“I Radicali non sono certo tutti come Antonino Nicosia ”

Rita Bernardini, ex segretario di Radicali Italiani, (quelli di Emma Bonino con segretario oggi Massimo Iervolino) è attualmente consigliere nazionale dell’altro partito, Radicale Transnazionale. Le abbiamo chiesto una valutazione politica dopo il fermo per mafia di Antonino Nicosia, membro del Comitato di Radicali Italiani fino a una settimana fa.

Antonino Nicosia ha visitato le carceri quando lei era nel partito con lui?

Due volte ma sempre in mia presenza. Mi sembrava un esaltato e quando lui mi chiese di essere accreditato come il referente locale per poter fare le visite, gli ho detto no dopo una valutazione politica sul modo con il quale si poneva.

Michele Capano era il tesoriere di Radicali Italiani, una carica importante, fino al 2017. Oggi è nel Consiglio Generale del Partito Radicale, come lei, ed è avvocato del boss Filippo Guttadauro, cognato del boss Messina Denaro attualmente internato a Tolmezzo. Non è in conflitto di interessi un politico che fa una campagna sotto le bandiere radicali in favore anche di un suo cliente?

E perché scusi? Allora le Camere Penali? Rappresentano gli avvocati ma sono persino audite in Commissione Giustizia quando si fanno le leggi. Dove è lo scandalo?

Le Camere Penali rappresentano una parte. Il legislatore infatti sente loro ma pure i magistrati. Un partito dovrebbe mirare all’interesse generale quando si candida, o no?

Noi per statuto ci possiamo candidare come individui non come partito. L’importante è la trasparenza. Tutti sanno che Michele Capano è avvocato di Filippo Guttadauro. Se rilascia dichiarazioni a favore dei detenuti all’ergastolo bianco a Tolmezzo lo sanno tutti che sta parlando anche del suo cliente. Capano non è mai entrato a Tolmezzo con noi ma se ci andasse e poi facesse un’intervista in favore degli internati come il suo cliente non ci vedo nessun conflitto di interessi. Sa qual è il problema? Lei non considera minimamente che quella battaglia è giusta. Gli internati al 41 bis sono quelli che hanno già espiato la pena ma poiché sono ritenuti socialmente pericolosi restano isolati in carcere. Per legge dovrebbero stare in una casa di lavoro o in una colonia agricola, a Tolmezzo solo grazie alle battaglie del Partito Radicale per un periodo almeno gli facevano coltivare l’orto.

Se scoprisse che, a combattere con lei questa battaglia ci fosse un iscritto e dirigente di Radicali Italiani, che mira non a favorire la rieducazione bensì il passaggio dei messaggi dei boss, il senso della battaglia cambierebbe, o no?

La battaglia per legalizzare la presenza degli internati al 41 bis resta giusta poi gli investigatori hanno tutti gli strumenti per accertare che i messaggi non passino. E ovviamente questa strumentalizzazione va combattuta.

Per i pm, il consigliere del suo partito, Michele Capano, che non è indagato, ascolta senza stigmatizzarle le parole di Nicosia che gli propone di andare a trovare il mafioso Rallo in carcere con la deputata Occhionero per poter parlare senza che le guardie ascoltino. Lei cosa ne pensa?

Penso che ambedue ignorino le leggi. Io ho fatto le visite al 41 bis quando ero parlamentare e le guardie erano sempre presenti. Inoltre Capano con la deputata Occhionero non sarebbe entrato comunque perché avrebbe dovuto sottoscrivere un foglio nel quale dichiarava di essere un collaboratore con contratto continuativo. Per me Nicosia millantava.

In percentuale sono molti i detenuti e avvocati iscritti che versano la quota al vostro partito? Non rischiate di essere condizionati nella vostra linea politica?

Sono stati 3 mila e 300 gli iscritti al Partito Radicale nel 2018. Poi essendo davvero Transnazionale però 740 provenivano da altri paesi. I detenuti erano 115. Gli italiani hanno versato e versano quasi tutti la quota di iscrizione minima di 200 euro. Il totale dell’autofinanziamento è stato 580 mila euro. I conti sono facili. Quindi i detenuti sono il 5 per cento del totale dei nostri iscritti. Gli avvocati sono 273. Anche sommando tutti gli avvocati e tutti i detenuti non si arriva al 15 per cento. Comunque i detenuti, se non ottengono un apposito permesso di tre giorni dal magistrato di sorveglianza per venire al congresso, non possono partecipare e votare. Non mi risulta sia stato dato mai questo permesso.

Il Fatto ha pubblicato spezzoni di tre audio di Antonino Nicosia, trascritti nel decreto di fermo. Per i pm direbbe ‘verosimilmente’ alla deputata Occhionero di farsi pagare per moderare le sue critiche sulla struttura del carcere della Giudecca e poi, sempre secondoo i pm, in un’altra comunicazione intercettata, ‘l’iniziativa criminosa veniva illustrata dal Nicosia anche all’avv. Capano’. Cosa ne pensa?

Sono contraria al taglia e cuci delle intercettazioni quindi non faccio il processo a nessuno sulla base di queste pubblicazioni. Nei primi messaggi, che lei mi dice essere diretti alla deputata Occhionero, Nicosia effettivamente sembra che parli di un progetto di estorsione. Mentre nella comunicazione con Capano mi pare che stia facendo un discorso molto meno chiaro, non penso che gli abbia comunicato il suo progetto.

