scrittrice romana. Il 67enne regista di Ritorno al futuro e Forrest Gump si è appassionato alla storia di una famiglia di nostri connazionali, che nei primi anni 90 va a vivere a Los Angeles sperando di farcela a Hollywood, ma anziché trovare Beverly Hills deve fare i conti con una città in preda a tensioni razziali, omicidi e rivolte. Il film conserverà il punto di vista del romanzo, quello di Eugenia, una ragazzina di 15 anni che cerca di orientarsi nell’inconsueto e strano contesto in cui è stata catapultata. Produce lo stesso Zemeckis con la sua società Image Movers, insieme allo studio Endeavor Content, Ginevra Elkann e Fabrizio Mosca.

Francesco Bruni ha iniziato a dirigere tra Livorno e Roma Andrà tutto bene, il quarto lungometraggio di cui è anche sceneggiatore: il protagonista Kim Rossi Stuart intraprende un viaggio alla ricerca di un segreto legato al suo passato e a quello di suo padre. Nel film, prodotto da Carlo Degli Esposti per Palomar e Vision Distribution, recitano anche Barbara Ronchi, Giuseppe Pambieri e Fotinì Peluso.

Dopo il successo de Il Miracolo Niccolò Ammaniti è tornato sul set di una serie tratta dal suo romanzo Anna, di cui firma la sceneggiatura con Francesca Manieri, ed è showrunner e regista (producono Wildside e Sky). Girata tra le campagne romane e la Sicilia, la serie racconterà le vicende di una ragazzina cocciuta e coraggiosa alla ricerca del fratellino rapito, tra campi arsi, boschi misteriosi, spazi deserti e selvagge comunità di sopravvissuti. Anna ha come guida un quaderno di sua madre con le istruzioni per farcela, ma scoprirà che dovrà inventare nuove regole rispetto a quelle del passato.

Dalla Belle Époque non si vorrebbe mai uscire

Come reagirebbe Proust calato in un Grande Fratello di polveroso vintage da lui stesso scelto, perfetto come un set di Westworld, ma ipnotico come un Mirror che da Black si tinge di solari nostalgie? Ne rimarrebbe sedotto, accomodato nel suo locale preferito in attesa della Madeleine che gli avrebbe cambiato la vita. Perché quel giorno, probabilmente, avrebbe voluto Marcel, per rivisitare la predestinazione, e gustare in pienezza il più dolce dei ricordi da non perdere, consapevole che quel momento serbava il gusto dell’eternità.

Mutatis mutandis, ecco il senso de La Belle Époque di Nicolas Bedos vibrante commedia francese tra le più intelligenti e meglio realizzate delle ultime stagioni. Un successo di critica e pubblico esploso ovunque, a partire dalla prémière fuori concorso di Cannes.

Al centro è una coppia stanca di esserlo: Marianne (Fanny Ardant, grintosa), psicologa ossessionata dalla noia e Victor, (Daniel Auteuil, memorabile) talentuoso fumettista “analogico” in pensione forzata da un mondo digitale che di un uomo orgogliosamente fissato al passato non sa che farsene. Defenestrato dalla moglie, questi viene sedotto da un voucher: un viaggio gratis nei ricordi, libero di scegliersi tempo, luogo e situazione da rivivere. Dietro al marchingegno, a sua insaputa, c’è la mente creativa (e isterica) di un regista (Guillaume Canet) amico di suo figlio e con un debito spirituale da saldargli. Per Victor esiste una sola data da rivisitare: il 16 maggio 1974, il giorno in cui ha incontrato Marianne. Commedia romantica ma disincantata sul tempo mai definitivamente perduto, La Belle Époque è un fragrante potpourri di intuizioni che trovano il fuoco d’obiettivo nello splendido personaggio di Victor, capace di evolversi perché ancora in grado di attingere alle irresistibili inquietudini degli anni 70, gesto che appare impossibile in un presente ingessato nel perfezionismo tecnologico o dentro a insopportabili conversazioni bourgeois, eccitate dalle innovazioni in materia di clistere. Tenendosi a debita distanza dalla retorica del “si stava meglio prima”, il film si immerge con passione fra le tracce emotive dei vecchi vinili, senza però mitizzarli di luoghi comuni, perché anche la libera società dei ’70 aveva i suoi limiti.

