Dagli ex dc al grillino Giarrusso: ecco la carica degli anti-taglio

“Pier Luigi, Pigi! Fermati un momento. Ce la dai una mano?”. Pier Luigi Bersani sfodera il suo sorriso migliore. Ma allunga il passo e non raccoglie l’invito di Giuseppe Gargani, già parlamentare della vecchia guardia Dc. Che voleva coinvolgere Pier Luigi (Pigi), sul referendum utile a impallinare il taglio dei parlamentari licenziato a inizio ottobre dalla Camera in quarta lettura. Con una maggioranza solo all’apparenza granitica: praticamente un plebiscito di voti, 533, appena 14 no e 1 astenuto. Ma nonostante le direttive dei partiti, a quanto pare, i mal di pancia tra i parlamentari raccontano un’altra verità. Perché subito dopo l’ok dell’aula sono iniziate le grandi manovre, fuori e dentro al Parlamento: il Partito radicale ha messo su il solito comitato promotore per la raccolta delle 500 mila firme necessarie a chiedere il referendum contro la legge. Ma l’impresa pare improba. E infatti si pensa a un’altra soluzione, ossia che si trovi almeno un quinto di parlamentari disponibili a chiedere la consultazione.

Per questo ieri a Montecitorio, a dispetto dei suoi 84 anni, Gargani, in prima fila in questa battaglia “contro la delegittimazione del Parlamento, umiliato dalla riforma sul taglio dei parlamentari”, non faceva altro che bloccare chi passava in sala conferenze, pure per caso. Come Bersani. O il senatore Ignazio La Russa di Fratelli d’Italia, in trasferta prandiale alla Camera. Che pensava di aver imboccato una scorciatoia per arrivare più in fretta in Transatlantico e invece si è ritrovato tra Maurizio Turco del Partito radicale e Mario Tassone dei Cristiani Democratici, uniti dalla comune battaglia contro il taglio dei parlamentari che “destabilizza la democrazia rappresentativa”.

“Mi chiedete una mano? Immagino non una mano tesa” scherza, fuggendo via a gambe levate La Russa. Non prima di essersi meritato l’applauso della sala per una frase che ha accesso la fiamma, oltre che la speranza: “La voce del popolo va sempre ascoltata”. Come dire: la battaglia per dare voce ai cittadini è giusta. Fatto sta che prima bisogna che il referendum si faccia.

Cosa non impossibile, anzi. Perché se alla Camera l’iniziativa dei deputati langue (“finora abbiamo raccolto 18 firme” dice Roberto Giachetti di Italia Viva) a Palazzo Madama sono un pezzo avanti: senatori di ogni colore, con la sola esclusione di quelli della Lega e del partito di Giorgia Meloni, hanno sottoscritto la richiesta di referendum. “Siamo a quota 50 e ne servono 64” esulta Andrea Cangini di Forza Italia convinto che l’obiettivo si possa raggiungere per questa via. E che i cittadini faranno il resto, cancellando la riforma costituzionale “pensata con spirito ragionieristico”. “Ci può essere un colpo di scena rivoluzionario: nel Paese – è convinto l’azzurro – sta maturando una sensibilità nuova in reazione al populismo di questi anni. Ma i partiti temono l’impopolarità e per questo si tengono alla larga da questa battaglia che è sacrosanta”.

Ma se i leader di partito fanno finta di niente, si allunga invece la lista dei loro parlamentari che hanno già firmato perché chiedere il referendum: tra i forzisti Caliendo, Pagano, Moles. Sandra Lonardo in Mastella addirittura non si dà pace: “Il taglio priverà le piccole province di ogni rappresentanza. E mica solo a Benevento e Avellino”. Ma hanno aderito pure Nencini e Garavini di Italia Viva-Psi, i dem Nannicini e Verducci (che è nella segreteria di Zingaretti), Gregorio De Falco del Misto, il senatore a vita Carlo Rubbia. E anche Mario Giarrusso, nonostante il Movimento 5 Stelle del taglio dei parlamentari abbia fatto per anni questione di vita o di morte. Fatto sta che Giarrusso ha invitato i pentastellati a seguire il suo esempio: “Perché non lo firmiamo tutti? Sarebbe un bel segnale: firmare il referendum non significa essere contro la riforma – giura –. Il popolo è sovrano, noi crediamo nella democrazia diretta”. Insomma il cantiere è decisamente ben avviato.

Alitalia, sospeso l’aiuto statale per pagare le ferie

All’Alitalia piove sul bagnato e l’ultimo scroscio si chiama cassa integrazione. Il ministero del Lavoro ha sospeso l’erogazione della cassa per l’equivalente di 1.075 dipendenti: 75 comandanti piloti, 320 assistenti di volo e 680 lavoratori di terra (uffici, pista, hangar, etc…). Ciò significa che per il pagamento del personale la compagnia non potrà più beneficiare dell’aiuto pubblico tramite l’Inps, ma dovrà tirare fuori i quattrini dalle sue casse ormai esauste. La cassa integrazione negata riguarda il periodo dal 24 settembre alla fine dell’anno e secondo stime attendibili vale tra i 15 e i 20 milioni di euro in totale.

C’è il rischio, però, che il ministero del Lavoro decida di considerare illegittima tutta la cassa integrazione erogata dal 2 maggio del 2017, cioè dal giorno in cui la compagnia privata è fallita e è stata affidata a tre commissari straordinari.

Nella lettera che porta la data del 22 ottobre e che il Fatto Quotidiano ha potuto leggere, la Direzione generale degli ammortizzatori sociali del ministero del Lavoro comunica ad Alitalia che la cassa integrazione è stata sospesa “al fine di acquisire chiarimenti”. Le delucidazioni che il ministero ritiene necessarie riguardano la complessa faccenda dell’utilizzo della cassa integrazione e della contemporanea riduzione del numero dei riposi per il personale navigante: comandanti, piloti e assistenti di volo. Su questa vicenda indagano da mesi gli Ispettori del lavoro che hanno ascoltato le testimonianze di oltre 500 dipendenti della compagnia di bandiera e hanno poi trasmesso gli atti per il completamento dell’inchiesta corredati da una informativa di reato alla Procura della Repubblica di Civitavecchia territorialmente titolare delle indagini.

