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Il faro del “Fatto” su Taranto e l’Ilva resterà sempre acceso

Salve, ho appena guardato la trasmissione Omnibus su La7. Sono di Taranto e vorrei dire al Direttore Marco Travaglio che non ho mai ascoltato un giornalista che dice, finalmente, le cose precisamente come stanno qui a Taranto.

Questo vuol dire essere informato. Questo vuol dire fare informazione. I lobbisti e i cloni di Calenda sono dei falsificatori. Ringrazio il direttore di cuore e spero che venga al più presto qui a Taranto per far accendere i riflettori sul nostro dramma. Ci teniamo.

Cosimo Fittaiolo, ex operaio Ilva operato di carcinoma alla gola

 

Caro Cosimo, grazie di cuore.

Spero di tornare presto a Taranto, anche prima del concerto del Primo Maggio a cui ho partecipato (parlando) varie volte. Intanto il faro del Fatto sulla vostra città e la vostra fabbrica resterà sempre acceso.

M.trav.

 

Le auto aziendali vanno soltanto ai dirigenti

Sento spesso le dichiarazioni di politici (in primis Matteo Salvini) secondo cui la tassazione delle auto aziendali, concesse ai dipendenti come fringe benefit e non per necessità di lavoro, sarebbe una nuova tassa sulle spalle di impiegati di medio livello, gente con stipendi che vanno dai 30.000 ai 50.000 euro. Io sono un ingegnere in pensione, ho lavorato per quasi quarant’anni nell’industria privata, e in base alla mia esperienza posso dire che tali auto, spesso di grossa cilindrata, vanno a dirigenti e direttori con stipendi ben al di sopra delle cifre sopra riportate. Questo per oggettività di informazione.

Guido Bertolino

 

Adesso Milano si unisca alla senatrice a vita

Ho appreso ieri mattina, con stupore e sdegno infinito, che il Comitato per l’Ordine e la Sicurezza di Milano ha deliberato l’assegnazione di un servizio di tutela alla Senatrice a vita Liliana Segre. Ma dove siamo arrivati!? Credo che Milano debba dare una risposta forte, di piazza, di fronte a una situazione che ha passato il segno da tempo! Mi metto umilmente a disposizione per qualsiasi cosa possa servire, nel mio infinitesimo piccolo. Facciamo sentire alla senatrice Liliana Segre che questa volta la sua città non si gira dall’altra parte, non è indifferente! Usiamo tutti i canali a disposizione e facciamolo subito.

Laura Incantalupo

 

Lo diceva don Farinella: no a complicità con i corrotti

Sono passati 10 anni, ma sembra ieri. Invito voi e i vostri lettori a rileggere la lettera di Don Paolo Farinella al Cardinale Ruini, pubblicata su Micromega online nel 2010: basta complicità con i corrotti.

Lino Chiandetti

 

DIRITTO DI REPLICA

In relazione all’articolo pubblicato il 7 novembre dal Fatto Quotidiano con il titolo “Scandalo Eni: dalla Nigeria la prova della maxitangente”, a firma di Gianni Barbacetto, precisiamo quanto segue:

1. Il versamento da parte di Eni e Shell al Governo della Nigeria sul conto dello stesso governo presso la JPMorgan a Londra del corrispettivo stabilito negli accordi per la concessione della licenza è stato eseguito in esecuzione degli obblighi contrattualmente assunti con tale governo e a esso esclusivamente destinato.

2. Risulta agli atti del processo in corso presso il Tribunale di Milano, ed è oggi incontrovertibilmente e definitivamente provato, che i successivi pagamenti da parte del Governo a Malabu Oil & Gas Ltd. in esecuzione dei diversi e separati accordi tra gli stessi (che includono anche NNPC e Shell, ma di cui Eni non è parte) sono stati espressamente autorizzati dall’autorità britannica competente in materia di antiriciclaggio e lotta al crimine organizzato (SOCA) in diverse e multiple occasioni.

3. Che tali autorizzazioni della SOCA hanno coperto un arco temporale di oltre due anni e si sono fondate su una completa rappresentazione dei fatti fornita da JPMorgan sia in merito alla tipologia di transazione tra il Governo e Malabu, sia ai possibili beneficiari economici di Malabu stessa.

4. Eni è totalmente terza ed estranea ai contratti, destinazione e flussi dei pagamenti del Governo Nigeriano e ad ogni successiva (effettivo o presunto) modalità di utilizzo degli stessi da parte del beneficiario Malabu.

