Shoah, inciampare nella Storia come una caccia al tesoro

Come si fa a far appassionare i più giovani alle vicende della Shoah? È possibile fare Memoria sullo sterminio degli ebrei a distanza di così tanto tempo, in un modo nuovo e avvincente per i ragazzi del 2022? Si può mettere in mano a studenti e professori uno strumento per uscire dalle classi e tentare un apprendimento attivo di quegli eventi a partire dalle pietre di inciampo e dai civici giusti per trasformare una lezione, che rischia di essere la solita, in un’avvincente ricerca attiva per le strade delle proprie città? Questa è la sfida di Andrea Delmonte con Sono nel vento, un romanzo, anzi tre romanzi diversi in tre edizioni differenti per le città di Roma, Milano e Bologna, pubblicato dalla casa editrice del Fatto Quotidiano, Paper First. Sono nel vento non è solo un racconto (anzi tre) pieno di personaggi e di colpi di scena, ma è anche un manuale con un’appendice divulgativa e una guida dei luoghi fisici con tanto di mappe dell’orrore che ha segnato le nostre città. L’idea editoriale ha preso spunto dalle “Pietre di inciampo” e dai “Civici giusti”. Le prime sono i piccoli blocchi quadrati 10 x 10 centimetri, ricoperti di ottone lucente, e posti davanti al portone delle ultime case abitate dalle vittime prima della loro deportazione nei campi di sterminio. Il concept dell’artista tedesco Gunter Demnig, 74 anni, è obbligare chi passa a inciampare nel ricordo. Proprio per attivare la memoria, sulla pietra dorata ci sono il nome, la data di nascita, il luogo della deportazione e la data di morte. Dal 1992 ne sono state piantate 70 mila circa in tutta Europa. In Italia la prima a Roma nel 2010, seguita da Milano nel 2017. Attualmente “brillano” a Bologna, Genova, Reggio Emilia, Siena, Torino, Venezia e in tante altre città italiane.

Delmonte, già ghost writer di importanti best-seller per ragazzi nonché autore della nostra agenda IlLegal, ha scritto il romanzo immaginando due ragazzi che non sanno nulla di Shoah e si incuriosiscono grazie a un professore che li porta a ragionare su una serie di segnali della storia ebraica, fra cui quelle pietre dorate viste mille volte e mai notate davvero. Sono nel vento sarà venduto in tre diverse edizioni dedicate a quanto accaduto nelle rispettive città, con Il Fatto, nelle edicole di Bologna, Milano e Roma e in tutte le librerie d’Italia in tutte e tre le edizioni. A Roma, in pratica, si potrà comprare in edicola solo l’edizione romana, ma in libreria ci saranno anche le edizioni di Bologna e di Milano. E così via nelle altre due città.

La trama è quella di un romanzo di formazione con protagonisti due studenti delle superiori e un professore di quelli che tutti abbiamo sognato: appassionato e giovanile, il prof dà appuntamento ai due studenti scettici in un pomeriggio e li porta sulle pietre di inciampo, nella Sinagoga, dentro le storie che stanno dietro ai civici giusti, nel Ghetto e nei luoghi della deportazione. Il suo racconto avvincente appassiona i ragazzi più di una serie su Netflix e diventa un pomeriggio a metà fra una caccia al tesoro e una gita d’istruzione. Il prof del libro racconta i fatti, le vittime e i vari protagonisti guidando i ragazzi sui luoghi dove sono avvenuti con un linguaggio semplice e chiaro, come piace a loro. La follia di Hitler, il Mein Kampf, le teorie della superiorità della razza ariana, il manifesto della razza, le leggi razziali, la notte dei cristalli, le deportazioni, i tanti ignavi che si girano dall’altra parte, il ruolo delle SS tedesche e quello dei fascisti italiani, l’ambiguità dell’atteggiamento del Papa, gli atti di eroismo di tanti sacerdoti e suore e soprattutto quelli dei cittadini di Roma, Bologna e Milano, talvolta anche fascisti, che salvano tante vite di ebrei sconosciuti. Buoni, cattivi e ignavi, forse non migliori dei cattivi, sono descritti con nome e cognome. Grazie al prof i due studenti rileggono i luoghi quotidiani della loro città con occhi diversi e più consapevoli.

