L’America Verde contro Trump l’inquinatore

L’America verde ha uno stimolo in più per mandare a casa, nell’Election Day, il 3 novembre 2020, Donald Trump: se il magnate presidente non sarà rieletto, ci sarà ancora modo di impedire che gli Stati Uniti abbandonino l’Accordo di Parigi anti-cambiamento climatico.

Ieri, l’Amministrazione Trump ha formalmente comunicato alle Nazioni Unite che gli Stati Uniti intendono lasciare l’intesa, conclusa nel 2015 e sottoscritta dall’Amministrazione Obama. Il passo avrà però effettivo soltanto fra un anno, quindi il giorno dopo le elezioni presidenziali nell’Unione. Per Trump, un’incognita in più, anche se nessuno dei candidati alla nomination democratica – sono ancora una quindicina – è un ambientalista dichiarato e alza il vessillo anti-riscaldamento globale. Ma tutti erano favorevoli a che gli Usa restassero nell’Accordo di Parigi. Ci si chiederà come mai Trump si sia sganciato solo ieri, dopo che, dall’inizio del suo mandato, ha sempre detto che gli Stati Uniti non avrebbero rispettato l’intesa. Ieri, in realtà, era il primo giorno utile per uscire dall’Accordo, che impegna circa 200 Stati a ridurre l’effetto serra, cioè le emissioni di anidride carbonica, e ad aiutare i Paesi più poveri a far fronte ai problemi legati al riscaldamento globale.

Una storia che si ripete: nel 1997 Bill Clinton aderì al Protocollo di Kyoto, precursore dell’Accordo di Parigi, ma il suo successore, George W. Bush, se ne ritirò. La sensibilità ambientale sta però crescendo negli Usa, dove da giorni si susseguono proteste sul Campidoglio di Washington e arresti di personalità eccellenti. Come Jane Fonda, che al New York Times dice: “Che senso avrebbe essere la celebrità, se non puoi farne una leva per smuovere qualcosa di importante?”. La mossa di Trump, scontata, impone ora ai Paesi aderenti di capire come l’intesa possa sopravvivere, ed essere efficace, dopo la defezione della più grande economia mondiale: si tratta di compensare l’uscita degli Stati Uniti, mitigata dai comportamenti responsabili di molti Stati e di molti settori economici dell’Unione, come quello dell’auto. Una soluzione sarebbe che i grandi inquinatori, come la Cina e l’India, accettino di fare di più. Segnali positivi vengono da Shanghai, dove i presidenti cinese Xi Jinping e francese Emmanuel Macron impegnano Cina ed Ue a essere leader nella lotta al riscaldamento globale, firmano un patto per l’irreversibilità dell’Accordo di Parigi e preannunciano nuovi impegni. Diffuse le critiche: Mosca accusa Trump di “minare” l’intesa. Solo in Brasile il presidente omofobo e pronto a monetizzare l’Amazzonia, Jair Bolsonaro, condivide la scelta Usa.

L’Ue dichiara rammarico, ma anche fiducia: “L’uscita di uno dei principali partner non ci cambia niente, perché tutti gli altri restano impegnati. Andiamo avanti con il lavoro per la Cop25” di Madrid, sede di risulta, dopo la defezione di Santiago del Cile. “L’intesa ha fondamenta forti. Le sue porte rimarranno aperte: speriamo che un giorno gli Stati Uniti le varchino di nuovo”. Fronte impeachment sul Kievgate: l’ambasciatore Usa alla Ue Gordon Sondland ha cambiato ieri la sua testimonianza alla Camera: disse al governo ucraino che gli aiuti militari Usa erano subordinati ad una dichiarazione pubblica sull’avvio di indagini contro i Biden, gli avversari democratici di Trump a Usa 2020. L’inviato Usa in Ucraina Kurt Volker ha confermato: l’avvocato di Trump, Giuliani fece pressioni su Kiev.