Facciamo inoltre presente, per completezza di informazione, che le vicende relative al tentato acquisto da parte dell’ex Attorney General Nigeriano, Adoke Bello, di una proprietà immobiliare in Nigeria sono già note al pubblico (e per questa via anche ad Eni) da anni, e anche ampiamente narrate in prima persona nella sua autobiografia “The Burden of Service” (Clink Street Publishing, 2019). In particolare, leggendo pagina 97 della citata autobiografia, è possibile apprendere che il Sig. Adoke Bello, non riuscendo a sostenere l’interesse del mutuo contratto per l’acquisto di tale immobile, ne ha dovuto restituire la proprietà al promesso venditore. Eni era e rimane totalmente estranea a tali vicende di cui non ha diversa contezza o diretta conoscenza alcuna. Le stesse informazioni, peraltro, sono altresì riscontrabili da molteplici fonti aperte ormai da anni.

Erika Mandraffino, Senior Vice President, Global Media Relations and Crisis Communication Eni

Ma che per caso è uscito un nuovo libro di Veltroni?

Ieri mattina, mentre commettevamo il nostro dovere di leggere i giornali, ci è come venuto un dubbio: ma non è che è uscito un libro di Veltroni? Alla quarta paginata, alla quarta firma prestigiosa del quarto prestigioso quotidiano, il dubbio s’è fatto certezza: sì, è uscito. È un giallo, anzi un “thriller in salsa rosa, il giallo addolcito dalla verve della commedia”, “pieno di segreti, misteri e colpi di scena” (Stampa). E come se la cava Walter? “Conduce la storia con mano leggera, spirito divertito, gusto nello spaziare tra cinema e letteratura, rimandi e richiami, e il racconto è spassoso” (Messaggero); “Una volta aperto il libro lo si legge fino alla fine” (Repubblica); “Una trama solida e forte, allucinata a tratti ma sempre consequenziale, animata da colpi di scena e sovvertimenti di pregiudizi sapientemente assecondati, condita da ironia ben disseminata” (CorSera). Ah, bene. E ricorda qualcuno? Un “Maigret capitolino”, un “novello Ingravallo” (Stampa). E che ne viene fuori? “L’acuta metafora di una vita quotidiana fatta di profonde solitudini digitalmente connesse” (CorSera). Ma guarda. E poi? Che “L’impurità, il compromesso, i conti con la realtà e dunque i conti con i propri limiti sono il segreto del Bene; la purezza, l’ossessione, l’integralismo sono il motore del Male” (Repubblica). Ma dai! E c’è speranza che ne facciano un film? È “concepito apposta per un film, meglio ancora per una serie tv” (Repubblica). Ma chi l’ha detto che la critica è morta? Magari, ecco, è la letteratura che non se la passa bene.

Imu. L’imposta sulla prima casa dei furbetti e i controlli dei Comuni

 

Una precedente legge in vigore dice che, se due coniugi hanno due case nello stesso Comune una paga l’Imu, mentre invece se sono in Comuni diversi nessuna delle due paga.

Si tratta di una vera ingiustizia, un’assurdità, considerando che magari la seconda casa si trova soltanto pochi metri oltre il confine comunale. O si paga per entrambe le case o per nessuna. Vorrei chiedere al governo di modificare questa legge. Credete sia possibile?

Franco Rinaldin

 

Gentile Rinaldin, facciamo un po’ di chiarezza. L’Imu (Imposta municipale unica) è stata introdotta nel 2012 per sostituire l’Imposta comunale sugli immobili (Ici) e da allora non è mai cambiata. La normativa prevede che se due coniugi hanno la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi ubicati nello stesso Comune, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze si applicano a un solo immobile. In buona sostanza è possibile pagare l’Imu e la Tasi per una sola unità immobiliare. L’esenzione per entrambe le case, destinate ad abitazione principale, sarà però possibile se i due immobili sono ubicati in Comuni diversi. Ma ciascun coniuge deve avervi stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica. E, per evitare quelle che lei chiama ingiustizie, è stato specificato in diverse circolari del ministero dell’Economia, che ai fini Imu, per dimostrare che la casa non abbia solo la residenza anagrafica, ma sia effettivamente la propria dimora abituale, “si deve esibire ogni documento utile che dimostri che presso quell’indirizzo il soggetto interessato non ci viva solo occasionalmente”. A fare i relativi controlli sono i Comuni. Quindi il dato sostanziale della “abitualità della dimora” non può essere figurativo, ma reale anche se si abita a pochi chilometri dall’immobile in cui risiede il coniuge. Insomma, un tecnicismo che serve proprio per stanare i furbetti. Il governo, nel frattempo, una modifica sull’imposta l’ha già fatta con la riforma delle imposte sulla casa inserita nella legge di Bilancio: nel 2020 sparirà la Tasi, che alla fine era solo un doppione dell’Imu, mentre la nuova Imu accorperà i due tributi. L’aliquota rimarrà la stessa (pari all’8,6 per mille) che i sindaci potranno portare fino al 10,6 per mille (valore massimo) o azzerarla del tutto. Per il 2020, i Comuni avranno la possibilità di aggiungere uno 0,8 per mille. In attesa delle decisioni dei sindaci, la prima rata Imu del 2020, con scadenza fissata a giugno, sarà pari al 50% di quanto versato nel 2019.