Ma è soprattutto in termini formali che La Belle Époque compie un triplice salto, da opera meta-cinematografica all’ennesima potenza, che felicemente mescola i paradigmi concettuali del reality all’uso esemplare della mise-en-abyme, espediente narratologico antico quanto la letteratura classica che transitando al cinema ha amplificato la sua fascinazione. In tal senso, il film rende esplicito – smontandolo – il rapporto realtà-finzione insito nel cinema: non solo denuda la capacità della meta-finzione di scavare nella verità profonda, ma ne rivela il backstage, esemplificando il valore del reenacting (re-interpretare una scena realmente accaduta) e dunque consacrando il lavoro dell’attore. Un dato è certo: da questa Belle Époque non si vorrebbe mai più uscire.

Martha, l’“immatura” che ama il pianoforte

Si racconta che, una volta, appena atterrata all’aeroporto di Venezia, malgrado l’ora tarda, avesse chiesto di riprendere fiato bevendo un caffè in piena notte, in piazza San Marco. Da Venezia si fece poi accompagnare a Ferrara, dove l’indomani era attesa per un’esibizione. E lì, arrivata nella città estense, si fece aprire la sala del concerto, per iniziare a provare. Il marito del tempo – il pianista e direttore d’orchestra Charles Dutoit – le mosse qualche rimostranza. E lei, rivolgendosi a lui, con naturalezza fece: “Vedi, voi svizzeri avete gli orologi, noi argentini abbiamo il tempo”. Lei è Martha Argerich, argentina naturalizzata svizzera, la più grande pianista vivente, tra i maggiori interpreti del repertorio pianistico del XIX e XX secolo (suona regolarmente, a 78 anni, Beethoven, Chopin, Schumann, Liszt, Debussy, Ravel, Prokof’ev, Stravinskij, Šostakovic, Ciajkovskij, e l’elenco potrebbe continuare).

 

La vita del “ciclone argentino”

Martha nasce nel 1941 a Buenos Aires, nello stesso giorno di Federico García Lorca, come lei stessa ama sottolineare. Comincia a suonare il pianoforte da piccolissima. La madre la manda a lezione dall’italiano Vincenzo Scaramuzza. Nel 1955 i suoi genitori si trasferiscono a Vienna. Così Martha potrà seguire le lezioni di musicisti come Friedrich Gulda e Nikita Magaloff. Bellissima, per ricchezza di stati d’animo e temperamento aveva già scritto, fin da giovane, il suo posto nell’olimpo della musica. A 16 anni vince il Premio Busoni di Bolzano e il Concorso per piano di Ginevra. Poi il primo disco, inciso con la Deutsche Grammophon: le note di Chopin, Brahms, Prokof’ev e Ravel sotto le sue dita diventano una “bomba musicale”, come scrisse un famoso critico. Tutto sembra perfetto. Non per Martha Argerich.

Decide di non esibirsi più. Lo stress dei concorsi, le ambizioni soffocanti, l’improvvisa fama… “Amo suonare il pianoforte. Ma non mi piace essere una pianista. Davvero non voglio esserlo, anche se è la sola cosa che più o meno so fare”. Tre anni senza un solo concerto, tre anni di silenzio. Il ritorno in sala è per il Concorso Chopin di Varsavia, il più famoso al mondo: la Argerich lo vincerà. Aveva 24 anni. Oggi ne ha quasi ottanta.

Per lei non si può parlare di interpretazione. Quella di Martha Argerich è musicalità allo stato puro, libertà delle soluzioni, irruenza ed empatia. Non a caso si è detto, riferito a lei: “Concertismo allo stato adolescenziale”. Una immatura costretta a non poter mai invecchiare. “Quando mi guardo indietro – ha detto lei – vedo d’avere suonato moltissimo, d’avere dato migliaia di concerti, dunque a che scopo un concerto in più? Non ho mai pensato di avere ‘qualcosa da dire’ sulla scena, ho sempre trovato un po’ ridicolo crederlo. E poi ho letto su un giornale che solo il 4% della gente si interessa di musica classica. Noi musicisti siamo una specie di dinosauri, ammettiamolo”.

