Scudo, l’emendamento di Delrio avvicina la crisi

“Gli errori di Ilva non possono essere fatti pagare ai lavoratori. Chi vuole farlo, troverà un intero Paese schierato contro, e un governo disposto a compiere un’azione legale profonda ed efficace per impedire che questo diventi un precedente. Né Whirlpool né l’Ilva né ArcelorMittal possono andare in un’altra direzione”.

Così Graziano Delrio è intervenuto ieri in Aula sulla crisi dell’Ilva. Il capogruppo del Pd alla Camera, d’accordo con il segretario, Nicola Zingaretti, è pronto a far seguire le parole ai fatti. Perché se l’esecutivo – a causa dell’opposizione di Luigi Di Maio – non riuscirà a fare un decreto che reintroduce lo scudo penale, nella versione del ministro per il Sud Giuseppe Provenzano (una norma che valga per tutti i casi simili all’Ilva, secondo la quale chi inquina paga ma chi deve attuare un piano ambientale non risponda per colpe altrui o del passato), per farlo è pronto a presentare un emendamento al decreto fiscale.

C’è tempo fino a lunedì, che vuol dire un supplemento di riflessione. Anche perché la questione Ilva si incrocia con la questione governo. E al netto dei dubbi sulla sua reale utilità, lo scudo è una cartina di tornasole per capire lo stato reale della maggioranza. “Sia chiaro, io penso che da parte di ArcelorMittal lo scudo penale sia un alibi. Ma dobbiamo toglierlo. E anche evitare di creare il precedente”, chiarisce dunque Delrio. Poi ammette qualche dubbio: “Il rischio di inammissibilità per un emendamento così c’è. Ma il problema è politico”. Nelle ultime 48 ore il capogruppo dem è stato fermato continuamente da deputati che gli chiedevano la posizione del partito. Perché poi in aula sia con un eventuale decreto, sia con l’emendamento, si potrebbe verificare uno schieramento diverso dall’attuale maggioranza: i Cinque Stelle lo voterebbero compatti? Difficile. Mentre è probabile che a dire di sì sarebbero Lega e FI, insieme a Pd e Iv.

La spaccaturapotrebbe essere l’inizio di un piano inclinato verso il voto, ma persino un incidente da utilizzare per aprire la crisi. Difficile valutarne gli esiti, anche perché il Pd per primo in queste ore sta valutando qual è lo strategia da seguire.Nicola Zingaretti (che la settimana prossima andrà negli States a incontrare i Democratici americani) passa da un penultimatum all’altro. Ieri l’ha messa così: “Non c’è nessuna idea di strappo, stiamo al governo non per le poltrone o per occupare i posti, ma per fare”. Un modo per ammorbidire i toni, ma non la posizione. Al Nazareno cominciano davvero a valutare di far cadere il governo. Anche se con varie tempistiche. Addirittura prima dell’Emilia-Romagna o subito dopo. Persino Dario Franceschini inizia a prendere in considerazione il voto. Ma fino ad ora nessuno – neanche ai vertici del Pd – è convinto che sia la cosa migliore da fare. Per dirla con Andrea Orlando: “Come si rinsalda il patto? Sta per arrivare la manovra in Parlamento, ogni giorno ci può essere l’incidente”.

Altra dichiarazione spia, quella di Andrea Marcucci, capogruppo al Senato: “I tempi della legge elettorale devono essere veloci”. Sul tavolo c’è un proporzionale, con soglia di sbarramento alta. La cosa più semplice all’emergenza. Se davvero ci si arriva. Perché il Pd che per una volta si presenta granitico, in realtà è diviso: al netto delle dichiarazioni né Franceschini, né Base Riformista (corrente dello stesso Marcucci e di Luca Lotti) vogliono il voto. E allora, le parole di Marcucci, che evocano il voto, viene letta anche come un modo per capire se quello di Zingaretti e Orlando è un bluff.

A non volerlo il voto è Matteo Renzi, che non se lo può permettere. “Sarebbe una follia”, va dicendo in questi giorni. Senza contare che è comunque convinto che all’occorrenza una maggioranza trasversale che vuole rimanere in Parlamento si troverà a prescindere dal Pd (il quale, secondo lui, nella prospettiva delle urne comunque si spaccherà). A ogni modo è pronto a difendere almeno parzialmente il governo. Bersaglio preferito, Zingaretti.

L’Ilva inguaia i giallorosa. La maggioranza traballa (ma c’è il referendum…)

Il colloquio, concordato subito dopo la decisione di ArcelorMittal di dismettere lo stabilimento di Taranto, doveva servire a placare la “preoccupazione” del Quirinale sulla crisi industriale che rischia di mandare in frantumi la maggioranza. Ma la salita al Colle del premier Giuseppe Conte non è servita a rasserenare Sergio Mattarella. Si cammina su “una lastra di ghiaccio sottilissima”, per dirla con un’espressione filtrata ieri dagli ambienti quirinalizi. E tradotto significa che basta un niente per finire sott’acqua.

