“Pier Luigi, Pigi! Fermati un momento. Ce la dai una mano?”. Pier Luigi Bersani sfodera il suo sorriso migliore. Ma allunga il passo e non raccoglie l’invito di Giuseppe Gargani, già parlamentare della vecchia guardia Dc. Che voleva coinvolgere Pier Luigi (Pigi), sul referendum utile a impallinare il taglio dei parlamentari licenziato a inizio ottobre dalla Camera in quarta lettura. Con una maggioranza solo all’apparenza granitica: praticamente un plebiscito di voti, 533, appena 14 no e 1 astenuto. Ma nonostante le direttive dei partiti, a quanto pare, i mal di pancia tra i parlamentari raccontano un’altra verità. Perché subito dopo l’ok dell’aula sono iniziate le grandi manovre, fuori e dentro al Parlamento: il Partito radicale ha messo su il solito comitato promotore per la raccolta delle 500 mila firme necessarie a chiedere il referendum contro la legge. Ma l’impresa pare improba. E infatti si pensa a un’altra soluzione, ossia che si trovi almeno un quinto di parlamentari disponibili a chiedere la consultazione.
Per questo ieri a Montecitorio, a dispetto dei suoi 84 anni, Gargani, in prima fila in questa battaglia “contro la delegittimazione del Parlamento, umiliato dalla riforma sul taglio dei parlamentari”, non faceva altro che bloccare chi passava in sala conferenze, pure per caso. Come Bersani. O il senatore Ignazio La Russa di Fratelli d’Italia, in trasferta prandiale alla Camera. Che pensava di aver imboccato una scorciatoia per arrivare più in fretta in Transatlantico e invece si è ritrovato tra Maurizio Turco del Partito radicale e Mario Tassone dei Cristiani Democratici, uniti dalla comune battaglia contro il taglio dei parlamentari che “destabilizza la democrazia rappresentativa”.
“Mi chiedete una mano? Immagino non una mano tesa” scherza, fuggendo via a gambe levate La Russa. Non prima di essersi meritato l’applauso della sala per una frase che ha accesso la fiamma, oltre che la speranza: “La voce del popolo va sempre ascoltata”. Come dire: la battaglia per dare voce ai cittadini è giusta. Fatto sta che prima bisogna che il referendum si faccia.
Cosa non impossibile, anzi. Perché se alla Camera l’iniziativa dei deputati langue (“finora abbiamo raccolto 18 firme” dice Roberto Giachetti di Italia Viva) a Palazzo Madama sono un pezzo avanti: senatori di ogni colore, con la sola esclusione di quelli della Lega e del partito di Giorgia Meloni, hanno sottoscritto la richiesta di referendum. “Siamo a quota 50 e ne servono 64” esulta Andrea Cangini di Forza Italia convinto che l’obiettivo si possa raggiungere per questa via. E che i cittadini faranno il resto, cancellando la riforma costituzionale “pensata con spirito ragionieristico”. “Ci può essere un colpo di scena rivoluzionario: nel Paese – è convinto l’azzurro – sta maturando una sensibilità nuova in reazione al populismo di questi anni. Ma i partiti temono l’impopolarità e per questo si tengono alla larga da questa battaglia che è sacrosanta”.
Ma se i leader di partito fanno finta di niente, si allunga invece la lista dei loro parlamentari che hanno già firmato perché chiedere il referendum: tra i forzisti Caliendo, Pagano, Moles. Sandra Lonardo in Mastella addirittura non si dà pace: “Il taglio priverà le piccole province di ogni rappresentanza. E mica solo a Benevento e Avellino”. Ma hanno aderito pure Nencini e Garavini di Italia Viva-Psi, i dem Nannicini e Verducci (che è nella segreteria di Zingaretti), Gregorio De Falco del Misto, il senatore a vita Carlo Rubbia. E anche Mario Giarrusso, nonostante il Movimento 5 Stelle del taglio dei parlamentari abbia fatto per anni questione di vita o di morte. Fatto sta che Giarrusso ha invitato i pentastellati a seguire il suo esempio: “Perché non lo firmiamo tutti? Sarebbe un bel segnale: firmare il referendum non significa essere contro la riforma – giura –. Il popolo è sovrano, noi crediamo nella democrazia diretta”. Insomma il cantiere è decisamente ben avviato.