“L’assicurazione ci ha fatto test psicologici per sapere quanto fosse vero il nostro lutto”

László e Melinda Marton sono i genitori di Mark, la vittima più giovane. Mark Marton aveva solo 14 anni. Melinda è insegnante di scuola dell’infanzia, il marito è imprenditore.

Che effetto vi fa che quel tratto di autostrada sia tale e quale al momento dell’incidente?

Per noi è impressionante e inaccettabile che i responsabili dell’autostrada non abbiano ritenuto necessario effettuare nessuna modifica preventiva per evitare incidenti simili a quello in cui è morto nostro figlio e aumentare la sicurezza per tutti coloro che percorrono quel tratto autostradale. Forse hanno considerato basso il numero delle vittime? Hanno atteso che si verificasse un incidente come quello che ha distrutto le nostre famiglie? La morte di ormai 18 persone – dopo il decesso del professore rimasto gravemente ferito dalle fiamme in cui si era lanciato per salvare i ragazzi vedendo morire i propri due figli Laura e Balàzs – non è forse ancora abbastanza per sentirsi obbligati ad agire? Noi consideriamo vile un tale disinteresse.

Quali sono le vostre aspettative per il processo che è stato rinviato a gennaio?

Di fatto è trascorso un altro anno senza uscire dalla fase di trattative considerate da una parte delle famiglie. Per quanto ci riguarda siamo fiduciosi nella magistratura italiana, che la ricerca della verità possa finalmente diventare l’unico obiettivo di ogni singolo minuto delle udienze.

I rinvii richiesti da una parte delle famiglie delle vittime sono strettamente connessi alle trattative per i risarcimenti. A che punto è la questione?

Noi, altri genitori e l’Associazione italiana familiari e vittime della strada non abbiamo chiesto alcun rinvio. Vogliamo la verità non il “controvalore” di nostro figlio. Quello è impagabile. Secondo noi la responsabilità civile non deve essere oggetto di trattative.

La compagnia assicurativa (Groupama Ungheria, ndr) solleva polemiche continue per allungare i tempi. Lo sa che i familiari sono stati sottoposti anche ad analisi psicologiche per verificare la profondità del loro lutto?

Cos’altro vorreste dire ai lettori italiani?

Non potremo mai ringraziare abbastanza tutte le persone che sono state accanto a noi anche solo per un attimo, nei pensieri, nei sentimenti e nelle azioni. Persone che stanno dando una mano nella nostra lotta, gli avvocati, l’Associazione familiari e vittime della strada, non solo per trovare la verità ma per un cambiamento sul piano della prevenzione delle tragedie. Alle autorità italiane diciamo però che il lavoro fin qui fatto non ha dato risposte giuste ai tanti quesiti. Solo la verità restituirà un degno ricordo agli “Angeli di Verona”.

 

Dal 2013 nessuno controlla i cassoni sotto i viadotti liguri

Un’epidemia. Ogni giorno che passa aumentano i viadotti che richiedono rapidi, talvolta immediati, interventi di sicurezza. Ormai, soltanto in Liguria, sono decine le strutture sotto osservazione. “Improvvisamente le pagelle sulla sicurezza sono peggiorate, e bisogna capire perché”, spiegano in Procura a Genova. Ma i pm e la Guardia di Finanza che hanno in mano l’inchiesta sui report di sicurezza chiariscono: “Noi dobbiamo solo indagare su eventuali reati, non verificare lo stato di salute delle autostrade. Questo spetta ad altri”.

E il limite della loro azione è ben chiaro: i confini della regione. Anche per evitare che qualcuno sollevi l’eccezione di incompetenza. Ma la questione ormai se la sono posta in molti: sono malati solo i viadotti liguri o il contagio ha colpito le autostrade di tutta Italia?

Un male che consuma cemento e acciaio, ma che si annida soprattutto nei cassoni, cioè quelle intercapedini poste sotto il manto stradale. Cunicoli che per anni non sarebbero stati ispezionati lasciando che nel frattempo acqua e umidità si infiltrassero. La scoperta era arrivata dall’inchiesta sul Morandi: era emerso che dal 2013 nessuno era più sceso nei cassoni del ponte per verificarne lo stato di salute. Un caso isolato? No, perché nelle scorse settimane sono stati ispezionati altri viadotti. E il risultato è stato quasi sempre lo stesso: “È pieno d’acqua e le ultime piogge non spiegano quei laghi”, come raccontavano ingegneri e tecnici riuniti dieci giorni fa sotto il viadotto Sori (a Levante di Genova). Così la Procura ha ampliato ancora le ispezioni: presto altri tre viadotti sulla Genova-Livorno saranno controllati. Ma tutte le arterie intorno a Genova mostrano punti deboli: dalla A26 che porta in Piemonte, alla A7 per Milano, passando per la A10 che punta verso la Riviera di Ponente. E si finisce, appunto, con la A12 (Genova-Livorno): il timore è che il rosario dei ponti infiltrati dall’acqua prosegua fino a La Spezia.