Il boss Giuseppe Graviano simpatizzava nel 2016 per i radicali ma il segretario di allora, Maurizio Turco, disse che gli impedivano di versare la quota perché era recluso al 41 bis.

Giuseppe Graviano non è iscritto al Partito Radicale. Non ci sarebbe nulla di male se lo fosse. Le posso dire però che a un altro recluso al 41 bis, hanno sequestrato durante una perquisizione la tessera del Partito Radicale. C’era anche un foglio con il preambolo dello Statuto ispirato alla non violenza. A me sembrava educativo lasciarlo al detenuto e non toglierlo.

Così monsieur Renzi fu ingaggiato dall’azienda della Difesa francese

Altran Group, un’azienda francese della Difesa che lavora in Italia, ha ingaggiato Matteo Renzi per un convegno. Però i soldi non sono transitati sui conti dell’ex premier – e dunque sfuggono ai controlli sulla trasparenza dei politici – ma sono finiti a un’associazione culturale.

Renzi è a suo agio più col francese che con l’inglese. Il 19 giugno scorso era all’Air Show di Parigi, il rinomato Salone dell’aeronautica militare e civile, con i galloni di ex premier italiano, senatore semplice di Firenze, ancora nel Pd e perciò capo di una minoranza di un partito di opposizione. Ha interloquito in francese nei convenevoli con i dirigenti di Altran Group, multinazionale di consulenza e ingegneria nei settori del- l’aerospazio, ma è intervenuto in inglese, per ragioni di protocollo, al dibattito su tecnologia e geopolitica nel padiglione per le conferenze degli stessi francesi di Altran Group con la moderatrice Annalisa Chirico, giornalista inserita in plurimi ambienti. Così la delegazione italiana, in missione all’Air Show Parigi, per difendere l’industria italiana, in perenne e feroce concorrenza con i francesi, avrà notato l’inopinata presenza di Renzi, schierato nell’altro campo. Quello dei rivali.

Adesso Altran Group ha un interlocutore privilegiato nel governo italiano che quel giorno di giugno fu invitato per “rispondere a dieci domande su quesiti globali”, si presume in veste di oratore. Perché le leggi contro la corruzione, come precisa Altran Group, società quotata in Borsa, impediscono di finanziare movimenti o esponenti politici. Renzi fa sapere al Fatto che non ha ricevuto denaro da Altran Group, ma che l’evento era gestito da un’associazione culturale che porta il nome di Giovanni Spadolini, repubblicano, fiorentino, giornalista e storico, direttore del Corriere, primo ministro, presidente del Senato, senatore a vita. Il professor Cosimo Ceccuti, che custodisce il pensiero dello studioso Spadolini con l’omonima Fondazione, l’unica associazione riconosciuta, smentisce ogni legame con un salone di velivoli che sganciano bombe: “Noi non c’entriamo con le armi e discutere di ciò mi fa sorridere. Il nostro rapporto con la Francia si limita a una mostra su Napoleone, assai amato da Spadolini. Io non dispongo del censimento di ciascun gruppo che si rimanda alla memoria di Spadolini, ma se fosse di una certa rilevanza, le garantisco, l’avrei captato”. L’azienda francese conferma la nostra ricostruzione e sull’ingaggio di Renzi spiega: “Altran gli ha proposto, in quanto ex primo ministro, una discussione su ‘dieci domande su questioni globali: i dieci maggiori rischi in campo tecnologico e geopolitico nel 2020’. Altran Group ha pagato un gettone una tantum all’associazione che ha gestito la partecipazione di Renzi allo stand di Altran. È la sola relazione con Renzi”. Nel novembre 2014, ai tempi di Chigi, Altran Group era a un tavolo della cena di raccolta fondi del Pd per una spesa “inferiore a 1.000 euro”. Nessuno svela il compenso per Renzi, che spiega al Fatto di non esser mai stato pagato da aziende, ma sempre – come avvenuto in oltre 50 occasioni in giro per il mondo – da agenzie specializzate o associazioni che organizzano tale tipo di incontri.

Il gigante Capgemini ha avviato un’offerta pubblica di acquisto amichevole dei connazionali di Altran Group, un’operazione da 3,6 miliardi di euro per creare un’azienda di 17 miliardi di fatturato e oltre 250mila dipendenti. Pure Renzi spesso discetta di fusioni di società a controllo statale, come per Fincantieri che fabbrica navi da crociera e da guerra e Leonardo (ex Finmeccanica) che si occupa di aerospazio civile e militare.

Il 17 settembre l’ex premier Renzi ha lasciato il Pd con una lunga intervista, una sorta di testamento anche sentimentale di un politico che ha raggiunto per due volte la segreteria del Nazareno e guidato l’Italia per mille giorni. Non è riuscito, però, a non cedere all’ossessione di suggerire il futuro di Leonardo e Fincantieri: “Non sono interessato a mettere il naso nelle nomine, ma voglio dire la mia sulla strategia. Perché continuiamo a tenere divise Leonardo e Fincantieri? Non rischiamo di farci mangiare da partner europei che investono più di noi sullo spazio e sulla difesa?”. Al contrario, gli amministratori delegati Alessandro Profumo di Leonardo e Giuseppe Bono di Fincantieri sono convinti che “unirsi sia un limite”. Ai francesi, semmai, farebbe piacere assistere a una contrazione di Leonardo e Fincantieri. C’è da sperare, dicono i più maliziosi, che Renzi non abbia trovato ispirazione nella trasferta parigina. Un paio di anni fa, durante il governo di Gentiloni, Altran Group ha tentato di acquistare l’italiana Next, ma Palazzo Chigi l’ha bloccata con il golden power, i poteri speciali, per “assicurare la tutela degli interessi nazionali della difesa e della sicurezza”. E Leonardo non collabora più con Altran per attività sensibili che richiedono il nulla osta sicurezza. A quale titolo, allora, Renzi viene ospitato da Altran e poi si esercita su Leonardo e Fincantieri?

