Il sogno democratico. “Abbiamo il Kentucky, cadrà la Casa Bianca”

Attenzione a non vendere la pelle dell’orso prima di averlo catturato: nelle elezioni di martedì, Donald Trump ha preso due scoppole; ma non è certo spacciato, in vista delle presidenziali 2020. Prova ne sia un sondaggio Politico/Morning Consult, pubblicato mentre affluivano i risultati: c’è una maggioranza di elettori registrati convinta che il magnate possa ottenere un secondo mandato. Il 56% del campione si aspetta che il presidente fra un anno sia rieletto: l’85% dei repubblicani, il 51% degli indipendenti e oltre un terzo dei democratici (35%). E ciò nonostante che la metà degli americani sia favorevole all’impeachment e voglia che Trump sia rimosso ( sondaggio Nbc/Wst).

Il presidente ha sette vite e sette volte sette tweet; ed è maestro nel girare le frittate. Nel Kentucky, dove lui nel 2016 battè Hillary Clinton di circa 30 punti, il governatore repubblicano Matt Bevin, a caccia di conferma, è stato battuto, sia pure d’un soffio. Ma Trump fa l’auto-elogio del suo effetto traino: Bevin, una sorta di suo clone, nei modi e nei contenuti, “ha recuperato almeno 15 punti grazie al mio appoggio, ma forse non abbastanza (le Fake News daranno la colpa a me!)”. E si consola prevedendo che l’anno prossimo “Mitch McConnell – il leader dei repubblicani al Senato, ndr – vincerà alla grande” in questo stato.

Il presidente si congratula poi a modo suo con Tate Reeves, eletto governatore in Mississippi: “Il nostro ultimo grande comizio ha spostato i numeri da un testa a testa a una grande vittoria”.

Se le urne suonano campanelli d’allarme, l’inchiesta sull’impeachment è tutta una sirena, dopo che un fedelissimo di Trump, il rappresentante presso l’Ue Gordon Sondland ha cambiato versione sul ‘quid pro quo’ e, in una memoria scritta di quattro pagine, ha corretto quanto detto il mese scorso, ammettendo che la Casa Bianca condizionò gli aiuti all’Ucraina, già decisi dal Senato, all’apertura dell’inchiesta contro i Biden padre e figlio, Joe, l’ex vice di Barack Obama, e Hunter.

L’Amministrazione si oppone alla deposizione del capo dello staff ad interim Mick Mulvaney e intende chiedere alla Corte Suprema di dichiarare che il presidente è immune da indagini giudiziarie fin quando è in carica. La Camera, intanto, pubblica il calendario delle audizioni pubbliche: il 13 novembre parleranno William Taylor e George Kent, due dirigenti del dipartimento di stato. Il 15 novembre toccherà a Marie Yovanovitch, l’ambasciatrice Usa in Ucraina rimossa da Trump sullo sfondo delle presunte pressioni su Kiev per far indagare i Biden. Torniamo al voto, dal punto di vista di Trump. Bene in Mississippi (e ci mancava altro, in uno Stato che più rosso non si può). Male in Kentucky, dove i risultati restano sul filo del rasoio. Malissimo in Virginia, dove i democratici conquistano, per la prima volta da vent’anni, l’Assemblea statale. Questa la sintesi del mini-SuperTuesday del 5 novembre, il primo test elettorale dopo l’avvio dell’indagine sull’impeachment. Non è chiaro il peso che le vicende di Washington abbiano avuto: come nelle regionali in Italia, così nelle elezioni statali nell’Unione il peso di fattori e candidati locali è spesso preponderante. S’è votato pure a New York e nel New Jersey, su quesiti specifici.

In Kentucky, il democratico Andy Beshear, l’attorney general, rivendica il successo sul governatore repubblicano uscente Bevin con il 49,2% dei voti contro il 48,9% (100% delle schede scrutinate, 5.100 voti di margine in valore assoluto). Bevin, però, non ammette la sconfitta e potrebbe chiedere una riconta delle schede. Nel Mississippi, il candidato repubblicano Tate Reeves ha nettamente sopravanzato l’attorney general Jim Hood (anti abortista e pro armi): ha il 52,7% contro il 46%: qui nel 2016 il magnate vinse con un vantaggio del 17% su Hillary.

La vittoria dei democratici è invece certa in Virginia: hanno conquistato il controllo del Parlamento, dove i repubblicani avevano una maggioranza risicata, qui nel 2016 Trump perse con Hillary di 5 punti. Il governatore Ralph Northam, un democratico, potrà ora fare approvare misure osteggiate dai repubblicani: un giro di vite ai controlli sulle vendite di armi e l’aumento del salario minimo.

La galleria degli eletti è, come sempre, ricca di personaggi. Daniel Cameron, un ex collaboratore del senatore McConnell, è stato eletto attorney generale nel Kentucky: è il primo nero a riuscirci. Ghazala Hashmi è la prima donna musulmana eletta nel Senato della Virginia. E Juli Briskman è stata eletta nella contea di Loudoun in Virginia: nel giorno di Halloween del 2017, mentre rientrava a casa in sella sulla sua bicicletta, aveva mostrato il dito medio al passaggio del corteo presidenziale e, immortalata da un fotografo, era stata licenziata in tronco dal suo datore di lavoro.

Al di qua del Muro: guai ai vincitori

Da anni i Paesi dell’Est Europa sono sul banco degli imputati, senza che ci si preoccupi di indagare le origini delle loro devianze. L’ascesa delle estreme destre, le violazioni dello Stato di diritto, il rigetto degli immigrati, il rancore verso l’Unione europea: quel che accade nell’Europa ex comunista crea allarmi più che giustificati, ma di corto respiro e dunque improduttivi.