Adiós Podemos: elezioni, Sánchez sterza al centro

È breve, ma intensa la quarta campagna elettorale spagnola in quattro anni. Appena iniziata e già in dirittura d’arrivo. Madrid, infatti, tornerà alle urne già domenica prossima dopo che il vincitore della scorsa tornata di aprile, Sánchez, nonché premier uscente, non è riuscito a ottenere la fiducia per il suo governo. Questa volta i socialisti, dati in calo dai sondaggi dal 28 al 27% – tranne da quello “organico” al partito che li vede volare di 10 punti rispetto alla primavera – provano a prendersi il centro, orfano di Ciudadanos in crollo verticale per eccesso di populismo e arroganza.

Il 6% degli elettori arancioni pare non aver perdonato al leader Albert Rivera di aver snobbato un’alleanza con Sánchez e questo lo porterebbe dal 15,9% al 9. Ma, peccato per il Psoe, parte dei delusi sembrano tornare all’ovile dei Popolari, dati in crescita per la prima volta in tre anni dal 17 al 21%. A premiare il partito del divisivo erede di Mariano Rajoy, Pablo Casado, è proprio la polarizzazione del voto – solo a destra – che gli farebbe sfiorare l’ebrezza di quota 100 seggi. Il resto degli elettori conservatori, invece, non si accontenta del centro. Per loro e per l’estremismo c’è Vox, che dopo la falsa partenza di aprile – quando tutti temevano un eventuale exploit dell’ultradestra sovranista anche nella Spagna rossa – potrebbe fare il colpaccio, occupando fino a 40 seggi dai 14 che gli erano spettati alle scorse elezioni. Questo potrebbe rinforzare quella coalizione di destra ben salda già in Andalusia o al governo della Comunità di Madrid, dove il tripartito di destra non conosce intoppi, o quasi. Niente di nuovo a sinistra, invece dove, dalla scissione di Podemos degli ormai fratellastri Iglesias-Errejon quest’ultimo ha fatto nascere “Mas Pais” dopo il locale “Mas Madrid”, un partito di nicchia destinato a contare sulle dita di una mano i seggi a las Cortes. Con pochi euro e tante intenzioni, ma confuse, a parte quella chiara di fare da stampella ai socialisti di Sánchez, infatti, “i più” non sembrano convincere alle nazionali quanto alle amministrative. Oltre a partiti e coalizioni, poi, nel dibattito elettorale sono tornati fuori i temi, quelli dolenti: dall’economia in frenata che certo non aiuta chi è al governo, alla questione catalana a fare – anche e soprattutto questa volta, dopo la condanna dei leader indipendentisti e le proteste permanenti a Barcellona – da elefante nella stanza. Nell’agone tv a cinque di lunedì, (assente Errejon perché nuovo in Parlamento), infatti, è stata la Catalogna a scatenare le contraddizioni e a polarizzare ancora di più, se possibile, le posizioni. Le dichiarazioni si sono susseguite senza troppe sfumature. Il leader di ispirazione franchista di Santiago Abascal (Vox), che per la prima volta dalla fine della dittatura ha avuto il suo pulpito in prima serata dal quale esprimersi, seppure con evidente disagio dei conduttori, ha promesso di mettere fuori legge i partiti indipendentisti, ridare competenze al governo centrale e combattere la “dittatura progressista”. Come da copione.

Dal fronte opposto, Iglesias ha rispolverato il benaltrismo e, oltre all’inesorabile richiamo al buon senso per dirimere la questione catalana, ha ricordato che l’unità di Spagna non è solo affare di Barcellona, “ma anche della signora dell’Estremadura che non può arrivare a Madrid per mancanza di treni”. Sullo sfondo, l’ennesima giornata tesa: la famiglia reale e l’erede al trono Leonor – che ha pronunciato parte del discorso in catalano, balsamo per le orecchie degli indipendentisti repubblicani – in visita a Girona per il Premio “principessa”, sono stati snobbati dalla sindaca di Barcellona, Ada Colau, e dalla Generalitat. Intanto Sánchez stando ai telespettatori è uscito non perdente dal dibattito. Ma da qui a riuscire a formare un esecutivo, la strada è troppo breve. I maligni, vedi Errejon, pensano già a febbraio, sperando di avere “più” voti.