Il prof a Roma dà luce anche ai “Civici giusti”, un’iniziativa recente dell’associazione Roma Bpa – Mamma Roma e i suoi Figli Migliori, che ha dato il suo entusiasta patrocinio all’iniziativa editoriale, e che punta a rendere tangibile con un’apposita mattonella apposta sul palazzo in cui vivevano anche il ricordo dei “Giusti” che aiutarono gli ebrei a nascondersi alla furia delle SS, rischiando la propria vita.

A Roma il giro parte dal Portico d’Ottavia per spiegare la storia dei ghetti in Italia dal 1500 a oggi. Poi il prof si sposta sulle pietre di inciampo per narrare la triste storia della famiglia Spizzichino e più in generale la tragedia degli ebrei romani nel 1943, raccontando però anche alcune figure positive, fra cui quella del dottor Borromeo – che nasconde una cinquantina di ebrei dentro uno stanzone dell’Ospedale Fatebenefratelli – e quelle eroiche di via Siacci e viale Giotto. Si passa poi dalla Sinagoga e si finisce davanti alla biblioteca della scuola intitolata a Maria Piazza.

A Bologna, invece, si parte da via Zamboni 33, dalla Biblioteca che ospita il rotolo del Pentateuco più antico al mondo (il testo completo della Torah in ebraico con i primi 5 libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio) e si arriva alle pietre di inciampo nella Strada Maggiore al civico 13 per raccontare la storia della famiglia Calò. A Milano, il prof porta i ragazzi sulle pietre di inciampo della famiglia Fano e degli Steiner e poi al muro dell’indifferenza al Binario 21 e gli racconta la figura del cardinale Schuster, oltre che la testimonianza di Liliana Segre.

Alla fine del percorso, i protagonisti del libro, ma anche i lettori si ritrovano arricchiti di un bagaglio di informazioni su cosa è accaduto in Italia e nella loro città, nel loro quartiere, a due passi dalla propria scuola o casa. Un libro da mettere nello zaino proprio in questi giorni per avere uno strumento in più per vivere in modo fresco e partecipe la Giornata della Memoria del 27 gennaio prossimo.

Hanya “verso il Paradiso”. Tre secoli d’inferno a New York

Per chi viene dalle Hawaii dev’essere semplice sapere dov’è il paradiso: a casa, sull’isola. Ma la casa è vuota e l’isola deserta: se ne sono andati tutti, in cerca di altri paradisi, monetizzabili, a New York, Manhattan, Washington Square, un luogo inclemente sin nel meteo, “impossibile, orgoglioso, spietato”. In pratica, l’inferno.

Uno dei titoli più attesi dell’anno – Verso il paradiso di Hanya Yanagihara – è fresco di stampa per Feltrinelli (in Italia, ma in contemporanea mondiale), eppure già abbondano le recensioni pro e contro l’autrice dell’acclamato, struggente, straordinario best-seller Una vita come tante (Sellerio, 2015): il Guardian saluta quest’opera-mondo come “un capolavoro”; per Slate, viceversa, è “una delusione per chi ha amato il romanzo precedente”. Il New York Times parla di “grandezza”, ma è di parte – la scrittrice è redattrice del loro T: The Nyt Style Magazine – e anche alcuni colleghi si sperticano in elogi: “Verso il paradiso è bello come Guerra e pace” (Edmund White), “raro e rivoluzionario” (Michael Cunningham). Comunque, la copertina (simile in tutte le edizioni internazionali) resta orrenda e sgraziata: sembra la réclame di una campagna terzomondista quando nel libro c’è “la questione negra: il peccato al cuore dell’America”, ma anche molto-molto altro. Boh.