Mancano analisi sociologiche, storiche, economiche, come mancarono negli anni 20 e 30 prima del nazismo (se si esclude il saggio di Keynes sui pericoli dell’umiliazione della Germania nel primo dopoguerra). Nel trentesimo anniversario della caduta del Muro è conveniente l’accanimento selettivo contro l’Est, che garantisce coscienze pulite a tutto l’Ovest dell’Unione.

La Germania Est è da questo punto di vista esemplare. Studiosi, giornalisti, politici dell’Ovest scoprono d’un tratto che l’unificazione non ha funzionato, e non si capacitano. Si aggrappano alle banche dati – i miliardi di euro trasferiti dalla Repubblica federale all’ex Ddr – e presentano i disastri sociali e mentali come effetti collaterali di una politica non analizzata né messa in questione. Il giornalista e costituzionalista Maximilian Steinbeis riassume le occasioni mancate in un difetto costitutivo: l’assenza di curiosità, unita all’autocompiacimento arrogante dei vincitori. Un identico difetto permea i rapporti con la Russia, su cui non ci soffermeremo.

Da qui bisognerebbe partire, se si vuol capire come l’Unione stia perdendo l’Est: dai modi e dai discorsi pubblici con cui l’Est – Germania orientale in testa – è stato annesso e privatizzato, più che integrato e rispettato. Quando attuate con il sussiego dei vincitori, le integrazioni tendono a nutrirsi di menzogne e storie riscritte, e questo è successo in Germania. L’unificazione è caratterizzata da un cumulo di contro-verità che spiegano in larga misura i risentimenti, la voglia di rivincita, il senso di abbandono di popolazioni che rimpiangono protezioni sociali perdute, e per questo si rifugiano nella nostalgia di ambedue le dittature, nazista o comunista.

Le destre estreme raccolgono oggi questo scontento, togliendo voti agli ex comunisti della Linke, da tempo convertitisi alla democrazia. In trent’anni, questi ultimi hanno ripetutamente suonato il campanello d’allarme, inascoltati. Hanno anche dimostrato di governare con saggezza, come in Turingia, ma i Democristiani della regione continuano a ostracizzarli e per il momento sembrano preferire alleanze con Alternative für Deutschland.

La principale menzogna riguarda la natura dell’ex Germania comunista. L’unificazione ha raso al suolo tutte le sue strutture e infrastrutture, giudicandole in blocco fallimentari perché ritenute totalitarie e privatizzando a tappeto. Molti suoi dispositivi sociali (policlinici, tutela dell’infanzia e asili gratis, pieno impiego, diritti dei lavoratori a vacanze pagate, cooperative, sovvenzione agli studi, trasporti basati su binari) davano sicurezza ai cittadini dell’Est. Lo spiega lo storico Ilko-Sascha Kowalczuk, ex dissidente della Ddr (nel suo Die Übernahme, “La presa di controllo”, 2019). Il cittadino non godeva di libertà di parola, ma sapeva di essere protetto “dalla culla alla tomba” (“from the cradle to the grave”, come prometteva l’ideatore dello Stato sociale William Beveridge negli anni 40 del secolo scorso). Una promessa erosa a Ovest negli anni 70-80, mentre più o meno sopravviveva a Est.

Simile perdita è sofferta in molti Paesi dell’Est. In Polonia, il partito Diritto e Giustizia viola sistematicamente lo Stato di diritto, ma raccoglie vasti consensi perché offre una protezione sociale (innanzitutto sovvenzioni a famiglie con bambini) negata dopo l’89-90 dalle “terapie choc” dell’austerità.

Lo stesso Helmut Kohl riconobbe gli errori commessi: in un colloquio radiofonico diffuso dopo la sua morte con lo storico Fritz Stern, ammise inaspettatamente: “Non abbiamo chiarito davanti all’opinione pubblica che non tutto era sbagliato nella Ddr e non tutto era giusto nella Repubblica federale”. Un’ammissione importante visto che proprio lui nel 1990 aveva mentito, promettendo l’avvento, entro tre-quattro anni, di “paesaggi rigogliosi” nell’ex Ddr (blühende Landschaften). Il ravvedimento di Kohl viene in genere occultato, così come viene occultata la catastrofe demografica in tutta l’Europa ex comunista e soprattutto in Germania Est (milioni di tedeschi orientali continuarono a fuggire a Ovest dopo l’89).

Un’altra menzogna riguarda la dittatura tedesco-orientale: molto dura, se non fosse che continua a esser condensata per intero nella monolitica immagine-spauracchio della Stasi, come se altri centri di potere non fossero esistiti e la storia di una nazione l’avessero costruita i servizi segreti. A quest’immagine monca e fuorviante, sostiene Kowalczuk, contribuì non poco, nel 2006, il film Le vite degli altri.

In Germania l’autocritica è in pieno corso, e non mancano libri che parlano dell’Est come di un Mezzogiorno ancora più dannato del nostro. Tra essi ricordiamo quelli di Daniela Dahn, già dissidente in Ddr, che invariabilmente denuncia le modalità di un’unificazione cui dà il nome storicamente pesante di Anschluss, annessione. Nel suo ultimo libro (La neve di ieri e il diluvio universale di oggi, 2019), Dahn si sofferma in particolare su un’accusa ricorrente rivolta alla Ddr: la Shoah nascosta per meglio evidenziare la resistenza comunista. In effetti nella Ddr si insisteva molto e giustamente sulla persecuzione dei comunisti – è l’Ovest che sempre più tende a minimizzarla – ma il genocidio non fu mai trascurato e innumerevoli furono i libri, le trasmissioni televisive, i film sulla Shoah. Nel 1979 apparve sugli schermi delle due Germanie la miniserie americana Holocaust, e si disse che il film aveva per la prima volta traumatizzato profondamente i tedeschi. Dahn ricorda come ben sette anni prima, la televisione della Ddr aveva diffuso una miniserie egualmente traumatizzante, in quattro puntate, che narrava la deportazione ad Auschwitz di una famiglia ebraica: alcuni attori avevano vissuto i Lager in prima persona.

