L’addio a Sassoli, “una guida per il Colle”

La campana suona per David Sassoli, giornalista e politico, presidente del Parlamento europeo. Uomo cortese, salutato da un moto di affetto che pare sincero e quasi unanime.

I funerali di Stato sono nella chiesa di Santa Maria degli Angeli in piazza della Repubblica, nel centro di Roma. Un tappeto rosso e un picchetto d’onore accolgono l’arrivo del feretro, avvolto in una bandiera europea. Nelle file più vicine all’altare, dall’altro lato rispetto a familiari e amici, ci sono i vertici dell’Ue e della Repubblica italiana: la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, il commissario Paolo Gentiloni e il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel; il capo dello Stato Sergio Mattarella, il premier Mario Draghi, i presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico ed Elisabetta Casellati; il presidente spagnolo Pedro Sanchez e la presidente greca Katerina Sakellaropoulou. E poi praticamente l’intera politica italiana: tra ex premier, ministri, segretari, deputati e senatori, quasi un Parlamento in seduta comune. Una sua versione composta e solenne, per una volta, tra le navate e i banchi di legno della chiesa.

È una delle ultime uscite prima del voto per il Quirinale e in diversi parlano della mitezza di Sassoli come di una lezione di stile e di metodo. Lo dice Gianni Letta ai giornalisti (ed è la seconda volta, dopo le parole di giovedì alla camera ardente): “Spero che il presidente della Repubblica si possa eleggere in questo clima di serenità e di valutazione degli interessi generali del bene comune”. Gli risponde poco più tardi Matteo Renzi: “Sono d’accordo. Si è creato in Parlamento un clima bello in nome di David Sassoli. Un buon metodo per eleggere un presidente arbitro, imparziale”. È la stessa riflessione, dopo la cerimonia, di Stefano Ceccanti, compagno di partito di Sassoli: “Grazie a David è stato il primo funerale di Stato italiano e pure europeo. Speriamo che aiuti a illuminare tutti noi anche per le prossime scadenze”. Forse un’illusione retorica o l’omaggio per una persona che non c’è più, sta di fatto che da ogni lato si fa riferimento a un clima ammansito, a un’improvvisa concordia, in vista di una partita parlamentare che invece può diventare brutale.

Per il resto, nella mattina di Roma, la politica cede giustamente il passo ai ricordi personali. L’omelia è del cardinale di Bologna, Matteo Maria Zuppi, che conosceva Sassoli dagli anni del liceo Virgilio, a Roma: “In tanti lo consideravano ‘uno di noi’, quasi istintivamente, per quell’aria priva di supponenza, di alterità, empatica. Insomma un po’ per tutti era un compagno di classe”. Zuppi lo definisce “figlio della Resistenza e dei suoi valori, su cui è basata la nostra Repubblica” e lo saluta così: “Riposa in pace e il tuo sorriso ci ricordi sempre a cercare la felicità e a costruire la speranza, fratelli tutti”.

Fuori dalla chiesa, nel giardino delle Terme di Diocleziano dove è allestito uno schermo per seguire la messa, un centinaio di persone si sciolgono in un applauso, che poi si ripete all’uscita del feretro. Ci sono due giovani avvolti in una bandiera europea, uomini e donne di partito e di sindacato, persone comuni. Come Dante, 70 anni, poche parole di senso comune: “Non ho mai votato Pd in vita mia, sono venuto perché Sassoli mi è sempre sembrato uno perbene”. Non molto di più, può desiderare chi si è dedicato alla vita pubblica: essere ricordato come una persona buona.