Mormoni, la strage per l’acqua

Avrebbero chiesto protezione da parte del governo federale, protezione che però non sarebbe mai arrivata. Così la famiglia mormona LeBarón è stata decimata dai narcos lunedì notte: tre donne uccise e sei bambini (tra cui due gemelle di un anno), oltre ad altri sei feriti. Per la mattanza il ministro della Sicurezza messicano ha annunciato l’arresto di tre persone, in un rimpallo di responsabilità tra governo centrale e istituzioni locali. Intanto sui social è diventato virale il video di un’automobile carbonizzata. “Hanno sparato contro Nita e quattro dei miei nipoti, e li hanno bruciati”, dice una voce maschile, in inglese, spezzata dal pianto. Nelle immagini un’automobile ridotta in cenere, una fiamma ancora viva all’interno, buchi di pallottole nello scheletro dell’auto. Sullo sfondo, le montagne miti dello Stato di Chihuahua, nel nord del Messico.

Con loro c’erano altre due automobili di donne con i loro figli. “Alcuni bambini sono riusciti a scappare e a raggiungere il ranch, che si trova a 15 km, e hanno avvisato del massacro”, ha affermato Julián LeBarón, uno dei familiari, che ha presentato alla stampa le testimonianze dei bambini sopravvissuti.

Secondo la ricostruzione dei nipoti di LeBarón, una delle automobili ha bucato una gomma; i parenti sulle altre due sono tornate al vicino ranch per cercarne una di scorta, mentre raggiungevano nuovamente l’auto in panne hanno visto da lontano un fumo nero e si sono preoccupati; era l’auto carbonizzata di Ronhita LeBarón e dei suoi quattro figli. A loro volta le due donne e i loro bambini sono state accolte con una raffica di pallottole. Una neonata è stata per otto ore a fianco della madre morta; uno dei suoi cugini ha una pallottola conficcata nella schiena, ma è fuori pericolo. I LeBarón vivono nella colonia che porta il loro nome, una comunità mormona di circa 5.000 persone fondata nel 1942 da uno statunitense che non accettava la proibizione della poligamia. Uno di loro, Julián LeBarón, è un attivista politico noto in Messico soprattutto dal 2011, quando si unì al Movimento per la Pace con Giustizia e Dignità. Sostenuto dal poeta Javier Sicilia, il movimento radunò migliaia di cittadini, in particolare vittime dirette della violenza, che denunciavano come la “guerra al narcotraffico” lanciata nel 2006 dall’ex presidente Felipe Calderón fosse in realtà una guerra contro i civili: da allora in Messico si sono registrati più di 200 mila morti, 40 mila desaparecidos, una media di 10 femminicidi al giorno e l’impunità copre il 99% dei casi. Julián LeBarón entrò a far parte del Movimento dopo l’omicidio di suo fratello Benjamín, al seguito del quale decise di organizzare la comunità mormona, di cui è leader, per esigere giustizia. Julián LeBarón è stato uno dei primi a trovare i cadaveri delle cugine e dei nipoti.