Cos’è successo? “Dopo il 2013 sono cambiate le prescrizioni in materia di sicurezza sul lavoro e gli addetti alle ispezioni nei ponti avrebbero dovuto affrontare corsi particolari”, racconta uno dei tecnici che oggi stanno compiendo rilievi sui viadotti liguri. Invece, ipotizzano i pm, quei controlli si sono interrotti. E potrebbe essere una delle cause del crollo del Morandi.

Ma non c’è soltanto il passato. L’allarme riguarda anche il presente e non tocca soltanto i cassoni. Perché, come ha raccontato il Fatto, i report di sicurezza che Autostrade pubblica ogni tre mesi sono improvvisamente peggiorati. I pm vogliono capirne la ragione. Le verifiche finora erano affidate in esclusiva alla controllata Spea, mentre ultimamente sono state coinvolte società esterne. E le pagelle di sicurezza sono crollate: quattro strutture hanno riportato voto 70 (pessimo, più alto è il punteggio, più bassa la sicurezza), insomma, lavori immediati o chiusura del traffico. Sono il Ponticello (A10), Bormida (A26), Ponte Scrivia e Coppetta (A7).

Ma altri quattro ponti hanno riportato un punteggio di 60 (tra questi lo Schiantapetto, vicino a Savona, che appena tre mesi fa aveva ottenuto un rassicurante 50). In pratica dovrebbero essere sottoposti tassativamente a interventi entro due anni, ma Autostrade ha deciso di anticipare e di cominciare subito i lavori.

In tutto, come ha scritto Repubblica, sono 15 i viadotti liguri in cui sono previsti lavori entro il 2019. Se ne sono accorti, senza saperne esattamente la ragione, gli automobilisti che si sono dovuti rassegnare a estenuanti code perché la circolazione era limitata. Autostrade rassicura: in Liguria sono stati previsti interventi di manutenzione per otto milioni che fanno parte di un piano più ampio da 360 milioni che andrà avanti fino alla fine del 2020.

Ma la domanda resta. È quella espressa proprio da uno dei tecnici che stanno svolgendo i rilievi sui ponti della A12: “Stiamo procedendo con i controlli e troviamo spesso opere con evidenti segni di logoramento. Le nostre indagini si occupano solo della Liguria. Ma se andassimo a mettere il naso nel resto d’Italia?”.

“A4, il pilone killer è ancora a 58 centimetri dal guardrail”

Sono ancora 58 centimetri. Lo abbiamo verificato. Per i magistrati anche quei 58 centimetri portarono alla morte di 17 persone nel 2017, un mese fa è morto anche Gyorgy Vigh il docente eroe che si era lanciato nelle fiamme per salvare alcuni ragazzi. Tutto è rimasto com’era. Autostrada A4, Comune di San Martino Buon Albergo (Verona), in prossimità del casello di Verona est, direzione Venezia, sull’arteria che collega nordest e nordovest. Poco più di mezzo metro distanzia la barriera di protezione e un elemento fisso come la “pila” di un ponte contro il quale, il 20 gennaio 2017 alle 23:40, si è schiantato l’autobus Setra con a bordo 53 persone: studenti dai 14 ai 18 anni e accompagnatori di un liceo ungherese in transito in Italia. Diciassette morti carbonizzati, 38 feriti. A gennaio si apre il processo all’autista superstite, ma anche ai responsabili dell’autostrada per quella pila di cemento che ha devastato e fatto incendiare il mezzo.

Secondo dueperizie richieste dalla Procura di Verona guidata da Angela Barbaglio e una terza dell’Associazione italiana familiari e vittime della Strada (Aifvs) onlus presieduta da Alberto Pallotti, “la barriera di progetto tripla onda 3 N con interasse 2250 mm era fin dalla concezione originaria e dall’adozione in progetto (anni 90 quando l’autostrada è stata allargata a tre corsie) inadeguata per la protezione dagli effetti dello svio veicolare in presenza di ostacoli fissi o rigidi come la pila del cavalcavia collisa dall’autobus”. L’ingegner Felice Giuliani, docente all’Università di Parma e consulente dei pm, osserva che “la progettazione della barriera va affrontata in modo integrato con la progettazione dell’opera stradale”. Per i tecnici è un “errore progettuale”.

Le barriere autostradali, oltre a servire da spartitraffico, proteggono gli utenti della strada da qualsiasi elemento più rigido. Per svolgere la loro funzione è “fondamentale che la deformazione della barriera sia compatibile con lo spazio o la distanza dietro di essa”. E 58 centimetri sono pochi per consentire “la deflessione permanente” che permette di contenere i veicoli. La notte del 20 gennaio 2017 la barriera si è deformata fino a 210 centimetri: “Ha, come previsto, ben assolto al compito contenitivo, ma ha purtroppo confermato le altrettanto previste risposte in termini di ampiezza di deflessione permanente in conseguenza di un impatto, permettendo al bus di ridirigersi e collidere contro il rigidissimo ostacolo”. Secondo Giuliani c’è “un chiaro rapporto di causalità tra la inadeguatezza infrastrutturale e i tragici esiti” e “vi erano già dall’epoca documenti, conoscenze tecniche e semplici soluzioni operative (…) per limitare utilmente lo spazio di lavoro della barriera”.