La vicenda fu sollevata a suo tempo da Cub Trasporti guidato da Antonio Amoroso e da AirCrew Committe a cui ora si sono aggiunti i sindacati Anpac, Anpav e Usb. Dati alla mano, gli Ispettori si sono via via convinti che Alitalia abbia utilizzato a pieno regime piloti e assistenti di volo riducendo il numero dei riposi annui previsti dai contratti e dai regolamenti internazionali e facendo nello stesso tempo ricorso alla cassa integrazione.

Secondo gli Ispettori la contemporaneità di questi elementi implica nei fatti la sussistenza di un comportamento aziendale irregolare. Con una nota inviata al ministero del Lavoro, i tre commissari straordinari di Alitalia rivendicano invece la regolarità delle decisioni prese. Essi usano, però, un argomento che alla fine potrebbe diventare un boomerang per la compagnia.

Scrivono che “le modalità applicative della cassa integrazione sono invariate rispetto a periodi per i quali sono già stati emanati i relativi decreti autorizzativi da parte di codesto ministero”. In pratica i tre commissari sostengono di avere sempre agito allo stesso modo per la cassa integrazione e che finora il ministero aveva dato il suo assenso. La novità è che però ora lo stesso ministero non solo vuole vederci più chiaro, ma sospetta che possano esserci irregolarità al punto da sospendere in via cautelativa l’erogazione della cassa integrazione.

E se irregolarità ora ci sono, dal momento che la stessa compagnia Alitalia ammette che la linea di comportamento è stata sempre la stessa da due anni e mezzo a questa parte, c’è la possibilità non remota che il ministero rivendichi la restituzione degli arretrati.

Sulla ex compagnia di bandiera italiana a quel punto potrebbe piovere una tegola micidiale, perché dovrebbe restituire decine e decine, forse centinaia di milioni di euro.

“Basta minacce”. Parte lo sciopero dei sindacati (divisi)

“Il tentativo disperato del governo di convincere ArcelorMittal di continuare a gestire gli stabilimenti è fallito e ha prodotto anzi dei ricatti inaccettabili. L’azienda deve rispettare il piano ambientale e quello industriale: la richiesta di migliaia di esuberi e il ridimensionamento produttivo non sono accettabili per nessuna ragione”. Rocco Palombella, segretario della Uilm, non vuole nemmeno sentire parlare della sforbiciata ai posti di lavoro messa sul tavolo ieri dai nuovi proprietari dell’ex Ilva. I sindacati ora si aspettano di essere chiamati dall’esecutivo. Ieri, però, per le sigle dei metalmeccanici è stata una giornata convulsa, nella quale si sono spaccate sulle iniziative da portare avanti per reagire alla volontà di fuga da Taranto del colosso franco-indiano. Da una parte la Fim Cisl ha proclamato uno sciopero che è partito nel primo pomeriggio; dall’altra la Uilm e la Fiom Cgil hanno invece deciso di non unirsi da subito all’astensione, ma di organizzarne un’altra per domani, oltre ad annunciare una manifestazione a Roma per la prossima settimana.

“Di fronte all’arroganza di una multinazionale e a una totale incapacità e immobilismo della politica – ha scritto il consiglio di fabbrica di Uilm e Fiom – è necessario mobilitarsi attraverso la partecipazione allo sciopero indetto l’8 novembre”. Il corteo nella Capitale potrebbe essere l’occasione per ricomporre la frattura con la Fim, le cui ragioni possono essere comprese compiendo un passo indietro di due giorni. Martedì sera i sindacati hanno incontrato la nuova amministratrice delegata dell’Arcelor Mittal Lucia Morselli. Poche ore prima, tutti i dipendenti avevano ricevuto una mail firmata da lei: “Non è possibile gestire lo stabilimento senza le protezioni legali – diceva – e non è possibile esporre dipendenti e collaboratori a potenziali azioni penali, pertanto Am InvestCo e le società controllate hanno inviato una comunicazione richiedendo ai commissari di Ilva Spa in amministrazione straordinaria di riassumersi entro trenta giorni la responsabilità della gestione delle attività del Gruppo Ilva attualmente cedute in affitto”. Al termine dell’incontro, i sindacati hanno deciso di adottare una linea comune: presidio permanente. Un atteggiamento di attesa, in vista del doppio appuntamento previsto nella giornata successiva, cioè ieri: l’incontro tra l’azienda e il governo e il conseguente Consiglio dei ministri. Ieri mattina, però, una notizia ha sparigliato le carte: prima ancora di vedere l’esecutivo, l’Arcelor Mittal ha avviato la procedura ai sensi dell’articolo 47 della legge 428 del 1990, in pratica la restituzione formale delle fabbriche allo Stato. Il segretario della Fim Cisl Marco Bentivogli e i rappresentanti sindacali hanno quindi deciso, da soli, di iniziare la mobilitazione: “Di fronte a un atteggiamento che riteniamo inaccettabile – hanno detto – proclamiamo 24 ore 15 del 6 novembre fino alle 15 del 7 novembre”.

Il leader della Uilm Rocco Palombella ha preso le distanze: “No a decisioni sindacali solitarie – ha detto – che contribuiscono ulteriormente a inasprire il clima di tensione, sfiducia e preoccupazione presente tra i lavoratori”. E ha aggiunto che “l’invio della lettera di avvio della procedura di cessione non può costituire un elemento di ulteriore novità”. “Permane lo stato di agitazione – ha affermato la segretaria Fiom Francesca Re David – ma le iniziative si decidono nelle prossime ore”. In serata, poi, le indiscrezioni filtrate hanno confermato quelle dei giorni precedenti: l’azienda non fa marcia indietro, è decisa ad andare via, ma pone la condizione dei cinque mila esuberi per restare. Quindi il via libera: la prossima settimana, tutti a Roma.

Raffica di morti e veleni: ecco tutte le indagini su Ilva

A distanza di quattro anni dalla morte di Alessandro Morricella, l’altoforno 2 dell’ex Ilva di Taranto resta non sicuro per gli operai. Ed è anche e soprattutto sulla messa in sicurezza di quel reparto che si sta giocando la partita tra Arcelor Mittal e governo con la prima intenzionata a restituire gli impianti ai Commissari straordinari accusati di aver “deliberatamente descritto in maniera erronea e fuorviante circostanze fondamentali relative alle condizioni di Afo2 e allo stato di ottemperanza alle prescrizioni”.