Con questo non si vuol in alcun modo imbellire il welfare o la storiografia della Ddr. Si vuol solo dire che alcune sue acquisizioni potevano essere preservate. I movimenti cittadini, che per settimane riempirono le strade della Ddr, si erano battuti per una riunificazione diversa, più rispettosa della storia nazionale: chiedevano una nuova Costituzione che comprendesse elementi del proprio vissuto e un successivo referendum nazionale. La scelta andò all’immediata annessione, alle privatizzazioni e a una devastante parificazione monetaria, il 1° luglio 1990, che ebbe come effetto l’impoverimento e la brutale deindustrializzazione della Ddr.

Una presa di coscienza comincia a farsi strada, ma faticosamente e solo da quando la destra estrema si è appropriata della Ostalgie, della nostalgia della vecchia Ddr. È così che i vincitori insolenti lavorano alla propria perdita.

Stadio di Milano, domani Sala concederà tutto?

Il presidente del Milan (nonché imputato di corruzione internazionale) Paolo Scaroni ha detto che ha fretta: che il Milan ha bisogno urgente di un nuovo stadio e che si aspettava più entusiasmo dal sindaco Giuseppe Sala, sul progetto del nuovo San Siro presentato insieme all’Inter. Ma se Scaroni ha bisogno urgente di un nuovo stadio, perché non si compra un terreno e non se lo costruisce? Perché lo vuole edificare su terreni del Comune (cioè dei cittadini)? Perché vuole abbattere il Meazza e, con la scusa dello stadio, costruire quasi 300 mila metri quadrati di roba che con lo stadio non c’entra niente (180 mila metri quadrati di spazi commerciali, 66 mila di uffici, 15 mila di hotel, 13 mila per intrattenimento, 5 mila di spazio fitness, 4 mila di centro congressi)? E perché pretende oltretutto dal Comune la dichiarazione di “pubblica utilità”?

Sala fa finta di resistere, ma ha già promesso di dargli una risposta entro venerdì 8 novembre. Lui e la sua giunta decideranno a tempo di record le sorti di San Siro. Come Scaroni pretende. E decideranno in segreto, dopo un simulacro di dibattito pubblico in Consiglio comunale, fatto senza che i consiglieri potessero conoscere le carte depositate da Scaroni e soci a Palazzo Marino – 750 pagine, si narra – rimaste chissà perché segrete.

Intanto sui giornali (ma anche in Comune) il dibattito su San Siro prosegue in modo surreale. Secondo la regia della lobby del nuovo stadio, che indirizza la discussione su due false domande: volete che il Meazza sia abbattuto o tenuto in piedi accanto al nuovo impianto, per farci-non-si-sa-che-cosa? Preferite lo stadio “cattedrale” di Populous o il “doppio anello” di Manica? Sappiamo tutti che la questione è un’altra: vogliamo lasciar fare a Scaroni e compagni di merende, con la scusa dello stadio, una mega-speculazione immobiliare a San Siro da 300 mila metri quadrati su terreni dei cittadini, con spazi commerciali, uffici, hotel, impianti fitness, centro congressi, da lasciar gestire per 90 anni ai privati, che bontà loro poi daranno qualche briciola al Comune? Questa è la vera domanda di sostanza che sarebbe da sottoporre a referendum, altro che la finta alternativa, tutta estetica, tra la “cattedrale” e il “doppio anello”. Tanto varrebbe chiedere: volete essere derubati di spazi comuni da uno vestito di blu o da uno vestito di rosso?

Il diavolo (non so se rossonero o nerazzurro) si prende proprio gioco di noi. La giunta approva un Piano di governo del territorio (Pgt) che concede in città – la metropoli italiana con maggior consumo di suolo – un indice di edificazione di 0,35. Poi subito si contraddice, raddoppiandolo per Scaroni a San Siro (e per Fs e Manfredi Catella sugli scali ferroviari). Pgt ad personam. E concessione della “pubblica utilità”: che formula sublime, per un furto col botto.

Sala si prepara a concedere tutto, chiedendo gli applausi perché farà finta di fare la voce grossa e di ridurre il danno: concederà un po’ meno volumetrie a Scaroni (che, sapendo fare le trattative, ha chiesto 100 per ottenere 80), toglierà qualche piano ai grattacieli progettati, aggiungerà qualche giardinetto, si farà dare qualche soldo in più come canone. Intanto il sindaco regala borracce, inneggia a Greta, si dà un’aria verde e ambientalista. Narrazione che è il contrario della realtà: Milano non solo ha il record di consumo di suolo, ma anche l’aria più inquinata d’Italia. E i giornali applaudono. Si accettano scommesse: quando Sala nel 2021 perderà le elezioni, si chiederà perché e darà la colpa al cattivo Salvini.

 

Libertà è anche amarsi in azienda (e non pentirsi)

Io credo che l’Occidente stia perdendo la testa. In Italia si vuole proibire l’odio, adesso, negli Stati Uniti, anche l’amore. Il lettore sarà forse al corrente della vicenda di Steve Easterbrook, amministratore delegato di McDonald’s, costretto alle dimissioni per avere una relazione consensuale con una collega. La vittima, Easterbrook, dando le dimissioni si è detto pentito del suo comportamento e d’accordo con l’azienda.