“Il certificato di omologazione della barriera rilasciato dal Mit nel 2003 specifica uno spostamento massimo di 226 cm e sulla base dei rilievi effettuali è risultato che la barriera ha subito una deflessione di 211 cm”, scrive il perito. Ma se la barriera può deformarsi per oltre 220 cm e ce ne sono solo 58, non bisognerebbe mettere in sicurezza la strada? La Procura, che pure formula specifiche accuse per il presunto “errore progettuale” in relazione all’omicidio stradale plurimo, non ha sequestrato il tratto autostradale; l’Aifivs onlus potrebbe richiederlo. La polizia stradale guidata dal dirigente Girolamo Lacquaniti un mese dopo l’incidente ha rilevato che la barriera è stata ripristinata esattamente come prima. Sono morte 17 persone; in materia di “ostacoli fissi laterali” una circolare dei Lavori pubblici dell’11 luglio 1987 prescrive “le più adeguate soluzioni strutturali” e “l’infittimento e irrobustimento dei pali di sostegno”. Abbiamo chiesto spiegazioni all’A4 Holding Spa controllata da Abertis (oggi Atlantia, cioè Benetton) e partecipata anche dal Comune di Verona e dalle Province di Brescia e Vicenza. È la società che controlla il gestore (Autostrada Brescia Verona Vicenza Padova Spa) ma “non fornisce dettagli”.

Il pm Paolo Sachar ha chiesto il rinvio a giudizio per sei persone. L’udienza preliminare prosegue il 24 gennaio davanti al giudice Luciano Gorra. Gli imputati sono l’autista Janos Varga (l’altro è deceduto nell’incidente), Alberto Brentegani che era responsabile di tratta per Autostrada Brescia Verona Vicenza, Padova Spa, Giovanni Luigi Marco Da Rios “che adottava il progetto” e Michele Di Giesi, Enzo Samarelli e Maria Pia Guli, membri della Commissione nominata nel 1993 dall’Anas per il “collaudo” dell’opera. “Non essendo l’Autostrada in gestione ad Anas non disponiamo di elementi di valutazione” anche “per le attività di ripristino”.

e.reguitti@ilfattoquotidiano.it

A fuoco il locale antifascista, si segue la pista criminale

Una cosa sembra certa: la politica non c’entra. C’è la criminalità dietro l’incendio doloso che la scorsa notte ha distrutto il caffè libreria “La Pecora Elettrica”, nel quartiere Centocelle di Roma. È la seconda volta che il locale viene dato alle fiamme, dopo l’episodio del 25 aprile: la nuova inaugurazione era in programma oggi. Gli inquirenti sono abbastanza convinti che il movente sia legato allo spaccio della zona, che non vede di buon occhio la presenza di attività commerciali in alcuni punti strategici.

In via delle Palme, di fronte alla “Pecora” c’è un parco notoriamente punto di ritrovo di spacciatori. E non sembra un caso che, in una zona che vive da qualche anno un boom commerciale senza precedenti, su quel tratto di strada vi siano solo altri due locali simili: una pizzeria storica e una pinseria. Proprio quest’ultima è stata presa di mira poche settimane fa da un attacco incendiario che i carabinieri della compagnia Casilina reputano molto simile a quello della Pecora Elettrica.

In Procura è stato ripreso il fascicolo già aperto dopo il primo incendio, le cui indagini si erano arenate. I gestori del locale hanno consegnato le immagini della videosorveglianza interna già in funzione, nonostante l’esercizio non fosse ancora aperto. Dalle immagini si vedono almeno due persone che fanno irruzione con un motorino, devastano, spargono del liquido e poi fuggono.

La Pecora Elettrica era un abituale ritrovo culturale legato alla sinistra romana, i cui proprietari si sono sempre dichiarati antifascisti. Di qui i primi sospetti su una matrice politica, ipotesi per ora più che marginale. I gestori del locale, Danilo e Alessandra, erano riusciti a rimettere in piedi l’attività anche grazie al crowdfunding e al passa parola sui social, ma ora servirà un miracolo per ripartire. “Più di questo non possiamo, ora tocca ad altri fare qualcosa”, ha detto sfiduciato Danilo.

Nel clan degli Scissionisti è boom di “dissociazioni”

Secondo un investigatore è il risultato di due fenomeni in corso: lo smottamento degli equilibri camorristi nel rione delle Case Celesti di Secondigliano, e la recente sentenza della Consulta contro l’impianto dell’ergastolo ostativo, che ha aperto nuovi spiragli a futuri permessi carcerari e sconti di pena. Ed ecco, forse, spiegato il boom di dissociazioni nel clan degli Scissionisti di Napoli. Almeno nove casi, secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano. Alcune pubbliche, perché avvenute in un’aula di Tribunale, altre coperte dal riserbo della Dda che le sta verificando con le cautele del caso. Altre, infine, rivelate in commissione Antimafia, annunciate da lettere con queste date: l’11 giugno ha scritto alla Procura di Napoli Oreste Sparano, il 21 giugno Carmine Amato, il 25 giugno Carmine Pagano, il 18 luglio Carmine Calzone e Ciro Mauriello, il 23 luglio Ciro Caiazza. Alcuni capi-detenuti del cartello Amato-Pagano.