 

Ci sono i pianisti e poi c’è lei: la più grande

Suona come una donna? Suona come un uomo? No, suona come la Argerich. Perché ci sono i pianisti, e poi c’è lei. Il suo suonare è talmente naturale che sembra improvvisato, pur non essendolo (studia, enfant prodige, dall’età di 5 anni). Non ci sono filtri né compromessi, c’è una fusione di elementi, un continuo attingere a un proprio trasporto per la musica, un sistema di espressione – le sue dita, il suo corpo – che si rifà a quell’individuo, e solo a quello. C’è vita, e la vita di Martha. La sua istintività “zingaresca”, il suo essere brillante e ribelle che caratterizzerà tutta la sua biografia, le sue fragilità, le sue paure.

Martha Argerich ha tre figlie da tre padri diversi (tutti musicisti: Robert Chen, e i direttori d’orchestra Charles Dutoit e Stephen Kovacevich). Ha avuto molti uomini (anche se si definisce “persona incapace di amare”). E un tumore che, nonostante fosse stato vinto, per tre volte si è ripresentato. Oggi vive, a 78 anni, in una villa in centro di Bruxelles, in mezzo a un via vai di nipoti e di giovani musicisti, in una sorta di “maison des pianistes”.

“Un pianista passa così tanto tempo a studiare da solo, per così tanti anni, che non mi va più di suonare da sola”. È dalla fine degli anni Ottanta che si esibisce esclusivamente in concerti da camera con orchestra, o con altri musicisti. Oggi è in tournée col direttore Antonio Pappano, e la sua Orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia. Ha suonato all’Auditorium a Roma il Concerto per pianoforte e orchestra n.1di Liszt (regalando a sorpresa – lei così tanto restia ai bis – Liebeslied di Liszt, una trascrizione di un Lieder di Schumann). Portentosa. Era lei. Lei, che dal 1979 sale sul palco dell’Auditorium. Con la sua lunga chioma, ormai argentata. Piccola, minuta. Ma con una fama da rockstar (la Lego le ha perfino dedicato un “pezzo”, con tanto di pianoforte da assemblare).

“A te non interessa che la gente ti ami”, le disse un giorno Madeleine Lipatti, una delle sue insegnanti. “Tu suoni come se fossi su una barca che sta affondando, in mezzo a una terribile tempesta”.

Alexa, l’assistente che può svelare l’omicidio

La “voce” di Alexa, l’assistente personale Amazon, non tremerà davanti all’obbligo di dire la verità alla giuria, quando – se le indiscrezioni verranno confermate –, sarà chiamata a “deporre” in un caso di omicidio in Florida, Usa.

Sylvia Gala Crespo, 32 anni, è stata trovata morta in casa lo scorso 12 luglio ad Hallandale Beach e il principale sospettato – arrestato e rilasciato su cauzione – è il marito Adam Reechard Crespo, che si dichiara però innocente e descrive la morte di Gala come un incidente. I due dopo aver bevuto avrebbero avuto un litigio, lui avrebbe trascinato Sylvia giù dal letto prendendola per le caviglie e lei, per difendersi, avrebbe afferrato una lancia tagliente trafiggendosi accidentalmente. Inutili sarebbero stati anche i tentativi di Adam di estrarre l’arma per evitare il peggio. La versione dei fatti, però, non convince e per questo la polizia della contea di Broward chiede aiuto al dispositivo, unico “presente” in casa il giorno dei fatti.

Nel rapporto ufficiale si legge: “Si ritiene che prove del crimine e registrazioni audio che hanno catturato il momento dell’aggressione alla vittima Sylvia Crespo avvenuta nella camera da letto principale possano essere trovate sul server gestito da o per Amazon”. Vero è che i fruitori di Alexa hanno in genere la possibilità di cancellare le registrazioni vocali e che gli smart speaker, pur “sentendo” sempre, per “ascoltare” hanno bisogno di ricevere l’input attraverso un pulsante o un comando vocale preciso che inizia per “Alexa”, appunto. La speranza degli agenti di Hallandale è che l’input sia stato dato (e/o ricevuto) inavvertitamente e che Alexa sia quindi in grado di fornire la “prova regina”.