Questo mi ricorda un’altra vicenda che ho letto in Doctor Faustus di Thomas Mann. Siamo sul finire del secolo XV, in piena Inquisizione, a Merseburg presso Costanza dove vive un giovane bottaio “bello d’aspetto e sano”. Il bottaio ama, riamato, Barbara la più bella ragazza del paese. La relazione, sia pur malvista, è nota a tutti. Un giorno Heinz viene trascinato dagli amici in un bordello di Costanza. Davanti alla bagascia, lui fa cilecca, cosa normalissima perché lui è attivo sessualmente con la sua amata, che se ne fa di una troia? Il fallimento di Heinz reso noto dai suoi compagni arriva alle orecchie di Santa Madre Chiesa la quale ne ricava che il ragazzo deve essere stato stregato dalla sua fidanzata con uno speciale unguento fornitogli da una fattucchiera. In breve: lei viene bruciata viva sulla pubblica piazza. E qui viene la parte più spaventosa della storia: “Heinz, lo stregato, era in mezzo agli spettatori, a capo scoperto, e mormorava preghiere. Le grida della sua diletta soffocate dal fumo e irriconoscibilmente arrochite gli parvero la voce del Demonio che da lei usciva recalcitrando e urlando”. Il ragazzo si era fatto convincere che il suo amore era colpevole.

Su un piano meno drammatico, ma altrettanto significativo, si pone la vicenda dell’amministratore delegato di McDonald’s. E poco importa che il regolamento interno di McDonald’s interdica le relazioni amorose fra i dipendenti anche se del tutto consensuali perché nessun regolamento interno di qualsiasi azienda o consimili può impedire quelli che sono diritti (anzi molto più che diritti) indisponibili della persona. C’è quasi da vergognarsi a dover sottolineare questa ovvietà. Io mi innamoro di una mia collega con cui sono in contatto tutto il santo giorno, lei mi corrisponde, niente di più scontato, di più ovvio, milioni di coppie si sono formate così, e poi dobbiamo nasconderci, come ladri di galline, per sfuggire alla punizione della Santa Inquisizione Aziendale. La McDonald’s ha tenuto a chiarire che “non saranno forniti dati sul flirt”. E ci mancherebbe. La Santa Inquisizione Aziendale è entrata in camera da letto dei due: si saranno mica baciati, lei gli ha fatto un pompino, lui le ha strizzato i seni?

Stiamo raggiungendo, e forse sorpassando, i vertici del più estremo radicalismo islamico. L’età giovane dei fratelli Dardenne, film bellissimo, racconta la storia di un adolescente che viene radicalizzato e plagiato da un Imam al punto che quando una volta si lascia andare a dare un castissimo bacio a una bella ragazza che lo desidera si sente talmente in colpa di fronte alla sua religione da dover poi passare un’ora in bagno a sciacquarsi la bocca. In questa disposizione d’animo più o meno deve essersi sentito Steve Easterbrook quando ha dato le dimissioni e ammesso la sua colpa. Unica differenza: nell’islamismo l’interdetto è religioso, qui è laico.

Il puritanesimo imperante di marca yankee (#Metoo compreso), che è poi solo l’altra faccia della nostra violenza, diffuso ormai anche in Europa, ci vuole ridurre a esseri disincarnati, a figure puramente astratte, senza odii, senza amori, senza passioni, costretti a portar sacrifici, dei veri sacrifici umani, a un altro dei Totem di una Modernità sempre più incalzante, dilagante, asfissiante: il Lavoro.

Basta. Ribelliamoci. Io voglio poter continuare ad amoreggiare con la mia compagna di banco, senza che nessuno ci ficchi il suo ipocrita, perbenista e sporco becco.

C’è la Rai: a che serve Radio Radicale?

Non è chiaro se, dopo i circa 300 milioni incartati nell’ultimo venticinquennio, Radio Radicale potrà fare affidamento su ulteriori 24 milioni di euro pubblici nei prossimi tre anni o, di fatto, solo su circa 4 milioni, prima di poter partecipare a una gara di appalto (la prima in 25 anni) per la trasmissione delle sedute parlamentari.

“Entro il 30 aprile”, come pretende Luigi Di Maio. “Entro la prima parte dell’anno”, come prevede anche il sottosegretario al ramo Andrea Martella. Lo capiremo dal testo definitivo della legge di Bilancio.

Intanto, è da rilevare che sulla questione, come al solito, sono emersi due campi nettamente contrapposti e sbilanciati.

In uno, gli esponenti di quasi tutti i gruppi politici sostengono la radio-partito inventata da Pannella considerandola “servizio pubblico”, pezzo insostituibile delle istituzioni democratiche, “un patrimonio di libertà e di pluralismo da difendere”, e accusando chi vuole togliere o ridurre il contributo ai radicali di essere nemico nientemeno che della Costituzione e del “diritto dei cittadini ad essere informati”. Nell’altro campo, dove ormai milita solitario il M5S, si liquida radicalmente il tentativo di privilegiare e sovvenzionare ancora la creatura di Pannella, oggi in mano a suoi pochissimi eredi, come una “porcata”: qui si sostiene che quei soldi – mentre il Paese fa i conti con tagli e tasse, e il campo dell’informazione, privato dei contributi pubblici, è diventato negli anni uno sterminato cimitero di testate morte abitato da prepensionati, disoccupati e sottoccupati – dovrebbero andare ai cittadini meno privilegiati. Magari “ai terremotati”.

In realtà, si rischia di perdere ancora una volta l’occasione per porre la questione in termini più corretti e chiari, sottraendosi al castello di equivoci e manipolazioni abilmente costruito nei decenni da quel gigante del lobbismo politico in cui si era trasformato col tempo il gigante della politica e della storia italiana che era stato negli anni Sessanta e Settanta, Marco Pannella.

Radio Radicale fino all’anno scorso ha continuato a incassare più di 8 milioni l’anno per la trasmissione delle sedute parlamentari e – con una serie di trucchi e privilegi semplicemente osceni – altri 4 come “radio di partito”, l’unica riconosciuta come tale grazie alla firma di due parlamentari della Rosa nel Pugno (uno sventurata formazione politica durata solo due anni, tra il 2005 e il 2007). In realtà, Pannella aveva così trovato la maniera di pagarsi la propaganda di partito e personale, suo e della Bonino.