Gianni Letta a Chigi: lo zio e il nipote dem lavorano per Draghi

C’è un filo parallelo a quello delle dichiarazioni e dei vertici ufficiali, che potrebbe condurre direttamente al nuovo presidente della Repubblica. Per seguirlo, bisogna studiare le mosse di Gianni Letta, decifrare i suoi segnali, riconoscere le sue orme. Ottantasei anni, giornalista di origine abruzzese, democristiano di indole, felpato nei modi, dalla memoria fulminante, ha accompagnato Berlusconi sia nella sue avventure televisive, da Fininvest in poi, sia in quelle a Palazzo Chigi, da sottosegretario alla Presidenza. Ma da sempre tesse tele con tutti. Ha un rapporto antico con Mario Draghi (non a caso i ministri del governo rispondono più a lui che a Berlusconi), intrattiene un dialogo con Matteo Salvini (anche se i rapporti tra i due sono difficili), mantiene contatti con Matteo Renzi. E naturalmente con Enrico Letta, suo nipote.

Giovedì, alla camera ardente di David Sassoli, Letta (Gianni) ha scelto di sganciare una bomba: “Il clima che si respirava l’altro giorno quando è stato commemorato David Sassoli in Parlamento era di desiderio da tutte le parti di contribuire a guardare agli interessi del Paese e non alle differenze di parte”. E se questo clima “fosse quello che porta i grandi elettori a votare per il presidente della Repubblica sarebbe una grandissima lezione”. Parole dette con il sorriso, senza alzare i toni. Che però sono state lette per quelle che erano: uno stop alla candidatura di Berlusconi. Tanto è vero che subito dopo, Letta è andato a Villa Grande, dove ha pranzato con il fu Caimano, Marta Fascina, Antonio Tajani, Anna Maria Bernini e Sestino Giacomoni. E a Berlusconi ha chiarito – in maniera gentile – quello che va dicendo da più giorni: “I tuoi alleati, Salvini e Meloni, sono inaffidabili”. E ha ribadito: “Ho cercato di dirtelo in tutti i modi possibili”. Una perentorietà che ha fatto scoppiare una mezza rivolta tra i falchi di Forza Italia. “Spia di Palazzo Chigi”, “traditore che lavora per Draghi”: sono volate le accuse. Lui non si è fatto smontare. Tanto è vero che ieri mattina ha incontrato il capo di gabinetto del premier, Antonio Funiciello. Facile immaginare che abbiano parlato di Colle. Anche perché Letta (senior) è una delle carte su cui puntano per portare Salvini ad appoggiare la candidatura del premier. E per convincere Berlusconi a ritirarsi. Oltre a “facilitare” i rapporti tra il centrodestra e Letta jr. Dopo l’incontro, Letta zio è andato ai funerali di Sassoli. E ha ribadito le stesse cose dette il giorno prima. E poi, ha partecipato al vertice del centrodestra.

I sospetti su di lui crescono: per chi lavora davvero? La risposta più gettonata è “per Draghi”. Per il quale, peraltro, lavora anche Enrico. Lavora per il premier, ma negli interessi di Berlusconi, è l’interpretazione più accreditata: dovrebbe essere lui a convincerlo a farsi indietro, prima di essere bruciato nell’urna. Anche se c’è chi crede che giochi per se stesso, per essere lui a salire al Quirinale. Ipotesi che appare remota, non fosse altro vista la convinzione di B. Dunque, toccherebbe a “Gianni” convincerlo a farsi indietro prima della quarta votazione. Per evitare il caos. “Il 27 avremo il presidente, grazie all’accordo con Gianni Letta”, ha detto Renzi. L’opzione a lui va bene, gli permette di giocare un ruolo. Letta jr. dal canto suo ieri ha commentato la candidatura di Berlusconi come “una minaccia” che fa perdere tempo, un “teaser” e non l’inizio del film. Un modo per dire che non la considera una cosa seria. Conta pure sul lavoro dello zio. Oggi sarà lui a parlarne in direzione. L’altro, intanto, continuerà a tessere la tela e forse proverà a far ingoiare a Enrico il governo dei leader che lui esclude, ma che per Salvini potrebbe essere un vantaggio.