Dal canto suo il legale di Crespo si dice fiducioso: “Le registrazioni esonereranno il mio cliente. Ritengo che sia innocente al 100%”. Ed è ovviamente già battaglia tra toghe sulla sfida lanciata dall’intelligenza artificiale al criminal law. Ora è il turno di Alexa in tribunale – dopo un precedente controverso del 2016 in Arkansas – ma negli ultimi anni è toccato a dispositivi GPS, cellulari e persino ad “apparecchi” per il fitness coadiuvare le forze dell’ordine nella fase di detection.

Ad esempio, i dati estratti dal Fitbit – l’orologio intelligente che monitora frequenza cardiaca, passi fatti, calorie bruciate e la qualità del sonno – sono stati utilizzati dagli investigatori per accusare di omicidio il marito di una donna nel Connecticut nel 2017, in un caso di violenza sessuale in Pennsylvania nel 2015 e in un caso di lesioni personali in Canada nel 2014. Nel caso del 2017 l’uomo è stato inchiodato dal numero dei passi giornalieri compiuti dalla moglie, che aveva continuato a camminare ancora per ore dopo l’orario riportato dal marito come quello del decesso.

Un report del National Institute of Justice americano ha avvertito: “I dispositivi diventano sempre più sofisticati e quindi le prove digitali non faranno che aumentare, diventando una parte essenziale delle indagini”.

“Aiuti a Kiev, Rudy Giuliani li legò all’inchiesta Biden”

Il “quid pro quo” c’è stato. E non fu una battuta sfuggita durante una conversazione telefonica, ma una precisa strategia di Donald Trump e del suo staff. L’incaricato d’affari degli Usa in Ucraina, Bill Taylor, lo ha detto alle commissioni Intelligence e Giustizia della Camera che conducono l’indagine sull’impeachment del magnate presidente. Rudy Giuliani, avvocato personale di Trump, orchestrava la campagna di pressioni sull’Ucraina perché le autorità di Kiev indagassero sui Biden, Joe, l’ex vice di Obama e aspirante alla nomination democratica per Usa 2020, e Hunter, il figlio, in affari con una società energetica ucraina.

I democratici della Camera hanno diffuso il transcript dell’audizione di Taylor, fatta a porte chiuse due settimane or sono, e lo hanno indicato come il primo teste a comparire in un’udienza pubblica, la prossima settimana. Il New York Times ha nel frattempo appreso che Trump chiese al segretario alla Giustizia William Barr di dire in conferenza stampa che lui non aveva violato nessuna legge nella telefonata incriminata con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il 25 luglio; ma Barr si rifiutò di farlo. Nella sua deposizione, Taylor ha riferito, “in termini severi”, come egli si rese conto che la politica degli Usa verso l’Ucraina era subordinata, su richiesta del presidente, a una serie di pre-condizioni politiche. E ha detto di avere ripetutamente segnalato ai suoi referenti i rischi del collegare l’assistenza militare a un Paese terzo a indagini su rivali politici del presidente. Taylor, che dal 1985 ha servito ogni Amministrazione degli Stati Uniti, è uno stimato diplomatico. A suo giudizio, la tradizionale politica estera Usa era stata sovvertita da persone al di fuori della catena di comando normale, in particolare da Giuliani. La deposizione di Taylor, che non ebbe mai occasione di parlare direttamente con il presidente, offre, secondo i media, il resoconto finora più vivido di come e perché il presidente bloccò gli aiuti militari all’Ucraina, subordinandone l’erogazione, come pure l’invito di Zelensky alla Casa Bianca, all’apertura dell’inchiesta sui Biden. La commissione intelligence della Camera ha programmato per mercoledì 13 novembre l’audizione di Taylor e di George Kent, un’altra figura del Dipartimento di Stato che ha giocato un ruolo chiave nell’Ukrainagate.