Mr Sanità veneta a capo dell’Aifa, l’incidente e il referto: “Infarto”

L’inarrestabile ascesa dell’uomo forte della sanità veneta. Domenico Mantoan, dg dell’area “sanità e sociale” della Regione, commissario dell’Istituto oncologico veneto e liquidatore dell’Agenzia socio-sanitaria regionale (Arss), adesso è anche il nuovo presidente del Consiglio di amministrazione dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa).

La nomina, voluta dal governatore leghista Luca Zaia, arriva a pochi mesi dal pensionamento del dirigente maximo di un settore che ha un fatturato di quasi 10 miliardi di euro. Infatti, a primavera Mantoan lascerà gli incarichi tra Venezia e Padova, che sono però diventati il trampolino di lancio per una poltrona di prestigio e di rilevanza nazionale. La proposta di Zaia era stata approvata dalla Conferenza Stato-Regioni. Mancava solo la ratifica governativa, venuta con il consenso del ministro Roberto Speranza.

All’attività di Mantoan sono legati i primati della sanità veneta. Ma il suo nome ricorre, da tre anni, nella vicenda giudiziaria che riguarda l’autista della sua auto blu. Nel 2016, a Padova, con il dirigente a bordo, investì un ciclomotore. Il conducente cadde a terra. Il direttore di medicina legale dell’università di Padova, Massimo Montisci, dichiarò in una perizia che la morte era effetto di causa naturale: infarto. Ma è stato smentito da una super perizia ordinata dal giudice, che ha attribuito la causa all’urto violento urto. Siccome Montisci è indagato in un vicenda per la concessione di patenti di guida, la vicenda è finita sotto i riflettori della politica.

In consiglio regionale alcune interrogazioni hanno chiesto conto, con stupore, del mancato procedimento disciplinare nei confronti di Montisci e della perizia che aveva scagionato l’autista di Mantoan.

La carica dei boiardi per soccorrere Tim con i soldi della Cdp

Sullo sfondo della guerra per le poltrone nella galassia di Cassa Depositi e Prestiti, prende forma il mosaico delle grandi “operazioni di sistema” da vendere come inevitabili a un Paese distratto. La prima è il ritorno di Tim sotto l’ombrello statale. Si parte forse già oggi con l’assemblea di Cdp dove il Tesoro (che ha l’82%) coopterà in cda Franco Bassanini, in sostituzione di Valentino Grant, volato a Bruxelles con la Lega. Per l’eterno costituzionalista, deputato e ministro per decenni, iscritto a turno a quasi tutti i partiti, è l’ennesimo ritorno: ha già presieduto la Cassa dal 2008 al 2015, poi Renzi lo sostituì con Claudio Costamagna. La scelta l’ha fatta (o subita) il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, spalleggiato dal capo di gabinetto Luigi Carbone, parente della moglie di Bassanini, Linda Lanzillotta.

Il ritorno di Bassanini prelude all’operazione che viene fatta passare come “società pubblica della rete”, ma punta di fatto a soccorrere la malconcia Tim. Il 79enne boiardo, vent’anni fa uomo forte dei governi che vollero Telecom Italia privatizzata e consegnata alle scalate private a debito che l’hanno scassata, è il principale sponsor del piano, partito ad aprile 2018 con l’ingresso di Cdp in Tim (oggi ha il 9,9%). Bassanini è presidente di Open Fiber, la società della fibra ottica messa in piedi da Cdp e Enel per obbedire all’ordine di Matteo Renzi di costruire una rete statale alternativa a quella di Tim. L’operazione è programmata per il 2020 dall’ad di Tim Luigi Gubitosi e da quello di Cdp Fabrizio Palermo, con la regia del Tesoro per il tramite di Bassanini. Cdp conferirà il suo 50% in Open Fiber a Tim che gliela pagherà in azioni, facendone così il primo azionista con poco meno del 25% del capitale, davanti a Vivendi (23,9%) e al fondo Elliot (9,8%). Anche Enel venderà il suo 50%, ma per denaro sonante, per il quale Gubitosi avrebbe già contattato almeno una dozzina di fondi. E qui scatta il capolavoro.

L’investimento fatto da Starace in OF per far felice Renzi non sembra essere un successo. La società ha chiuso il 2018 con 97 milioni di perdita su 100 di fatturato e una posizione finanziaria netta negativa per 800 milioni, tanto che i soci hanno dovuto rimpolpare il capitale ed Enel ci ha dovuto mettere altri 125 milioni. Starace vuole vendere a un prezzo elevato per far vedere che è stato un investimento geniale, e per questo gli serve una iper valutazione di Open Fiber. Dalle parti del colosso elettrico si parla di sei miliardi, ma al momento non si può andare oltre i tre: valutare 1,5 miliardi il 50 per cento di OF in mano a Cdp serve, ai prezzi di Borsa attuali, a portare la mano pubblica in prossimità del 25 per cento, quota oltre la quale scatterebbe l’obbligo di Opa (offerta pubblica di acquisto). Serve però trovare un acquirente allo stesso prezzo per il 50% di Starace. A quel punto Tim si assicurerebbe la maggioranza in OF cedendole la sua società che fa l’ultimo miglio in fibra ottica, dalle cabine di strada alle case (Flash Fiber).