L’ultima dissociazione – che si distingue dal pentimento perché non si rendono accuse contro terzi, ma solo contro se stessi – è di pochissimi giorni fa: nel corso del processo con rito abbreviato che lo vede imputato dell’omicidio del 2011 di Ciro Nocerino, Roberto Manganiello ha chiesto scusa ai familiari della vittima e ha affermato di non avere più rapporti con la cosca Marino, di cui era ritenuto il reggente. Manganiello è già stato condannato in secondo grado a 21 anni – in primo grado gli era stato inflitto l’ergastolo – dopo aver confessato, durante le udienze di Appello, il duplice omicidio di Claudio Salierno e del nipote Fulvio Montanino. I killer agirono nell’ottobre 2004, in via Vicinale di Cupa dell’Arco, nei pressi del bunker di Paolo Di Lauro detto Ciruzzo ‘o milionario, il boss che ha ispirato il personaggio di don Pietro Savastano in Gomorra. Fu il delitto che diede il via alla faida tra il clan Di Lauro e gli Scissionisti.

Manganiello non è un camorrista di seconda fila: è il nipote di Gennaro Mc Kay Marino, il capo del clan che ha la sua roccaforte nei 144 appartamenti delle Case Celesti. Per i pm Vincenza Marra e Maurizio De Marco, Montanino ha retto le fila della cosca a partire dal 2012, dopo l’omicidio a Terracina del reggente dell’epoca, il fratello di Gennaro, Gaetano Marino. Manganiello avrebbe ereditato il comando dal primo marito di Tina Rispoli, la signora che a marzo, con un matrimonio “Casamonica style”, si è risposata con il famosissimo neomelodico Tony Colombo. La coppia ormai regina del gossip è stata diverse volte ospite del salotto di Barbara D’Urso e nei giorni scorsi Selvaggia Lucarelli sul Fatto ha ricordato che questo è avvenuto senza ricordare il contesto criminale in cui nacque la relazione tra Marino e la signora Rispoli (che, va ricordato, è incensurata), e le circostanze che fanno sembrare inverosimile che la signora Rispoli non conoscesse il ‘lavoro’ del marito boss.

Nelle stesse ore della dissociazione di Manganiello, è arrivata la sentenza grazie alla quale Raffaele Amato, altro esponente di spicco della camorra di Secondigliano, ha evitato l’ergastolo ed è stato condannato a “soli” 20 anni in un processo stralcio per l’omicidio Salierno-Montanino. Sconto di pena ottenuto dopo aver scritto una lettera ai giudici in cui ha ammesso di aver saputo dell’agguato mentre si trovava in Spagna e di non aver fatto nulla per impedirlo. Non è una dissociazione vera e propria. Non ancora.

Qualcosa però bolle da tempo nelle pentole dei piani difensivi di vecchi e nuovi boss di camorra. Da prima della sentenza della Consulta. In un’audizione in Commissione parlamentare antimafia il 24 ottobre, il procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo ha fornito dati e circostanze: “C’è una linea di evoluzione della strategia processuale dei gruppi criminali che assume le forme di una simulazione di atteggiamenti collaborativi per contenere le pene”, ha avvertito Melillo. Che ha ricordato di aver ricevuto tra il 21 giugno e il 23 luglio “una serie di lettere dei capi del cartello Amato-Pagano che annunciavano volontà collaborative, che poi si sono espresse solo in affermazioni di tipo dissociativo.

È impossibile – è il parere di Melillo – non leggere in questa concentrazione temporale il segno di una strategia di tutto il vertice dell’organizzazione: alcune di queste figure sono oggetto di condanne definitive”.

Le direttive della Procura napoletana riflettono un orientamento molto duro verso le dissociazioni: i pm stanno infatti continuando a chiedere gli ergastoli, come nel caso di Manganiello per l’omicidio Nocerino. Vengono ritenute, secondo le nostre informazioni, come un negoziato che ha il solo scopo di abbandonare le falangi militari dei clan per salvaguardarne i vertici, e i loro interessi nella corruzione e nel riciclaggio.

Una posizione netta. Che ovviamente si confronta con quelle opposte del mondo forense. L’ex vicepresidente nazionale della Camera Penale, Domenico Ciruzzi, auspica “che le attenuanti previste dalla dissociazione siano normate anche nei casi di mafie, come già lo sono per il terrorismo, per ridurre la discrezionalità dei magistrati e ribadire che la pena deve rieducare”.