Indubbiamente questo terzo romanzo di Yanagihara – tra le voci più seducenti della narrativa contemporanea – è ambizioso: qui Hanya non si accontenta di commuovere o turbare i lettori con le sue storie di disperata umanità, come nei due lavori precedenti; qui Hanya osa un’architettura maestosa di tre libri in uno, lungo tre secoli, dal 1893 al 2093, e quasi 800 pagine, una struttura mirabolante che regala vertigini e brividi, ma che talvolta scricchiola sotto il peso dei personaggi, la cui consistenza letteraria supera spesso quella delle persone reali.

Tre sono pure i principali interpreti: David Bingham, Edward Bishop e Charles Griffith (anche nella variante femminile di Charlie) che tornano in diverse reincarnazioni – come nel buddismo, sembra suggerire la pagina Instagram toparadisenovel – nei tre macrocapitoli o microlibri, Washington Square (ah, Henry James); Lipo-wao-nahele; Zona Otto; in soldoni, da New York alle Hawaii e ritorno.

Se il primo ricorda Una vita come tante; nel secondo riecheggia Il popolo degli alberi (Feltrinelli, 2020, benché sia l’opera d’esordio di Yanagihara, uscita nel 2013). E il terzo? È una distopia, titolerebbero i cronisti, ma anche no: seppur ambientato in un’America spettrale e disabitata, piagata da anni di pandemie e regimi, “questo posto non ha un’aria distopica… la distopia non ha un’aria”. Chiamiamola allora “realtà”, una realtà in cui le perquisizioni e gli arresti sono all’ordine del giorno; i libri, internet e la tv sono vietati; vige uno stato d’allarme e di polizia permanente; l’occhiuto regime cinese tiene il mondo sotto dittatura dopo ripetute epidemie che hanno decimato l’umanità. L’idea del virus è nata a tavolino (in laboratorio?) molto prima della pandemia attuale, ha confidato Hanya al Guardian, proprio lei che si è divertita a riscrivere geografia, politica, costumi e diritti del passato, immaginando, ad esempio, i matrimoni tra omosessuali a fine Ottocento, ma non nel 2093. Strana creatura, il progresso, nelle mani di una cantastorie che a fine romanzo racconta di nuovo le pagine iniziali per chiudere la ragnatela dentro cui il lettore è caduto: “Un uomo aveva vissuto qui, duecento anni prima, e aveva rinunciato alle grandi ricchezze della sua famiglia per seguire la persona che amava fino in California, una persona che – la sua famiglia era sicura – l’avrebbe tradito…”. Ma il finale rimane sospeso: a nessuno è dato conoscerlo. Eppure, “ancora mi ritrovavo a domandarmi cosa fosse successo a quell’uomo: era stato tradito? Oppure ci eravamo sbagliati tutti, e avevano trovato la felicità? Sapevo che era una cosa stupida da pensare, perché non erano nemmeno persone vere”.

I due di cui si favella sono il David e l’Edward del primo libro: uno è lo scapolo d’oro, erede della Bingham Brothers, e l’altro un avvenente quanto truffaldino musicista. Mentre il terzo – qui incomodo – è un Charles pingue, arricchito e corteggiatore scornato. Tornerà alla ribalta, vittorioso, nel secondo libro (e nel terzo), quando – ora è un Charles maturo e ricchissimo avvocato, poi uno scienziato integerrimo – si fidanza con un David spiantato e straniero, tradito dai suoi stessi lineamenti. Migrazioni, California dreamin’, Sud povero, colonialismo, “competizione per i figli”, inettitudine d’artista e crudeltà d’uomo, “problemi nervosi”, diritti omosessuali, peste di Aids, fughe, sradicamento, origini recise, paradisi perduti, vergogna e libertà.

Di libertà parla soprattutto Verso il paradiso perché “l’umanità ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza”, diceva l’analista. La scrittrice però taglia corto: sono tre secoli d’inferno. E il paradiso è sempre altrove: “Quello era il Paradiso di qualcun altro, ma non era il suo. Il suo era da un’altra parte”.