Così come è congegnata l’operazione è un soccorso all’ex monopolista. La Cassa diverrebbe primo azionista di una Tim in forte difficoltà. Ieri la trimestrale ha mostrato ricavi in calo a 4,4 miliardi (-6%). I debiti totali sono vicini a quota 30 miliardi, garantiti in parte dalla rete in rame, che non verrà scorporata come promesso per anni. I rialzi di Borsa propiziati dall’intervento statale permetterebbero a Vivendi ed Elliot di ridurre le loro perdite: negli ultimi 18 mesi il titolo Tim ha perso il 40%. L’operazione non piace ai 5Stelle che hanno chiesto inutilmente che Bassanini si dimettesse da Open Fiber. La battaglia è appena iniziata e sulle mosse di Palermo peserà anche l’arrivo di Giovanni Gorno Tempini che oggi sarà eletto presidente di Cdp su indicazione delle fondazioni bancarie dopo le dimissioni di Massimo Tononi. È stato il “grande vecchio” delle fondazioni Giuseppe Guzzetti a imporlo dopo il tentativo di Palermo di scegliersi come presidente l’inoffensivo Francesco Profumo, oggi a capo dell’Acri, la Confindustria delle fondazioni. Gorno Tempini, che non ha mai amato Palermo, ha già fatto sapere che vorrà vedere chiaro nelle strategie della Cdp che ormai – si lamentano al Tesoro -, sembra muoversi “a metà tra nuovo Iri e una merchant bank”.

Salvini lancia la Ceccardi e la Meloni s’arrabbia

Una conferenza stampa in grande stile per dirne “due o tre a Renzi e Nardella” e lanciare la campagna elettorale in Toscana. Il leader della Lega Matteo Salvini ha deciso di non aspettare l’esito delle elezioni regionali in Emilia-Romagna e, dopo la vittoria umbra, prova a fare il colpaccio anche nella (ex) regione più rossa d’Italia: questa mattina ha organizzato un incontro con i giornalisti nel cuore politico di Firenze, Palazzo Vecchio, da cinquant’anni occupato dal centrosinistra. Con lui ci saranno i consiglieri comunali e di quartiere della Lega che in questi anni hanno fatto un’opposizione durissima al successore di Renzi, Dario Nardella.

Il discorso di Salvini si concentrerà su due punti: in primo luogo darà il via alla campagna elettorale in vista delle Regionali della primavera e poi metterà nel mirino il suo leader acerrimo delle ultime settimane: Matteo Renzi e, di riflesso, il suo successore e fedelissimo Nardella. Per l’occasione proprio Salvini si è fatto preparare dal capogruppo leghista Federico Bussolin un “dossier” su tutte le falle dell’amministrazione di Renzi e Nardella.

Il leader del Carroccio insisterà in particolare sulle infrastrutture – dall’ampliamento dell’aeroporto di Peretola al tunnel Tav che dovrebbe sotto attraversare la città passando per il nuovo stadio – che ancora oggi restano “bloccate” tra “pastoie burocratiche e volontà politiche” ma anche sulla “insicurezza” del centro di Firenze. Ma la conquista, almeno per una mattina, di Palazzo Vecchio servirà a Salvini per sparare il primo colpo di pistola della campagna elettorale in vista delle regionali di maggio. Parlando con i giornalisti il segretario del Carroccio dovrebbe lanciare il nome con cui il centrodestra correrà alle regionali: quello della zarina ed ex sindaca di Cascina, Susanna Ceccardi. Lei, eletta europarlamentare a maggio facendo il pieno di preferenze nel centro Italia (48mila seconda solo a Salvini), nei giorni scorsi ha fatto sapere di essere pronta a “combattere” ma al Fatto dice che questa mattina non ci sarà: “Sono a Bruxelles e non potrò venire perché il mio aereo atterra a Pisa nel pomeriggio – dice dispiaciuta – e non penso che Matteo mi lancerà a mia insaputa”.

La cautela di Ceccardi, che con ogni probabilità sarà la candidata del centrodestra, cela una tensione nemmeno tanto velata con gli altri alleati di centrodestra. Nel vertice milanese pre-Umbria, Salvini e Berlusconi avevano garantito a Giorgia Meloni che in Toscana il candidato sarebbe stato di Fratelli d’Italia ma, dopo il voto che ha rischiato di far ballare il governo Conte, adesso il leader del Carroccio vuole prendersi tutto. Meloni da giorni va ripetendo che “il miglior candidato in Toscana sarebbe Paolo Del Debbio” ma lui ha più volte rispedito l’offerta al mittente e non ha il potere di mettersi contro la regina delle preferenze Ceccardi.

Forza Italia invece ha già rinunciato mentre da Fratelli d’Italia filtra un certo fastidio per il passo in avanti di oggi di Salvini: “Lui può proporre chi vuole ed è anche legittimo – Giovanni Donzelli di FdI – però non decide il candidato anche per gli altri partiti della coalizione: per questo si dovrà mettere a sedere con gli altri leader del centrodestra”.