Tutti, dal segretario del Pd Nicola Zingaretti al presidente della Camera Roberto Fico, invocano “unità”. E Dario Franceschini, capo delegazione dem al governo, ha tentato con un’intervista al Corriere di dare uno scossone alla maggioranza giallorosa: “Fermiamoci prima che sia troppo tardi”. Lo spettro delle elezioni anticipate è ormai di casa a palazzo Chigi e la tensione che si è registrata nel Consiglio dei ministri di mercoledì, quello in cui Pd e Cinque Stelle si sono divisi sull’ipotesi di ripristinare l’immunità penale per i gestori dell’ex-Ilva, non è certo il segnale che al Quirinale speravano di ricevere, tanto più che il Partito democratico sembra intenzionato a dare seguito alla faccenda, presentando un emendamento al decreto fiscale che potrebbe certificare l’assenza di una maggioranza: un po’ quello che accadde sul Tav, alla vigilia della fine del governo gialloverde. Non sono poi un mistero le fibrillazioni interne al movimento guidato da Luigi Di Maio, né la fragilità della sua leadership. Tutti elementi che non aiutano il Capo dello Stato a vedere orizzonti sereni per il prosieguo della legislatura.

Eppure, al di là delle contingenze, c’è un ulteriore variabile che nei palazzi è diventata di discussione quotidiana. Riguarda la riforma costituzionale che ha tagliato il numero dei parlamentari. Una variabile che era prevedibile influisse sui calcoli elettorali dei partiti, che avranno a disposizione trecento posti di meno al prossimo giro.

Come ha raccontato il Fatto, sulla riforma incombe l’ipotesi di un referendum: basta un quinto degli eletti per chiederlo e al Senato la raccolta è già quasi arrivata alla soglia necessaria di 64 firme. La scadenza è il prossimo 12 gennaio. E se la situazione dovesse precipitare in tempi rapidi, la scelta di Mattarella di sciogliere o meno le Camere dovrebbe necessariamente confrontarsi anche con il calendario imposto dall’appuntamento con la consultazione referendario.

Dal 13 gennaio in poi, infatti, servirà un mese per il controllo di legittimità del quesito da parte della Cassazione. Si arriverebbe così alla metà di febbraio: a quel punto il referendum deve essere indetto entro sessanta giorni. Anche subito, in teoria, ma pure entro la metà di aprile. Una volta indetto, la consultazione si svolge tra 50 e 70 giorni dal decreto di indizione: una finestra temporale, dunque, che può andare da metà aprile a metà giugno: si tratta, casualmente, del periodo consentito per i referendum abrogativi, nonostante nel caso dei quesiti costituzionali non si applichino gli stessi limiti temporali.

Una volta proclamati i risultati elettorali, è necessario che trascorrano i quindici giorni di vacatio legis prima che la riforma entri in vigore (nel caso venisse confermata dai votanti). A quel punto, nello scenario più dilatorio, saremmo in piena estate: entro sessanta giorni potrebbero essere sciolte le Camere e le elezioni politiche si terrebbero nell’autunno del 2020. Questo è lo schema che a palazzo Chigi hanno già preso in considerazione.

Ai referendum costituzionali non si applica la norma che impone lo slittamento della consultazione in caso di scioglimento anticipato delle Camere: comunque vada, i cittadini saranno chiamati a votare secondo questo schema. Il punto è se verrà ritenuto opportuno andare a votare per il nuovo Parlamento mentre il processo referendario è in corso. O se bisognerà aspettare che arrivi a compimento.

Balla senz’anima

La prima volta che ho sentito accusare questo governo di “non avere un’anima”, precisamente da Massimo Gramellini e Alessandro De Angelis all’unisono nello studio di Otto e mezzo, ho superato un iniziale moto di stupore e ho lasciato perdere, come si fa con gli amici che hanno mangiato pesante. Ora però che, in rapida successione, ieri e l’altroieri mi sono imbattuto in due editoriali su Repubblica nientemeno che di Ezio Mauro e di Stefano Folli rispettivamente intitolati “L’agonia di un’alleanza senz’anima” e “Un governo senza più anima”, ho cominciato a preoccuparmi. Quando la teologia fa irruzione nella politica, la situazione dev’essere molto più grave di quella – già pesantuccia – che appare. Intendiamoci. Lungi da noi sottovalutare l’importanza dell’anima, che da millenni impegna le principali culture e religioni dell’umanità. Intorno alla sua esistenza, forma, sostanza e destinazione si sono accapigliati teologi, filosofi, papi, vescovi, intellettuali, aperti e chiusi concilii tutt’altro che ecumenici, lanciati anatemi e scomuniche, consumati scismi, bruciati eretici, messi all’indice gnostici, combattute guerre sante. Ma si dava per scontato che ogni eventuale anima fosse saldamente agganciata a ciascun corpo umano.