Quei quadri “senza etica”: i regali di Silvio a rischio codice

Finora nulla è tornato indietro. “Si vede che sono stati graditi…”, conferma una fonte vicina all’uomo di Arcore. Sono circa 200 i quadri regalati per Natale a deputati e senatori da Silvio Berlusconi. Tenendo conto che i 129 forzisti hanno ricevuto tutti il cadeau, ne restano una cinquantina a esponenti di altri partiti. I leader, a quanto si sa, ci sono tutti: Matteo Salvini, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Matteo Renzi, Giorgia Meloni, Luigi Brugnaro, Giovanni Toti. “Berlusconi lo fa sempre a Natale o per i compleanni. Ma sono cose di poco valore: i nomi degli autori nemmeno si trovano in Internet. Sono vedute di Venezia e icone della Madonna. Le compra di notte, alle televendite…”, racconta una deputata ex FI. “A me quest’anno ne sono arrivati due, entrambi vedute di Venezia. Uno l’ho pure appeso”, confessa un deputato forzista. “Ma Berlusconi ha sempre fatto regali – aggiunge una deputata – ora è fissato con i quadri, prima alle signore donava gioiellini di Damiani (tra cui le arcinote farfalline, ndr) e foulard, agli uomini cravatte di Marinella e orologi Longines. Forse prima il valore era più alto…”.

Se Vittorio Sgarbi li ha definiti “dipinti da arredamento”, è difficile che le opere non valgano qualche centinaio di euro. A Montecitorio, però, dal 2016 vige un codice di condotta secondo cui non si possono ricevere regali sopra i 250 euro. Altrimenti vanno restituiti. A Palazzo Chigi la cifra si abbassa a 150. “Mandare indietro i doni delle delegazioni straniere equivarrebbe a uno sgarbo istituzionale: così vanno in capo a Chigi”, viene spiegato. Stesse norme nei ministeri e nella PA. A Palazzo Madama, invece, non ci sono regole. “Venire a sapere che, alla vigilia del voto per il Colle, molti parlamentari hanno ricevuto regali da Berlusconi è mortificante. C’è una questione di conflitto d’interessi e opportunità politica. Restituire il regalo sarebbe un bel gesto di dignità a difesa delle istituzioni”, afferma Nicola Fratoianni (Sinistra italiana). Vedremo se qualcuno accoglierà il suo appello.

Intanto Matteo a Pd e 5S fa i nomi di Pera e Moratti

La prima reazione è il muro: “Silvio Berlusconi è un’opzione irricevibile e improponibile”. Ma dietro al tweet con cui boccia la candidatura al Colle del Caimano, Giuseppe Conte cela una certa sorpresa e molta preoccupazione. Perché ora la strada per il M5S, e per i giallorosa, si fa stretta.

Innanzitutto, ora sembra ufficialmente impossibile arrivare a “quella figura condivisa anche con il centrodestra” di cui il leader dei 5Stelle parlava da giorni, sembra ufficialmente impossibile. Certo, ai piani alti del M5S continuano a pensare che quella su Berlusconi sia soprattutto una manovra tattica, per coprire il vero nome da calare davvero nelle urne: magari Franco Frattini, di cui si parla molto nel Movimento, o Maria Elisabetta Casellati. Ma è solo uno degli esiti possibili. Anche perché nessuno può escludere che il centrodestra possa anche andare fino in fondo, sostenendo Silvio B., “e da parte di Matteo Salvini e Giorgia Meloni sarebbe un modo di agire cinico” accusano dal M5S. E dire che proprio Salvini nei giorni scorsi aveva aperto un canale con Conte e con il segretario dem Enrico Letta, mettendo sul piatto ipotesi diverse da Berlusconi: Marcello Pera e Letizia Moratti. Nomi “moderati” su cui cercare un’intesa per schivare il Caimano, l’incubo dei giallorosa, e trovare un accordo largo. Una via per concedere a Pd e M5S almeno l’onore delle armi e tenere in piedi la maggioranza di governo. Per la soddisfazione della Moratti, che nei giorni scorsi ha avuto contatti con diversi maggiorenti del Movimento, compresi Conte e Luigi Di Maio. “Ma Pera e Moratti sarebbero comunque molto complicati da votare per noi 5Stelle” sussurra un big grillino.