Patrizia de Rubertis

Un tweet non ci restituirà George Orwell

“Tutto ciò che posso affermare con sicurezza è che l’antisemitismo fa parte del più complesso problema del nazionalismo, che non è mai stato seriamente studiato, e che l’ebreo è evidentemente un capro espiatorio, sebbene non si sappia per chi e che cosa debba espiare”. Lo scriveva George Orwell (1903-1950) nel febbraio del 1945. Proprio quell’Orwell, o Eric Arthur Blair, il suo vero nome, che oggi viene citato a sproposito e travisato volgarmente a destra e a manca, ma più a destra che a sinistra: da Ignazio La Russa (che nel 2014 parlò di 1984 chiamandolo Il grande fratello…) a Matteo Salvini, che, da campione delle fake news, discetta dell’orwelliano ministero della Verità.

È pertanto il caso di ridare a George Orwell, narratore, polemista e militante politico (fu con le milizie antistaliniste del Poum nella guerra di Spagna), ciò che è di Orwell, rammentandolo brevemente per ciò che davvero è stato.

Intanto fu un uomo e un intellettuale di sinistra, un libertario, “veramente un socialista” come il poeta Stephen Spender lo definì. Attaccò l’imperialismo britannico, come in Giorni in Birmania; raccontò le condizioni di vita spaventose dei minatori inglesi con La strada di Wigam Pier. Narrò la sua Spagna al fianco degli anarchici e dei comunisti di sinistra, o trotzkisti, in Omaggio alla Catalogna, e si batté contro il nazismo. Memore di quanto era accaduto a Barcellona nel 1937, quando anarchici e militanti del Poum furono eliminati dagli stalinisti, denunciò poi i crimini del totalitarismo, in particolare dell’Urss e del cosiddetto “socialismo reale”, ne La fattoria degli animali e 1984.

Tutto ciò fu dunque Orwell, la vita e le opere del quale sono del tutto inconciliabili con le idee (ammesso che ve ne siano) e le pratiche politiche dei La Russa e dei Salvini. E benissimo ha fatto la senatrice a vita Liliana Segre a replicare con nettezza alle dichiarazioni del leader leghista, che ha parlato dei suoi timori per “uno Stato che ritorni a Orwell”. La Segre ha risposto: “Mi ha scippato un autore che cito moltissimo quando vado in giro per le scuole. Sia 1984, sia La fattoria degli animali, restituiscono la brutalità del totalitarismo. Mi sfugge cosa c’entri tutto questo con la commissione contro l’odio razziale. Ma Orwell resta l’unico punto di contatto tra me e la Lega. Seppure da punti di vista radicalmente opposti”.

“Il punto è che la civiltà moderna – scriveva Orwell sempre nel ’45 – è priva di qualche cosa, di qualche vitamina psicologica e ne risulta che tutti siamo più o meno afflitti dalla follia di credere che intere razze o nazioni siano misteriosamente buone o misteriosamente malvage. Io sfido qualsiasi intellettuale moderno a esaminare con attenzione e onestà la sua coscienza e a dire se non si imbatterà in qualche suo amore o odio nazionalistico”.

Orwell pensava che “probabilmente sarà meglio cominciare non dimostrando che l’antisemitismo è irrazionale, ma ordinando e classificando tutte le giustificazioni che possono venire reperite nella propria e nell’altrui coscienza. In tal modo si riuscirà forse a scoprire alcuni indizi, capaci di condurci alle radici psicologiche del fenomeno”.

Questo è George Orwell, non quello citato, ma non letto, dai “social” e dai “tweet” dei riscrittori della storia e dei manipolatori della verità.

Contro i conflitti del capitale serve un partito del lavoro

Nel nome di Marx il socialismo reale ha compiuto infiniti misfatti distruggendo anche ciò che di buono c’era nel filosofo di Treviri; nessuna nostalgia per l’autore del Manifesto, ma è certo che Marx, mentre esaltava la funzione storica della borghesia, ne vedeva anche le contraddizioni, le tendenze del sistema e il bisogno capitalistico del profitto, dagli effetti talvolta tragici. Non penso qui tanto alla “teoria del valore” (contestata da Sraffa in Produzione di merci a mezzo di merci), quanto ai “costi umani” del capitalismo industriale che il Nostro denuncia con lucidità: “la logica del profitto privato” crea lavoro, ma tende a scontrarsi anche con la salute e l’interesse collettivo.