La multinazionale afferma di non essere stata pienamente informata sullo stato in cui versava uno degli impianti ritenuti vitali per il ciclo produttivo della fabbrica. Un impianto che la magistratura aveva sequestrato subito dopo la morte dell’operaio 35enne: i sigilli non erano scattati per violazioni ambientali, ma perché mancavano le condizioni di sicurezza per accogliere i lavoratori. È stato un decreto firmato da Matteo Renzi a restituire l’impianto e a consentirne l’utilizzo anche in condizioni rischiose per i dipendenti. La magistratura restituì l’impianto stabilendo alcune prescrizioni e contemporaneamente sollevò la questione di legittimità costituzionale del decreto. A marzo 2018 la Consulta ha dato loro ragione: quel decreto era incostituzionale. Subito dopo il custode giudiziario Barbara Valenzano ha informato il pm Antonella De Luca che le prescrizioni non erano state pienamente realizzate: alla fine di una battaglia legale tra accusa e difesa, il termine ultimo per rendere l’impianto sicuro è stato fissato alla metà di dicembre. Data che Arcelor Mittal sa di non poter rispettare e così scarica le colpe dalla sua fuga pure sui giudici.

Eppure al momento nessun procedimento penale riguarda strettamente i vertici della società che gestisce l’Ilva da un anno. Sono almeno dieci, infatti, quelli che riguardano lo stabilimento di Taranto, ma nessuno sfiora Mittal. A partire dal processo per la morte di Morricella, appena iniziato dopo l’udienza preliminare e che vede alla sbarra, con l’accusa di omicidio colposo, sei persone tra cui Massimo Rosini, ex direttore generale di Ilva Spa e attualmente ai vertici di Poste Italiane. Oppure il maxi-processo “ambiente svenduto” condotto dal pool di inquirenti formato dall’ex procuratore Franco Sebastio, in cui sono coinvolti 44 imputati tra cui la famiglia Riva, gli ex dirigenti, i politici come l’ex governatore della Puglia, Nichi Vendola. A questi procedimenti se ne aggiungono tanti altri. Come quello per la morte di Cosimo Massaro, 40enne operaio dell’Ilva precipitato in mare con la gru il 10 luglio scorso: ancora in fase di indagini preliminari, coinvolge complessivamente nove persone e tra queste anche Stefan Michel van Campe, gestore per Arcelor Mittal Italia dello stabilimento di Taranto. E ancora il processo ora in primo grado per l’incidente del 28 febbraio 2013 che uccise Ciro Moccia, operaio addetto alla manutenzione meccanica impegnato nei lavori di ambientalizzazione delle cokerie. Altri due procedimenti, attualmente in udienza preliminare, sono stati aperti per il decesso di due operai dell’indotto: Angelo Iodice e Angelo Raffaele Fuggiano. Iodice, operaio della società dell’indotto “Global Costruzioni” è morto il 4 settembre 2014 schiacciato da un mezzo meccanico. Fuggiano, invece, è morto il 17 maggio 2018 colpito da una fune mentre lavorava alla manutenzione di una delle gru del molo. Per altri tre procedimenti, invece, la procura aveva inizialmente chiesto l’archiviazione a causa dell’immunità penale, prima che il gip Benedetto Ruberto sollevasse la questione di legittimità costituzionale: in uno di questi, che riguarda la gestione della discarica interna dell’Ilva, sono coinvolti anche l’ex amministratore straordinario Enrico Bondi e l’ex commissario straordinario Pietro Gnudi. Ma non è tutto.

Nel Palazzo di Giustizia di Taranto sono aperti anche altri due grandi procedimenti per i danni arrecati dall’Ilva. Il primo riguarda le tonnellate di rifiuti industriali interrate nella gravina “Leucaspide”. In questa vicenda, in cui le parti civili hanno chiesto danni per 120 milioni, sono ben cinque i membri della famiglia Riva coinvolti: si tratta di Fabio, Nicola, Claudio, Cesare Federico e Angelo che tra il 1995 e il 2012 hanno ricoperto ruoli nel Consiglio di famiglia e nella società Ilva spa e Riva Fire. È ancora in fase di indagine, infine, anche l’inchiesta contro ignoti che ha portato al sequestro delle cosiddette “collinette ecologiche” sequestrate il 5 febbraio scorso perché costruite con materiali di scarto della produzione d’acciaio e contenenti diossine, furani, Pcb ma anche alluminio, ferro, idrocarburi pesanti e benzoapirene. Innalzate per limitare l’inquinamento verso il quartiere Tamburi, si sono rivelate una bomba ecologica al punto da costringere il sindaco di Taranto a chiudere le scuole che si trovano a pochi metri. L’inchiesta non è ancora chiusa: le analisi degli organi di controllo hanno portato qualche settimana fa alla riapertura dei plessi scolastici, ma per il consigliere comunale Massimo Battista e l’attivista Luciano Manna servono altri accertamenti.

Questa decina di procedimenti penali sono solo quelli balzati agli onori della cronaca, ma la lista completa del lavoro dei giudici, in realtà, è decisamente molto più ampia.

Il no di Di Maio: “Ci alziamo e andiamo via”. Per i dem è “un altro schiaffo” degli alleati

Di sera, nella pancia di Palazzo Chigi, Luigi Di Maio arriva a urlarlo ai suoi ministri: “Alziamoci tutti e andiamocene”. Il caso Ilva sfarina il governo giallorosso in Consiglio dei ministri, lo porta sull’orlo del burrone.

Pd e M5S litigano per ore, perché i dem si presentano con un decreto per ripristinare subito l’immunità penale per Arcelor Mittal. Ma Di Maio e i suoi fanno muro, totale. “Non se ne parla” scandiscono e ripetono, nel Cdm che inizia con molto ritardo dopo le 18 e scivola fino a tarda sera, trasformandosi in trincea. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte prova a mediare, a smussare. Ma lo scudo non gli pare una soluzione inaccettabile, ne ragiona di fronte ai partiti. E infatti una fonte di governo del Movimento conferma: “Conte sembrava più vicino al Pd”. Di certo lo scontro serale è l’epilogo logico di una giornata iniziata con il segretario dem Nicola Zingaretti che riunisce ministri e dirigenti e poi geme tramite nota: “Il Pd sta donando troppo sangue, se si va avanti così la corda si spezza”.

L’avvertimento mattutino del segretario dem rimbalza sulle agenzie proprio mentre i padroni indiani di Mittal confermano a Conte di voler fuggire prima possibile da Taranto, a meno che il governo non acconsenta a migliaia di esuberi e al ripristino dello scudo penale. Ma è in Consiglio dei ministri che Pd e 5Stelle se le dicono faccia a faccia, accusandosi a vicenda. “Facciamo già stasera un decreto per approvare una norma di carattere generale” dicono i dem. E mettono sul tavolo il testo, un pugno di parole che ha l’obiettivo di togliere un alibi all’azienda.