Ora, all’improvviso, scopriamo da queste anime candide che anche i governi devono averne assolutamente una, altrimenti le mejo firme del bigoncio si incazzano. E qui la questione si fa spessa e l’affare s’ingrossa. Già questo governo, un po’ come tutti del resto, ha le sue belle gatte da pelare: la maggioranza dei Malavoglia (copyright Antonio Padellaro), il marasma dei 5Stelle, l’anemia del Pd, le mattane di Renzi, i sondaggi di Salvini, l’Umbria, l’Emilia Romagna, il debito pubblico e tutte le deliziose eredità del passato, giù giù fino all’Iva e l’Ilva. Ci mancava pure l’anima. Si pensava che un governo, per avere un senso, dovesse avere un programma e una maggioranza in Parlamento, e il Conte 2 li ha entrambi: il programma è un po’ vago, ma c’è; la maggioranza pure, litigiosa ma non più delle altre. Aveva promesso di evitare l’aumento dell’Iva, ci ha messo anima e corpo (anzi solo corpo) e l’ha fatto. Di tagliare un po’ il cuneo fiscale, cioè le tasse ai lavoratori e, sputando l’anima (anzi il corpo), l’ha fatto. Di segare 345 parlamentari e, senza che lo volesse anima viva (a parte i 5Stelle), l’ha fatto. In più ha aggiunto un pacchetto di misure per combattere l’evasione fiscale e ripulire l’ambiente (mai viste sotto i governi precedenti, quelli con l’anima, che l’evasione la condonavano e l’ambiente lo devastavano).

È pure riuscito a risparmiarci i soliti fulmini e saette dall’Unione europea (che erano la norma, quando l’anima regnava sovrana a Palazzo Chigi). E ha finalmente cancellato quell’obbrobrio giuridico e morale chiamato “scudo penale” per i killer e gli avvelenatori dell’ex-Ilva di Taranto. Il tutto in sessanta giorni sessanta, con una maggioranza raffazzonata in quattro e quattr’otto e con l’anima nera di Rignano sull’Arno che lavora per l’altro Matteo, sua anima gemella. Viste le radiose prospettive che si aprivano per l’Italia in agosto, quando Salvini rompeva l’anima per i pieni poteri ed era lì lì per agguantarli, parrebbe già qualcosa. Verrebbe da dire: all’anima! Però purtroppo a questo maledetto governo manca l’anima: forse non c’è stato tempo, forse non ci ha pensato nessuno, forse arriverà per Natale o per la Befana. Ma al momento non se ne intravede l’ombra neppure a cercarla col lanternino. E questo è molto grave, lo riconosciamo, anche se una domanda ci sorge spontanea: ma perché le anime in pena repubblichine che pretendono nientepopodimenoché un’anima dal Conte 2 non l’avevano mai pretesa dai governi precedenti?

La risposta può essere solo una: quelli precedenti un’anima ce l’avevano, ma erano bravissimi a nasconderla a tutti fuorché all’occhiuta redazione di Repubblica. L’alternativa è che al Conte2, appena nato in stato di necessità ed emergenza, si chieda ciò che non era mai stato chiesto agli altri. Ma ciò significherebbe che i neo-animisti sono animati da malafede e pregiudizio, e noi rifuggiamo da questi cattivi pensieri. Dunque, vediamo. Gli ultimi governi della Prima Repubblica, quelli del Caf, un’anima ce l’avevano: quella de li mejo mortacci loro, per dirla alla francese, visto come ci hanno ridotti con le mazzette, le mafie e il debito pubblico. Poi venne B. e anche lui un’anima ce l’aveva: a guardarlo in controluce, nella sede forzista di via dell’Anima, s’intravedeva lo spirito di Al Capone (che però finì al gabbio, anziché mandarci il fratello e gli amici al posto suo). Sulle anime dei governi Dini, Prodi, D’Alema, Amato, Letta e Gentiloni, meglio sorvolare: non si faceva in tempo a cercarle che già erano caduti, però ai teologi di Repubblica piacevano un sacco. L’anima di Monti era più che altro un’imprecazione congiunta di operai, pensionati ed esodati. L’anima di Renzi, custodita nel tabernacolo del Nazareno, si alternava coi fantasmi danzanti di Verdini, Alfano e Lotti. Che apparivano a destra e a manca senza neppure il bisogno di un medium. Una notte l’anima di Luca visitò in sogno babbo Tiziano e i capi di Consip avvertendoli che erano intercettati. Un’altra volta lo spirito di Matteo apparve a De Benedetti e, anziché i numeri del Lotto, gli svelò il decreto Banche popolari, così l’indomani quello guadagnò 600 mila euro in Borsa. Ora, purtroppo, c’è Conte che, non avendo un’anima, non può apparire a nessuno. Ma mettiamoci l’anima in pace: è questione di poco, poi renderà l’anima (che non ha) al Padreterno. E allora, per la gioia dei nostri animisti, toccherà a Salvini. Che è puro spirito. Di mojito.

Per rompere i muri bisogna saper scendere agli inferi. Con Grossman

“Aquanto pare un granello di sabbia basta anche per due semi, se sono abbastanza disperati”.

Tre generazioni di donne alla resa dei conti, un cammino di espiazione e riscatto, un viaggio catartico a ritroso nel tempo, perché i dolori, per rimarginarsi, vanno attraversati. È quello che fanno Vera, Nina e Ghili. Vera che, a novant’anni rimane il fulcro solido di una famiglia che il destino ha fatto a pezzi, Nina che per presenziare ai festeggiamenti per il compleanno di sua madre Vera, prende tre aerei che dall’Artico la riportano al Kibbutz. È lei il seme disperato, alla ricerca ancora del suo granello di sabbia. Abbandonata all’età di sei anni e mezzo, perché Vera e suo marito Miloš vengono deportati, accusati di sostenere Stalin, marchiati di infamia, considerati nemici del popolo iugoslavo. Quell’abbandono ha segnato Nina per sempre, rendendola la donna incompiuta che è, l’essere indomito capace solo di farsi del male e di procurarsi altro dolore. E poi c’è la giovane Ghili, nata dall’amore tra Nina e Rafael, un amore a senso unico che si traduce in una venerazione immutata di Rafael per Nina. Lei continuamente fugge, lui è sempre pronto ad accoglierla e a salvarla. Ma qualcosa, in quest’ultimo viaggio di Nina, è differente. Questa volta sembra che non abbia più voglia di scappare.