È meglio non farsi male: niente liste 5S in Emilia e Calabria

Come ai vecchi tempi, quando l’aria si fa brutta, arriva Casaleggio. E ieri, infatti, è arrivato. La discesa a Roma del patron del Movimento è il segnale che il termometro della tensione interna ai Cinque Stelle ha superato la linea rossa. Per la prima volta, mercoledì, una pattuglia di trenta eletti ha risposto alla chiamata di Nicola Morra, che ha convocato un’assemblea-sfogatoio. “Non siamo qui ‘contro’ nessuno – ha detto il presidente della commissione Antimafia nel suo intervento conclusivo – ma siamo qui per ricordarci cosa eravamo”. Un cahier de doléances, raccontano, di cui deputati e senatori avevano assai bisogno. Non è un caso che proprio per stasera Luigi Di Maio abbia indetto un’assemblea congiunta dei parlamentari. Perché ha bisogno di riprendere in mano le redini di un cavallo ormai imbizzarrito.

Ieri ha visto alcuni big del Movimento e perfino i fedelissimi ormai battono sullo stesso punto degli oppositori: “Non puoi fare tutto tu, serve una costituente, una segreteria”. Il ministro, capo delegazione nel governo e capo politico M5S, vede la situazione sfuggirgli di mano. Ed è vero che, come dicono i suoi, “tutti lo criticano, ma poi non c’è nessuno che abbia una proposta alternativa”. Ma un conto è quando veleggi intorno al 30 per cento, un conto quando sei precipitato al 7 in Umbria. Così, ragionano ai vertici, siamo proprio sicuri di voler cadere ancora più in basso alle Regionali di Emilia-Romagna e Calabria? Non è meglio rimanere a casa?

Il disastro Ilva rischia di essere il colpo di grazia. Non solo perché sta facendo vacillare l’alleanza di governo, ma soprattutto perché – in estrema sintesi – è frutto delle beghe intestine ai Cinque Stelle. Lo ha ricordato ieri a un gruppo di parlamentari pugliesi, e soprattutto all’ex ministra Barbara Lezzi, collegata in video conferenza. Lei – ad agosto, quando ancora sedeva in Consiglio dei ministri – ha votato il decreto che ripristinava lo scudo penale per ArcelorMittal, poi a fine ottobre, da senatrice semplice, ha presentato l’emendamento che lo aboliva. Una vendetta per la mancata riconferma, secondo i vertici M5S, che pure ha trovato sponde in una nutrita parte di colleghi grillini, che per un motivo o per l’altro si sono rifiutati di votare la fiducia con cui il governo sperava di salvarsi dalle ire di Mittal.

Ecco, torniamo a Di Maio: una cosa del genere, solo qualche mese fa, non sarebbe mai potuta accadere. E lui, il capo politico, non ha voglia di appuntarsi al petto un’altra medaglia nera: il tracollo in Umbria, dove pure i Cinque Stelle avevano trovato un candidato civico conosciuto e stimato, potrebbe essere solo il preambolo di sconfitte ancor più sonore in Emilia-Romagna e Calabria. Difficile trovare qualcuno che parli di percentuali superiori al 5.

Per questo la tentazione di non presentarsi del tutto si sta facendo strada. In Calabria soprattutto: già Nicola Morra, tra i principali esponenti locali del Movimento, era dell’idea che la soluzione del ritiro fosse la più onorevole. Poi ci si sono messi i dubbi di alcuni eletti sull’alleanza con i dem: anche alcuni dei “civici” sondati per la candidatura unitaria hanno già fatto retromarcia perché hanno capito che la loro campagna elettorale sarebbe stata zoppa fin dalla partenza. Fatto sta che a un mese dalla presentazione delle liste non ci sono che poche idee, ma confuse, sul da farsi. La più in voga: lasciar perdere e basta.

Ne sono meno convinti in Emilia-Romagna, dove il Movimento è più radicato e ha tre consiglieri regionali. Fino alla settimana scorsa si diceva che non presentarsi rischiava di favorire la Lega (“Quelli che non trovano il nostro simbolo, vanno su Salvini”), ora però l’ipotesi della desistenza fa breccia anche lì. Meglio non farsi troppo male.

Dalle critiche al colosso a liquidatrice di Ilva. Le capriole di Morselli, la tagliatrice di teste

La “sfida complessa” è diventata una liquidazione nel giro di venti giorni. Tanti ne sono bastati a Lucia Morselli per svelare quale fosse il suo ruolo al timone di ArcelorMittal in Italia, confermando la preoccupazione dei sindacati quando il 15 ottobre, senza apparenti motivazioni, era stata annunciata la sostituzione di Mathieu Jehl con la dirigente che capeggiava la cordata sconfitta due anni fa nella gara per aggiudicarsi l’Ilva.

Quando ancora rappresentava i perdenti di Acciaitalia non fu affatto tenera con l’azienda che ora guida perché era stato “bruciato”, disse ad Affari&Finanza (Repubblica), il sovrapprezzo grazie al quale l’aveva spuntata. E avvertì che Taranto per ArcelorMittal era “una delle tante filiali di un impero che ha il suo centro altrove”. Ricordò anche di quando cinque anni fa in Europa gli acciaieri erano preoccupati perché la crisi dell’Ilva stava “creando un problema a tutta la Ue”.