Di fatto è la soluzione che avevano già proposto ieri mattina sui giornali il ministro del Sud Giuseppe Provenzano (Pd) e quello dello Sviluppo economico, il grillino Stefano Patuanelli: ovvero una norma per stabilire che “chi applica un piano ambientale non può rispondere penalmente se attua le disposizioni previste” come aveva riassunto Provenzano su Avvenire. Più o meno l’idea che Patuanelli aveva illustrato sul Fatto: “Si può fare una norma che chiarisca quanto già previsto dall’articolo 51 del codice penale”. Però Di Maio, il capo politico del M5S, dice no. “Ormai non possiamo tornare indietro, e poi non è quello il nodo della questione” sostiene. E con lui si schierano i ministri 5Stelle, a partire da quello all’Ambiente Sergio Costa. Ma a trainare è ovviamente Di Maio. Contrario, perché sono innanzitutto i numeri dentro il Movimento a imporglielo. “In Parlamento molti dei nostri non voterebbero mai l’immunità, soprattutto in Senato” ricorda un dimaiano di peso. Il M5S non può reggerla, e “poi tanto Arcelor vuole andarsene comunque” sibila per messaggio un esponente di governo dei 5Stelle direttamente dal Cdm. Perché poi lo scudo è solo una parte del problema. Rispetto alla posizione di Arcelor Mittal la parte minore. Il vero nodo sono le altre richieste. A tarda sera dal Pd giurano che il partito “non molla di un centimetro” sui 5000 esuberi. Tanto è vero che chiedono al premier di andare in conferenza stampa a dire che ad Arcelor è stata data la disponibilità allo scudo, ma che all’azienda non poteva bastare. “Il decreto non si fa, serviranno altre 48 ore. L’ennesimo schiaffo al Pd”, commentano dal Nazareno dopo il Cdm. Ma i ministri dem assicurano: “La trattativa resta aperta”. Invece i Cinque Stelle restano riuniti con Di Maio, per fare il punto.

In sala stampa scendono Conte e Patuanelli. E il premier chiarisce:” “Per sgombrare il campo da qualsiasi pseudo giustificazione il governo ha dichiarato a Mittal la propria disponibilità per quel che riguarda l’immunità”. Cioè lo scudo che il Movimento non vuole era stato riproposto. Un altro sintomo dell’aria che tira, dentro i giallorossi.

Era tutto già scritto: il piano fu stroncato dai tecnici nel 2017

È una situazione tragicomica, se non ci fossero di mezzo 11 mila dipendenti. Il governo oggi chiede che Arcelor Mittal non scappi dall’Ilva ma mantenga gli impegni presi col suo piano industriale. Quel piano, però, non stava in piedi fin dall’inizio, e lo Stato italiano lo sapeva, avendolo bocciato per bocca della sua struttura commissariale ai tempi del governo Gentiloni. Un stroncatura firmata ad aprile 2017 dai tecnici dei tre commissari, Enrico Laghi, Piero Gnudi e Corrado Carrubba chiamati a valutare i due piani industriali: quello della cordata guidata da Mittal e quello di AcciaItalia, il raggruppamento capeggiato da Jindal (con Cdp, Arvedi e Delfin). La bocciatura non fu sufficiente a evitare che il siderurgico fosse aggiudicato al colosso franco indiano poche settimane dopo, grazie a una migliore offerta economica, col suggello del ministero dello Sviluppo guidato da Carlo Calenda.

Nel documento, consegnato il 4 aprile 2017, c’erano tutte le premesse del fallimento odierno. Oggi Mittal dice di andarsene perché la magistratura vuole fargli spegnere l’Altoforno (Afo) 2, dove morì nel 2015 l’operaio Alessandro Morricella (ma non ha fatto nulla per metterlo in sicurezza) e per l’eliminazione dello scudo penale. Al governo ha spiegato però di non reggere una perdita di 2 milioni di euro al giorno e che la crisi del settore l’ha costretto a scendere a 4,5 milioni di tonnellate di acciaio annue prodotte, invece delle 6 promesse. Un dato che in realtà non avrebbero mai potuto raggiungere. Secondo i tecnici gli investimenti previsti erano infatti “incoerenti” con i volumi di produzione dichiarati. Mittal non menzionava il rifacimento dell’Afo2, per cui servivano 115 milioni. La sua “vita tecnica residua” arrivava al massimo alla fine del 2018 e non comparivano neanche i 20 milioni necessari a estenderla. Il riavvio dell’Afo5, invece, era previsto nel 2023, alla fine del piano. “Con questi due altiforni fermi – spiegavano i tecnici – non si possono garantire 6 milioni di tonnellate annue dal 2018 al 2023”, come promesso da Mittal. Anzi, il non rifacimento dell’Afo2 “comporta la mancata produzione di 1,85-2 milioni di tonnellate di acciaio”.

Non era l’unica anomalia. Anche le risorse previste per il rifacimento dell’Afo 1 non risultavano “adeguate”: c’erano 45 milioni di euro per 3 anni, ma – secondo i tecnici – servivano almeno “95 milioni”. L’impatto sull’occupazione di queste due lacune era notevole: “L’assenza di Afo2 – si legge – comporta un esubero di circa 2.000 persone a Taranto rispetto a quanto indicato”. Discorso identico per l’Afo 5 (“riduzione di forza lavoro tra 1800 e 2000 persone”). Numeri che oggi appaiono profetici. Un mese fa Mittal ha fatto sapere al ministero dello Sviluppo di voler ricorre alla cassa integrazione per almeno 4 mila operai (nell’incontro di ieri sono saliti a 5mila). A luglio scorso ha iniziato con i primi 1300 operai.

Il quadro odierno è questo. Mittal non ha avviato il rifacimento di nessun altoforno e neppure la manutenzione, di cui necessita l’Afo 2, vecchio di 13 anni. A breve saranno urgenti anche i lavori sull’Afo 4. Il colosso franco indiano invece continua a produrre con tre altiforni (Afo 1, 2 e 4): viste le condizioni, di fatto lo fa a mezzo servizio, tenendone fermo uno a turno. In questo modo è impossibile raggiungere le 6 milioni di tonnellate annue, anche se il mercato fosse in condizioni migliori. Erano cifre irrealizzabili con gli investimenti promessi.