In un’intervista con Aristegui Noticias, ha affermato che tutti i messicani che viaggiano per le strade del paese corrono il rischio che ha vissuto la sua famiglia e ha attribuito la responsabilità del massacro al governo di Andrés Manuel López Obrador, incapace di proteggere i cittadini. LeBarón ha affermato che la comunità mormona è pronta a cercare da sola i responsabili del massacro per capire quali sono le autorità che proteggono i criminali. “Se è necessario chiederemo aiuto agli Stati Uniti”, ha affermato Julián LeBarón, che come la maggior parte dei suoi parenti gode di doppia cittadinanza. E presto è arrivata la risposta di Trump, che si è dichiarato disposto a dare una mano al Messico per “ripulirlo da questi mostri”. Il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador ha ringraziato, ma ha risposto che agirà da solo, malgrado la montagna di critiche che sommergono la sua strategia di sicurezza da quando, meno di tre settimane fa, ha arrestato e poi rilasciato Ovidio Guzmán, figlio del Chapo e boss del Cartello di Sinaloa. “La zona dell’attacco è contesa tra vari gruppi criminali”, ha affermato ieri in conferenza stampa Alfonso Durazo, ministro della Sicurezza, che ha azzardato l’ipotesi – già utilizzata in altri casi, come quello di Ayotzinapa – che un cartello criminale abbia confuso le vittime con un gruppo rivale. Oltre alla lotta di Julian al narcotraffico, anche altre ragioni, in realtà potrebbero aver portato i narcos all’eccidio della famiglia, tra cui una vecchia disputa sull’uso di un pozzo d’acqua che si trovava nella zona e che, secondo i narcotrafficanti sarebbe di loro proprietà. Dal punto di vista criminale, l’area è contesa fra la Linea, vicina al cartello di Jalisco, e i fedeli a Sinaloa, che si fanno chiamare Los Chapos in onore del boss El Chapo Guzman, condannato a vita negli Stati Uniti.

Da Gentilini a Renzi, quante balle sul caso Balo

È l’Olimpiade dei cretini. Col record del mondo di cretinismo battuto a ogni ora in un crescendo degno di miglior causa. Perché diciamolo: dopo la memorabile dichiarazione del capo ultrà del Verona, nonché neofascista, Luca Castellini (“Balotelli è italiano perché ha la cittadinanza italiana, ma non potrà mai essere del tutto italiano. È lui che ha provocato noi”), l’asticella dell’idiozia non sembrava facilmente superabile.

Invece no. Dapprima ci si è messo l’Hellas Verona che fingendo un improbabile disappunto per i buu piovuti domenica sul capo di Balotelli (ma non aveva battuto ciglio, il club veneto, quando i suoi tifosi, festeggiando la promozione in Serie A avevano intonato il coro: “Siamo una squadra fantastica / a forma di svastica / che bello è / allena Rudolf Hess”), ha tentato di elemosinare dal giudice sportivo la pena minima annunciando il gesto eclatante: il Daspo di 10 anni dato al camerata Castellini che ha “espresso valori non condivisi” dal club. La “collaborazione” (sic) ha fruttato al Verona la più ridicola delle pene: non lo stadio chiuso, non la curva chiusa, ma solo il “settore poltrone Est” (quattro o cinque seggiolini, per capirci) interdetto al pubblico il 24 novembre, giorno di Verona-Fiorentina. Tutto da ridere se si pensa che l’ultrà colpito da Daspo era in realtà già sotto Daspo fino al 2022 per altre eroiche imprese compiute in passato.

Ma questa è un’Olimpiade, dicevamo. Aperta anche a outsider e comprimari come il consigliere comunale di Verona Andrea Bacciga, lista di centrodestra Battiti, che con una mozione ha chiesto al sindaco di agire legalmente nei confronti di Balotelli per aver diffamato e infangato il buon nome di Verona (tutto vero, non è uno scherzo) o come l’ex sindaco “sceriffo” di Treviso, Giancarlo Gentilini, intervenuto a favore del nazi-ultrà con una dichiarazione destinata a passare alla storia: “Credo che il Padre eterno abbia creato le cinque razze, che sono tutte sullo stesso piano. Queste razze sono simboleggiate dai cinque cerchi delle olimpiadi (testuale, ndr). E allora perché si penalizza un personaggio che non è di questa razza e fa parte di un altro continente?”. Per chi non l’avesse capito, l’intento di Gentilini era quello di avvalorare la tesi di uno strisciante “razzismo al contrario” che colpirebbe i bianchi.