Significa che qui (come ancora nel Novecento) si pensi all’abolizione del capitalismo? No. Si sottolinea che i costi umani del sistema industriale, denunciati dall’autore del Capitale, permangono e sono tragicamente messi in evidenza da Mittal che ricatta di lasciare Taranto “per colpa” dell’abolizione dello “scudo penale”. È illuminante la vignetta di Vauro: l’ex Ilva ci pone di fronte a una scelta: “O con me o con me”, e non è un dettaglio che sia la morte a parlare. Molti gli errori commessi: dai rapaci imprenditori che “pensano solo al profitto” ed esportano miliardi all’estero; ai politici di destra e di sinistra che “pensano solo al consenso” e non elaborano una seria politica industriale. E oggi? Tutti contro il governo Conte che ripristina – abolendo lo “scudo penale” – la legalità costituzionale: un ribaltamento vergognoso della verità avallato dai giornaloni, e un disastro politico perché Taranto non è salva dalla catastrofe ambientale e diecimila operai rischiano il lavoro: il danno e la beffa. Si prenda atto che governi deboli non producono una politica industriale coraggiosa, che ci vuole un progetto, un’idea di Paese e un governo capace d’attuarla.

Pd e 5stelle non hanno sbagliato a presentarsi uniti in Umbria; l’errore – ha ragione Cacciari – sta nel non fare un’alleanza organica: solo un serio governo progressista può affrontare il tema lavoro attenuando fortemente i costi umani dello sviluppo. È utile tenere insieme filosofia, economia, politica: a) la filosofia: Marx denuncia i costi umani del sistema industriale; Hans Jonas parla di “Principio responsabilità” contro la tecnica che devasta l’ambiente: il libro è del 1979, ma deve essere sfuggito ai Mittal e ai Riva; b) il potere economico: i Mittal (come già i Riva) se ne fottono dei costi umani e del Principio responsabilità: pensano al profitto, avallati da chi parla di “ovvie garanzie per l’investitore straniero” (Stefano Folli, Repubblica, 6 novembre). Ovvie perché? Da quando in Italia c’è licenza di uccidere tramite polveri sottili? c) Infine la politica: mostra la sua impotenza e non tutela la salute né i posti di lavoro (vedremo adesso l’esito delle trattative a Palazzo Chigi); i dem intanto tremano, “perderemo anche l’Emilia”. Ovvio: perché gli operai dovrebbero votarli se anche sul caso Mittal sembrano un appendice di Confindustria? Il Pd è dentro un’ambiguità di cui deve liberarsi; urge tornare a principi di sinistra e in breve dar vita a un nuovo partito che affronti i problemi dell’industria, dell’occupazione, della salute dei cittadini. Non c’è altra strada: Pd+Leu+5Stelle = Partito del lavoro. Gli operai di Taranto, Torino, Milano, Genova, Napoli, eccetera, hanno bisogno di sentirsi tutelati da un soggetto politico che li rappresenti davvero e torneranno a votarlo; altrimenti Salvini forever. Perdere ancora tempo prima della nascita di un Partito del lavoro significa porsi in condizioni di debolezza nei conflitti col capitale (non solo Mittal); fare il gioco di Salvini, sovranista che difende il capitale straniero; dichiarare la propria impotenza e irrilevanza politica.

La scorta a Segre difende anche noi

Liliana Segre, l’orrore, l’ha sempre raccontato in modo asciutto. Non c’è mai stata una sbavatura retorica, mai una concessione allo stile più lacrimevole nella sua narrazione dell’Olocausto. “Io racconto una storia, io racconto come sono capace, perché non ho certo la vena poetica di Primo Levi, di Etty Hillesum. La mia testimonianza non è né un’elaborazione né uno studio teologico, critico, filosofico, psicoanalitico, ma una storia personale”, ha detto più volte. Eppure, la dolce Jeanine che va a morire senza che lei la accompagni anche solo con lo sguardo, quel frugare nell’immondizia per mangiare gli avanzi dei tedeschi, il papà che sparisce durante la prima selezione di Auschwitz, le visite e il dito del medico sadico sulla sua cicatrice, sono racconti terrificanti.

Liliana Segre è riuscita a restituirci l’orrore senza retorica. Forse quel dolore che a 14 anni l’ha trasformata nella ragazzina dura che voleva vivere – come lei stessa ha raccontato – ha reso la sua cifra così efficace proprio perché scarna. Perciò, quello che significa la scorta che le è stata assegnata va raccontato in maniera altrettanto asciutta, senza retorica. È un passaggio dovuto a una donna testimone di verità che non consentono sconti.

La decisione di farla accompagnare da due carabinieri negli spostamenti è qualcosa che va molto oltre le minacce e il presunto pericolo che la Segre starebbe correndo. Non è lo striscione di due imbecilli di Forza Nuova, non sono le minacce di qualche odiatore sul web che impongono di proteggerla con le divise e una pistola. Non credo che la vita di questa donna sia realmente in pericolo. Ci sono odiatori 2.0 pronti a infilarsi in ogni singola fessura della cronaca e della politica. Alcuni per ignoranza o meschino convincimento, la maggior parte per esibizionismo, stupidità, arroganza. Indignarsi come se davvero qualcuno stesse meditando il suo assassinio significa, temo, non aver centrato il punto. Quella scorta non difende Liliana Segre, ma ciò che Liliana Segre rappresenta. Non difende una donna, ma tutti noi. Fa scudo a un pensiero, alla civiltà, agli insegnamenti della storia, non a un proiettile. Ed è proprio nel suo essere un atto simbolico, che quella scorta diventa ancora più importante.