Per l’avvocato Alfonso Furgiuele, docente di Procedura Penale della Federico II , “sul piano astratto il doppio binario viola la Costituzione e non può condurre a presunzioni assolute contro il detenuto mafioso. Sul piano concreto, è giustificabile la diffidenza verso le scelte collaborative dei mafiosi, che vanno verificate con rigore”.

“Durante le stragi Totò Riina aveva un telefono in cella”

La Procura generale di Palermo sta indagando su una storia incredibile: Totò Riina aveva un telefonino nel carcere di Rebibbia quando era recluso nel luglio 1993. Proprio mentre i suoi fedelissimi Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro, sotto la regia del cognato-reggente Leoluca Bagarella, realizzavano le stragi e le bombe di Roma e Milano per piegare lo Stato e costringerlo a trattare, Riina disponeva di un cellulare in carcere.

La storia, dai contorni ancora da verificare, è stata raccontata al processo d’appello sulla Trattativa il 14 ottobre da un giudice di grande esperienza: Andrea Calabria, 64 anni. Da allora i pm in gran segreto stanno svolgendo indagini e hanno già trovato i primi riscontri. Non solo e non tanto sull’esistenza del telefonino oggi impossibile da verificare. Quanto sul perché Riina sia rimasto detenuto, dopo quella segnalazione proveniente dal Capo della Polizia, in un carcere che sembrava voler favorire i suoi contatti con l’esterno.

La storia del telefono in mano a Riina (recluso all’isolamento del 41 bis!) era scritta in una nota riservata del Capo della Polizia. Lo ha raccontato a sorpresa nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone solo 20 giorni fa il giudice Andrea Calabria. Nel 1993 si occupava di detenuti al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Oggi è presidente di sezione della Corte d’Appello di Roma. Calabria ha avuto un momento di fama in qualità di presidente della Corte del caso Vannini: è sua la sentenza, con relatore Giancarlo De Cataldo, che ha ridotto la pena a 5 anni per Antonio Ciontoli, l’uomo che ha sparato accidentalmente e poi ha ritardato i soccorsi al fidanzato della figlia, un ragazzo di 20 anni, Marco Vannini.

Calabria, nell’aula bunker dell’Ucciardone a Palermo, ha ricordato così quel che accadde nel luglio 1993. L’incipit non è solenne: “Non so se l’avevo già detta questa cosa piuttosto importante che riguardava Riina (…) venne una segnalazione riservata del ministero dell’Interno credo proprio dal capo dalla polizia nella quale si ipotizzava che con l’ausilio di alcun agenti di polizia penitenziaria a Rebibbia Riina avesse a disposizione un apparato per comunicare con l’esterno, un telefono o un telefonino”. Calabria prosegue: “Fui proprio io, d’accordo con il consigliere Filippo Bucalo, a trasferire Riina al carcere di Firenze Sollicciano per qualche mese in attesa di fare gli accertamenti e verificare se questa notizia fosse fondata o infondata”. A stoppare tutto fu Francesco Di Maggio, il vicecapo dipartimento del Dap, un magistrato famoso perché era stato più volte ospite di Maurizio Costanzo in tv, quasi come un novello Falcone. “Io presi qualche giorno di ferie, Di Maggio richiamò Bucalo – prosegue Calabria – e gli fece revocare il provvedimento facendo rimanere Riina detenuto a Rebibbia. In base a quali informazioni io non lo so”. Secondo Calabria il Capo della Polizia non diceva come aveva saputo quella notizia: “Sono quelle relazioni riservate che sono indirizzate al Dap, dove non si indica la fonte”. Il capo della Polizia allora era il prefetto Vincenzo Parisi, scomparso negli Anni Novanta come Di Maggio.

Il capo dipartimento, Adalberto Capriotti, non era molto operativo e Di Maggio era più di un semplice vice. Proprio perché non era in ufficio, la nota riservata rimase ferma per quattro giorni. Preoccupata per l’inerzia e per le sue conseguenze, secondo Calabria, fu la dottoressa Cinzia Calandrino, segreteria particolare del capo del Dap, a metterne a conoscenza il capo dell’ufficio detenuti Filippo Bucalo e il suo vice, Andrea Calabria, appunto. I due subito disposero il trasferimento. Ad agosto Calabria parte per le ferie, di ritorno scopre che Di Maggio ha revocato il trasferimento e Riina non si è mai mosso da Rebibbia. Calabria non ha un buon rapporto con Di Maggio. Non chiede perché Riina non sia stato trasferito. Né se fosse stata attivata un’inchiesta sul telefono a Rebibbia e su eventuali complicità delle guardie penitenziarie. Di certo nessuno ha mai informato la Procura di Palermo, diretta allora da Gian Carlo Caselli.

I magistrati palermitani della Procura generale sono andati a Roma nei giorni scorsi negli uffici del ministero per cercare la nota del Capo della Polizia del luglio 1993. Non l’hanno trovata. Però un riscontro al racconto del dottor Calabria c’è: nell’estate del 1993 ci furono due provvedimenti ravvicinati. Il primo disponeva il trasferimento immediato di Riina a Sollicciano. Il secondo lo revocava. Ora la Procura generale di Palermo guidata da Roberto Scarpinato vuole capire perché.