Troppi rintocchi: campane sigillate e l’arcivescovo grida al regime

Come in un romanzo di Guareschi, a Sant’Ulderico a Dolina, una frazione di San Dorligo della Valle, il potere religioso e quello civile se le suonano di santa ragione. Agli abitanti del comune più orientale dell’Italia settentrionale, i timpani sono rintronati fino all’esasperazione, a causa delle campane che martellano l’aria limpida fra il Carso e l’Istria.
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A don Klemen Zalar, invece, il provvedimento del Gip che ha zittito la manifestazione di religiosità parrocchiale ha fatto roteare ben altro: “Sono stato trattato come un criminale, sono arrivati 5 agenti di Polizia a mettere i sigilli. Oggi mi sento come se fossi un Giuda Iscariota”. All’arcivescovo di Trieste, monsignor Giampaolo Crepaldi, la censura ha fatto attivare antichi riflessi condizionati di una terra di confine, dove un tempo dall’altra parte stavano gli jugoslavi. “Si sta sviluppando un clima ostile e discriminatorio verso persone e beni della comunità cattolica che non si sente adeguatamente tutelata da chi di dovere”. “Neanche sotto i regimi autoritari come quello di Tito si sono visti episodi del genere”, ha aizzato gli animi il consigliere regionale della Lega Danilo Slokar. A questo punto il sindaco Sandy Klun si è infilato l’elmetto da pompiere: “Cercherò di riportare la calma a Dolina perché questa è una vicenda decisamente brutta”.

Di sicuro è una vicenda semplice. La gente non ne poteva più delle campane. Ha raccolto firme e tenuto il conto. Almeno 70 colpi di batacchio (azionati da un orologio elettronico) alle 6, a mezzogiorno e alle 20, a cui vanno aggiunti rintocchi ogni quarto d’ora, dalle 7 alle 21, al ritmo di due colpi al primo quarto, quattro alla mezz’ora e 6 al terzo quarto. Di sicuro l’arcivescovo uno spunto serio di riflessione lo ha offerto. “Sul caso si sta ponendo un’enfasi spropositata, considerando ben altre priorità che riguardano drammaticamente il territorio, come la serie di delitti efferati avvenuti in veloce e impressionante sequenza”. A Trieste, una donna è scomparsa ed è stata ritrovata soffocata in due sacchetti di plastica in un bosco. Un 17enne è stato strangolato da un rivale per amore. Uno straniero è morto durante una rapina per piccole dosi di hashish. E pensare che nel 2021 Trieste era stata dichiarata la città più sicura d’Italia, decima al mondo.

Caterpillar chiude la sede di Jesi. Operai occupano la superstrada

“Senza treguanella lotta, il lavoro non si tocca”, è stato lo slogan cantato da circa 200 operai dell’azienda Caterpillar, che ieri hanno occupato per circa un’ora una delle due carreggiate della superstrada SS76 che collega le Marche all’Umbria. La protesta è dovuta alla chiusura dello stabilimento di Jesi della multinazionale statunitense, annunciato lo scorso 10 dicembre. “Non siamo disponibili a fare nessun’altra discussione se non quella per far acquistare la fabbrica”, ha detto Mirco Rota, della Fiom, una delle sigle sindacali con cui i lavoratori si sono confrontati.

Nipote, sei fuori: parola di Francesco Amadori

Il notoimprenditore avicolo Francesco Amadori (quello del claim pubblicitario “Parola di Francesco Amadori”) ha licenziato la nipote Francesca dall’omonima azienda di polli. Secondo quanto scrive l’edizione di Cesena del Resto del Carlino, Francesca (che aveva il ruolo di responsabile della comunicazione) era da tempo in rapporti tesi con il nonno e con il gruppo Amadori di cui è presidente Flavio, suo padre. Il consorzio Gesco, di cui fa parte l’Amadori, ha confermato la conclusione del rapporto lavorativo “per motivazioni coerenti e rispettose dei principi delle regole aziendali”, aggiungendo che “tali regole sono valide per tutti i dipendenti senza distinzione alcuna”.