Premio assegnato? Macché. Mentre la Procura di Verona annunciava l’apertura di un’inchiesta per “discriminazione razziale” nei confronti di Balotelli, nell’arena irrompevano all’unisono i due indiscussi Supereroi, Matteo Renzi e Matteo Salvini, come dire Maciste contro Ercole. Il primo, su Twitter, riusciva nell’impresa di definire nientemeno che “coraggiosa” la decisione del Verona di allontanare l’ultrà neonazista (“Complimenti al Verona per il coraggio e la dignità. Orgoglioso di tifare gialloblù come squadra gemellata”, scriveva alludendo al gemellaggio Hellas-Fiorentina; con scarsissimo tempismo, visto che il Club Viola di Budapest aveva appena chiesto alla Fiorentina la rottura della disonorevole partnership), mentre il secondo, Salvini, mettendo come sempre insieme pere e mele dichiarava: “Vale più un operaio dell’Ilva che dieci Balotelli. Non abbiamo bisogno di fenomeni”. Sic.

In attesa di vedere le patrie galere spalancarsi per accogliere il malfattore reprobo Mario Balotelli, dall’Arena del pallone italico è tutto. A voi studio.

“Correte, stiamo morendo”. La strage di vigili del fuoco

“Qui stiamo morendo. Vi prego venite subito, sto svenendo… ho perso un occhio. Non si può morire così a 31 anni. Vi prego, se mi va male dite ai miei che gli ho voluto bene”. Il carabiniere Luca Trombetta è sommerso dalla macerie, intorno a lui si sentono le urla laceranti dei feriti. Ma Luca trova la forza di chiamare il 112. “Stai sveglio, non cedere!”, gli urla il collega.

È l’una di ieri notte quando a Quargnento un’esplosione uccide tre vigili del fuoco: Matteo Gastaldo (46 anni), Marco Triches (38) e Antonino Candido (32). Altri due vigili sono feriti insieme con Trombetta. Erano intervenuti in una cascina per una banale fuga di gas. Invece si trattava di un gesto doloso: un timer e un innesco hanno fatto esplodere due bombole. La prima a mezzanotte, l’altra un’ora dopo. A prima vista un attentato nello stile dei terroristi mediorientali che uccidono i soccorritori. Ma sarebbe un gesto folle di vendetta per questioni patrimoniali o beghe personali.

È mezzanotte quando i vigili intervengono chiamati da un vicino che ha sentito un primo botto, di lieve entità. Entrano in uno dei due fabbricati che compongono la lussuosa cascina disabitata di Gianni Vincenti. Trovano due bombole intatte e un timer e li mettono in sicurezza. Ma appena aprono la porta del secondo fabbricato, nonostante tutte le precauzioni, esplode tutto. L’edificio è ridotto in polvere. Massi di quintali, finestre, travi vengono sparati a decine di metri di distanza. Il criminale che ha organizzato tutto poche ore prima aveva sistemato le bombole e aperto la valvola del gas collegandola a un timer. Per avere il tempo di andarsene. Ma qualcosa non ha funzionato: esplode solo una bombola. Le altre continuano a far uscire il gas. Fino al secondo scoppio. “L’hanno sentito fino a Tre Ville”, racconta Giuseppe Dall’Erba, il vicino. Tre Ville significa lontano, lontanissimo, in questo mondo di campagna, terra e vacche.