Trattativa: B. non parlerà e non difenderà Dell’Utri

Alla fine Silvio Berlusconi ha deciso: non parlerà al processo Trattativa. Lunedì 11 novembre alle 10:30 nell’aula bunker dell’Ucciardone, là dove fu celebrato il maxi-processo, l’ex premier si presenterà con i suoi due avvocati Franco Coppi e Niccolò Ghedini. Il presidente della Corte di Appello Angelo Pellino ribadirà che è stato convocato dalla difesa di Marcello Dell’Utri, condannato per minaccia a corpo dello Stato a 12 anni in primo grado perché ritenuto il tramite della minaccia di Totò Riina al governo Berlusconi nel 1994, durante la Trattativa Stato-mafia. La Corte, però, grazie all’apposita richiesta dei legali dell’ex Cav. ha scoperto che Berlusconi (insieme a Dell’Utri) è indagato per le stragi del 1993 a Firenze e a Milano e per gli attentati a Roma e Formello. Per questo è stato convocato come testimone assistito in quanto le stragi e la Trattativa sono fatti connessi. Il presidente della Corte ribadirà i suoi diritti: può avvalersi della facoltà di non rispondere. Però, se deciderà di rispondere, le sue parole potranno essere usate contro di lui. Non solo. Se risponde, potrà rifiutare solo le domande auto-indizianti, non le altre. Altrimenti sarebbe indagato per reticenza.

Dopo lunghe consultazioni con Coppi e Ghedini, Berlusconi ha deciso di non sottoporsi a questa corrida e però dovrà comunque recarsi a Palermo per verbalizzare in pubblico il suo diniego.

Marcello Dell’Utri non la prenderà bene. L’amico di tante battaglie è stato già condannato a 7 anni con l’accusa di essere stato il mediatore delle richieste di Cosa Nostra a Berlusconi fino al 1992. Poi ha scontato la pena in carcere e ai domiciliari e ora si trova condannato di nuovo in primo grado come mediatore delle minacce nel 1994 al Berlusconi politico.

Il ruolo di cuscinetto tra la Sicilia e Berlusconi gli comincia a pesare. Stavolta Dell’Utri voleva solo che l’amico dicesse alla Corte: “Marcello non mi ha mai detto nulla delle minacce di Totò Riina e Giovanni Brusca”, secondo la Corte di primo grado “veicolate tramite l’ex fattore della villa di Arcore, Vittorio Mangano”. Invece questa soddisfazione non gli sarà concessa. La moglie, Miranda Ratti, era rimasta delusa ( “Ne va della vita di Marcello!”) quando Berlusconi non si era presentato alla prima convocazione accampando impegni istituzionali e poi chiedendo tramite i legali se fosse indagato a Firenze. Finora Berlusconi è stato molto combattuto, ma ha deciso di seguire i suggerimenti di Coppi e Ghedini. Secondo le fonti del Fatto la risposta al quesito della Corte sarà: “Mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. Marcello Dell’Utri non sarà presente in aula. Fino all’ultimo istante l’ex premier potrà decidere di ignorare i consigli dei legali per fare di testa sua e rispondere. In ogni caso si attendono molti giornalisti per riprendere e raccontare la scena che si annuncia comunque carica di suspense.

B. vuole svendere FI a Salvini per 30 seggi

Silvio Berlusconi sta trattando. Con Matteo Salvini. Oggetto della trattativa è l’exit strategy di Forza Italia. Che qualcuno in maniera meno anglofona chiama “svendita del partito” o “resa a Salvini”. Un patto che permetterà all’ex Cavaliere di avere 30 posti per i suoi fedelissimi alle prossime elezioni: 20 deputati e 10 senatori.

Altro punto del patto è non vedere danneggiate le aziende. Il timore è un abbassamento del canone Rai (che porterebbe Viale Mazzini a essere molto più attiva sul mercato pubblicitario) o nuovi tetti alla pubblicità per le tv private o a pagamento. Nei capannelli di Forza Italia a Montecitorio non si parla d’altro. Quella trentina di posti che Salvini garantirà ai forzisti più fedeli alla linea leghista sta diventando l’incubo di colonnelli e peones. Una trattativa che nelle ultime settimane avrebbe visto impegnato lo stesso Berlusconi insieme all’inseparabile Licia Ronzulli. E che sta generando ogni sorta di fibrillazione. Agli osservatori più attenti non è sfuggito un moto di stizza da parte di Anna Maria Bernini nei confronti di Mariastella Gelmini durante una conferenza stampa sull’Ilva.