La lista di bocciature, però, non riguarda solo gli Altiforni ma tutta la strategia industriale. Il piano, ad esempio, non prevedeva la “riattivazione della linea di produzione dei tubi”. E questo scenario, si legge, “non è compatibile con i livelli di produzione di acciai di elevata qualità dichiarati”. Il piano di Mittal, peraltro, prevedeva di aumentare la produzione importando “bramme” da fuori per poi laminarle all’Ilva. Secondo i tecnici, però, questo avrebbe “compresso la marginalità (i profitti, ndr) che è data appunto dal produrre bramme, non dalla loro rilaminazione”. Il siderurgico non sarebbe mai stato autonomo “dipendendo funzionalmente per più del 25-30% da bramme e coils (bobine, ndr) prodotte da terzi”. Questo spiega perché, nel piano gli esuberi crescevano al salire della produzione (l’obiettivo finale era 8,5 milioni di tonnellate annue).

Mittal usciva male nel giudizio anche sul piano ambientale. “È coerente con quello del ministero dell’Ambiente – si legge – ma senza miglioramenti”. Tutte le tecnologie proposte puntavano “ad abbattere l’emissione di anidride carbonica, un aspetto importante ma che non ha effetto sulla diminuzione di gran parte dei fattori inquinanti pericolosi e di allarme sanitario/sociale derivanti dall’uso del carbone”. Giudizi diversi per i piani di Acciaitalia (Jindal& Co.) verso cui i tecnici non sollevavano appunti critici rilevanti. Sul piano dei progetti industriali, insomma, non ci sarebbe stata storia. Acciaitalia, però, si suicidò offrendo 600 milioni in meno dei rivali, guidati all’epoca da Lucia Morselli. La manager scelta oggi da Mittal per chiudere l’Ilva.

Il ricatto dei Mittal sull’Ilva. E il governo finisce spaccato

In questa vicenda ArcelorMittal ha il coltello dalla parte del manico, la pistola sul tavolo e tutto il resto dell’arsenale, non solo metaforico, a suo favore. Per questo ieri, dopo l’avvio nei giorni scorsi della riconsegna dell’Ilva ai commissari, peraltro accusati pure di aver fornito informazioni false ai nuovi gestori dell’acciaieria, ieri il patron della multinazionale Lakshmi Mittal e suo figlio Aditya si sono presentati a Palazzo Chigi per incontrare Giuseppe Conte e un po’ di ministri con una lista di condizioni draconiane: almeno 5mila esuberi, un nuovo scudo penale e un intervento ad hoc che allunghi i tempi per gli interventi di manutenzione e messa in sicurezza dell’altoforno 2, quello sotto sequestro giudiziario che – dopo 4 anni dall’incidente mortale che uccise il 35enne Alessandro Morricella – non è ancora stato messo a norma secondo le indicazioni del Tribunale e andrebbe chiuso il 13 dicembre prossimo.

Tutte condizioni sine qua non, imprescindibili, secondo il colosso franco-indiano. E se quelle condizioni fossero accettate, peraltro, saremmo di fronte alla sostanziale riscrittura del contratto firmato da Arcelor appena un anno fa. “È andata malissimo”, riassumevano, infatti, i presenti all’incontro durato tre ore. “Richieste inaccettabili”, le ha definite lo stesso Giuseppe Conte in una conferenza stampa serale: “Ho detto ai Mittal che il governo sarebbe stato disponibile anche a reintrodurre lo scudo penale, ma poi si è capito che il problema non era quello: con l’attuale livello di produzione, loro non riescono a remunerare gli investimenti e chiedono 5mila esuberi”. Il premier, poi, ha chiesto alla multinazionale di rispettare il contratto “a cui si era impegnata dopo aver vinto una gara assumendosi specifici impegni”: invito doveroso, che però non sposta di un millimetro la situazione.

Che le cose sarebbero andate così lo si era capito fin dalla mattina. Per essere chiari sulle loro intenzioni, infatti, quelli di ArcelorMittal s’erano fatti precedere da un ulteriore atto di guerra: la procedura ex articolo 47 per la cessione del ramo di azienda. In sostanza, la multinazionale ha formalmente comunicato ai commissari straordinari di Ilva che a fine mese dovranno riprendersi gli stabilimenti dell’ex gruppo Riva, le relative società e i 10.777 dipendenti che aveva assunto a tempo determinato il 1° novembre 2018 (il contratto per Ilva, ad oggi, era di affitto e si sarebbe tramutato in acquisto solo a maggio 2021).

Di fronte alla strategia – che poi è un ricatto – di ArcelorMittal, il governo non ha reagito con la “compattezza” vantata da Conte in conferenza stampa. In un Consiglio dei ministri durato oltre tre ore si è messo a litigare sullo scudo penale dividendosi per partiti: Pd, renziani e LeU si sono schierati a favore dell’immediato ripristino dell’immunità nella forma già proposta dai ministri Provenzano e Patuanelli (che è grillino, a dire che gli schieramenti sono sempre cosa complicata), i 5 Stelle si sono detti decisamente contrari, il premier – ahilui – era nel mezzo.

L’idea dei primi è che reintroducendo l’esimente penale si toglierà ogni alibi ai Mittal e poi si potrà trattare sugli esuberi; i secondi sono più che altro preoccupati che il Movimento si spacchi sul punto (la reintroduzione dello scudo penale era stata proposta da Luigi Di Maio nel decreto Imprese e poi cassata per la ribellione di una manipolo di senatori grillini).

Poco importa, nel dibattito interno al M5S, che la formulazione del “loro” Patuanelli sia una sorta di norma interpretativa dell’articolo 51 del codice penale: nessuno può essere punito per aver rispettato un obbligo giuridico e, ovviamente, il piano ambientale per l’Ilva di Taranto lo è.

Alla fine si è deciso di soprassedere: dello scudo se ne riparlerà più avanti perché, evidentemente, nell’esecutivo pensano di aver tempo da perdere. Il vero problema infatti, che è chiaro a tutti, sono i 5mila esuberi su 10.770 assunti da ArcelorMittal: in sostanza, la produzione a Taranto si abbassa ancora (attorno ai 4 milioni di tonnellate l’anno dagli attuali 4,5 milioni) e il costo di metà della forza lavoro se lo carica lo Stato. Come leggerete nella pagina accanto, un esito scontato e in quanto tale previsto dai tecnici che analizzarono il piano industriale della multinazionale nel 2017: a questo punto, avergliela ceduta solo perché ha offerto di più nella parte economica sa un po’ di beffa (e niente vieta che, semmai il governo cedesse su tutto, poi non si arriverebbe pure allo sconto). Il governo sull’Ilva “è compatto”, dice Conte in serata: l’ottimismo, si sa, è il sale della vita.