Ora le indagini sono in mano al Reparto Operativo dei Carabinieri guidato da Giuseppe Di Fonzo. E per primo hanno sentito lui: Vincenti, il proprietario. Che si aggirava tra le rovine giurando e spergiurando: “È stato qualcuno che mi odia. Ma non so chi… non ho idea di chi possa volermi tanto male da distruggere la mia casa e uccidere dei poveri cristi”. E di fronte ai dubbi di chi ascolta aggiunge: “Qualcuno dirà che sono stato io. Follia”. Intanto il procuratore Enrico Cieri scandaglia la vita di quest’uomo di 55 anni: i mille lavori, prima pizzaiolo, poi allevatore di cavalli, infine l’azienda informatica. Luci e ombre, come l’incendio che mesi fa era stato appiccato accanto alla cascina. Poi le liti con il figlio che lo aveva denunciato perché si sentiva tormentato dal padre. La Prefettura aveva tolto a Vincenti le armi che deteneva (per uso sportivo). Ieri mattina padre, madre e figlio sono stati sentiti dagli investigatori: “Avevamo litigato, ma adesso andava meglio”, ha raccontato il giovane. Nessuno dei tre è indagato. C’è poi l’assicurazione sulla cascina, il sogno di Vincenti, diventato un incubo: l’aveva messa in vendita per 700mila euro. Ma bisogna anche scoprire chi siano i nemici di quest’uomo burbero, poco amato dai compaesani e da chi ha lavorato per lui. Il padre di Vincenti lo descrive così: “Non so cosa faccia, ci parliamo poco”. Ora la ricerca della verità è affidata alle indagini: dalle celle telefoniche e dalle telecamere lungo la strada forse si scoprirà se qualcuno si è avvicinato alla cascina prima degli scoppi. Ma non è terrorismo né, pare, mafia. È una misera storia di soldi o un odio di provincia, qui dove, racconta Dall’Erba, “gli agricoltori vivono peggio delle bestie… per un quintale di grano ti danno 17 euro”. Doveva finire con un botto, ma ha distrutto tre vite. Quei ragazzoni che nelle foto su Facebook sorridono pieni di forza. E che avevano dedicato la vita a salvare gli altri: vigili del fuoco.

Appena assunti e già licenziati: la crisi dei lavoratori Caf Italia

In primavera assunti e in autunno licenziati. La sfortuna di 233 operai è stata quella di ritrovarsi, senza colpe, in mezzo a una disputa giudiziaria su una gara pubblica di Trenitalia per le manutenzioni dei Frecciarossa. A ottenere l’appalto, a fine 2018, è stata in prima battuta l’azienda spagnola Construcciones y Auxiliar de Ferrocarriles (Caf), che ha subito dopo reclutato e formato quei lavoratori. Il 3 ottobre di quest’anno, però, la Hitachi Rail ha vinto un ricorso al Tribunale amministrativo del Lazio, e ora quella commessa è nelle sue mani. Così, pochi giorni fa, la Caf ha avviato la procedura per mandare a casa tutte quelle persone che aveva preso solo per far fronte a quel servizio. E nel frattempo la Hitachi non ha dato alcuna disponibilità ad assorbirli.

In pratica, sono a un passo dalla disoccupazione. Oggi ci sarà un incontro con la Caf e la Fiom ha chiesto “alle istituzioni, a Trenitalia e all’aggiudicataria di trovare soluzioni alternative al licenziamento”. Il guaio deriva da come sono concatenati gli eventi. La Hitachi era la titolare uscente di quell’appalto; si tratta sostanzialmente del servizio di manutenzione dei convogli ad alta velocità Etr 500, da svolgersi nei cantieri delle principali stazioni italiane. All’inizio del 2018 Trenitalia ha avviato l’iter per individuare la nuova azienda e al bando si sono appunto presentate la Hitachi e la Caf. L’offerta di quest’ultima è quella che ha convinto maggiormente la commissione che ha deliberato in favore degli spagnoli. Nel corso di quest’anno, oltre 200 lavoratori sono stati assunti e hanno frequentato i corsi per ottenere le certificazioni necessarie. La Hitachi ha contestato la regolarità della gara e si è rivolta ai giudici amministrativi. Tra i rilievi, c’è proprio quello relativo al personale: la Caf avrebbe dovuto dimostrare di avere addetti qualificati per quelle mansioni al momento della candidatura, non in seguito. Invece, come detto, quegli operai sono stati arruolati e formati dopo la vittoria, e tra l’altro una parte di questi veniva proprio dai subappalti di Hitachi, come spiega Susanna Felicetti dalla Fiom Roma e Lazio. Il Tar del Lazio ha quindi ribaltato l’esito della gara. In attesa del giudizio, Hitachi ha continuato a svolgere il servizio con i suoi lavoratori. Ecco perché oggi non ha bisogno di riassorbire i 233 transitati in Caf.