E comunque Salvini, dopo aver disseminato dubbi sul Berlusconi “divisivo”, pare tornato al suo ovile. Per quanto è difficile dirlo. “Adesso l’unica opzione per fermare Berlusconi potrebbe essere davvero solo Mario Draghi” ragionano diversi 5Stelle. La via di fuga a cui Letta pensa da settimane e che Conte sarebbe anche disposto a deglutire. Ma non è così semplice, per nulla. Perché nel corpaccione parlamentare l’area anti-Draghi si sta facendo sempre più larga, e questo lo dicono tutti nel M5S. Lo raccontano anche le tante dichiarazioni di eletti a favore di un Mattarella bis: un altro modo per dire no al presidente del Consiglio. D’altronde ieri il deputato Vincenzo Spadafora, dimaiano eterodosso e avversario di Conte, è subito corso a dirlo sull’Huffington Post: “Se l’ex premier torna con il nome di Draghi la vedo dura reggere i gruppi parlamentari”. Un modo per sbarrare l’uscita di sicurezza. Per questo in serata un contiano scandisce: “Letta e Conte rischiano di ritrovarsi all’angolo”. O in un labirinto. Anche perché al Mattarella bis credono in pochi.

Lo ha ammesso anche il vicepresidente del M5S Mario Turco (“Ci sono problemi ostativi”), suscitando fastidio tra i suoi. In questo quadro, ieri tra i 5Stelle ha ripreso forza l’ipotesi di andare alle prime tre chiame con un candidato di bandiera condiviso con Pd e Leu: Anna Finocchiaro, o il direttore generale del Dis, Elisabetta Belloni (data in corsa anche come premier tecnico). Ma è tutto ancora da valutare. E si intuisce perché.

Carfagna, Brunetta e i 40 “traditori” nella lista di Arcore

A villa Grande li chiamano già “i traditori”. Come se lo sapessero già che quella sporca quarantina di parlamentari, nel segreto dell’urna, non scriveranno mai “Silvio Berlusconi” sulla scheda. Perché se il leader azzurro compulsa morbosamente la lista aggiornata degli “scoiattoli” da conquistare per arrivare a quota 505, i suoi emissari ne hanno anche un’altra: quella dei potenziali franchi tiratori dentro il centrodestra. Un elenco di 40 nomi – tra cui parlamentari di peso di Forza Italia, ministri e volti storici del centrodestra – additati di non voler votare Berlusconi per il Quirinale. E che potrebbero affondare la sua candidatura. È da questa stima che giovedì Vittorio Sgarbi ha parlato di un “10% fisiologico” di franchi tiratori nel centrodestra: 40, appunto, sui 450 grandi elettori di cui sulla carta può contare la coalizione. Molti di loro hanno una caratteristica in comune: sono fuoriusciti di Forza Italia che un tempo accedevano alla corte di Arcore e poi sono stati tagliati fuori dal cerchio di magico di Licia Ronzulli e Antonio Tajani. Per questo potrebbero non votare Berlusconi, non tanto per affondare lui ma per mandare un messaggio ai suoi collaboratori più stretti.

La maggior parte dei potenziali franchi tiratori viene dalla Camera. È qui, secondo il cerchio magico di Arcore, che si annida la maggior parte dei “traditori”.