È tornata per conoscere il passato di sua madre ma anche per svelare un segreto. Sta perdendo pezzi della sua vita, un’incipiente demenza mina la sua memoria e, prima di perdere ogni cosa, vuole capire, indagare, costruire, demolire, trovare le origini dell’adulta incompiuta che è diventata, una bambola rotta, con un meccanismo inceppato dentro, fermo a un moto circolare che la riporta continuamente al punto di partenza, alla bambina di sei anni con i grandi occhi chiari e l’espressione seria. Come una giostra che tocca terra e poi riparte, così è stata la vita di Nina fino a questo punto di svolta. Insieme, lei, Vera, Rafael e Ghili partono per ripercorrere i passi della vita di Vera, prima nel suo paese natale, Cakovec, vicino al confine con Ungheria e Austria, e poi in viaggio verso la destinazione finale, il campo di prigionia di Goli Otok, dove Vera ha trascorso due anni e dieci mesi della sua vita, tenuta viva solo dal ricordo della sua bambina e dalla speranza di tornare, un giorno, da lei. Ruggine e cenere. Questa è la desolazione che accoglie sull’isola questi viaggiatori nel tempo. Uno strano quadrilatero dai vertici sbreccati che, in questo viaggio, si ricompone. Perché è quel luogo lontano da ogni umanità che ha segnato la vita di Nina, trasformandosi nella sua casa per quasi tre anni, anche se un luogo immaginario, mai conosciuto, quello in cui risiedeva il suo dolore senza nome. Nina sa che solo lì, tra il filo spinato, il cortile delle adunate dove le prigioniere venivano punite, in quell’Alcatraz dell’Adriatico, tutto sarebbe stato svelato, messo a nudo, fortificato.

Il ritorno all’origine del male rompe il silenzio e risveglia sentimenti ed emozioni. Un viaggio liberatorio affidato alle riprese di una videocamera, dove memoria e oblio si confondono in un’unica testimonianza imperfetta. Un’affascinante discentio ad inferos dalla quale si esce purificati. Perché ci sono ricordi e segreti che alzano muri. Tenaglie, morse, oggetti duri che si parano davanti, intossicano il sangue. Nina così si è sentita invisibile per tutta la vita. Grossman è bravissimo nell’indagare e raccontare gli abissi dell’animo umano e lo fa con una facilità disarmante, trattando la materia organica come fosse un materiale duttile, facile da manipolare. Ne viene fuori un romanzo potentissimo, baciato dalla grazia. Un quadro a molte tinte, in cui persino l’amore pur essendo patetico, canino, asfittico, restituisce all’uomo una dimensione sovrumana, perché esattamente come l’odio ha mille ragioni e nessuna. Una storia magistralmente scritta su come le persone si amano, si feriscono, si perdono e infine si ritrovano.

Deneuve ricoverata a Parigi: che brutto “coup de fatigue”

Tranquilli, è ancora indicativo presente: Je suis Catherine Deneuve. Negli anni Ottanta lo pretendeva per spot “un’auto – la Lancia Delta Lx – a cui piace il successo”, ma le automobili passano, le dive restano.

Oggi che Madame Deneuve è sofferente, neanche il cinema sta troppo bene. L’attrice, 76 anni, è ricoverata da martedì sera in un ospedale parigino, in seguito a un “ictus ischemico molto limitato e quindi reversibile. Ora il riposo è d’obbligo”. Il malore l’ha colpita sul set del film De son vivant, diretto da Emmanuelle Bercot e interpretato al fianco di Benoît Magimel e Cécile de France. L’entourage della Deneuve, contattato dall’emittente Bfmtv, se non minimizzato, ha contenuto l’allarme, adducendo un “coup de fatigue”, un colpo di stanchezza, dovuto a un “emploi du temps surchargé”.

Agenda sovraccarica, superlavoro, molteplici impegni, sicché Madame avrebbe accusato lo stress, finendo in corsia. D’emergenza? A farle i conti in carnet, la diagnosi diffusa dalla sua cerchia parrebbe trovare conferma: tre (Claire Darling, L’adieu à la nuit e Fête de famille, appena visto alla Festa di Roma) i film già usciti nel corso di quest’anno, l’attrice è prenotata per la promozione del quarto, La vérité, che ha aperto l’ultima Mostra di Venezia e nelle sale transalpine è atteso per il 25 dicembre. Non bastasse, ne ha un quinto in post-produzione, dal sentore un poco minaccioso: Terrible jungle.