Il rischio, insomma, è di innescare una guerra tra poveri. O vanno a casa quelli della Caf, oppure si rischia un esubero in Hitachi. I sindacati dei metalmeccanici sperano ci sia la terza via: “Caf sta partecipando a tante gare – fa notare Felicetti – e potrebbe mantenerli per reimpiegarli in vista di nuovi appalti”.

La politica tuteli davvero l’autonomia della ricerca

Nella legge di Bilancio in discussione al Senato, il governo ha previsto all’articolo 28 la creazione di una nuova Agenzia Nazionale della Ricerca (Anr). La misura era stata annunciata dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte qualche settimana fa in un discorso tenuto al Cnr. Prima di lui l’aveva annunciata il precedente ministro leghista del ministero dell’Istruzione Marco Bussetti; era stata prevista nel contratto di governo gialloverde. Ma figurava anche nel programma elettorale 2018 del Pd. E ne aveva auspicato l’istituzione perfino l’Anac di Raffaele Cantone.

Ma che cosa è e quali sono i compiti dell’Agenzia nazionale della ricerca che riesce a mettere d’accordo quasi tutte le forze politiche presenti in parlamento? Si tratta di una agenzia che “promuove il coordinamento e indirizza le attività di ricerca di università, enti e istituti di ricerca pubblici verso obiettivi di eccellenza, incrementando la sinergia e la cooperazione tra di essi e con il sistema economico-produttivo, pubblico e privato, in relazione agli obiettivi strategici della ricerca e dell’innovazione nonché obiettivi di politica economica del governo funzionali alla produttività e alla competitività del Paese”.

Chi potrebbe mai opporsi alla creazione di una Agenzia che promuove efficienza, eccellenza, sinergia, cooperazione, innovazione, produttività e competitività? Tanto più che l’Agenzia, a regime, distribuirà 300 milioni annui di finanziamenti alla ricerca e, inoltre, si presenta come una struttura “agile”, composta da 1 direttore e 8 membri del Comitato direttivo che con le loro decisioni saranno in grado di evitare sprechi di risorse, mancanza di coordinamento, consentendo la centralizzazione delle decisioni in tema di finanziamento alla ricerca.

La notizia della creazione dell’Agenzia ha però creato allarme nel mondo della ricerca. Infatti, leggendo l’articolo della legge di Bilancio, si scopre che il presidente dell’Anr è scelto e nominato direttamente dal presidente del Consiglio e ben 5 membri su 8 del direttivo sono sotto il controllo politico diretto del governo poiché nominati da vari ministri. L’Anr rischia di realizzare il sogno, forse bipartisan, di porre sotto il controllo diretto del governo la ricerca e le università.

Ma c’è davvero da temere che il presidente del Consiglio e i suoi ministri non sappiano scegliere “persone di elevata qualificazione scientifica, con una profonda conoscenza del sistema della ricerca”? Per rispondere a questa domanda, è bene ricordare che Donald Trump ha chiesto agli scienziati che lavorano per il governo di omettere l’espressione “cambiamento climatico” dai loro report. Il parere degli scienziati è merce preziosa per chi governa, che non ama essere contraddetto da pareri autorevoli, che possono essere amplificati dai media e dagli avversari politici.

I temi di ricerca scottanti per le ricadute politiche spaziano da quelli socio-economici, come le politiche economiche e il diritto del lavoro, a quelli che toccano la salute delle persone, come gli studi sugli inquinanti, sui vaccini e sui farmaci in generale. Ad essere in gioco non sono i privilegi di una casta di topi di biblioteca o di laboratorio, ma il diritto dei cittadini a ottenere pareri autonomi su temi da cui dipendono benessere e salute, ma anche la capacità di esercitare un voto libero e informato. Quando la lotta politica è senza esclusione di colpi, la legislazione dovrebbe mettere in sicurezza l’autonomia della ricerca scientifica piuttosto che consegnarla nelle mani del governo in carica, di qualsiasi colore esso sia. Un problema di principio che travalica i colori politici.