Oggi i suoi rampolli, con i soldi pubblici delle dirette parlamentari – che di per sé consentono ai radicali una presenza quotidiana, ossessiva nella vita parlamentare e politica, ben al di là, molto al di là del loro effettivo peso politico ed elettorale – gestiscono una radio senza pubblicità, con la quale fanno propaganda di partito, promuovono intensamente iniziative e denunce di partito, criticano quotidianamente le posizioni delle altre forze politiche, sferrano velenosi attacchi agli stessi radicali “non ortodossi” (i boniniani), pretendono di fare la politica carceraria, diffondono avversione contro la magistratura e i sindacati, trasmettono fiumi di vecchie interviste di Pannella, le conversazioni di due ore al segretario Maurizio Turco, le numerose campagne di Rita Bernardini, ecc. ecc.. Perciò Radio Radicale ha 26 giornalisti, 20 collaboratori e 32 fra tecnici e amministrativi. Perciò ha costi in bilancio per più di 12 milioni di euro. Certamente non per le sedute parlamentari.

L’idea della gara pubblica è indubbiamente un passo in avanti, rispetto al passato. Gara pubblica spesso richiesta da Radio Radicale, che nel frattempo ritiene di aver maturato una capacità diffusiva che altri non possono permettersi. Ma nel corso di questo scandaloso venticinquennio, Pannella, monarca assoluto di un partito personale, senza alcuna struttura periferica, non a caso “transpartito” e con doppie tessere, ha magistralmente assicurato sistematici privilegi alla sua creatura più riuscita, appunto la radio-partito, grazie alle intese ora col centrodestra e ora col centrosinistra, oltre ad accaparrare incarichi, in particolare per la Bonino, e consulenze varie per le strutture e i pannelliani più fedeli.

Ma non si capisce perché il Parlamento e lo Stato non debbano seguire in materia una delle due strade che, in un Paese civile e normale, sarebbero considerate maestre:

a) l’autogestione delle dirette da parte del Parlamento, realizzabili in Rete con molti, molti meno soldi di quelli riconosciuti a Radio Radicali e con le strutture e le professionalità già esistenti e profumatamente pagate nel Palazzo;

b) l’affidamento in servizio alla Rai, fornita anche troppo di strutture, professionalità e risorse pubbliche.

Mail box

 

Ruini su Salvini, argomenti deboli e preferenze personali

Esprimo il mio dissenso sulle tesi sostenute dal Cardinal Ruini in una recente intervista al Corriere della Sera.

In primo luogo sul versante, per così dire, ecclesiale: affermare che le deroghe al celibato rappresenterebbero un cedimento allo spirito del tempo in una Chiesa in cui, come è noto, il primo Papa, San Pietro, era sposato, mi sembra un argomento piuttosto debole. Dissento, anche, sulle questioni che Ruini pone sul piano più politico: la costruzione dei principi a cui i cattolici dovevano essere del tutto fedeli (nel senso della loro non negoziabilità) era stata abilmente e scientemente costruita da Ruini, nel tempo in cui ricopriva la carica di Presidente della Cei, non in modo asettico (o, più correttamente, equidistante), bensì in modo da creare una preferenza evidente, quando non imbarazzante, a favore del centrodestra, ossia secondo le sue malcelate preferenze personali. Appare, infine, questo sì, un cedimento allo spirito del tempo, l’appoggio e il sostegno a Salvini, proprio nel momento in cui i sondaggi sono a lui favorevoli. Insomma, un conto è la preferenza personale manifestata negli anni ‘90 per una coalizione conservatrice ma di stampo europeo (come era il centrodestra guidato da Berlusconi), altra cosa è “tifare” per Salvini, con annessi rosari, preghiere, invocazioni e altri numerosi e dubbi orpelli.

Mi sembra che ci siano tutte le condizioni per affermare che il dibattito politico nella Chiesa di Papa Francesco sia così ampio e variegato da poter contenere anche le considerazioni un po’ forzate dell’anziano Cardinale Emerito Ruini.

Saverio Regasto

 

Ilva: si può fare tutto accettandone le conseguenze

La presenza a Taranto di Arcelor-Mittal non è mai stata di mio gradimento ma, come tante altre scelte fatte per salvare posti di lavoro e grandi realtà del nostro Paese, l’ho dovuto sopportare senza potermi lamentare troppo.

Ora che si ritira, io sono contento, potrebbe essere infatti la volta buona che si preferiranno le scelte giuste a quelle convenienti per i dipendenti dell’ex-Ilva e i pugliesi.

Si nazionalizzi l’intera gestione, si spengano i forni, si renda eco-compatibile l’intero stabilimento, si paghino nel frattempo gli operai come se lavorassero (così magari il processo avviene più in fretta) e si raddrizzi la schiena all’intera società.

Non si può fare? Non è vero, tutto si può fare se si è disposti a pagarne il prezzo e le conseguenze a testa alta.

G.C.

 

Verona non mi sembra più la città dell’amore

Shakespeare, Giulietta, Romeo e la città dell’amore, Verona. Amore inteso come sentimento al di sopra di tutti gli odi, che non guarda in faccia nemmeno alle radici famigliari o al sangue più o meno nobile. Un amore supremo. Un amore che sa essere oltre l’ignoranza, la solitudine, quella accompagnata dalla paura dell’amore che invita a lasciarsi andare verso l’altro senza condizioni. Verona, mi spiace, ma stai perdendo tante occasioni per dimostrare di essere la città dell’amore. Mi spiace davvero.