Tra lunghi, cortometraggi e serie tv, Madame dal 1957 sin qua ne ha interpretati centotrentasei, dunque, due film e rotti all’anno: diciamo che la settantaseienne non si sta risparmiando, anzi, è decisamente sopra la media. Forse non è stakanovismo, temerarietà, perfino incoscienza, ma più semplicemente ereditarietà, ossia promessa di longevità: “I geni di mia madre”, confessando a Le Parisien il segreto della sua inesauribile energia, e la signora Renée il 10 settembre scorso ha compiuto centootto anni. Come potrebbe cotanta figlia rifiutare un film, perdersi un set, risparmiarsi una posa? E poi quel titolo che sta girando, così lapalissiano da sconfessare gli scongiuri: De son vivant, ossia “in vita”.

Una vita peraltro già assurta agli onori della Settima Arte, di cui Catherine Deneuve è più di un sinonimo, quasi un’iperbole: da Les parapluies de Cherbourg (1964, regia di Jacques Demy) a La mia droga si chiama Julie (François Truffaut, 1969), passando per Repulsion (1965, Roman Polanski) e Bella di giorno (1967, Luis Buñuel), in appena un lustro trova ruoli, film e registi che le altre possono solo sognarsi. Non che viva di rendita, anzi, “ma chi glielo fa fare?” di fronte a qualche titolo di quell’abbondante centinaio s’è levato, diciamocelo. Eppure, altra rarità, Deneuve è più della somma dei suoi film, dei suoi amori illustri – dal regista Roger Vadim, da cui ebbe Christian nel ’63, a Marcello Mastroianni, da cui la figlia Chiara nel ’72 – e della sua icastica bellezza, di quel biondo che dovrebbe avere il suo nome. È come appare, dunque, inafferrabile, ma senza premura di esserlo. Per dire, dopo aver apprezzato Le onde del destino è lei a scrivere a Lars von Trier per chiedergli una parte, ed ecco Dancer in the Dark nel 2000.

S’è astenuta, dal teatro per “paura del palcoscenico”, ma non s’è saziata, né coi premi (due vittorie e tredici candidature ai César, una Palma onoraria, una nomination agli Oscar), né con lo status divistico, peraltro più volte rigettato, né col privilegio che sovente pastorizza il pensiero e uniforma le opinioni.

Anche sul movimento #MeToo ha preso direzione ostinata e contraria, firmando con altre cento donne nel gennaio del 2018 un appello, tra le altre istanze, per difendere “la libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale”, giacché siamo “abbastanza mature” da “non confondere un goffo tentativo di rimorchio da un’aggressione sessuale”. Catherine Deneuve si cresce.

 

Ammutinati e scontenti, gli allenatori nel pallone

Dopo gli ammutinati del Bounty (1962), gli ammutinati del pallone (2019); da Marlon Brando & Trevor Howard a Carlo Ancelotti & Antonio Conte. Diciamolo: un kolossal come quello andato in onda martedì nel dopo partita di Napoli-Salisburgo 1-1 e di Dortmund-Inter 3-2 non se l’aspettava nessuno. E invece gli allenatori più pagati d’Italia (assieme a Sarri, ieri impegnato a Mosca), 5 milioni netti Ancelotti e 11 Conte, sia pure dopo partite dall’esito diverso, hanno dato vita a due coup de théâtre che hanno lasciato tutti a dir poco sgomenti. E anche se questa, per gli allenatori made in Italy, si era già segnalata come la stagione più tormentata di sempre, con 5 tecnici messi alla porta dopo sole 11 partite (Di Francesco, Andreazzoli, Giampaolo, Tudor, Corini), quel che è successo martedì in mondovisione e su un palcoscenico prestigioso come quello della Champions lascia davvero allibiti, non foss’altro per la notorietà dei protagonisti. Due personaggi agli antipodi, tra l’altro.

Non si sa bene se consapevolmente o meno, Carlo Ancelotti, ammutinato suo malgrado, ha giocato a sorpresa la carta-Nanni Moretti: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. Carletto ha optato per la seconda; e per la prima volta da quando allena in Champions non si è presentato, com’era suo obbligo fare, alle interviste post partita. Detto che tecnici più corretti di Ancelotti è difficile trovarne, cos’era successo? Era successo che i giocatori del Napoli, che a fine partita avrebbero dovuto rientrare a Castel Volturno per continuare il ritiro forzato deciso dal presidente De Laurentiis contro la volontà loro e dell’allenatore, si erano ribellati ed erano tornati ognuno a casa propria, da moglie e bambini, com’è diritto di chiunque, diremmo. E dunque, preso tra due fuochi – solidarietà verso i giocatori e senso d’obbedienza verso la società – non sapendo come uscirne Ancelotti si era dato alla macchia, aveva dato buca al protocollo Uefa (riceverà una multa salatissima) ed era tornato coi suoi collaboratori a Castel Volturno. Furibondo col mondo intero.