Venerdì 15 toccherà a Marie Yovanovitch, ambasciatrice degli Usa a Kiev, rimossa da Trump perché non condivideva la sua linea. Tutti e tre hanno già deposto a porte chiuse, come anche David Hale, sottosegretario per gli affari politici al Dipartimento di Stato, cui è stato chiesto perché lui e i suoi colleghi non si opposero al siluramento politico della Yovanovitch. Oggi, invece, Mick Mulvaney, il capo ad interim dello staff della Casa Bianca, non andrà a deporre: l’Amministrazione non vuole che i consiglieri del presidente “partecipino a questo procedimento ridicolo, fazioso e illegittimo”, indica un comunicato. E i democratici hanno rinunciato a sollecitare per vie legali la deposizione di Charles Kupperman, ex vice-consigliere per la Sicurezza, che s’è rivolto a una corte federale per non deporre. C’è il timore che le controversie giudiziarie rallentino l’inchiesta, che procede spedita. I repubblicani della Camera, invece, intendono chiedere un mandato di comparizione per la talpa dell’Ukrainagate, l’agente della Cia la cui identità resta segreta che ha innescato tutta l’indagine. Ma i democratici, che sono maggioranza, hanno già respinto l’idea, adducendo motivi di sicurezza. Trump, però, rilancia: lui vuole che a testimoniare sia Biden, per metterlo sotto accusa. Taylor, che invitò i suoi colleghi diplomatici a tenersi alla larga da Giuliani, riferisce che l’allora consigliere per la Sicurezza John Bolton avvertì Giuliani e Sondland: “Qui non facciamo giochi politici”. Nell’audizione Taylor ha anche dichiarato che Trump si mosse “contro l’opinione unanime d’ogni livello di discussione collegiale”; Giuliani agiva nell’interesse di Trump, non dell’Unione; c’era “un secondo canale” di politica estera, che passava da Giuliani e dal rappresentante presso l’Ue Gordon Sondland.

Caos in Inguscezia, il jihad che toglie il sonno a Putin

In Russia c’è una terra che non si riconosce nella Federazione e l’ha ricordato al Cremlino con due colpi di pistola. A Mosca, un killer in passamontagna ha sparato alla nuca di Ibragim Eldzharkiev, uno dei capi del centro ‘E’ (il centro anti-estremismo), della sezione caucasica, di stanza in un territorio profondamente islamista, architrave nel collegamento tra Isis e movimenti jihadisti russi. Il video dell’omicidio, ripreso dalle telecamere di sorveglianza la prima notte di novembre, ha fatto il giro del web. Così la Federazione tutta si è ricordata dell’Inguscezia, la sua nuova Cecenia, serbatoio di miliziani jihadisti, che sulla mappa sta come una spina tra due fianchi: quello russo e quello ceceno. In Siria, – dove il presidente Putin ha combattuto l’ultima guerra caucasica fuori dai confini della Federazione – nei mirini dei bombardieri russi c’erano le roccaforti Isis dei miliziani caucasici. Il Cremlino ha sempre avuto un piano preciso, punire all’estero gli estremisti per quello che avrebbero potuto compiere una volta tornati in patria, e non solo nei deserti e nelle città mediorientali.

I miliziani di cittadinanza russa che avevano risposto alla chiamata del califfo
al Baghdadi – eliminato da un raid americano – arrivavano quasi tutti dal triangolo islamista germogliato tra Cecenia, Daghestan e la più sconosciuta e piccola Inguscezia, diventata baricentro del mondo islamista perché meno controllata.

“Gli ingusci che si sono uniti all’Isis possono tornare in patria” aveva già detto con tono preoccupato nel 2018 il governatore della regione Junus Bek Jevrukov, in carica dal 2008. Secondo le cifre ufficiali ma non definitive sono 123 gli ingusci inghiottiti dalle fila del Califfato e solo 5 sono tornati alla vita civile. Ma secondo stime non ufficiali sono migliaia gli ingusci unitisi al raggruppamento caucasico dell’Isis. Oggi se nella vicina Cecenia l’ordine è mantenuto dal pugno di ferro del satrapo Ramzan Kadyrov, ringraziato pubblicamente dal presidente Putin per la sua politica dei rimpatri di mogli e bambini dei miliziani, in Inguscenzia il caos regna. E se combattevano fianco a fianco in Siria, ingusci e ceceni sono ora in conflitto in patria per una diatriba territoriale irrisolta riguardo il confine comune, motivo delle ultime proteste di piazza contro il presidente.

Tutti si chiedono oggi chi ha ucciso Eldzharkiev, ma il membro del dipartimento ‘E’ è stato solo l’ultima vittima di una lunga scia. Omicidi e attentati islamisti si susseguono nella polveriera inguscia da prima che nascesse l’Isis. Dieci anni fa a Nazran, ex Capitale della regione, 20 persone rimasero uccise quando un camion carico di esplosivo devastò una stazione di polizia. Nello stesso 200,9 Aza Gazgireeva, vice presidente della Corte suprema, e il vicepremier Basir Ausgev morirono in due distinti attentati a giugno.