Per Alessandro

Alessandro Morricella era nato a Martina Franca, aveva 35 anni, una moglie e due bambini di 2 e 6 anni. Era un bravo operaio dell’Ilva di Taranto, sequestrata nel 2012 dai giudici di Taranto e subito riaperta per decreto da Monti e dai suoi successori. L’8 giugno 2015 si è avvicinato, come sempre, al foro di colata dell’altoforno 2 per controllare la temperatura. E, probabilmente per un accumulo anomalo di gas, certamente per la scarsa sicurezza del vetusto impianto, è stato investito da una fiammata mista a ghisa incandescente, che l’ha trasformato in una torcia umana. Ricoverato in ospedale, è morto dopo quattro giorni di atroce agonia il 12 giugno, proprio nel giorno dedicato alle vittime del lavoro. Una data tutt’altro che casuale: il 12 giugno 2003, sempre all’Ilva, Paolo Franco e Pasquale D’Ettorre erano stati uccisi dal crollo di una gru e subito dimenticati da tutti. Fuorché dal rapper pugliese Caparezza, che dedicò loro il brano Vieni a ballare in Puglia: (“Tieni la testa alta quando passi vicino alla gru perché può capitare che si stacchi e venga giù”). E dai coraggiosi magistrati di Taranto, che da 7 anni tentano di imporre il minimo rispetto per la sicurezza dei lavoratori e per la salute dei cittadini, facendo lo slalom fra decreti salva-Ilva e scudi penali sfornati dai governi dei più svariati colori per garantire l’impunità a chi gestisce il più grande impianto siderurgico d’Europa.

Dopo la morte di Alessandro, quinta vittima dell’Ilva in tre anni, l’allora procuratore Franco Sebastio indaga vari dirigenti per omicidio colposo e inosservanza delle norme di sicurezza sul lavoro e additano il mancato ammodernamento degli altiforni dell’“area a caldo” dell’Ilva come “concausa non trascurabile” della sua e delle altre quattro morti. E ottengono il sequestro dell’altoforno 2, poi dissequestrato il 31 ottobre. Ma a condizione che vengano attuate 7 prescrizioni, fra cui l’automazione del campo di colata che ha ucciso Alessandro e gli altri. Obblighi che in quattro anni non saranno mai rispettati, malgrado il miliardo di evasione fiscale sequestrato dai pm di Milano ai Riva e destinato alla gestione commissariale per gli interventi sulla sicurezza, più il miliardo che i nuovi titolari di Arcelor Mittal prometteranno di investire allo scopo. Ma intanto il governo Renzi, nel 2015, ha varato l’ennesimo decreto salva-Ilva che autorizza l’uso dell’altoforno 2 appena sequestrato. E ha addirittura regalato l’impunità penale ai commissari di governo, anche per i morti in fabbrica. Nel 2018 la Consulta boccia il decreto Renzi sull’altoforno 2 come incostituzionale.

Motivo: il dl “privilegia in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa”, diritti “cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso”. Invece sullo scudo, studiato per i commissari e poi finito a coprire Arcelor-Mittal, la Consulta non può pronunciarsi perché viene revocato e poi parzialmente ripristinato da 5Stelle e Lega, e infine cancellato da M5S, Pd, LeU e Iv. Il 31 luglio 2019, visto che nessuno degli obblighi è stato rispettato, i giudici di Taranto tornano a sequestrare l’altoforno 2. E poi a dissequestrarlo, ma a patto che entro 100 giorni vengano finalmente eseguiti i lavori per mettere in sicurezza l’impianto entro il prossimo 13 dicembre. Ma l’altroieri il gruppo franco-indiano comunica al governo la disdetta del contratto che lo impegnava a gestire in affitto e dal 2021 a rilevare gli stabilimenti ex Ilva accampando due scuse. 1) “Con effetto dal 3 novembre 2019 il Parlamento italiano ha eliminato la protezione legale necessaria alla Società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, giustificando così la comunicazione di recesso”. 2) “In aggiunta, i provvedimenti emessi dal Tribunale penale di Taranto obbligano i Commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019, termine che gli stessi Commissari hanno ritenuto impossibile da rispettare – pena lo spegnimento dell’altoforno numero 2”, quello che ha ucciso Alessandro.

Cioè: Mittal ha scoperto con sgomento che in Italia esistono una Costituzione e un Codice penale. E sfodera due alibi che non reggono: lo scudo penale non esiste in nessun Paese d’Europa, dove Mittal gestisce quasi tutte le acciaierie, con standard di sicurezza e ambiente molto più stringenti di quelli che pretende di perpetuare in Italia; quanto alle prescrizioni sull’altoforno 2, non sono una novità, visto che i giudici le invocano dal 2012 (quando sequestrarono per la prima volta l’Ilva) e ancor più stringentemente dal 2015 (quando morì Alessandro) e nel 2018 la Consulta ha già sentenziato che l’altoforno 2 non può restare aperto se non è messo in sicurezza. In 7 anni si sono succeduti 6 governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1 e Conte 2) e 3 gestioni manageriali (Riva, commissari di governo, Arcelor Mittal). I manager hanno sempre disobbedito alla legge, ai giudici e alla Costituzione. I governi, fino al 2018, han permesso loro di farlo impunemente, sulla pelle dei morti e dei malati. Ora che finalmente la musica è cambiata, si scatena la canea: non contro chi se ne fotteva allegramente del diritto alla vita e alla salute, ma contro chi ha smesso di fottersene.

Ps. Un mese fa, il 1° ottobre, si è aperto al Tribunale di Taranto il processo a sette dirigenti Ilva imputati di omicidio colposo per la morte di Alessandro. Fuori dall’aula, i suoi amici hanno riassunto in uno striscione di sei parole gli ultimi sette anni di storia dell’Ilva: “Giustizia per Morricella, morto per decreto”.