La “svendita” di FI a Salvini spiegherebbe anche le ultime vorticose oscillazioni sulla linea politica, con una violenta sterzata verso il sovranismo da parte del leader. La partecipazione alla manifestazione leghista di San Giovanni, il ritorno a una linea destrorsa sull’immigrazione, l’astensione sulla commissione Segre. Tutti pezzi di un mosaico che non possono essere giustificati solo dalle Regionali in Umbria. Dove, tra l’altro, FI ha racimolato un magro 5,5%. Un risultato che ha acuito i mal di pancia di Mara Carfagna. Lei fagna rientra stasera da Tokio e questi giorni magari le saranno serviti per decidere se fare il grande salto. I numeri per fare gruppi autonomi in Parlamento li avrebbe, ma ancora si trattiene. “Per lei lo strappo è motivo di grande sofferenza personale, è un passo difficilissimo”, dicono nel partito. A frenarla, però, c’è anche una ragione più pragmatica: la maggior parte dei suoi fedelissimi sono campani e calabresi, due Regioni presto al voto. Lo strappo verso un nuovo soggetto politico, magari con Giovanni Toti, potrebbe mettere a rischio candidature e posizioni di potere. Il fatto che Salvini abbia aperto a una candidatura di “Mara” in Campania, poi, non sposta il quadro.

Trattare alle migliori condizioni possibili la resa a Salvini, dunque. Anche perché, secondo Berlusconi, “tornare a battagliare al centro è inutile, lì ormai ci sono più partiti che voti”. Più culi che poltrone, si sarebbe detto nella Dc. “La decisione l’ha presa la famiglia e a lui sta bene così: considera conclusa la sua esperienza in politica. A Roma non si vede mai, se ne resta tutto il tempo barricato ad Arcore. È un imperatore e, come tutti gli imperatori, è senza eredi. Ora più che mai gli interessa solo la difesa del patrimonio e delle aziende”, racconta un forzista di rango. Secondo questo ragionamento, l’idea dell’Altra Italia (che B. vorrebbe affidare al sindaco di Venezia Luigi Brugnaro) è solo fumo negli occhi. Anzi, ha contribuito ad aumentare il nervosismo dei colonnelli, che sospettano sia un espediente per tagliarli fuori dai famosi 30. Tutti gli altri verranno lasciati sotto il diluvio. Un po’ andranno con Carfagna, altri con Renzi. Ma della maggior parte di loro (sono 160) si perderanno le tracce.

Soldi per concorsi finti: indagato il leghista Antonini

La promessa era di quelle da non lasciarsi scappare: un posto di lavoro nella società ferroviaria Italo o addirittura nella Gendarmeria Vaticana grazie a conoscenze che arrivavano “molto in alto”, in realtà inesistenti. E poi superamento di concorsi pubblici nelle forze armate, ottenimento di certificati amministrativi fino alla cancellazione dei carichi pendenti nel casellario giudiziario. Tutto questo in cambio di soldi: da 2 a 8 mila euro. Eppure, di vero non c’era niente: secondo i pm di Spoleto era una truffa architettata da un’associazione a delinquere composta da sette persone il cui “dominus” era il romano Salvatore Battaglia che si presentava come un uomo dei Servizi Segreti al ministero dell’Interno (Aise) al fianco del quale si trova Giovannino Antonini, ex presidente della Banca Popolare di Spoleto finito più volte nelle maglie della giustizia, da ultimo con un’indagine (ancora in corso) per corruzione in atti giudiziari.

Antonini, fino a qualche anno fa uno degli uomini più potenti in Umbria, nelle settimane prima del voto del 27 ottobre ha più volte partecipato a cene, comizi ed eventi elettorali di Matteo Salvini e Donatella Tesei, sostenendo apertamente la neo governatrice della Lega e il capogruppo in consiglio comunale a Spoleto, David Militoni (poi non eletto). Secondo i pm di Spoleto, che ha indagato e perquisito i sette con l’accusa di associazione a delinquere dedita al traffico di influenze e truffa, Antonini si occupava di reperire “gli aspiranti candidati” e indicava loro “come effettuare i pagamenti”. Non solo: si occupava di stilare elenchi con tutti i nomi dei candidati “attribuendo loro ‘priorità di assunzione’ in base al prezzo illecito pattuito e/o corrisposto”. E infine aveva il ruolo di evitare “denunce alla Autorità Giudiziaria da parte dei ‘clienti insoddisfatti’”. Adesso lui alla Nazione respinge le accuse e fa sapere di aver “segnalato i nomi di giovani che cercavano lavoro ma senza mai prendere un soldo”: “Io li segnalavo a questo signore dei Servizi Segreti che avevo conosciuto a Roma. Cosa facessero loro poi non lo so. Ma io non c’entro niente”.