Antonio Conte, invece, ammutinato dichiarato, in tv s’è presentato eccome. Dovendo giustificare una sconfitta per 3-2 arrivata dopo aver chiuso il primo tempo in vantaggio 2-0, in ritardo su Halloween ha fatto il giro delle sette chiese travestito (tenetevi forte) da salice piangente; e frignando e piagnucolando come un poppante di 50 anni ha dato il via a un gigantesco e grottesco j’accuse contro la società (“Qui dovrebbe venire a parlare qualche dirigente, si poteva programmare molto, molto meglio; sul mercato mi sono fidato troppo”) e persino contro i suoi giocatori (“Qui stiamo parlando di un gruppo di giocatori che tranne Godin non ha vinto niente nessuno; non hai giocatori importanti o maturi; a chi chiediamo, a Niccolò Barella che abbiamo preso dal Cagliari, a Sensi che l’abbiamo preso dal Sassuolo?”). Per la cronaca: l’Inter era stata messa sotto da una squadra, il Borussia Dortmund, fra le più giovani come età media e che più dell’Inter, minutaggi alla mano, ha spremuto i suoi titolari da inizio stagione a oggi. Conte, che piuttosto di fare autocritica rinuncerebbe al suo trapiantino, dimentica di aver preteso e ottenuto l’acquisto di Lukaku (il più caro della storia dell’Inter, 83 milioni finiti nelle casse del Manchester United), quelli di Barella (a regime, 45 milioni), Sensi, Lazaro e Sanchez e di aver avallato le cessioni di giocatori esperti come Nainggolan, Perisic e Icardi. Senza parlare dei suoi poco incoraggianti precedenti in Champions, con la Juventus di Pirlo, Tevez e Vidal capace di perdere punti con Nordsjelland, Copenaghen e Galatasaray (fino a farsi eliminare), non certo avvenuti per colpa di Barella o Sensi.

Ieri, il day after di Napoli e Milano ha riservato code a dir poco inquietanti. De Laurentiis ha annunciato di voler “tutelare i propri diritti economici, patrimoniali e di immagine” in ogni sede competente (traduzione: multerà i giocatori) e di aver affidato ad Ancelotti “la responsabilità decisionale in ordine alla effettuazione di giornate di ritiro da parte della prima squadra”. In pratica, De Laurentiis chiede ad Ancelotti di pianificare un certo numero di ritiri su cui il tecnico si è sempre detto contrario: niente di buono in vista, dunque, c’è aria di separazione. In quanto all’Inter, all’intemerata di Conte ha fatto seguito un silenzio tanto fragoroso quanto straniante. Per molto meno ci sono allenatori che hanno perso, per giusta causa, panchina e stipendio. E insomma, chi vivrà vedrà.

“The big mother”, le nuove app con cui ci spia mamma

“Bacetto sul collo, poi buffetto tenero sulla punta del naso. Così, bravo”. “Martina che fai lì? Avevi detto che andavi a studiare da Laura! Martina, rispondi, passo!” “Ora fermo. Abbassa gli occhi, fai il timido, alla Forrest Gump. Le ragazze si inteneriscono, cogli imbranati”. “La mamma di Laura ha appena mappato Laura in una Jeanseria-disco! Glielo dico sempre che è lei che rovina te! Oh, mio Dio, ma quello è un divano-letto!”. “Come, ‘papà chi è Forrest Gump’! Abbiamo visto tutti i film di Tom Hanks! Come, chi è Tom Hanks!”.
“Martina, torna subito a casa!”. “Giacomo, adesso attento: prendere mano. Te l’ha presa lei! Ottimo! Vai forte, figlio mio!”. “Ma quello è Giacomo, il figlio del Preside! Faceva tanto il santarellino… buongiorno, signora… l’aiuto io, signora…”. “Ora falla sedere sul divano-letto. Piano”. “Che fai, non ti sedere! Se ti offre un bicchiere di qualsiasi cosa, non bere, c’è la droga! Vieni via subito!”. “Occhio, passaggio delicatissimo: bacetto leggero sulle labbra, durata massima 6“, mai spaventare”. “Martina, resisti, vengo a prenderti, tanto qua indica 12 minuti, niente code e scelgo il percorso senza autostrade!”. “Adesso Giacomo, ascolta bene papà tuo… Giacomo? Giacomo non spegnere, è per il tuo bene…Giacomo!”. “Martina, che fai, no, non mettere il cellulare nel Benjamin! Un Benjamin, che cattivo gusto. Martina!”.

Questa conversazione, oggi, non è del tutto improbabile. Oggi basta un’App per monitorare in tempo reale tutto quello che fa tuo figlio/a: dagli itinerari percorsi, ai luoghi frequentati, alle persone incontrate, alla geolocalizzazione della panchina dove fa a lingua in bocca con la fidanzatina/o/altro. Le hanno soprannominate “B.M.I.W.Y.” (Big Mother is watching you), si chiamano Family Tracker, o Find my friends (che oltre ai friends pizzica pure i partners fedifraghi); utilizzabile anche nella variante Find my Kids, per vedere se il pupo è scappato dall’asilo per drogarsi, nulla è impossibile per la fantasia di una madre ansiosa. E ancora Trick or Tracker, utilizzabile per sette membri della famiglia alla volta, il marito, la moglie, tre figli, la nonna rincoglionita, che quella esce e si perde e pure la gatta per evitare che ritorni gravida per la quarta volta, App su GoPro su collarino. Uno trasforma il salone in una sala di regia a sette schermi e banco mixer ed è fatta. Infine, implacabile, c’è Toyspy App che registra chiamate, foto, video, testi, cronologie sul browser e scorribande su Social, You porn e bestemmie, insomma uno Stato di Polizia in un telefonino. Addio romantici pedinamenti di madri ansiose, addio collaborazioni intergenitoriali con scambio di informazioni via telefono, quello a disco fisso, con nascita di salde e durature amicizie familiari a tutela vicendevole dei pupi.