Fiore e Ferrante, per avere successo bisogna sparire

Cari politici, andate a scuola da Rosario. Ditelo con un Fiore. Nell’era della visibilità coatta nessuno ti nota più se vai alla festa, l’unica speranza è non andare, l’arte di sparire come ultima frontiera del divismo, ma certo non per tutti. Bisogna essere all’altezza della sparizione. Per fare un esempio di stretta attualità, bisogna chiamarsi Elena Ferrante e far emergere il nuovo romanzo dal nulla, alla fine di un conto alla rovescia iniziato un anno prima, e chissà se l’attesa sarebbe altrettanto spasmodica se la Ferrante invece dello stillicidio di marketing editoriale avesse aperto un profilo Instagram. Giustamente, i selfie con i lettori lei li lascia a Fabio Volo.

Oppure, per fare un altro esempio, bisogna chiamarsi Fiorello, tornato lunedì su Rai1 con Viva Raiplay al grido di “vi avevo detto che mi sarei ritirato dalla tv invece eccomi qui, sono il Renzi della Rai”. Alla luce del botto del debutto (sei milioni e mezzo di ascoltatori, 25 per cento di share), forse le cose stanno alla rovescia. Forse Renzi aspirerebbe a essere il Fiorello della politica, e non c’è dubbio che dal barzellettiere di Arcore in poi la politica italiana sia diventata la prosecuzione del varietà con altri mezzi. Ma, appunto, bisogna essere all’altezza della situazione, e da Fiorello c’è solo da imparare.

Sembra ieri che era la nuova promessa dell’intrattenimento e ne è già diventato il padre nobile, sembra incredibile che abbia sessant’anni anche perché dietro di lui c’è il vuoto a parte qualche volenteroso onorevole. Aveva detto che si sarebbe ritirato e in realtà non l’ha mai fatto, esattamente come Renzi. Ma mentre Renzi il giorno dopo la batosta del referendum costituzionale era già lì con Orfini e la Boschi, a meditare tremenda vendetta, Fiorello al ritiro si è dedicato davvero, ci ha lavorato come si fa con le operazioni delicate. Nei due anni trascorsi dalla chiusura di Edicola Fiore ha annunciato l’addio alle telecamere ogni giorno, nelle ospitate, nelle interviste, negli spot con Rovazzi dove ha rodato la chiave comica dell’ex giovane surclassato dai giovani veri. Non c’era giorno che Fiorello non apparisse in Tv per ricordarci di non voler fare più Tv. Finché un bel giorno ha cambiato annuncio: sapete che c’è? Torno. Mossa geniale, far sparire la sparizione, coerente al talento naturale di Fiorello, tornare sempre, ripetersi mai.

Negli anni ha cambiato contenitori, collocazioni, compari d’anello, supporti tecnici – l’Edicola era fatta coi telefonini, e funzionava per quello. Adesso sperimenta la striscia doppia, in diretta dopo il Tg1 e in streaming perenne sulla piattaforma Raiplay. Prima puntata, anch’essa imperniata proprio sul tormentone del ritorno. Rieccomi qua Pippo, ciao Biagio, l’avresti mai detto Raffaella? Grazie di assistermi Giorgia, forza Calcutta rappiamo insieme. E quando finalmente si sono esauriti i saluti, i baci, gli abbracci e gli scongiuri sono cominciati i titoli di coda. Più che un ritorno, una partenza. Geniale.

In questo moto perpetuo, c’è poi il rovescio della medaglia: la fedeltà a uno stile di mattatore vecchio stampo (quello che non esiste più), canto, ballo, monologo, imitazione, improvvisazioni senza soluzione di continuità, l’uomo-show che ha bisogno di essere solo sul palco, ma ha al tempo stesso bisogno di coinvolgere sempre qualcuno. È così fin dai tempi del Karaoke, e d’altronde questo è lo stile: quello che resta fermo quando attorno tutto il resto si muove.

Cari politici, andate a scuola da Fiorello. Cento di questi ritorni. E siccome non c’è due senza tre, domani torna su Canale 5 Adriano Celentano, il massimo cultore dell’attesa dopo Godot. Nessuno quanto il Molleggiato ha saputo generare suspense sul nulla, consapevole che il nulla è la materia prima della televisione. Con il fumetto Adrian però ha esagerato, dopo anni di annunci a vuoto si è fatto vivo solo per abbandonare nel panico i suoi collaboratori. Lui stesso deve averlo capito, altrimenti non starebbe per tornare quasi alla chetichella, senza troppi annunci. Forza Adriano: nessuno quanto te dovrebbe sapere che tra una pausa e un silenzio c’è come dal giorno alla notte.

 

Il programma Più 600% i contatti sulla piattaforma online

Musica, giovani e satira politica: i punti forti di uno show digitale

C’è la musica, c’è il canto, c’è la danza, ci sono i giovani e pure la trap, c’è l’innovazione, c’è la satira politica. E c’è un uomo solo capace di tutto questo, nei quindici minuti di VivaRaiPlay! che sono una sorta di “anteprima”: nel senso che ciò che stiamo vedendo queste sere su Rai Uno servirà da traino per i 50 minuti sulla piattaforma online dalla settimana prossima. E, per ora, funziona: la prima serata del ritorno di Fiorello, oltre agli ascolti tradizionali (che hanno tirato su lo share anche del successivo quiz di Amadeus), ha fatto registrare un più 600 per cento di contatti sul sito rispetto alla settimana scorsa. Un bel bottino. Con gli studi A e B di via Teulada ristrutturati, il mattatore viene accompagnato da artisti amici (Giorgia, novella conduttrice lunedì, protagonista ieri sera di un flash mob; Calcutta, Mengoni, Matthew Lee, Tommaso Paradiso) e non risparmia stoccate: “Sono il Matteo Renzi della Rai. Non voglio rovinarmi la mia immagine di comico qualunquista facendo satira politica. Che poi, fare una battuta sul Pd è come sparare sulla Croce rossa. Sapete che quelli della Croce rossa dicono: è come sparare sul Pd?”. Scanzonato ma teso, checché ne dica, Rosario vuole portarsi dietro il pubblico di Rai Uno, ma cerca di coinvolgere soprattutto i giovani. Lo fa con i danzatori Urban Theory – ripescati da Italia’s Got Talent –, con il tiktoker Luciano Spinelli e con i Gemelli di Guidonia. Lo fa, soprattutto, con se stesso, con il suo essere, da sempre, attento ai nuovi fenomeni e alle nuove tecnologie. Bisognerà capire se il pubblico anche questa volta lo seguirà fino alla fine.

