“Gli errori di Ilva non possono essere fatti pagare ai lavoratori. Chi vuole farlo, troverà un intero Paese schierato contro, e un governo disposto a compiere un’azione legale profonda ed efficace per impedire che questo diventi un precedente. Né Whirlpool né l’Ilva né ArcelorMittal possono andare in un’altra direzione”.
Così Graziano Delrio è intervenuto ieri in Aula sulla crisi dell’Ilva. Il capogruppo del Pd alla Camera, d’accordo con il segretario, Nicola Zingaretti, è pronto a far seguire le parole ai fatti. Perché se l’esecutivo – a causa dell’opposizione di Luigi Di Maio – non riuscirà a fare un decreto che reintroduce lo scudo penale, nella versione del ministro per il Sud Giuseppe Provenzano (una norma che valga per tutti i casi simili all’Ilva, secondo la quale chi inquina paga ma chi deve attuare un piano ambientale non risponda per colpe altrui o del passato), per farlo è pronto a presentare un emendamento al decreto fiscale.
C’è tempo fino a lunedì, che vuol dire un supplemento di riflessione. Anche perché la questione Ilva si incrocia con la questione governo. E al netto dei dubbi sulla sua reale utilità, lo scudo è una cartina di tornasole per capire lo stato reale della maggioranza. “Sia chiaro, io penso che da parte di ArcelorMittal lo scudo penale sia un alibi. Ma dobbiamo toglierlo. E anche evitare di creare il precedente”, chiarisce dunque Delrio. Poi ammette qualche dubbio: “Il rischio di inammissibilità per un emendamento così c’è. Ma il problema è politico”. Nelle ultime 48 ore il capogruppo dem è stato fermato continuamente da deputati che gli chiedevano la posizione del partito. Perché poi in aula sia con un eventuale decreto, sia con l’emendamento, si potrebbe verificare uno schieramento diverso dall’attuale maggioranza: i Cinque Stelle lo voterebbero compatti? Difficile. Mentre è probabile che a dire di sì sarebbero Lega e FI, insieme a Pd e Iv.
La spaccaturapotrebbe essere l’inizio di un piano inclinato verso il voto, ma persino un incidente da utilizzare per aprire la crisi. Difficile valutarne gli esiti, anche perché il Pd per primo in queste ore sta valutando qual è lo strategia da seguire.Nicola Zingaretti (che la settimana prossima andrà negli States a incontrare i Democratici americani) passa da un penultimatum all’altro. Ieri l’ha messa così: “Non c’è nessuna idea di strappo, stiamo al governo non per le poltrone o per occupare i posti, ma per fare”. Un modo per ammorbidire i toni, ma non la posizione. Al Nazareno cominciano davvero a valutare di far cadere il governo. Anche se con varie tempistiche. Addirittura prima dell’Emilia-Romagna o subito dopo. Persino Dario Franceschini inizia a prendere in considerazione il voto. Ma fino ad ora nessuno – neanche ai vertici del Pd – è convinto che sia la cosa migliore da fare. Per dirla con Andrea Orlando: “Come si rinsalda il patto? Sta per arrivare la manovra in Parlamento, ogni giorno ci può essere l’incidente”.
Altra dichiarazione spia, quella di Andrea Marcucci, capogruppo al Senato: “I tempi della legge elettorale devono essere veloci”. Sul tavolo c’è un proporzionale, con soglia di sbarramento alta. La cosa più semplice all’emergenza. Se davvero ci si arriva. Perché il Pd che per una volta si presenta granitico, in realtà è diviso: al netto delle dichiarazioni né Franceschini, né Base Riformista (corrente dello stesso Marcucci e di Luca Lotti) vogliono il voto. E allora, le parole di Marcucci, che evocano il voto, viene letta anche come un modo per capire se quello di Zingaretti e Orlando è un bluff.
A non volerlo il voto è Matteo Renzi, che non se lo può permettere. “Sarebbe una follia”, va dicendo in questi giorni. Senza contare che è comunque convinto che all’occorrenza una maggioranza trasversale che vuole rimanere in Parlamento si troverà a prescindere dal Pd (il quale, secondo lui, nella prospettiva delle urne comunque si spaccherà). A ogni modo è pronto a difendere almeno parzialmente il governo. Bersaglio preferito, Zingaretti.