A pochi giorni da quella scena avvilente dei senatori che restano seduti, lo Stato si alza in piedi. Rifugge da qualsiasi possibile ambiguità. Nel frattempo ho sentito parlare di antiterrorismo, di indagini e fascicoli contro ignoti per alcune frasi odiose sul web contro la Segre. Per carità, l’idea che questi miserabili vengano scovati e puniti non mi strazia. Credo però che, anche in questo caso, sia proprio la Segre a insegnarci qualcosa, ad andare dritta al punto. “Sono persone per cui avere pena e vanno curate. (…) Bisogna studiare, vedere le cose belle che abbiamo intorno, combattere quelle brutte, ma perdere tempo a scrivere a una novantenne per augurarle la morte… Tanto c’è già la natura che ci pensa”. Gli odiatori le fanno più pena che paura. Non vuole neppure commentare la decisione di assegnarle i due carabinieri per proteggerla. Se ne sta lì, sotto la pioggia, va a una mostra camminando accanto ai carabinieri che la riparano con l’ombrello e al cronista che le chiede cosa pensi di questo provvedimento, a quel cronista che forse si aspetta parole cariche di sdegno e di timore, lei risponde ancora una volta senza fronzoli: “Non voglio rilasciare nessuna dichiarazione, voglio solo guardare la mostra”. Intanto però sorride, stringe forte il braccio del carabiniere che l’accompagna. Si capisce che non si sente minacciata. Si sente accudita.

Ed è questo che è la scorta a Liliana Segre. Lo Stato che si prende cura di noi. Che difende la civiltà. Che difende non una sopravvissuta da qualche odiatore acquattato dietro una tastiera, ma tutti noi dall’odio, dalla violenza, da rigurgiti razzisti. La Segre ha raccontato con queste parole il momento della liberazione: “Io avevo odiato, per tutto il tempo della mia prigionia, i miei persecutori, li avevo odiati con una forza enorme e in quel momento, quando vidi il comandante di quell’ultimo campo vicino a me spogliarsi e buttare divisa e rivoltella ai miei piedi pensai ‘adesso, con grande fatica, vista la mia debolezza, mi chino, prendo la pistola e lo uccido’. Mi sembrava il giusto finale per quello che avevo visto e sofferto, per quello che avevo visto soffrire e morire intorno a me. Una tentazione fortissima. Ma, in quell’attimo stesso in cui ebbi la tentazione di uccidere, capii che io ero diversa dal mio assassino, che io non avrei mai potuto uccidere nessuno per nessun motivo. Non ho raccolto quella pistola e da quel momento non solo sono stata libera, ma sono diventata donna di pace”. La scorta a Liliana Segre, oggi, difende non una donna, ma il suo concetto di pace.

Come si impedisce che escano i boss

I magistrati che celebrano processi di mafia nei territori endemicamente infestati dalle rispettive organizzazioni criminali, sono (o sono stati fino a pochissimo tempo fa) come squadre che giocano in trasferta. Non godono del favore della gente: le realtà territoriali in cui operano Cosa Nostra, ‘ndrangheta, sacra corona unita e camorra sono tendenzialmente più vicine a esse che ai rappresentanti dello Stato.

Al contrario, le autorità giudiziarie che si sono trovate a fare indagini e celebrare processi di mafia dove questa si è insediata in epoche recenti e solo per ragioni di sfruttamento delle risorse economiche (Lombardia, Toscana, Piemonte, Liguria) potevano godere dell’appoggio dell’opinione pubblica, quindi giocavamo in casa, in campo amico. È una differenza non di poco conto, che attiene alla natura stessa delle organizzazioni mafiose più antiche. Cosa Nostra siciliana, per esempio, ha da sempre esercitato sul territorio una pretesa di dominio assoluto ed esclusivo, ponendosi (verso le popolazioni residenti) come l’unica autorità legittimata a esercitare il potere, naturalmente con gli strumenti della violenza e della minaccia diffusi, al punto da produrre quell’intimidazione ambientale che ha a sua volta prodotto la sottomissione di larga parte della popolazione.