Addio a Sassoli, oggi a Roma i funerali di Stato

Sono previsti per oggi alle 12, presso la Basilica di Santa Maria degli Angeli di Roma, i funerali di Stato per David Sassoli, esponente ed Pd ed ex presidente del Parlamento europeo morto lo scorso 11 gennaio. Saranno presenti le più alte cariche della Repubblica e d’Europa, mentre all’esterno sarà allestito un maxi- schermo per consentire ai cittadini presenti di assistere al rito funebre. Alla camera ardente, allestita ieri in Campidoglio, erano invece presenti 4mila persone fra amici, giornalisti e politici, in un’atmosfera di commozione generale. Fra queste il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e il premier Mario Draghi, tutti stretti attorno alla vedova e ai due figli dell’uomo, morto a 65 anni. “Era leale, rispettava gli avversari, mi mancherà” ha detto Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, l’ha descritto come un “esempio per la classe politica”. Intanto i carabinieri e la polizia postale hanno avviato un’indagine riguardo le offese e le notizie false subite da Sassoli sui social nelle ore successive al suo decesso.

Sciopero di massa degli insegnanti francesi: “Sul virus regole ingestibili”

Gli insegnanti francesi sono “esasperati”: mentre Parigi difende la sua posizione sulle lezioni in presenza a ogni costo, ieri sono stati i docenti, a bloccare le scuole. La mobilitazione nazionale, a cui hanno aderito anche associazioni di genitori, è già definita storica. Il 75% degli insegnanti era in sciopero, secondo i sindacati. Al centro della protesta, il “caos” dei protocolli sanitari imposti dal ministero dell’Educazione per far fronte all’ondata di Omicron (oltre 360 mila contagi in 24 ore): ne sono cambiati tre in sette giorni dopo il ritorno a scuola dalle vacanze di Natale, il 3 gennaio.

Il ministero ha alleggerito le regole per evitare di chiudere troppe classi: ma, in base agli ultimi dati, più di 10 mila classi sono in quarantena e più di 50 mila contagi sarebbero stati registrati nell’ultima settimana tra gli studenti. Per i docenti, però, le nuove regole sui tamponi e il tracciamento sono “ingestibili”. Chiedono di tornare al protocollo precedente, più facile da applicare ma per loro anche più sicuro: classe chiusa per sette giorni al primo positivo. Chiedono anche mascherine e misuratori di CO2 subito in tutti gli istituti. Bersaglio delle critiche è il ministro Jean-Michel Blanquer, che prima di Natale aveva annunciato il nuovo protocollo per le scuole alla stampa invece di comunicarlo ai presidi e che ha rimproverato chi è sceso in strada: “Non si sciopera contro il virus”. “Basta disprezzo”, gli hanno risposto gli insegnanti sui loro striscioni. I sindacati sono stati ricevuti nel tardo pomeriggio dal premier Jean Castex.

Il Principe Andrea non è più “Sua altezza”: per i veterani è “tossico” e disonora le truppe

Il figlio della regina Elisabetta, il duca di York, il principe Andrea, trascinato nello scandalo del tycoon pedofilo Epstein e della sua amante e complice Ghislaine Maxwell dalla sua accusatrice, Virginia Giuffre, non avrà più gradi militari, né il titolo di “Sua altezza reale”. Lo ha reso noto Buckingham Palace, dopo che la Corte di Manhattan, due giorni fa, ha rifiutato di archiviare il caso contro il reale: per la decisione presa dal giudice Lewis Kaplan, finirà sul banco degli imputati per abusi sessuali commessi nel 2001 contro la Giuffre, quando la donna era ancora minorenne.

È stata però soprattutto una lettera indirizzata alla Regina a far rimanere nude di gradi le spalle di suo figlio: 150 veterani dell’esercito britannico, “intristiti e arrabbiati” dalla vicenda giudiziaria in cui è coinvolto, hanno chiesto che gli fossero ritirati i titoli dell’esercito che non ha mai rispettato: “è ormai troppo difficile non vederlo” dopo che “alti ufficiali lo hanno descritto come tossico che discredita le truppe a cui è associato”. Andrea, sebbene nel 2019 abbia deciso di abbandonare ogni funzione pubblica, rimaneva comunque colonnello di otto reggimenti delle truppe di sua Maestà.