Una quindicina vengono da Coraggio Italia, il gruppo di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, nato a maggio scorso dopo la fuoriuscita di diversi parlamentari dissidenti di FI. Tra questi c’è anche il capogruppo Marco Marin che ha già dichiarato di sostenere Mario Draghi per il Colle e il vice Emilio Carelli (che Berlusconi ha corteggiato a lungo), ma anche l’ex forzista Osvaldo Napoli e l’ex M5S Marco Rizzone. Poi circa dieci sono i maggiori indiziati proprio in Forza Italia: nonostante Mariastella Gelmini abbia più volte dichiarato il suo sostegno incondizionato alla candidatura dell’ex Cavaliere, lei e gli altri due ministri di Forza Italia – Mara Carfagna e Renato Brunetta– vengono considerati dei possibili franchi tiratori dopo la rivolta di ottobre contro l’inner circledi Arcore. I tre ministri a villa Grande vengono considerati ormai “draghiani” a tutti gli effetti che giocano una partita a sé, tant’è che fu proprio Brunetta a lanciare per primo l’ipotesi dell’elezione del premier al Colle istituendo un “semipresidenzialismo di fatto”. Insieme a loro ci sono altri deputati forzisti considerati in dubbio: vanno da Stefania Pestigiacomo a Paolo Russo passando per Anna Lisa Baroni. Tutti deputati dell’ala liberal, molto vicini a Carfagna. Possibili franchi tiratori potrebbero spuntare anche nella Lega e in Fratelli d’Italia. Occhi puntati sui deputati del Carroccio fuoriusciti da FI (5 in tutto), tra cui Antonino Minardo, Laura Ravetto e Benedetta Fiorinie il timore è anche che un gruppo di 10-15 parlamentari vicini a Giancarlo Giorgetti, che sta giocando per Draghi, possano “tradire”. Tra i meloniani i sospetti di Arcore si concentrano su Galeazzo Bignami e gli ex 5S Massimiliano De Toma e Rachele Silvestri.

Al Senato invece il gruppo dei possibili franchi tiratori è composto da nomi di peso del berlusconismo che fu. Soprattutto due: il meloniano Lucio Malan, in Forza Italia dal 1996, che ha lasciato il partito di cui era vicecapogruppo al Senato a metà luglio in polemica con il sostegno incondizionato del partito al governo Draghi e Mariarosaria Rossi, ex “badante” di Berlusconi prima di essere scalzata da Ronzulli. Rossi un anno fa decise di uscire da FI votando la fiducia al Conte-2 e poi è passata con Coraggio Italia. Pochi giorni fa è arrivata a fare un accorato appello su La Stampa per chiedere al leader azzurro di “fare un passo indietro” a favore di Draghi.

È ufficiale: le destre candidano B. C’è la war room per contare i voti

“Chi è contrario alla mia candidatura lo dica adesso o taccia per sempre”. Alle 14.30, quando Silvio Berlusconi, con tono solenne, quasi presidenziale, apre il pranzo del centrodestra nel salone di villa Grande, cade un silenzio insolito. Nessuno fiata. Nessuno, nonostante i sospetti e i dubbi, riesce a dirgli niente. E dunque il dado è tratto: i leader del centrodestra, dopo due ore e mezzo di vertice, indicano Berlusconi come candidato della coalizione per la presidenza della Repubblica. È lui, come recita il comunicato finale, “la figura adatta a ricoprire in questo frangente difficile l’alta carica con l’autorevolezza e l’esperienza che il Paese merita e che gli italiani si attendono”. La candidatura viene proposta seppur con una postilla, non solo formale: i leader del centrodestra chiedono a Berlusconi – ormai in campo da settimane – di “sciogliere la riserva”. Una precisazione che tiene aperto uno spiraglio su cui Meloni e Salvini puntano molto e che Berlusconi invece, al momento, non prende nemmeno in considerazione: la possibilità che a 24 ore dal quarto scrutinio del 27 gennaio, il leader di Forza Italia possa fare un passo indietro per fare il kingmaker di un altro candidato nel caso dovesse capire che non ci sono i numeri per arrivare alla soglia dei 505 voti. L’ipotesi preferita da Gianni Letta – che ieri è tornato a chiedere un candidato “condiviso” – e dai tre ministri azzurri che non condividono la strategia del cerchio magico di Arcore.

A ogni modo, nei prossimi giorni la campagna di scouting di Berlusconi – aiutato dal “telefonista” Vittorio Sgarbi – andrà avanti. E la “verifica” dei numeri e dei nomi sarà fatta in un nuovo vertice di giovedì prossimo dopo la trasferta di Berlusconi a Bruxelles per ricordare David Sassoli. Tra i fedelissimi del leader azzurro gira un report secondo cui arriverebbe a quota 493 voti (a 12 dal traguardo) ma in pochi ci credono. “Ne abbiamo convinti 15, ma coi franchi tiratori si elidono” spiega Sgarbi. Dunque ne mancano almeno altri 50-60. Per questo ieri i leader del centrodestra hanno deciso che da lunedì i capigruppo dei partiti metteranno in piedi una war room per aggiornarsi sui voti: si incontreranno tutti i giorni e si aggiorneranno sul pallottoliere. Anche perché, nonostante le richieste sui numeri, né Meloni, né Salvini sono riusciti a opporsi alla candidatura dell’ex premier. “Non possiamo rompere la coalizione” dice ai suoi il leghista.