Detonazioni e boati che gli abitanti della regione hanno risentito un anno dopo quando altre due funzionari della sicurezza morirono in un altro attentato kamikaze a Karabulak, a 20 km dalla nuova Capitale, Magas. Nel 2012 i carri armati russi scovarono una casa di legno diventata rifugio di 12 membri delle milizie che avevano combattuto in Siria. Nel 2013 rimase ucciso in un’imboscata l’alto ufficiale della sicurezza Ahmed Kotiev, che indagava la presenza jihadista, sempre più massiccia nella zona. Nel 2016 gli agenti dell’Fsb falciarono sei ingusci che stavano pianificando un attentato a Mosca. In un eterno colpo su colpo tra governo locale, centrale, bande criminali e milizie islamiste, tutte racchiuse nel territorio, le violenze vengono perpetrate, e sono soggetto inascoltato di numerosi dossier di Human Right Watch e Amnesty. Tragedie che si ripetono, ma da decenni ignorate.

Armi&droga, chiuso sul dark web ‘Berlusconi Market’: 3 arresti

Si celavano dietro i nickname di VladimirPutin ed EmmanuelMacron per gestire il “Berlusconi market”, uno tra i più importanti mercati online del dark web, con oltre 103.000 annunci di prodotti illegali tra droga, armi, abbigliamento e servizi. L’inchiesta della Procura di Brescia, guidata da Carlo Nocerino, insieme al nucleo speciale frodi tecnologiche della Gdf, comandato da Giovanni Reccia, è riuscita a risalire alla vera identità di tre amministratori del black market , residenti in Puglia, arrestati con l’accusa di associazione per delinquere. Già a maggio scorso, gli inquirenti erano riusciti a individuare g00d00, nome in codice di un venditore online di stupefacenti, residente a Barletta, al quale erano stati sequestri di pc e smartphone, che una volta esaminati hanno permesso di scoprire chi gestiva il “Berlusconi Market”.

Accedere al dark web è facile: basta utilizzare il browser Tor, con l’estensione del dominio “onion”, navigare in totale anonimato e, tramite i bitcoin, acquistare ogni cosa. Gli indagati nel loro store erano in grado di poter offrire numerosi prodotti suddivisi in 13 sezioni tra oltre 33 mila annunci di stupefacenti e sostanze chimiche e altri 5 mila per le armi. Nella sezione frodi c’erano account finanziari violati, intestati a terzi e carte di credito clonate. Tra le guide e tutorial (4 mila annunci) si potevano trovare manuali digitali per le truffe online e violare i sistemi informatici. Oltre 40 mila voci per abbigliamento e oggetti contraffatti, ma anche banconote contraffatte e documenti di identità digitali, anche stranieri, dove l’utente poteva acquistare il template, cioè veri e propri file modificabili in cui inserire dati anagrafici e fotografie a piacimento.

“Prevale il profitto di pochi. Non ci si fida più del Web”

Sbagliare ingresso al Web Summit di Lisbona, ritrovarsi a dieci minuti a piedi dal luogo in cui si ha appuntamento con il Ceo della Wikimedia Foundation, o per dirla semplice, con il capo supremo di Wikipedia, essere in ritardo, ma scoprire che ad attenderti c’è una 36enne stanca ma sorridente che di fronte al fiatone e ai capelli scomposti dice divertita: “Bello qui? No? Non è tutto favoloso?” Lei è Katherine Maher, direttore esecutivo di Wikimedia dal 2016, per la prima volta a questo importante evento europeo: “Wikipedia è cambiata molto dal 2001. Oggi è tradotta in 300 lingue, ospita 50 milioni di articoli, è usata da un miliardo di persone ogni mese. È popolare”.

Ci si può fidare di Wikipedia?

É passata dal non essere considerata affidabile all’opposto. I contenuti non sono ancora perfetti, ma hanno una qualità molto alta. Inoltre è integrata in numerosi sistemi e siti. Molte grandi società la usano nei loro prodotti, come Amazon per Alexa e Apple per Siri. Ci si può fidare.

Insomma, tra bufale, odio e approssimazione la conoscenza non è in crisi?