Tutto ciò non emerge, per fortuna, nei territori di “conquista” ove non si riscontrano fenomeni di radicamento territoriale e di dominio in alternativa e in contrasto con la sovranità statale. A causa della straordinaria forza del vincolo associativo e dell’obbligatorietà della fedeltà all’organizzazione e soprattutto del favore ambientale di cui, purtroppo, ancora la mafia gode, i capi che soffrono o hanno sofferto lunghi periodi di detenzione vengono attesi nei luoghi di origine con trepidazione, perché sono considerati come i depositari del carisma e del reale potere di dominio e controllo del territorio. Non molto tempo addietro si era diffusa, con qualche anticipo, la notizia della prossima scarcerazione di un importante elemento di una potente famiglia mafiosa, prima condannato all’ergastolo e poi assolto. Aveva sofferto un lungo periodo di carcerazione, era sempre stato un detenuto modello, aveva seguito con diligenza i programmi di recupero. Purtuttavia dalle intercettazioni che avevamo in corso, nei confronti di altri esponenti della medesima famiglia in attività di servizio, emergeva in maniera inequivocabile che tutti aspettavano il giorno della scarcerazione, per riconoscere al vecchio (ma neanche tanto) boss il ruolo e il posto di comando che gli spettavano di diritto, per aver sopportato il carcere da vero uomo d’onore, senza mai cedere alla tentazione di collaborare per ottenere benefici. Riguardando i numerosi e autorevoli interventi sull’ergastolo ostativo di questi giorni, dopo le due pronunce della Corte europea e della Corte costituzionale, credo che le considerazioni che ho fatto in premessa spieghino perché le maggiori preoccupazioni per le possibili conseguenze dell’allentamento del regime previsto dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario siano state espresse da colleghi che hanno svolto la loro attività nel Mezzogiorno e si sono occupati, in modo esclusivo o prevalente, di processi di mafia. Le diverse opinioni sul tema sono quindi, a mio avviso, il frutto di differenti sensibilità maturate dalle rispettive esperienze professionali e dalle diversità ambientali e geografiche. Personalmente condivido le preoccupazioni espresse da alcuni soprattutto perché, dopo più di 40 anni di esercizio di funzioni requirenti a Palermo, di cui circa 30 esclusivamente trascorsi a occuparmi di indagini e processi di mafia, mi sono convinto dell’irredimibilità del mafioso non collaborante. Come ho detto, il mafioso non collaborante che esce dal carcere (anche solo per un periodo di permesso in famiglia) è vincolato dall’originario giuramento di fedeltà all’organizzazione che gli impone (pena l’essere considerato un traditore e quindi pena la morte, né più né meno come un collaboratore) di tornare a essere quello che era stato prima della carcerazione: cioè un mafioso in servizio permanente effettivo, senza alcuna possibilità di distacco o di allentamento del vecchio vincolo. Ma credo sia necessario fare un’altra precisazione: la pena dell’ergastolo viene inflitta a fronte di un giudizio di colpevolezza per uno dei delitti ritenuti più gravi dal nostro ordinamento (omicidio, strage) e diventa ergastolo ostativo quando quel delitto è stato commesso nell’ambito di una militanza in un’organizzazione di tipo mafioso. Quindi quando viene riconosciuto come un omicidio o come strage di mafia. Ma quasi tutti i capi delle varie componenti di Cosa Nostra attualmente all’ergastolo ostativo sono stati condannati non per un singolo episodio di omicidio o strage di mafia, ma per numerosissimi episodi. Ci sono mafiosi detenuti che sono stati condannati per due, tre, dieci, venti o anche molti più omicidi di mafia, alcuni anche per molti omicidi e molte stragi di mafia. È chiaro che in sede esecutiva vengono chiamati alla fine a scontare un solo ergastolo, ma è altrettanto chiaro che si sono macchiati di una serie impressionante di quei gravissimi delitti per cui è previsto il massimo della pena. Mi chiedo se sia giusto che chi ha subito numerose condanne da ergastolo possa essere trattato alla stesso modo di chi si è macchiato di un solo episodio.

Se si scorrono i certificati del casellario dei più famigerati capi delle più sanguinarie famiglie di mafia ci si imbatte in numerose pagine che evocano tristemente gli omicidi e le stragi che hanno avuto come vittime esponenti delle istituzioni democratiche impegnati, con diversi ruoli, nel contrasto alle mafie. Concepire la concessione di un qualsiasi beneficio a costoro, senza pretendere in cambio la certezza della totale rivisitazione del loro trascorso criminale, significa annullare irrimediabilmente anni di impegno e di sacrifici di tutti coloro che hanno sempre agito per annientare definitivamente le mafie nel nostro Paese. Di fronte a un’istanza di benefici carcerari, avanzata da uno qualsiasi dei più pericolosi detenuti pluriergastolani, si dovrebbe imporre una inversione dell’onere della prova, che imponga all’interessato l’obbligo di dimostrare, con fatti e comportamenti univoci, che non sia più vincolato dal legame genetico con l’associazione e con i suoi esponenti e che abbia definitivamente reciso tutti i rapporti personali con costoro. Solo così si potrà evitare che il singolo giudice di sorveglianza possa, con un certo margine di serenità, decidere sull’istanza senza essere costretto a basarsi, per la propria decisione, soltanto sulle relazioni degli operatori dell’Uiepe o delle forze dell’ordine o degli uffici giudiziari competenti, che troppo spesso contengono notizie e considerazioni generiche e datate e raramente offrono la reale condizione del detenuto e dell’ambiente in cui ha operato da libero.