Mia madre mi seguiva. Il volume dei miei capelli e il mio terrificante abbigliamento (c’è chi ha tentato di ricattarmi) le suggerivano, in modo del tutto gratuito, che il suo adolescente preferito facesse uso e abuso delle più spaventose sostanze stupefacenti. Convinta che io fossi scemo e non la vedessi, appariva e scompariva dietro le auto in sosta come il gatto Silvestro in un cartone animato. Al ritorno a casa ero furioso, tentare di baciare una già restìa con mamma a sei metri che sbirciava dal lunotto posteriore di una 127 era un’impresa molto ardua, la concentrazione ne risentiva. A casa poi seguivano litigate epocali, con lei che negava e io che mi incazzavo il doppio. Ma era bello. Era un rapporto umano. Era fisico, specie gli strilli e urla. Era romantico. Allora non l’avrei mai immaginato, ma un giorno l’avrei rimpianto. Non tanto per me, ma per questi pischelli monitorati 23 ore e mezza su 24 (si spera che per le pippe si abbia il riguardo di spegnere la App). Questi poveracci che oltre all’acne si ritrovano sul collo il fiato di Big Mother qualunque cosa facciano, chiunque vedano, ovunque vadano. Pare che i brufolosi americani stiano organizzando una Resistenza chiamando in causa addirittura i diritti civili.

Sono con voi, pischelli! Ora e sempre, per il sacrosanto diritto a scoprire da soli come è fatta una tetta o altro. Perché il dialogo dell’inizio resti solo una mia invenzione.

Air Europa, l’equipaggio sale a bordo e fa scattare l’allarme del dirottamento

Se non avesse tenuto con il fiato sospeso tutta l’Europa, l’allarme fasullo del tentato dirottamento all’aeroporto di Schiphol sarebbe da ascrivere alla sceneggiatura dell’aereo più pazzo del mondo. Ieri sera intorno alle 20:30, l’equipaggio di un aereo diretto a Madrid stava per completare le procedure di imbarco quando improvvisamente la torre di controllo ha ricevuto un allarme. Si tratta di un codice che il comandante può attivare per segnalare che a bordo qualcuno sta tentando di prendere il controllo dell’aeroplano. È scattato l’apparato di sicurezza: polizia e militari hanno circondato la pista, il gate è stato chiuso, elicotteri e ambulanze si sono portati nei pressi del velivolo pronti a intervenire. Misure plausibili dato che l’Olanda ha vissuto l’incubo degli attentati dell’estremismo islamico al pari del vicino Belgio. “Sta succedendo qualcosa, stiamo scoprendo cosa sta succedendo. Mi tengo informato”. Così il premier olandese Mark Rutte si esprimeva per commentare a caldo l’allarme all’aeroporto di Amsterdam. “Spero che finisca bene”. Ed è andata così. Prima è filtrata la notizia che l’equipaggio e 27 passeggeri erano scesi a terra sani e salvi, poi la comunicazione ufficiale con una punta di imbarazzo: era stato lo stesso equipaggio ad attivare la procedura di emergenza mentre si preparava al decollo. Le forze di sicurezza hanno smobilitato e le piste sono state riaperte.

I LeBarón e le liti per l’acqua con i contadini

Negli ultimi mesi, la famiglia LeBarón aveva denunciato di aver ricevuto pressioni da gruppi di Chihuahua che intimavano di non utilizzare alcuni pozzi d’acqua. Fra questi, un’organizzazione di contadini che si chiama El Barzón. È possibile che qualcuno si sia rivolto ai narcos che si contendono la zona per farla pagare alla famiglia americana di mormoni? Nessuno ha smentito questa ipotesi che resta accanto a quella ‘ufficiale’ delle autorità: i LeBarón sono stati massacrati perché scambiati per un convoglio di criminali da un clan rivale. Nonostante il fatto che, palesemente, le auto erano occupate da donne e bambini. Due giorni fa la famiglia LeBarón ha perso nove membri: tre bambini, due neonati e quattro donne; sono stati uccisi fra gli Stati messicani di Sonora e Chihuahua, vicino al confine con gli Stati Uniti. Otto minorenni sono sopravvissuti, uno di loro, dopo aver nascosto i superstiti, ha percorso 23 chilometri a piedi per chiedere soccorso. L’esercito attribuisce il massacro a uno scontro tra il clan della Linea e quello dei Salazar; il generale Homero Mendoza ha osservato che il giorno prima dell’omicidio c’era stata una sparatoria tra i due cartelli nella città di Aguaprieta con un morto e ferito. Le autorità inoltre hanno riferito di un arresto; l’Agenzia ministeriale per le inchieste criminali ha detto che il soggetto, oltre a un certo numero di armi, aveva con sé due ostaggi, legati e imbavagliati ed è stato preso sulle colline di Agua Priests nello stato di Sonora. Questa notizia si aggiunge a quella data martedì sera: un esponente della famiglia, Julian LeBaron aveva detto che il ministro della Sicurezza, Alfonso Durazo, gli aveva annunciato tre arresti. Non è chiaro il peso di queste operazioni di polizia. Il governo fa fatica anche a puntare il dito solo su una organizzazione criminale: la Linea è il gruppo che si è legato a Jalisco – in predicato di soppiantare Sinaloa su diverse piazze – e si contrappone ai Salazar molto attivi nello stato di Sonora e fedeli a Sinaloa. L’edizione del Pais che si occupa del massacro sottolinea: “Come tutti i crimini in Messico, le informazioni sui fatti sono inversamente proporzionali alla confusione e alle versioni multiple che sono state rilasciate in meno di un giorno”. Nel 2009 un membro della famiglia, di 16 anni, fu rapito: i LeBaron si mobilitarono e riuscirono a riaverlo senza pagare il riscatto di un milione di dollari. Da quel momento però la linea rossa era stata superata e due componenti del nucleo mormone tempo dopo furono uccisi. Da quel momento il clan americano decise di armarsi anche violando la legge, visto che – sostenevano – le autorità non facevano nulla per proteggerli.