Assolutamente no. Abbiamo centinaia di fonti, ci evolviamo come umanità, c’è nuova conoscenza prodotta ogni giorno da scienziati, artisti, storici. E Wikipedia è popolare come lo è sempre stata, anzi il numero delle persone che la usa continua a crescere. Il problema è un altro.

Quale?

C’è crisi di fiducia. Le persone si chiedono “Di chi possiamo fidarci? In cosa possiamo credere? Come facciamo a sapere se possiamo fidarci?”. Sono domande presenti a tutti i livelli, da quello individuale a quello istituzionale. A livello individuale la domanda è “in chi e cosa posso avere fiducia?”, a livello infrastrutturale, quindi Internet, la domanda è “posso fidarmi di chi conserva i miei dati?”.

E a livello istituzionale?

Ci si chiede chi sia responsabile e chi debba aver cura dei cittadini. La fiducia nelle istituzioni è stata fondamentale per l’evoluzione del mondo negli ultimi secoli, dalla democrazia alla scienza medica. Eppure c’è un progressivo calo.

Perché?

É difficile credere a una istituzione che non è in grado di avere cura e tutelare tutta la popolazione. Ancora di più se risolve i problemi di una sola parte di essa. Ed è pericoloso che questo avvenga in un momento in cui siamo di fronte a sfide enormi, dall’aumento dell’ideologia estremista al cambiamento climatico.

Quanto è importante la trasparenza?

Molto, ma non è abbastanza. Può generare senso di responsabilità, ma funziona solo se le persone capiscono a cosa serve, cosa stia mostrando e se hanno a disposizione gli strumenti, il sistema e il luogo per generare una presa di responsabilità. Prendiamo ad esempio i Panama Papers: in alcuni paesi le rivelazioni hanno creato cambiamenti sociali e politici. In altri non hanno avuto nessun impatto perché il sistema non ha reagito a quelle informazioni.

Nel suo intervento ha parlato di tecnologia contro umanità…

Oggi, quando la tecnologia incontra l’umanità bisogna chiedersi “È la tecnologia che è al servizio dell’umanità o le sta solo dando una nuova forma? È una distinzione enorme. Dobbiamo fare in modo che la tecnologia migliori l’esistenza ma quando inizia a plasmare il modo in cui interagiamo, il modo in cui scopriamo le cose o abbiamo accesso al mondo, allora diventa pericolosa.

È il rischio generato dal profitto. Può esistere un equilibrio tra profitto e bene comune digitale?

È possibile fare soldi ed essere un’azienda eticamente corretta che abbia a cuore le persone che usano i suoi prodotti e quelle che li sviluppano. È molto difficile, però, riuscirci essendo una azienda di grossissime dimensioni. Negli anni si sono formati imperi tecnologici, le compagnie hanno scalato la vetta molto velocemente. Ma hanno dimenticato di tutelare la diversità, hanno permesso che tutto il potere fosse di una manciata di persone. Un singolo ingegnere di software può generare un cambiamento su miliardi di utenti. Allora, chi ha il controllo: le persone o la tecnologia? Se l’unico metro di misura per valutare una tecnologia è la quantità di soldi che si producono per gli azionisti, non si terrà mai conto dell’impatto sul mondo. Se il modello di business si basa sul tempo che un utente trascorre sul tuo sito, si sta misurando l’impatto solo in ottica aziendale non certo dell’individuo.

Come possono intervenire le istituzioni?

I governi devono garantire che le persone abbiano il potere, il controllo, la sicurezza e i diritti nella tecnologia così come fanno in modo siano garantiti in tutti gli altri ambiti della vita. Certo, il compito dei legislatori è difficile perché pone nuovi paradigmi: la tecnologia che si usa in Portogallo è la stessa in Italia e non si possono dover applicare diverse norme. Abbiamo una responsabilità collettiva, la sfida è ben oltre i singoli confini.

E riguarda la conoscenza…

La conoscenza è fondamentale: i Ceo delle tech company devono essere più disponibili a lavorare con i governi per pensare i servizi nell’ottica del bene comune e della società. I governi devono essere più aperti al confronto con le aziende. I legislatori, invece, devono essere preparati: spesso semplicemente non capiscono di cosa si parli e come comportarsi. Accade così che introducano norme con conseguenze, anche involontarie, terribili. Dalla riduzione della libertà di espressione alla violazione della privacy.