L’immagine del probo reduce di guerra che spesso il 62enne Andrea ha voluto mostrare ai suoi cittadini è completamente distrutta, ma rischiava di infrangersi quella dell’intera dinastia reale se la regnante non avesse ordinato di privarlo dei titoli. Perentorie, le divise hanno ricordato ad Elisabetta: “Se si fosse trattato di qualsiasi altro ufficiale, sarebbe stato inimmaginabile farlo rimanere al suo posto”. I soldati britannici, che “devono obbedire ai più alti standard di onestà e condotta morale”, nella missiva hanno ricordato di sapere che si tratta del “figlio” della Regina (anche il suo preferito, assicurano molti media del Regno Unito) ma Elisabetta è anche “capo dell’Esercito, della Marina e dell’Aviazione” e questi “passi si sarebbero potuti compiere in ogni momento negli ultimi 11 anni”. “Non aspetti più”: con questa frase hanno concluso la lettera alla regnante, che ha evidentemente ascoltato la voce dei veterani, ma non ha esaudito il loro ultimo desiderio: volevano che il principe fosse “congedato con disonore” dall’esercito britannico.

BoJo e il Covid party: anche i Tories vogliono le sue dimissioni

Boris Johnson è davvero bollito, dopo settimane di scandali e l’umiliante ammissione, mercoledì, di aver partecipato lo scorso maggio a un festino alcolico nel giardino di Downing Street in violazione delle misure anti-Covid imposte al resto del Paese?

In teoria sì. Cioè al momento non si vede come possa scamparla, politicamente, ora che ha perso credibilità e consenso sia nel Paese in generale che fra i suoi elettori (i Tories sono 10 punti sotto il Labour nei sondaggi elettorali) che nel suo stesso partito. Ma il problema, lo abbiamo anticipato giorni fa, è che nel Regno Unito se si dimette il primo ministro non si va a elezioni anticipate: si cerca un sostituto interno. A sparargli contro chiedendo apertamente le dimissioni sono i Conservatori scozzesi, che però nella Scozia a traino indipendentista non se la passano benissimo: un fedelissimo di Johnson, il potente Jacob Rees Mogg, ieri li ha affossati definendo il loro leader Douglas Ross “un peso piuma”.

I pesi massimi Michael Gove, Sajid Javid e Nadine Dorries si sono spesi pubblicamente a favore di Johnson. Più sfumata la posizione di uno dei due candidati alla successione, il brillante ministro delle Finanze Rishi Sunak, che ha lasciato passare ore prima di un tweet freddino in cui riconosce che le scuse erano necessarie e dichiara di aspettare i risultati dell’inchiesta sui fatti. L’altra primo ministro in pectore, il responsabile degli Esteri e vicepremier Liz Truss, ha dichiarato di sostenere Johnson al 100%, ma il suo è un profilo indigesto anche a buona parte del partito.

Intanto Johnson è ulteriormente azzoppato dalla diagnosi di positività al Covid di un familiare: può continuare a lavorare, ma deve è costretto a cancellare visite e incontri previsti nella sua agenda di leader del governo. Un bene o un male, visto il disgusto che il primo ministro provoca al momento?

Il processo interno per sfiduciare il premier prevede almeno 54 richieste di dimissioni. Per ora sono solo 4, più, il Telegraph tiene il conto, altri 20 peones favorevoli. I pezzi grossi, appunto, a vari livelli di calore e convinzione, hanno espresso supporto, e questo potrebbe regalare a Johnson altro tempo per restare al suo posto, anche se sotto le critiche. Ma è una situazione che lo rende sempre più debole e ricattabile.