Era il giugno 2018. Come il suo nuovo datore di lavoro, deve aver cambiato idea in poco più di un anno. Oggi argomenta di impatto “dirompente” dell’abolizione dell’immunità e lamenta “anni di inadempimento colpevole” da parte dei commissari nella messa in sicurezza dell’altoforno 2, senza il quale Taranto vale poco più di zero. Senza tacere le “difficoltà” di accedere agli ammortizzatori sociali che sono “indispensabili” per “mitigare i costi del lavoro”. Tradotto: 5mila esuberi chiesti, in sua assenza, da Lakshmi Mittal e il figlio Aditya a Conte.

Una specialità da gestire per Morselli, che nella sua unica esperienza nel campo della siderurgia, all’Ast di Terni, sparò alto per arrivare a un compromesso. Voleva 550 licenziamenti, chiuse a 290 esodi incentivati. Nel mezzo ci furono i “36 giorni di Terni”, uno degli scioperi più lunghi nella storia delle lotte operaie in Italia. Durante i quali la manager non mancò di usare metodi franchi, come quando si presentò di notte davanti alla fabbrica per un faccia a faccia con gli operai. A Taranto, ieri, ha preferito una “visita di cortesia” negli uffici di quella procura che ha in mano il futuro dell’altoforno 2.

Thyssenkrupp, che gestiva l’acciaieria umbra, l’aveva già saggiata nel 2013 alla Berco. Morselli annunciò 611 licenziamenti e la chiusura di Busano Canavese, in provincia di Torino. Furono mesi di lotta. Alla fine si trovò un’intesa: rinnovo della cassa integrazione, incentivi alle uscite e congelamento per 24 mesi degli integrativi. La voce sulle sue capacità di tirare le trattative dev’essere arrivata nel quartier generale di ArcelorMittal che l’ha scelta in vista della cura dimagrante. E lei a Taranto si è portata Arturo Ferrucci, al suo fianco nel periodo di Terni.

Cresciuta all’ombra di Franco Tatò e sua socia in una società di consulenza, la manager 63enne, laureata in Matematica alla Normale di Pisa, non ha solo la fama di ‘tagliatrice di teste’, ma per un periodo si era anche guadagnata iquarti di grillismo. Gli indizi sono da ricercare alla Link University, l’ateneo dell’ex ministro Vincenzo Scotti che ha sfornato diversi ministri pentastellati, dove Morselli insegna. E anche nella nomina in STMicroelectronics, spinta dal M5s quando finì l’avventura di Claudia Bugno, consigliera dell’allora ministro Tria. Si è anche mormorato che fosse lei a sussurrare le mosse sull’ex Ilva a Luigi Di Maio. Adesso se l’è ritrovata dall’altra parte della barricata a gestire lo scontro.

Sarà ancora più sanguinoso di quell’unica esperienza di Morselli nel campo della siderurgia, racchiusa nei due anni a Terni. Il resto della sua carriera è un fiorire di poltrone in consigli di amministrazione o a capo di aziende che nulla hanno a che fare con l’acciaio, dagli albori in Olivetti fino a Stream e Terna. Importa poco: nella missione che le è stata assegnata conta più il pelo sullo stomaco che la dimestichezza con ghisa e cockerie.

“Ilva ha venduto le polveri velenose come concimi”

È il 24 febbraio 2004 quando davanti all’Ilva di Taranto si presenta un camion con rimorchio. Il giorno prima, al varco del siderurgico, è giunto un documento che anticipa la visita del camionista: “Dovrebbe venire un autoarticolato, inviato dalla ditta Ecofert Europe, per prelevare… dei sacconi di ‘sfridi potassici’… vogliate autorizzarne l’ingresso ed effettuare la consueta tara”. Sul documento, scritto in calce e a mano, si legge “Ok 17 sacconi”. La Ecofert Europe è una società pugliese che si occupa di concimi. Secondo il luogotenente della Guardia di Finanza Roberto Mariani, sentito come teste il 9 settembre scorso, di sacconi che contenevano ‘sfridi potassici’, la Ecofert ne avrebbe acquistati per almeno mille tonnellate. Non sappiamo se e come li abbia poi utilizzati. Quel che sappiamo è che, secondo la Procura di Taranto e la GdF, non era concime: si trattava di rifiuti pericolosi. Rifiuti che l’Ilva aveva persino tentato, invano, di smaltire al suo interno.

La scoperta avviene quando – è il 5 aprile scorso – gli investigatori ricevono la documentazione pervenuta dalla società Arcelor Mittal. E diventa pubblica durante le udienze del processo tarantino “Ambiente svenduto” che vede imputati, tra gli altri, gli ex patron dell’Ilva Fabio e Nicola Riva, e altre 42 persone, incluso l’ex governatore Nichi Vendola. Il 9 settembre il pm Mariano Buccoliero, mentre il luogotenente Mariani illustra il contenuto delle fatture, chiede incredulo: “Quindi concime? Cioè dall’agglomerato usciva concime?”.

Nessun concime: erano le polveri degli elettrofiltri utilizzati per abbattere i fumi.

“La situazione prospettata – si legge in un’informativa della Gdf datata 25 giugno – ha evidenziato che già nel 2005 erano stati riscontrati nelle polveri Meep (Meep è il nome dell’elettrofiltro, ndr) i primi casi di superamento dei valori limite del piombo e (…) in una sola occasione, quelli del tellurio (cancerogeno). L’aumento consistente del piombo è stato riscontrato a partire dal 2008. In ragione del piombo, anche se in sommatoria con altri metalli pesanti, dal 2010 al 2013 la caratteristica di pericolo è stata estesa anche alla ecotossicità. I risultati dei test (…) hanno evidenziato, a partire dal 2005, rapporti di prova con valori tali da escludere la possibilità di conferire in discarica interna (…) le polveri degli elettrofiltri (…) a causa dei parametri critici di piombo e selenio e, in casi minori, cadmio, rame e cianuri”.