Sono convinto che imponendo al detenuto l’obbligo di documentare il proprio definitivo distacco dall’organizzazione mafiosa d’origine, ci si muoverebbe nel solco delle decisioni assunte dalle due Corti e al contempo si acquisirebbero concreti elementi di giudizio per evitare di rimettere in circolazione pericolosissimi criminali nemici giurati dello Stato. Se dunque la questione dovrà essere risolta con un disegno di legge (come il Fatto Quotidiano attivamente sollecita), l’idea dell’inversione dell’onere della prova in capo al detenuto che chiede di accedere ai benefici carcerari possa essere presa in considerazione per trovare un equilibrio tra gli opposti interessi in gioco.

* Sostituto procuratore della Repubblica a Palermo

Adesso ci pensa il sindaco Sala

Il governo soffre, la fiducia tra gli alleati latita, la corda è sempre più tesa. C’è bisogno di parole concilianti. Ecco: ci pensa Beppe Sala, sindaco di Milano con ambizioni di leadership nel Partito democratico. Anche lui, che pure avrebbe altro di cui occuparsi, sente il bisogno di dire la sua sulla manovra economica. Cosa ne pensa Sala di Quota 100, una delle misure del governo gialloverde su cui i Cinque Stelle non vogliono assolutamente tornare indietro? “Sono totalmente contrario”. Bene. “L’Italia è un Paese che invecchia – argomenta Sala – e oltretutto si deve prendere cura, invecchiando, di una fascia della popolazione sempre più numerosa. Il dato drammatico che emerge in altre ricerche è che ormai in Italia il numero delle persone che non lavorano nel 2019 supera il numero di persone che lavorano. Quindi io sono totalmente contrario a Quota 100”. Ma il sindaco di Milano ha un’opinione urgente anche sul Reddito di cittadinanza: “Riconosco i buoni propositi, ma a oggi di risultati non ne abbiamo visti”. E quindi, cosa dire di questi giallorosa? “Chiedono tempo, possiamo darglielo, ma se continuano a dire che non si può toccare Quota 100, che non si possono toccare gli 80 euro perché è un idea di Renzi e neanche il reddito perché è un’idea di Di Maio, cosa possiamo aspettarci?”. Salvini ringrazia.

Fine precariato per i bidelli (ma non tutti)

Nel decreto Scuola pubblicato in Gazzetta Ufficiale negli scorsi giorni, c’è una novità che dovrebbe mettere fine a 20 anni di precariato del personale che nei 32 mila plessi scolastici italiani si occupa di assistenza e pulizia (i vecchi bidelli): dal primo gennaio 2020, gli ex lavoratori socialmente utili (Lsu) e gli addetti degli appalti storici entreranno a far parte dei cosiddetti Ata (ausiliari, tecnici e amministrativi) alle dipendenze dirette dello Stato.

Ma se l’assunzione da parte del ministero dell’Istruzione metterà così fine alle esternalizzazioni, il provvedimento genera paradossalmente degli esuberi: dei 16 mila lavoratori attivi fino a oggi attraverso i diversi appalti esterni, l’assunzione scatterà solo per 11.263 di loro. “Non è ammissibile che un percorso che può mettere fine ad anni di difficoltà, ma anche di accordi che hanno rappresentato continuità di lavoro e di servizio, si concluda con i licenziamenti a causa di una legge che non ha previsto parametri efficaci per ricollocare e garantire l’attuale personale impiegato”, commenta Cinzia Bernardini della Filcams Cgil. Chiaro l’identikit degli esclusi a causa dei requisiti stringenti imposti. Bisogna avere un’anzianità lavorativa nella stessa mansione di almeno 10 anni. Dote, però, posseduta dal personale che vive nel Sud Italia, dove gli appalti fin qui hanno garantito contratti full time a 35 ore da circa 1.000 euro al mese, ma non nel Centro-Nord dove negli ultimi anni c’è stato un pesante turnover visto che vanno per la maggiori i contratti part time. È poi indispensabile che gli assunti siano puliti dal punto di vista penale e abbiano la cittadinanza attiva. Ma sono proprio questi requisiti a escludere dalla graduatoria migliaia di lavoratori che fanno parte degli ex Lsu.

Un avvitamento che vale la pena di ricostruire. Gli allarmi dell’Autorità anticorruzione e dell’Antitrust nel corso dell’ultimo decennio – a causa di bandi truccati da cartelli di imprese che si spartivano buona parte dei lotti assegnati o di aziende e cooperative che hanno smesso di pagare i lavoratori (è il caso di Manitalidea che ha alle sue dipendenze circa 4 mila lavoratori della Campania senza stipendio da prima dell’estate) – hanno spinto nel 2012 il governo ad acquistare i servizi attraverso la Consip, la centrale acquisti della Pa, ponendo fine agli affidamenti diretti che, tuttavia, non furono mai aggiudicati in tutte le Regioni.