I pretoriani di Macron furono pagati “in nero”

In piena campagna per le Presidenziali, a meno di tre mesi dal voto, il giornale online Mediapart riapre un caso che risale al 2016-17, cioè alla prima campagna elettorale di Emmanuel Macron che lo ha portato all’Eliseo. Nel 2019, un rapporto ministeriale aveva rivelato che degli agenti del servizio di sicurezza dell’allora candidato di En Marche! avevano prestato servizio “in condizioni illegali”: le loro remunerazioni, per diverse migliaia di euro, erano state versate in nero, sfuggendo al conteggio della Commissione per le spese di campagna. All’epoca era stata aperta un’inchiesta ma questa, sostiene Mediapart, documenti e testimonianze alla mano, è stata insabbiata.

Cinque anni dopo, Macron, che non è ancora ufficialmente candidato, è dato vincente al primo turno di aprile da tutti i sondaggi, tallonato da Valérie Pécresse e Marine Le Pen. Ma un affaire che sembrava dimenticato lo rincorre. Ancora una volta si fa il nome di Alexandre Benalla, l’ex braccio destro di Macron di cui abbiamo fatto la conoscenza nell’estate 2018, quando Le Monde pubblica il video in cui si vede il giovane responsabile della sicurezza dell’Eliseo picchiare dei manifestanti durante il corteo del 1º maggio a Parigi. Nel frattempo il Benallagate è diventato un caso tentacolare e l’ex monsieur Securité di Macron è stato condannato per quelle violenze e altri reati, tra cui l’uso illegale di passaporti diplomatici. Nel 2016, Benalla, che aveva 25 anni, gestiva la sicurezza dei meeting del candidato Macron, tra cui quello del 10 dicembre 2016 alla Porte de Versailles che aveva riunito 15 mila persone. Nel luglio 2019 sempre Le Monde aveva rivelato che En marche! aveva dichiarato 16.500 euro di spese per la sicurezza di quel meeting versati alla VIP Sécurité, una grossa società del settore, che aveva fornito una quarantina di professionisti. In realtà, Benalla aveva fatto appello anche ad un’altra piccola società parigina, la Tago Sécurité, che aveva fornito una decina di uomini. Ma nel rendiconto di spesa ufficiale non figura nessun versamento a nome della Tago Sécurité. Mediapart ci dice ora che sul caso ha indagato un ufficio del ministero dell’Interno, il Consiglio nazionale delle attività private di sicurezza. Il Cnaps aveva avuto una soffiata da un informatore anonimo per il quale una squadra di agenti privati era intervenuta in modo irregolare in uno dei più grossi meeting di campagna di Macron, quello del 17 aprile 2017 a Bercy. L’inchiesta si era concentrata soprattutto intorno a Fortunato Basile, detto Tino, attivo in Costa Azzurra, conoscenza di lunga data di Benalla: i due avevano lavorato insieme sulla sicurezza di un oligarca russo (quello dei “contratti russi” è un altro dossier giudiziario che pesa su Benalla). Nel settembre 2020, Basile aveva riconosciuto con gli inquirenti che addetti alla protezione avevano lavorato per la campagna di Macron senza contratto e pagati in liquidi: “Era Alex a supervisionare il tutto”. Mediapart pubblica delle foto del comizio di Macron a Marsiglia del 1º febbraio 2017 in cui sono presenti, accanto al candidato, Benalla e Basile. Quest’ultimo ha fatto un altro nome: secondo lui, l’uomo che “consegnava di persona il denaro” è un certo Antonio M., un dirigente di ISB, una società belga che però non sarebbe autorizzata a lavorare in missioni di sicurezza in Francia. Alcuni addetti alla sicurezza, interrogati dal Cnaps, hanno ammesso di aver partecipato a comizi ed eventi della campagna di Macron come “volontari”, ma di aver poi ricevuto sotto banco qualche centinaio di euro. Le informazioni del Cnaps erano state fatte risalire alla Procura di Grasse, ma “l’inchiesta dorme da più di due anni e Fortunato Basile non è neanche mai stato interrogato”, scrive Mediapart. Per il giornale questa è “un’inchiesta proibita“.