Prima di venderli come “concime” l’Ilva ha provato a smaltirli al suo interno. L’ex dipendente Cosimo Zizzo spiega però che il riciclo nel processo produttivo “non andava bene”. “Ho visto caricare i camion e andare via”, aggiunge, “ho assistito anche il personale dei nostri che li caricava… però non so dove siano andati, chi erano i gestori di queste ditte… cosa ne facessero precisamente non lo so, so che qualcuno ha detto che erano ricchi di fosfati, di potassio, cioè roba che poteva trasformarsi in un prodotto per l’agricoltura”.

“Per le polveri Meep – si legge ancora nell’informativa – fu effettuato il tentativo di reimmetterle direttamente all’interno del circuito. Le prove durarono solo qualche mese, tra il 1999 e il 2000, ma non fornirono esito positivo. Fu deciso di scaricare le polveri in una betoniera per avviarle a smaltimento in stato fangoso”. Poi arriva la vendita: “Ilva provvedeva alla cessione di polveri Meep sotto forma di ‘sfridi potassici’ nei confronti delle società Chimsider Logistica e servizi srl e Ecofert Europe srl. Le fatture commerciali… avevano quale oggetto: ‘concime minerale semplice – sali misti di potassio – ossido di potassio’. Sembrerebbe di capire che il processo produttivo dell’agglomerato generasse direttamente un concime che, come tale, non necessitava di ulteriori lavorazioni”.

Per quanto possa sembrare incredibile, stando agli atti d’indagine, l’Ilva ha venduto polveri – che contenevano piombo, selenio, cadmio, rame e cianuri – come concime pronto per l’utilizzo. E le società Chimsider Logistica ed Ecofert Europe le hanno acquistate. C’è soltanto da augurarsi che non siano state utilizzate come concime e, nel caso, chissà in quale modo sono state smaltite.

Vincenzo Musolino, funzionario di Arpa Puglia, ha evidenziato che sebbene le polveri avessero un contenuto rilevante di potassio, non poteva essere trascurata la presenza di altri metalli che di fatto le rendevano pericolose. Secondo gli investigatori, utilizzate come concime minerale, le poveri Meep avrebbero potuto contaminare terreni, falde e coltivazioni. Non solo: “Le conseguenze potevano interessare anche la salute degli operatori addetti alla manipolazione”. “Non è da escludere – si legge nell’informativa – che le modalità con le quali sono state gestite le polveri degli elettrofiltri Esp e Meep, possano aver provocato nocumento alla sicurezza e alla salute della cittadinanza”. E ancora: “Anche per altre tipologie di rifiuti la gestione aziendale è stata verosimilmente la medesima”.

Mittal mente sull’altoforno 2: basso il rischio spegnimento

La vicenda dell’Ilva di Taranto è un gioco di specchi, in cui si rischia di guardare solo dove vuole il prestigiatore. Il punto è che ArcelorMittal – assicuratasi che la più grande acciaieria d’Europa non finisse a un concorrente – s’accorge oggi, anche per il crollo del mercato, che sta perdendo soldi, troppi soldi: oltre 2 milioni al giorno, dicono, riuscendo nell’impresa di far peggio dell’amministrazione commissariale. È per questo – per quel che può valere dato lo stato comatoso della banca – che la tedesca Deutsche Bank ha applaudito la scelta di andarsene dall’Italia in un suo report: “Riteniamo che questa decisione sia positiva perché rimuove l’enorme peso di Ilva in termini di cassa dal bilancio di ArcelorMittal”.

Lo scudo penale è un falso problema e l’Altoforno 2 (Afo2) – quello per cui i legali della multinazionale scrivono che “anche se la protezione legale fosse ripristinata, non sarebbe possibile eseguire il contratto” – è un falso problema: a quanto risulta al Fatto è probabile che la vicenda del sequestro preventivo possa concludersi nelle prossime settimane o mesi senza lo spegnimento del- l’impianto. Cosa, peraltro, che i commissari straordinari avevano già spiegato ad Arcelor, come si evince dallo stesso atto di citazione del gruppo franco-indiano.

La storia è nota: nel giugno del 2015 un incidente nel “campo di colata” dell’altoforno 2 uccise il 35enne Alessandro Morricella; i giudici di Taranto decisero allora per il sequestro e lo spegnimento dell’impianto, furono però bloccati dall’ennesimo decreto Salva-Ilva (nel caso del governo Renzi, peraltro su questo punto bocciato dalla Corte costituzionale nel 2018); i giudici passarono allora al “sequestro con facoltà d’uso”, ma imposero alcune prescrizioni all’Ilva, all’epoca in amministrazione straordinaria.

In sostanza, l’altoforno poteva continuare a funzionare, ma andava messo in sicurezza: dopo quattro anni, però, non tutte le prescrizioni sono state rispettate e l’ultimo termine per adeguarsi è il 13 novembre per “l’analisi dei rischi” e il 13 dicembre per altre prescrizioni. “Pena – scrive Arcelor – lo spegnimento dell’altoforno 2”, senza contare che “tali prescrizioni dovrebbero ragionevolmente e prudenzialmente essere applicate anche ad altri due altiforni”, finendo per spegnere tutta l’area a caldo. Per questo la multinazionale, citando i commissari al Tribunale di Milano, arriva ad accusarli di “dolo”: hanno “deliberatamente descritto in maniera erronea e fuorviante circostanze fondamentali relative alle condizioni dell’altoforno 2 e allo stato di ottemperanza delle prescrizioni”.