L’inchiesta della Procura di Spoleto (dove risiede Antonini) e coordinata dal procuratore Alessandro Cannevale e dal sostituto Vincenzo Ferrigno, è partita un anno fa non grazie alla denuncia di uno dei “truffati” che avevano pagato invano per ottenere un’assunzione o per superare un concorso ma come filone di un’altra indagine che ha permesso ai finanzieri di Perugia di stringere le maglie intorno al sedicente 007 Battaglia. Adesso gli inquirenti stanno cercando di capire, con ulteriori accertamenti, se si trattasse solo di millanterie o anche di rapporti corruttivi e non sono esclusi ulteriori sviluppi dopo le perquisizioni dei giorni scorsi a Roma, Spoleto e Massa Carrara. Nell’inchiesta, che si basa su intercettazioni, pedinamenti e appostamenti, sono indagati anche altri cinque complici che, per fingere l’assunzione dei candidati, vestivano i panni di un falso generale dell’Esercito, di un vescovo che non risulta nominato dalla Chiesa cattolica, di un alto ufficiale della polizia penitenziaria in servizio a Roma (Pierantonio Costantini) e di un principe a capo di un ordine cavalleresco (Enrico Filadoro). Tutti questi partecipavano agli incontri in cui Battaglia dava ai candidati falsi quiz precompilati in vista dei concorsi o addirittura “prenota loro le visite mediche necessarie all’ottenimento dei certificati da allegare alle domande di assunzione e/o partecipazione ai concorsi”.

Tutto questo in cambio di soldi – dai 2 agli 8mila euro – che poi veniva spartito tra i sette indagati. Poi quando le vittime non superavano i concorsi, secondo i pm, Battaglia si inventava una serie di “rocambolesche giustificazioni” per evitare la restituzione del denaro. Antonini è stato per dieci anni (dal 2001 al 2011) Presidente di Bps, di cui Tesei è stata membro del cda per un mese all’inizio del 2013, quando viene costretto alle dimissioni: è stato assolto per la gestione anomala dell’istituto di credito mentre è ancora in corso l’inchiesta partita nel 2013 con l’accusa di voler corrompere un giudice del Tar per tornare al timone dell’istituto bancario.

Libia, Orfini contro Lamorgese: “Ipocrita”

Quattro giorni dopo il rinnovo automatico del Memorandum Italia-Libia (siglato da Marco Minniti il 2 febbraio del 2017), il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, in un’informativa alla Camera, difende il Trattato in maniera ancora più netta di quanto fatto da Luigi Di Maio la settimana scorsa nella stessa Aula. E confermando l’impianto del Memorandum informa il Parlamento delle intenzioni del governo italiano di portare più Onu nei campi. Con una trattativa in fase embrionale e piena di incognite, tanto più visto che la Libia è dilaniata dalla guerra civile. L’informativa non convince mezzo Pd, né Leu. Che annunciano un voto contrario al rifinanziamento della Guardia Costiera libica, quando si parlerà di rinnovo delle missioni a gennaio.

“Al momento della sottoscrizione del Memorandum, le dimensioni dell’andamento dei flussi erano senz’altro preoccupanti. Oggi, sebbene la situazione sia ben diversa, sarebbe ingiustificabile un calo di attenzione sulle dinamiche migratorie”, ha detto la Lamorgese. E ci ha tenuto a sottolineare “un decremento del 97,2%” delle partenze nel 2019. Ancora: “Devo osservare la forte riduzione del numero delle vittime in mare nella rotta del Mediterraneo centrale”. E poi, è passata a illustrare quale dovrebbe essere il lavoro della Commissione italo-libica prevista dall’articolo 3 del Memorandum (della quale è stata chiesta una riunione con nota verbale del primo novembre). Il primo obiettivo riguarda i centri di detenzione dei migranti in Libia: migliorarne le condizioni e prevederne lo svuotamento, per sostituirli con centri gestiti dall’Onu. Da notare che si prevede l’intervento di un attore terzo, rispetto ai contraenti dell’accordo. Il secondo “concerne i corridoi umanitari, per i quali si ritengono necessarie iniziative bilaterali”. Il terzo intervento riguarda “il rafforzamento delle capacità di sorveglianza dei confini terrestri meridionali”. Infine, “si intende proseguire nelle iniziative volte a sostenere le municipalità libiche”.

Passa solo un minuto che un Orfini furibondo twitta: “Un intervento imbarazzante e ipocrita. ‘I lager sono centri di migranti. Il memorandum una cornice da difendere. I libici partner affidabili’. Davvero vogliamo continuare a far finta di non sapere?”. E in Aula è Erasmo Palazzotto (Leu) a smontare il ragionamento del Ministro. “Quelli in Libia sono campi di concentramento finanziati dall’Italia e dall’Ue. La rinegoziazione del memorandum con la Libia deve essere fatto a tre condizioni: la chiusura immediata dei centri per i migranti, la fine della detenzione degli stessi migranti, un piano di evacuazione europeo di quei migranti ancora presenti in territorio libico e il ripristino nel Mar Mediterraneo di una missione di salvataggio europeo”. A tutto questo va aggiunto che se Tripoli ha risposto subito alla nota verbale italiana manifestando disponibilità a rivedere l’intesa, Abdulahdi Ibrahim Lahweej, “ministro degli Esteri” di Haftar ha mandato un avvertimento: l’Italia e l’Europa “non hanno alcun vantaggio” a sostenere il governo di Tripoli, perché la capitale “è in mano alle milizie e finché sarà così arriveranno i barconi sulle vostre coste”.