Così, all’ ora di pranzo, Berlusconi riunisce i due “giovanotti” in un mini vertice. Entrambi gli dicono: “Vogliamo eleggerti, non solo candidarti”. Un modo per metterlo in guardia da una scalata proibitiva. Ma lui va avanti. E apre il pranzo allargato ai centristi, a base di parmigiana, branzino e calamari, con un discorso istituzionale. “Io ci sono e ci tengo molto. Mi metto in gioco ma siete voi che dovete darmi garanzie sui numeri e sulla vostra fedeltà”. A quel punto, prende la parola Salvini che prova ad avanzare qualche dubbio. Si è portato da casa le schede storiche sulle elezioni di Scalfaro e Mattarella per far capire all’ex Cavaliere che servono numeri molto alti: “Il primo ha avuto 672 voti, il secondo 665. La Lega sarà compatta ma la garanzia non c’è nel voto segreto. Devi dirci chi sono e quanti sono i parlamentari che hai convinto”. Anche Meloni mette i suoi dubbi sul tavolo: “FdI ti sostiene, ma mancano ancora 50 voti”. Ma tutti e due, alla fine, lo dicono apertamente: “Sei il nostro candidato”. I centristi Maurizio Lupi, Lorenzo Cesa e Luigi Brugnaro si accodano. Anche Gianni Letta concorda. Meloni vuole un impegno su una legge elettorale maggioritaria ma Brugnaro non firma. Ma questa spaccatura diventa un dettaglio. Perché alla fine conta solo un fatto: la candidatura di Berlusconi ora è realtà.

Quelli che… figuriamoci

Quando, il 1° dicembre, uscimmo con la copertina “No al garante della prostituzione” e lanciammo la petizione contro B. al Quirinale, i tromboni dei giornaloni, quelli che la sanno sempre lunga, ridacchiavano: figuriamoci se B. sarà candidato al Colle, è solo una boutade per poi ritirarsi e fare il kingmaker di Draghi, ma il Fatto resuscita il suo cadavere perché non può fare a meno di lui. Figuriamoci. Sono 29 anni che questo trust di cervelli lo scambia per De Coubertin e dice “figuriamoci”. Nel 1993 il refrain era “figuriamoci se entra in politica”: ci entrò. Nel ’94 “figuriamoci se caccia Montanelli dal Giornale”: lo cacciò; “figuriamoci se vince le elezioni”: le vinse; “figuriamoci se va al governo senza vendere le tv”: ci andò e se le tenne. Nel ’96 “figuriamoci se non si ritira”: non si ritirò, anzi fu promosso padre costituente. Nel 2001 “figuriamoci se rivince”: rivinse; “figuriamoci se si abolisce i reati e i processi”: li abolì. Nel 2002 “figuriamoci se caccia Biagi, Santoro e Luttazzi”: li cacciò (con molti altri). Nel 2008 “figuriamoci se rivince”: rivinse per la terza volta. Nel 2009 “figuriamoci se sopravvive a Noemi, D’Addario&C”: sopravvisse. Nel 2011 “figuriamoci se la fa franca pure su Ruby”: la fece franca; “figuriamoci se, caduto il suo terzo governo, resta”: restò. Nel 2013 “figuriamoci se torna al governo”: ci tornò con Letta jr.; “figuriamoci se non lascia dopo la condanna definitiva, l’espulsione dal Senato e i servizi sociali all’ospizio”: non lasciò, anzi tornò padre costituente nel Patto del Nazareno con l’Innominabile.