Gianni Dal Corso

 

La scuola insegni ai bambini a diffidare dai ciarlatani

Rivolgo un appello agli insegnanti della scuola dell’obbligo: perché non educare i bambini alla diffidenza nei confronti dei ciarlatani? Mio zio apparteneva a tale categoria ed era un maestro nell’arte della persuasione. Esercitando la professione di rappresentante di commercio, riusciva ad abbindolare i clienti rifilando loro prodotti di qualità anche molto scadente. Mia nonna mi mise in guardia: “porta rispetto a tuo zio ma non ti fidare, è un fanfarone”. Grazie a quell’insegnamento, oggi so riconoscere un fanfarone all’istante. “L’Italia è il Paese che amo” – esordì Berlusconi –. Immediatamente pensai: “È un venditore di fumo come mio zio”; poi venne Renzi e lo sentii blaterare sul “futuro che prima o poi torna”. Stesso giudizio. Ma Salvini supera tutti e, mentre bacia il rosario, assurge, con consenso unanime, al rango di “re dei fanfaroni”.

Maurizio Burattini

 

Un tempo la radio pubblica trasmetteva musiche sacre

Alcuni decenni fa, nei primi giorni di novembre, si pregava con devozione sino alla giornata dei santi e per quella dei morti, non esisteva Halloween, mentre veniva festeggiato decorosamente il 4 novembre. Nell’immediato dopoguerra, la Rai (intesa come radio: non esisteva ancora la tv) nella giornata dei morti, dopo il giornale radio, trasmetteva un nutrito saggio di musiche sacre che offrivano agli ascoltatori una motivata riflessione e meditazione oggi purtroppo definitivamente scomparse.

Nicodemo Settembrini

 

I NOSTRI ERRORI

Nel pezzo uscito ieri, “Capano, l’amico dell’uomo che sussurrava ai boss”, è sbagliato il nome del soggetto detenuto condannato per mafia. Si tratta di Vito Vincenzo Rallo e non Vito Antonino Rallo, come erroneamente scritto. Ce ne scusiamo con i lettori e con gli interessati.

FQ

Movimento al bivio. Dialogo a sinistra o ritorno alle origini, ma bisogna scegliere

Mi sorgono spontanee alcune domande, dopo la lettura degli articoli di Travaglio, Costamagna e De Carolis. Amici miei 5Stelle, volete tornare ai tempi delle origini? Ai tempi del vaffa e fare solo opposizione magari con le destre al governo? Pensate forse che alla buona parte dei cittadini resti il tempo e la voglia di andare in piazza ogni volta che Salvini realizzerà i suoi disegni di odio, intolleranza e privilegi ai furbi? Volete restare un movimento adolescente o crescere insieme a molti “volontari” politici di buon senso, onesti e preparati? Volete arrendervi ai giornali genuflessi ai soliti interessi di potere, quelli che hanno creato questo sistema politico-economico? Volete rinunciare a prendere in mano questo Paese con coraggio e voglia di cambiare davvero? Volete lasciare che gli italiani continuino ingenuamente a lasciarsi contare frottole e crederci? Con questo spirito di resa davvero i 5Stelle scompariranno.
Maria Valeria Tarpini

Gentile Maria Valeria, lei pone un tema centrale, quello della rotta e del prossimo futuro di un Movimento che, al di là di come lo si possa giudicare, ha cambiato la politica italiana. Le scelte del M5S, in un contesto così frammentato, incideranno anche sull’assetto e i prossimi passi della sinistra, e di fatto anche su quell’indefinito spazio politico che è il centro, termine e concetto convenzionale con cui è obbligatorio fare i conti. Perché è indiscutibile che i Cinque Stelle siano a un bivio, come Lei fa giustamente notare: quello tra il rassegnarsi a tornare a essere stabilmente una forza di opposizione, capace magari di pungolare l’esecutivo di turno, oppure ambire a governare il Paese anche negli anni a venire. Un obiettivo che, numeri alla mano, non potrà essere perseguito senza prevedere alleanze o accordi di programma con altri partiti. E allora è su questo che il capo politico Luigi Di Maio, e con lui tutte le altre voci del Movimento, dal fondatore Beppe Grillo fino ai gruppi parlamentari, devono esercitare il coraggio della chiarezza. Ossia, confrontarsi seriamente tutti assieme (possibilmente prima degli stati generali ventilati da Di Maio per la prossima primavera) e imboccare una strada. Cioè scegliere se dialogare con il centrosinistra, per ricostruirlo e ricostruirsi a partire da temi e parole chiave, mettendo in conto il rischio di perdere un pezzo di anima. Oppure tornare senza rimpianti alla piena autarchia, che coincide con maggiore libertà, ma che rischia di rinchiudere i 5Stelle in un recinto da cui sarà difficile uscire. L’essenziale sarà scegliere, spiegando le ragioni del proprio percorso e non cedendo ai voti e agli umori del momento.
Luca De Carolis

“Sfruttamento e mazzette a Fincantieri”

Lo sfruttamento dei lavoratori negli stabilimenti della Fincantieri. Le società subaffidatarie che controllano manodopera a bassissimo costo, fino a 4 euro all’ora. Il mancato riconoscimento di ferie, straordinari e malattie. Il cosiddetto sistema della “paga globale”, instaurato a Porto Marghera. E poi la connivenza dei dirigenti, che da un lato avrebbero accreditato questo meccanismo lavorativo, dall’altro avrebbero intascato tangenti dalle società che controllano la forza lavoro. È un pentolone ribollente quello scoperchiato dall’inchiesta della Guardia di finanza di Venezia, coordinata dal sostituto procuratore Giorgio Gava, iniziata nell’estate 2018 grazie agli esposti di alcuni lavoratori extracomunitari. Un’ottantina di perquisizioni sono state effettuate in Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Marche, Campania, Puglia e Sicilia. Sono 34 gli indagati, a diverso titolo, per sfruttamento della manodopera, corruzione tra privati, dichiarazione fraudolenta ed emissione di fatture false. Le imprese coinvolte sono 19, tutte della cantieristica navale. Arrestato per sfruttamento di manodopera un cittadino bengalese, titolare di due società (gli sono stati sequestrati 200 mila euro). Ma soprattutto risultano indagati 12 dirigenti o dipendenti Fincantieri.