Processo Jeanne: Giovanna d’Arco “tradita” dal Front

Parigi

Lo chiamano il processo “Jeanne”, dal nome del micro partito che Marine Le Pen fondò nel 2010 e che, secondo i giudici di Parigi, potrebbe essere stato lo strumento centrale di una grossa frode ai danni dello Stato portata avanti dal Front National (oggi Rassemblement National) tra il 2012 e il 2015. “Jeanne”, cioè “Giovanna”, anche come Giovanna d’Arco, l’eroina nazionale simbolo del patriottismo che il partito dell’ultradestra francese si è accaparrato sin dai tempi del vecchio fondatore, Jean-Marie Le Pen, padre di Marine. Il processo, che si è aperto ieri e durerà tutto novembre, riguarda i presunti finanziamenti illeciti delle campagne FN per le elezioni presidenziali e legislative del 2012, le europee e le municipali del 2014 e le dipartimentali del 2015. Sul banco degli imputati sette persone, per lo più dirigenti del partito vicini a Marine Le Pen, a cui si aggiungono tre persone morali, tra cui il Front National, sospettati di frode e abuso d’ufficio o di complicità in questi reati. Il caso era scoppiato nel 2013 sulle pagine online del giornale Mediapart. Vi si apprendeva che un’inchiesta era stata aperta per verificare i conti di campagna del FN su segnalazione della commissione competente. Le attenzioni si erano focalizzate sul micro partito “Jeanne” e su un curioso “kit di campagna” che tutti i candidati FN alle elezioni, più di 500, erano tenuti, anzi obbligati, ad acquistare per farsi convalidare la candidatura. Un kit, che comprendeva manifesti, volantini, giornali di campagna e contenuti editoriali per il web, dal costo di 16.650 euro.

Il prezzo “reale” del kit, secondo Le Parisien, si sarebbe piuttosto aggirato intorno ai 4.000 euro. Gli aspiranti candidati per poterlo acquistare erano spinti a contrarre un prestito a Jeanne a un tasso di interesse altissimo del 6,5%. I kit erano forniti da Riwal, una società di comunicazione diretta da Frédéric Chatillon, ex leader del Gud, il sindacato studentesco di estrema destra, e amico e collaboratore di lunga data di Marine Le Pen, il cui nome era emerso anche nello scandalo dei Panama Papers. “Per le legislative del 2012 il fatturato di questo materiale elettorale è stato di 9,3 milioni di euro” era stato rivelato da Mediapart. Il “meccanismo contabile” complicato ma perfettamente legale aveva, secondo i giudici, un solo scopo: gonfiare le spese di campagna dichiarate allo Stato (interessi compresi, di circa 600 mila euro, sempre secondo Mediapart) per ottenere poi importanti rimborsi pubblici una volta passato lo scrutinio. La legge francese prevede infatti il rimborso delle spese a tutti i candidati che alle elezioni hanno ottenuto almeno il 5% dei voti. I giudici hanno indagato anche su alcune fatture gonfiate di diverse centinaia di migliaia di euro emesse da Riwal tra il 2012 e il 2013 per la fornitura di servizi al partito della Le Pen. Sul banco degli imputati figurano tra gli altri il tesoriere del FN, Wallarand de Saint-Juste, il suo ex vicepresidente, oltre che segretario generale di Jeanne, Jean-François Jalkh, e il tesoriere di Jeanne, Axel Loustau. E lo stesso Frédéric Chatillon, che ha curato tutte le campagne promozionali del FN degli ultimi anni, compresa quella del 2017, pure se iscritto al registro degli indagati. Sarebbero loro i principali artefici del sistema.

I loro legali parlano di “accuse infamanti”. Sostengono che era tutto in regola e che l’alto tasso di interesse per l’acquisizione del kit, dato il contesto di campagna elettorale, rientrava nella norma. I responsabili del Rassemblement National denunciano sin dall’inizio della vicenda un “processo politico” al partito. Dal canto suo, Marine Le Pen ha sempre affermato di non essere mai stata al corrente di queste macchinazioni. La leader politica, indagata in un’altra inchiesta giudiziaria, quella dei falsi impieghi di assistenti al Parlamento europeo, non sarà al processo, né come testimone né come parte in causa: i giudici l’avevano convocata nel 2016, ma non avevano trovato nulla a suo carico.