Nel 2018-’20 era politicamente morto, non avendo armi per ricattare il M5S nei governi Conte-1 e 2. E pure di salute non se la passava bene, stando ai continui ricoveri e ai certificati medici esibiti per rinviare i processi, acquattato in Provenza con la scusa del virus. “Figuriamoci se torna”: a febbraio tornò, riabilitato dal Rignanese e accolto a gomiti aperti da Draghi. “Figuriamoci se il centrodestra lo candida al Colle”: ieri l’ha candidato. Diceva Luttazzi quando ancora poteva lavorare in tv: “Nella mia ingenuità, mi chiedevo come avrebbero fatto a far passare le leggi su falso in bilancio, rogatorie, conflitto di interessi, legittimo sospetto a favore di B. senza che la gente se ne accorgesse. Ora ho capito come fanno: lo fanno! Molto semplicemente. Chi glielo impedisce?”. La sua forza è da sempre la debolezza, anzi la nullità altrui: mentre tutti dicono “figuriamoci se lo fa”, lui lo fa. Perciò è sempre due o tre passi avanti. Ora, mentre tutti fingono di non volere il Quirinale, lui fa campagna elettorale (e acquisti) per agguantarlo. È difficile che ci riesca. A meno che qualche genio non cominci a dire: “Figuriamoci se diventa presidente della Repubblica”.

2021, Bmw vince la gara “tedesca”. Mentre Toyota quella mondiale

L’iperuranio dell’extra lusso non è toccato da crisi né pandemie, come potete leggere in questa pagina. Anzi, per certi versi l’emergenza sanitaria ha pure favorito l’acquisto di “preziosità” su quattro ruote, ammettono gli stessi addetti ai lavori con malcelata soddisfazione. I numeri, nondimeno, seppur in crescita rimangono quelli di una nicchia riservata a pochi.

Per i marchi premium di tutti i giorni, quelli che parlano tedesco per capirci, la concorrenza è invece più che mai serrata, e si rinnova anno dopo anno. In quello appena trascorso alla fine l’ha spuntata Bmw, che dopo un lustro ha riconquistato la prima piazza nella singolare classifica globale dei costruttori di lusso, precedendo le connazionali Mercedes e Audi. La casa di Monaco di Baviera ha incrementato le proprie vendite di oltre il 9 per cento, toccando il record di 2.213.795 veicoli, mentre quella di Stoccarda ha subito una contrazione del 5%, fermandosi a 2.054.962. Più indietro Audi, nonostante una sostanziale stabilità (-0,7%) nelle immatricolazioni, a quota 1.680.512.

Per quanto riguarda invece i grandi gruppi, c’è da registrare che per il secondo anno consecutivo Toyota è al primo posto nel mondo con 9,56 milioni di veicoli contro gli 8,88 milioni della rivale storica Volkswagen, che ha visto le sue vendite contrarsi del 4,5% a causa della carenza di semiconduttori. Proprio sulla strategia di approvvigionamento dei chip, e sulla capacità di far fronte alla loro penuria, si giocherà anche la partita del 2022.

Ora la polizia di New York è “elettrica”

New York tenta la svolta verde nei trasporti dell’amministrazione cittadina, la cui flotta ammonta a circa 30mila veicoli, 6.200 dei quali appannaggio del NYPD, ovvero il dipartimento di polizia. Che per l’appunto, a partire dal 30 giugno 2022, potrà contare su veicoli 100% elettrici.

Le auto in questione sono Mustang Mach-E GT, ovvero la variante più performante (con 270 miglia, circa 435 km, di autonomia) della sportiva a batteria della Ford, con cui il New York City Department of Citywide Administrative Services ha siglato un contratto per la fornitura di 184 esemplari che finiranno nella dotazione delle forze dell’ordine, ma anche di altri corpi municipali (New York City Sheriff’s Office, Department of Correction, Department of Parks and Recreation, Department of Environmental Protection, NYC Emergency Management, DCAS Police e Chief Medical Examine).