I lavoratori avevano denunciato una paga oraria media di 5-6 euro all’ora, che si abbassava anche a 4 euro. Se non accettavano, restavano senza lavoro. Il sistema, secondo la finanza, aveva da una parte Fincantieri, dall’altra le società che controllano la manodopera extracomunitaria, pronte perfino a pagare mazzette, con qualche dirigente perfino in libro-paga. A svelare il meccanismo sono state due persone: il bengalese Ali Md Suhag (arrestato) e un consulente del lavoro che ha predisposto le buste paga per molte società di Marghera. Scrive il pm: “Sono stati loro a chiarire i retroscena del sistema retributivo della cosiddetta paga globale e delle condizioni di sfruttamento. Hanno confermato che il sistema è praticato da gran parte delle aziende a cui vengono commissionate le attività di molatura, saldatura e carpenteria dalla Fincantieri. Hanno spiegato come i salari modestissimi trovano origine in valutazioni svolte da Fincantieri del numero di ore necessarie per eseguire le attività, nettamente sottostimate”.

In particolare, “il consulente del lavoro ha raccontato l’origine della paga globale, l’esternalizzazione delle lavorazioni povere, la loro assegnazione sottocosto, la consapevolezza di Fincantieri”. Ali Suhag aveva spiegato ai piani alti i suoi problemi. Le reazioni? “In taluni casi i dirigenti alzavano la voce dicendo ‘che non gliene fregava alcunché di quanto egli pagava i suoi operai’”. In altri casi aveva ottenuto il riconoscimento di quantità aggiuntive di ore lavorate, “solamente a fronte della corresponsione di vere e proprie tangenti”. Secondo la Procura, i dirigenti Fincantieri “appaiono aver concorso allo sfruttamento della manodopera, avendo essi creato le condizioni per tale sfruttamento”.

Ma c’è anche il capitolo della corruzione. Di tre tipi: pagamenti una tantum per inserire le società nell’albo fornitori, per l’affidamento di commesse e per concedere integrazioni di ore, i cosiddetti “documenti di coordinamento delle modifiche”. Un dirigente avrebbe ricevuto 10 mila euro tramite un commercialista. Un altro un orologio da 5 mila euro. Un terzo dipendente Fincantieri, da 10 a 50 mila euro. Ma in alcuni casi si sospetta che fossero a libro paga, con pagamenti mensili. Per tre dirigenti il sospetto di aver ricevuto “come tangente il 10% di tutte le somme integrative corrisposte per ‘non conformità’”.

Fincantieri manifesta “la propria estraneità ai fatti”. E “laddove le accuse venissero confermate, adotterà immediati provvedimenti nei confronti di dipendenti che si fossero resi responsabili di condotte illecite”.

Unicredit molla Mediobanca. Si apre la guerra per Generali

La finanza italiana torna a mettere in scena un grande classico del suo repertorio: la lotta di potere tra imprenditori e banchieri per controllare le cosiddette “casseforti del sistema”. La notizia di ieri è di quelle a lungo rumoreggiate: Unicredit esce da Mediobanca, guidata da Alberto Nagel, vendendo sul mercato l’intera quota dell’8,48% detenuta nell’istituto che fu di Enrico Cuccia. La decisione, si legge in una nota dell’istituto guidato dal francese Jean Pierre Mustier, è “in linea con la strategia di cessione degli asset non strategici”. Unicredit si impegna a “non interferire con l’assegnazione delle azioni” e a reinvestire il ricavato della cessione “nello sviluppo delle attività dei suoi clienti”.

Dalla vendita dei suoi 76,2 milioni di azioni Mediobanca Unicredit potrebbe realizzare un utile di una cinquantina di milioni: ieri il titolo di Piazzetta Cuccia alla Borsa di Milano era ai massimi degli ultimi cinque anni a 10,78 euro contro i 9,89 pagati dalla banca di Mustier. Sul mercato la quota vale circa 820 milioni e Unicredit l’ha in carico a 750 circa. La plusvalenza è possibile grazie al rialzo in Borsa delle ultime settimane, trainato dagli annunci bellicosi e dall’ingresso nel capitale di Mediobanca, attraverso la sua holding lussemburghese Delfin, dell’imprenditore milanese Leonardo Del Vecchio, patron della multinazionale italo-francese EssilorLuxottica. Secondo molte fonti, l’85enne Del Vecchio che attualmente controlla oltre il 7,5% del capitale punterebbe al 10% di Piazzetta Cuccia e potrebbe salire sino al 20% circa, nel caso la Bce desse via libera.

La chiave di lettura dell’operazione però non è solo la riorganizzazione dell’azionariato di Mediobanca, nel quale sta calando la quota del controverso raider francese Vincent Bolloré, e del suo management, Nagel in testa, pesantemente criticato da Del Vecchio. L’obiettivo finale, in un colossale gioco di sponda, sono le Assicurazioni Generali, guidate da un altro francese, Philippe Donnet, delle quali Mediobanca è primo azionista con il 13,465% e la Delfin di Del Vecchio terzo (con 3,163%) dietro a Francesco Gaetano Caltagirone con il 5%.

Se la parola “francese” è sin qui ricorsa molte volte, è perché secondo altri rumor proprio in Francia Generali potrebbe convolare a nozze con la concorrente Axa per formare il nuovo gigante europeo del settore. Una integrazione che 25 anni fa sembrava cosa fatta, quando le assicurazioni del Leone di Trieste possedevano indirettamente il 16% di Axa. Se all’epoca Generali avrebbe avuto il comando del nuovo gruppo, oggi però le forze si sono invertite e potrebbero essere i francesi a guidare la nuova aggregazione, anche se formalmente paritetica.