Silvia D’Onghia

 

Il romanzo Da domani in libreria: sarà l’inizio di una nuova saga?

La menzogna è un sortilegio: fa diventare donna Giovanna

Non è il caso di indispettirsi quando anche La vita bugiarda degli adulti, il nuovo romanzo di Elena Ferrante – che già dall’incipit omaggia Madame Bovary di Flaubert – sarà un successo. Il pubblico lo leggerà d’un fiato, ben consapevole di trovare una storia che non lo sfiderà, non lo farà trasalire di spaesamento sulla poltrona, non gli farà interrompere il gesto di leggere per cercare alcune parole sul dizionario, e che nello svolgimento dell’ordito della trama accadranno banalmente le cose già previste a pagina 40, cioè che i buoni si dimostreranno cattivi e viceversa. Questo nuovo fogliettone (fiero di essere tale) ambientato negli anni 90 (che tuttavia sembrano più 70), utilizza l’innesco di un romanzo di formazione: partecipiamo alla vita di Giovanna dai 12 ai 16 anni, mentre lascia l’età dell’innocenza, quando cioè scopre che il suo bello e consolatorio nido borghese (i genitori Nella e Andrea entrambi professori; gli amici di famiglia Costanza e Mariano, e le loro figlie Angela e Ida, sue amiche del cuore) è in realtà “un groviglio” di filtri, maschere e menzogne, e si avventura in quel terreno chiamato adolescenza dove, una dopo l’altra, perderà le sue illusioni di bambina in compagnia di sua zia Vittoria – una sorella ripudiata dal padre –, che le insegnerà il valore della verità. E attorno a Vittoria – alter ego materno di Giovanna –, per via della perturbazione freudiana che sempre esercita il diverso, ruota il nuovo romanzo dell’autrice napoletana, che non stupirebbe desse così inizio a una nuova saga made in Naples.

Angelo Molica Franco

Le scarpe dei bambini non sono tutte uguali

I bambini hanno tutti la stessa voce. Quella di mio figlio, che gioca nella stanza a fianco mentre scrivo; quelle che arrivano dalle finestre aperte del primo piano di una scuola; quelle dal campetto di calcio, concitate prima di un rigore; quelle nel cortile dell’oratorio, dove la pazienza di un parroco li raccoglie ogni pomeriggio per sottrarli alla strada; quelle sul ponte dell’imbarcazione di una Ong, in attesa di toccare terra; quelle nella tendopoli di un campo profughi o tra le macerie di una città bombardata. Hanno la stessa voce, anche se diverse parole. La lingua non conta, perché i bambini non parlano solo con la bocca. I bambini parlano con il corpo, hanno gesti spontanei e spesso scoordinati, dondolano sui piedi quando sono sulle spine; nascondono le mani dietro la schiena mentre dicono una bugia, arricciano la lingua sul labbro superiore a sfiorare la punta del naso se sono concentrati; ruotano su se stessi fino a far girar la testa e a perdere l’equilibrio quando sentono nella pancia la felicità.

I bambini parlano con la faccia: occhi spalancati a ingoiare il mondo, guance arrossate dopo una corsa in cerchio o dietro a un pallone, labbro inferiore che sporge sul mento se sono in disappunto con la vita. I bambini ci parlano in tanti modi e non sono diversi i loro desideri. Vogliono stare al caldo quando fa freddo e sentire il fresco sulla pelle quando è caldo. Vogliono mangiare cose buone, di quelle che fanno girare il dito indice sulla guancia prima in un senso e poi nell’altro. Vogliono spazio, perché sono piccoli ma hanno movimenti ampi e nello stretto si gualciscono i loro sogni: hanno bisogno di misurare il mondo con le loro corse. Vogliono un posto tutto per loro, una cameretta, un lettino, un nascondiglio sotto la scrivania dove canticchiare canzoncine inventate, l’incavo tra il divano e la poltrona per farne la tana ai loro pupazzi preferiti. Poi vogliono inciampare, farsi la bua e ricevere cure, dire una bugia ed essere smascherati, commettere una marachella e lasciarne tracce ovunque. Vogliono essere sgridati e perdonati. Vogliono poter tornare a sbagliare.

Mentre scrivo mi fermo, a un tratto non sento più la voce di mio figlio nell’altra stanza. Mi alzo dalla scrivania e in punta di piedi mi affaccio alla porta della sua cameretta. Il lettino con le lenzuola colorate dei suoi personaggi preferiti, ceste di giochi, lo scaffale dei libri, le foto alle pareti in cui sorride prima senza denti e poi di nuovo con. Le sue scarpette da ginnastica preferite: blu con la striscia arancione.

E allora capisco: no, i bambini non sono tutti uguali. Ci sono bambini con le scarpe nuove, bambini con le scarpe usate e bambini senza scarpe. Ci sono bambini meno uguali degli altri. Settanta anni fa quelli scalzi e con le ossa sporgenti sono stati i nostri nonni o i nonni dei nonni. Nel secondo dopoguerra, circa settantamila bambini in condizione di necessità, provenienti in prevalenza dal mezzogiorno, vennero fatti viaggiare su treni speciali organizzati dal Pci e dall’Unione donne italiane e affidati per un periodo a famiglie del centro e nord Italia che li sfamarono, curarono e si fecero carico dei loro bisogni. Questi bambini che vivevano per strada, malvestiti e denutriti, sperimentarono una parentesi di benessere che in alcuni casi cambiò il corso delle loro vite. Ebbero vestitini, cibo, calore. Ebbero scarpe nuove, con cui poter iniziare il loro cammino. Fu la risposta di emergenza a una situazione di emergenza. Una risposta parziale, imprecisa e forse insufficiente, ma pur sempre una risposta, volenterosa e solidale.

Ora quella povertà per fortuna non ci riguarda più. Non è scomparsa: ha cambiato latitudine ma non ha cambiato faccia. Basta guardare dall’altra parte del Mediterraneo per trovare piedini costretti in scarpe che non sono le loro, occhi spaventati, visetti troppo magri per mostrare le fossette a ogni sorriso. Inutile cambiare canale o stornare lo sguardo. Quei bambini sono là e ci guardano. Ci chiedono con dolcissima insistenza, come solo loro sono capaci, di farli tornare a svolgere il loro lavoro, il più importante del mondo: il mestiere dei bambini. Di indossare di nuovo la loro divisa: maglietta sudata e dita colorate. E di esercitare il loro diritto: il diritto di crescere.