Costo dell’operazione? 11,5 milioni di dollari. Ovvero il primo tassello di una strategia che porterà alla “migrazione” verso l’elettrone di tutta la flotta municipale, entro il 2035. L’esborso per le elettriche col distintivo, infatti, è parte di un investimento complessivo di 420 milioni di dollari sull’elettrificazione complessiva della flotta comunale, che già quest’anno si arricchirà di altri 1.250 veicoli a batteria.

C’è attenzione anche per la rete di ricarica: sono già state installate 29 colonnine nei parcheggi riservati alle auto del NYPD, più 103 caricabatterie rapidi dislocati in varie parti della città a cui se ne aggiungeranno altri 275.

In agenda anche l’installazione di 180 pensiline con pannelli solari, così come la dotazione di caricatori portatili in grado di far arrivare l’energia per l’autotrazione dove serve.

Complessivamente, entro il 2030 l’amministrazione comunale prevede di piazzare nella Grande Mela almeno 1.776 punti di ricarica. “Ogni singolo veicolo della città che viene elettrificato è un passo avanti per proseguire nel cammino verso un’aria pulita e una New York rispettosa del clima”, ha commentato il direttore dell’Ufficio per il clima e la sostenibilità, Ben Furnas.

Da Rolls a Porsche: il Covid fa brillare le vendite del lusso

I soldi non fanno la felicità. Tuttavia, “è mejo esse tristi dentro ar Mercedes che dentro a la Cinquecento”, sostiene un noto comico romano. Probabilmente, pensano qualcosa di simile anche i ricchi del mondo che, pur essendo stati colpiti come tutti dalla pandemia, hanno comunque deciso di consolarsi facendo incetta di beni di lusso. Ivi compresi quelli a quattro ruote. A Sant’Agata Bolognese, ad esempio, Lamborghini sta festeggiando un 2021 da record, con 8.405 auto vendute, migliore annata di sempre: una crescita del 13% sul 2020.

Gli Stati Uniti si confermano il primo mercato (2.472 unità, +11%), seguiti da Cina (935, +55%), Germania (706, +16%) e Regno Unito (564, +9%). Anche l’Italia, mercato domestico della Casa del Toro, ha registrato numeri incoraggianti: +3%, con un totale di 359 vetture consegnate. A fare la parte del leone è la Suv Urus, che da sola vale oltre 5 mila unità, seguita dalla Huracán con motore V10, a quota 2.586 vetture vendute. “Il 2022 ci vedrà impegnati per consolidare i risultati di oggi e preparare l’arrivo della futura gamma ibrida a partire dal 2023”, sottolinea Stephan Winkelmann, chairman e ceo di Lamborghini. Ed entro fine 2024 tutta l’offerta sarà elettrificata.

Vento in poppa anche per Rolls Royce, che nell’anno da poco concluso ha segnato un record storico di vendite (dopo 117 anni di storia), consegnando 5.586 veicoli. Questione di… sofferenza, secondo l’ad della casa, Torsten Müller-Ötvös: “In molti hanno assistito alla morte di persone nella loro comunità a causa del Covid e questo ha ricordato loro che la vita può essere breve e, quindi, si farebbe meglio a vivere ora piuttosto che rimandare a una data successiva”.

“È proprio grazie a Covid che l’intero business del lusso è in piena espansione in tutto il mondo”, ha sottolineato Müller-Ötvös: “Le persone non hanno potuto viaggiare molto, non hanno potuto investire in servizi di lusso… e si accumulano molti soldi che vengono spesi in beni di lusso”.

Le vendite di Rolls sono aumentate in ogni parte del mondo.

Sorrisi a 32 denti pure in casa Porsche: poco meno di 302 mila vetture consegnate, ovvero l’11% in più rispetto all’anno precedente. Ancora una volta, la Cina ha rappresentato il più grande mercato unico e ha registrato un aumento dell’8% a 95.671 veicoli. Seguono Europa (+7% e 86.160 auto) e Usa (+22% e 70.025 unità). È interessante notare che circa il 40% di tutte le auto consegnate nel Vecchio Continente nel 2021 aveva una configurazione ibrida plug-in o puramente elettrica.