Una eventualità paventata dalla Lega: il deputato salviniano Giulio Centemero nei giorni scorsi ha annunciato un’interrogazione parlamentare per chiedere al governo se ha notizia di operazioni francesi per conquistare Mediobanca e Generali. Torna quella difesa dell’“italianità”, concetto che quindici anni fa tanto piaceva all’allora governatore di Banca Italia Antonio Fazio, poi dimessosi per le scalate bancarie dei “furbetti del quartierino”.

Il 54enne Nagel però non resta a guardare: la prossima settimana presenterà un nuovo piano per difendere la sua strategia di diversificazione di Mediobanca nelle attività di credito al consumo, private banking e gestione patrimoniale, oltre che nel tradizionale business delle fusioni e acquisizioni. Un fronte sul quale ha appena avuto un ruolo di consulente nelle trattative per la fusione tra Fiat Chrysler Automobiles e il gruppo francese Psa, proprietario di Peugeot. Il serial è solo alla prima puntata.

Scandalo Eni: dalla Nigeria la prova della maxitangente

Secondo la Procura di Milano, il cerchio è chiuso: nelle carte arrivate dalla Nigeria e appena depositate al processo con imputati Eni, Shell e i loro vertici (tra cui l’amministratore delegato della compagnia petrolifera italiana Claudio Descalzi), ci sarebbe la prova della corruzione internazionale. Sono documenti raccolti dalla Efcc, la polizia anticorruzione nigeriana. Raccontano il modo ingegnoso con cui un pubblico ufficiale della Nigeria ha incassato una parte (un paio di milioni di dollari) dei soldi provenienti dalla vendita, nel 2011, dei diritti d’esplorazione dell’immenso campo petrolifero Opl 245. E che pubblico ufficiale: è l’uomo che era nientemeno che attorney general e ministro della Giustizia della Nigeria: Mohammed Adoke Bello. È, insieme all’allora presidente della Repubblica federale, Goodluck Ebele Jonathan, uno dei sei pubblici ufficiali nigeriani che i pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro ritengono i percettori della mega-tangente (1,092 miliardi di dollari) ricevuta nel 2011 in cambio del grande giacimento assegnato dal governo nigeriano dell’epoca a Eni e Shell.

Eni ha versato quella cifra su un conto JpMorgan a Londra, aperto dal governo della Nigeria, dunque si ritiene al sicuro da ogni accusa di corruzione internazionale. Ma – secondo l’ipotesi d’accusa – i soldi sono poi stati dispersi e spartiti tra i politici africani, senza che un solo cent restasse nelle casse dello Stato.

Ora le carte raccolte dalla Efcc chiudono il cerchio, provano l’acquisto da parte di Adoke Bello di una proprietà nel centro di Abuja, la capitale della Nigeria. I documenti bancari già presenti nelle carte del processo ricostruiscono il modo con cui l’allora ministro della Giustizia ha mascherato la tangente arrivata dall’Europa. Provano che, il 30 gennaio 2012, Adoke Bello ha aperto un conto presso la Unity Bank di Abuja. Lo attiva versando pochi spiccioli, ma sa che la banca gli concede uno scoperto altissimo. Infatti il 15 febbraio 2012 ritira 300 milioni di naira nigeriani, circa 830 mila dollari. Con questi – soldi della banca – compra una grande proprietà nel centro chic di Abuja.

Va in rosso per 300 milioni, ma lo scoperto è sanato nei mesi successivi da una miriade di piccoli versamenti di contanti: 74 versamenti sono per cifre che vanno da 1 a 10 milioni di naira (vale a dire: da 2 mila a 25 mila dollari). Arriva qualche raro assegno. Poi il 16 e il 18 settembre 2013 entrano due versamenti più consistenti: 105 e 110 milioni di naira (più o meno 300 mila dollari) che arrivano dal sistema dei Bureau de Change nigeriani, i cambiavalute locali. Insomma: tante formichine portano soldini nel conto di Adoke, che così ripiana il suo debito con la banca.

Dove vanno i 300 milioni che l’ex ministro preleva in un botto solo dalla sua banca? Vanno alla società Carlin International Nig. Ltd, il 15 febbraio 2012. Causale: “Pagamento del Plot 3271”, cioè la grande proprietà nel centro di Abuja. La Carlin è una delle società riferibili al grande manovratore in contanti dei soldi versati da Eni al governo nigeriano: Alhaji Abubaker Aliyu, chiamato in patria “Mr. Corruption”. Secondo le carte appena arrivare dalla Nigeria, il Plot 3271, di 5,4 mila metri quadrati, passa dalla società City Hopper alla società A Group Properties Ltd, per 700 milioni di naira (poco meno di 2 milioni di dollari). Poi la A Group Properties lo passa alla Carlin, che per 300 milioni lo gira ad Adoke Bello. La A Group Properties, come la Carlin, è riconducibile ad Abubaker e come la Carlin è domiciliata all’indirizzo di Abubaker, al 32 di Mediterranean Street, Abuja.

La girandola di conti, versamenti in contanti, contratti d’acquisto si alimenta con i soldi che Eni versa nel maggio 2011 su un escrow account JpMorgan di Londra del governo nigeriano, che poi nell’agosto 2011 passano in due conti in Nigeria della società Malabu (riferibile all’ex ministro del petrolio Dan Etete). Poi i soldi girano e rimbalzano come una pallina di flipper: 54,4 milioni sono prelevati in contanti da Abubaker; 466 milioni sono trasferiti, sempre da Abubaker, ai Bureau de Change e poi movimentati in contanti. Arrivano, secondo i pm, mazzette all’allora presidente Goodluck, ad Adoke Bello, al suo predecessore Bajo Oyo, al ministro del petrolio Diezani Alison Madueke, al capo della sicurezza nazionale, generale Aliyu Gusau, all’ex senatore Ikechukwu Obiorah.