Tanto che dal 2015 è stato attivato il finanziamento “Scuole belle” di circa 170 milioni per coprire i contratti non coperti dalla Consip. Di proroga in proroga, si è arrivati a dare occupazione a 16 mila lavoratori utilizzando entrambi i finanziamenti che ora, però, dal 2020 non considereranno più il plafond stanziato dal progetto “Scuole belle” e che lascerà a casa oltre 4.500 persone.

Freccia-rosso sangue. “Un’anima pia ha salvato mia figlia”

Da quando aveva 18 anni lavora sui treni: ogni giorno serve caffè e panini alle centinaia di passeggeri che affollano le carrozze di Trenitalia. Sempre – dicono – con un sorriso e con la serenità di tornare a casa dalla figlia a fine turno. Un lavoro e una vita normale. Fino a ieri mattina, quando è stata aggredita con un coltello.

Tra le stazioni di Reggio Emilia e Bologna, la donna, milanese di 41 anni, è stata colpita da numerose coltellate sferrate da un inserviente delle pulizie che lavorava sullo stesso treno: collo, torace, gambe, una furia inarrestabile davanti agli sguardi attoniti dei viaggiatori. Le urla, il sangue, mentre il Frecciarossa 9309 correva veloce. Uno dei passeggeri (un quarantenne di Parma) è intervenuto atterrando l’aggressore, un calabrese di 47 anni, e ferendosi a sua volta.

“Un’anima pia” per la madre della vittima, arrivata in serata all’ospedale Maggiore mentre la figlia era ancora in sala operatoria: “Quando ci hanno telefonato abbiamo pensato a uno scherzo, accoltellata sul lavoro? In treno?”. La donna sembra gravissima, viene portata via intubata: la prognosi è riservata. Un paio di ore di intervento e il pericolo più grosso sembra scampato: in tarda serata arriva la buona notizia che la donna è vigile e sta bene.

I corridoi dell’ospedale bolognese si riempiono di amici e colleghi della vittima: controllori, addetti alla ristorazione, macchinisti. Arrivano da diverse parti d’Italia, tutti a bordo di un treno per stare vicino a Maria. Sono loro a raccontare una parte di storia che, forse, potrebbe chiarire meglio la dinamica dell’aggressione: “Una storia privata, il lavoro non c’entra, una storia privata finita male”. Secondo gli amici tra l’aggressore e la vittima in passato c’era stata una relazione, conclusa in malo modo. Una storia clandestina nata forse proprio a bordo di un treno, giorno dopo giorno.

Se così fosse, l’uomo, arrestato alla stazione di Bologna dalla Polizia ferroviaria, avrebbe quindi premeditato l’attacco e si sarebbe portato il coltello a serramanico proprio con l’intenzione di fare male e forse uccidere.

Un’ipotesi al vaglio degli investigatori ma anche della famiglia e dell’attuale compagno della donna: “Non ho mai sentito nemmeno il suo nome, mai visto o incrociato, nemmeno sotto casa, non ci credo, magari ha avuto un momento di follia, lei non c’entra”. Dai primi controlli, il 47enne non avrebbe precedenti di stalking ai danni di donne, Maria compresa. Adesso si trova in stato di fermo con l’ipotesi di reato di tentato omicidio. Gli atti, visto che l’aggressione si è compiuta tecnicamente a Modena, potrebbero essere trasferiti dopo la convalida del fermo alla Procura relativa. Il treno è stato fermato per consentire alla polizia scientifica di eseguire i rilievi mentre i passeggeri venivano trasferiti su altri convogli. La circolazione ferroviaria è stata rallentata e alcuni treni hanno subito ritardi, ma per una volta nessuno se ne è lamentato.

Immediata la reazione dell’azienda tedesca per cui l’uomo lavorava che tramite un comunicato ha annunciato il licenziamento dell’uomo. La Dussmann service, che da anni si occupa delle pulizie sul comparto ferroviario, si dissocia “senza riserve dal comportamento del dipendente, tutte le pratiche necessarie al suo licenziamento immediato sono già state avviate”. La società sottolinea inoltre che “il dipendente non aveva precedenti per reati di tipo penale e che, prima di questo episodio, la sua condotta è sempre stata conforme a ogni regolamento”.

Una magra consolazione per i familiari, soprattutto per la madre preoccupata che l’uomo possa riprovarci: “Ogni settimana i giornali ci raccontano di una donna o una ragazza che viene aggredita o uccisa, magari anche lui vorrà riprovarci e lo ritroviamo sotto casa”. Già.