L’apocalisse giudiziaria, però, non ci sarà e non perché ieri l’ad di ArcelorMittal Lucia Morselli si sia fatta vedere in Tribunale a Taranto: incredibilmente, era passata solo per presentarsi. Non ci sarà perché, spiegano al Fatto fonti qualificate, i commissari straordinari sono pronti a ottemperare alla scadenza del 13 novembre, quella che riguarda l’analisi dei rischi, rifatta secondo i criteri indicati dal custode giudiziario e che dà risultati considerati soddisfacenti.

Il termine del 13 dicembre, invece, non sarà rispettato: non ci sono i tempi per arrivare in poco più di un mese alla cosiddetta “automazione della Mat”, la “macchina a tappare” (gergo tecnico che allude a un’innovazione che, allontanando per quanto possibile il lavoro umano dall’inferno di ghisa incandescente dell’altoforno, avrebbe probabilmente salvato la vita ad Alessandro Morricella).

Su questa prescrizione i commissari intendono chiedere una proroga anche impegnandosi a pagare in anticipo l’intera commessa per l’opera alla società incaricata, probabilmente la Paul Wurth, a cui già nel 2015 fu commissionato uno studio di fattibilità proprio sull’automazione delle lavorazioni nel “campo di colata” (l’esito per la Mat fu, incredibilmente, che era possibile “ma non conveniente”).

Un’impostazione, come i commissari hanno confermato per iscritto il 30 ottobre anche ad ArcelorMittal, condivisa anche dal custode giudiziario. In sostanza, la vicenda del sequestro dell’Altoforno 2 non è affatto l’ostacolo insormontabile descritto dal colosso franco-indiano nel tentativo di giustificare il recesso dal contratto. I due Mittal hanno deciso che stanno perdendo troppi soldi: o le perdite se le accolla lo Stato in qualche modo (caricandosi l’area a caldo o mettendoci dei soldi e autorizzando migliaia di esuberi) o a loro va bene, benissimo, anche che l’Ilva chiuda. Prima tutti gli attori capiscono qual è il campo da gioco, meglio è.

I commissari a Mittal: “Iniziativa senza basi”

Non che il governo sappia esattamente cosa fare nel risiko legale ed economico del caso Ilva. Per ora siamo alle carte bollate. Ieri, per dire, i commissari straordinari hanno risposto con una formale diffida alla lettera con cui ArcelorMittal annuncia la rescissione del contratto: una iniziativa “improvvida e improvvisa in palese contrasto con le dichiarazioni di intenti collaborativi e le azioni comunicateci qualche giorno addietro”, e “senza alcun presupposto di fatto e di diritto”.

Si mettono i sacchi di sabbia per la guerra di trincea (il premier ha invitato pure gli enti locali a farsi parti civili nel contenzioso) e intanto il governo valuta tutte le opzioni possibili. Anche la nazionalizzazione? “Tutte le ipotesi”, dice Paola De Micheli, ministro delle Infrastrutture del Pd.

Di fatto nell’esecutivo sono tutti convinti che servirà l’ennesimo “Salva-Ilva”, probabilmente con la nomina di un commissario per gestire l’azienda dotato, paradossalmente, di scudo penale nella versione “minimal” ipotizzata in questi giorni. Per ora, infatti, di aperture da ArcelorMittal non se ne vedono e ieri Giuseppe Conte ha dovuto ammetterlo anche davanti ai sindacati e agli enti locali arrivati a Palazzo Chigi per capire com’è messa la situazione. Ai sindacati il premier e il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli hanno ripetuto la canzone già cantata in conferenza stampa e in Parlamento: “Arcelor deve rispettare il contratto, non ci sono i presupposti giuridici per rescinderlo”.

Conte, però, ha anche fatto un accenno che rimanda a una delle ipotesi su cui lavora il Mise: “Abbiamo proposto di fare di Taranto un hub europeo per quanto riguarda la transizione energetica nell’attività siderurgica. Questo anche per anticipare i tempi, considerato che la decarbonizzazione è una via obbligata”. Parole di miele per il governatore Michele Emiliano, che infatti prende la parola poco dopo e dice di “condividere ogni parola” del premier (“allora devo preoccuparmi”, butta lì l’ex avvocato del popolo).

La riconversione a gas – che paradossalmente potrebbe essere aiutata dall’approdo in Puglia del Tap – è però un progetto che ha bisogno di anni e ingenti investimenti: difficile voglia accollarseli un privato in questa situazione. I sindacalisti, insomma, vogliono impegni più cogenti. Dice Landini (Cgil): “Se si spengono gli altiforni è finita: per tutelare l’occupazione bisogna produrre acciaio. Non sarebbe male una presenza pubblica nella proprietà per fare il risanamento”. Furlan (Cisl) non vuole contenziosi legali: “Rimettete lo scudo penale”. E qui Conte ha dovuto rispiegare: “Quell’alibi è già stato tolto dal tavolo e non è nemmeno iniziato il negoziato: per Mittal si può continuare solo con 5mila esuberi”. Quel che non si sa è se Furlan, per evitare lo scontro, sia disposta ad accettarli.