Non è la prima volta che i finanziamenti alla ricerca coprono, nemmeno tanto velatamente, il tentativo di mettere i professori e i ricercatori sotto una qualche forma di controllo dell’esecutivo. Ci ha più volte provato, e talvolta vi è riuscito, il governo Renzi. Dopo anni di organici calanti, le “Cattedre Natta” avrebbero inaugurato una nuova categoria di super professori, scelti direttamente dalla presidenza del Consiglio. Anche il progetto Human Technopole era stato contestato perché i beneficiari erano un Istituto di ricerca, l’Iit, e nuclei di esperti selezionati direttamente dal potere politico. Va anche detto che non mancano gli scienziati pronti a mettersi a disposizione in cambio di poltrone e finanziamenti.

Eppure, c’è anche un tessuto di professori e ricercatori che ha percepito immediatamente il rischio incombente quando il nostro blog Roars ha segnalato l’anomalia delle procedure di nomina dei vertici della nuova agenzia, nel segno di una centralizzazione senza adeguati contrappesi che non trova riscontro nelle vicine Francia e Germania. Paradossalmente, tra coloro che hanno raccolto l’allarme c’è stato lo stesso ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, che, nemmeno fosse all’opposizione, in un post su Facebook dichiara: “Faremo gioco di squadra col Parlamento per modificare queste norme”. Per quanto possa sembrare incredibile, l’articolo di legge sarebbe stato “approntato da un paio burocrati in un fine settimana”, “senza che [il ministro] sia stato neppure coinvolto”. “Basta manine!”, ha twittato Fioramonti. In attesa dell’esame delle impronte digitali, toccherà al Parlamento evitare l’ennesimo attacco all’articolo 33 della Costituzione.

Spot ingannevoli di Eni, le accuse dell’Antitrust

Si mette male per Eni la procedura aperta all’Antitrust per pubblicità ingannevole. La fase istruttoria, che equivale a quella delle indagini in campo penale, ha trovato conferme alle denunce presentate a febbraio dal Movimento difesa del cittadino, Legambiente ed European federation of transportation and environment: la pubblicità del carburante Eni Diesel+ conteneva messaggi “suscettibili di indurre in errore i consumatori”. I comportamenti scorretti di Eni sarebbero iniziati nel 2016 e, secondo quanto riscontrato dal provvedimento istruttorio dell’Antitrust, sarebbero ancora in corso (“con cartellonistica e materiale pubblicitario diffuso presso le stazioni di riferimento Eni Station”), nonostante l’azienda abbia assicurato il contrario.

Eni ha presentato per anni questo Diesel+ come quasi miracoloso: inquina meno, garantisce più potenza ma anche minore usura, e ovviamente risparmi, con minori consumi. Movimento difesa del cittadino e le altre due associazioni hanno contestato i toni trionfalistici, ma non è facile sfidare l’Eni. L’istruttoria Antitrust ricostruisce la mobilitazione imponente di esperti che il gruppo guidato da Claudio Descalzi ha schierato a difesa dei propri spot, incluso il Cnr, il Consiglio nazionale della ricerca. Sulla riduzione dei consumi del 4% grazie a Diesel+, l’Eni riesce a tenere il punto, anche se il beneficio c’è soltanto in condizioni ottimali. Piccolo dettaglio: per ragioni non chiarissime, Eni fa i test con un prodotto diverso da quello che dovrebbe difendere, BluDiesel Tech, ma assicura che non cambierebbe niente con Diesel+. La riduzione delle emissioni è garantita “fino al 40%”, cioè da zero a 40. E nei test condotti dal Cnr per conto dell’Eni, alcuni modelli di auto risultano avere cali di alcuni parametri intorno a quella cifra. Ma non sembra possibile generalizzare e quanto ai temuti Nox, scrive l’Antitrust, “non si sono ottenuti significativi risultati” diversi da altri carburanti analoghi. Quanto alla riduzione dell’impronta ambientale misurata in termini di anidride carbonica risparmiata nell’intero processo produttivo, è quasi un atto di fede: c’è un componente che Eni chiama Green Diesel, prodotto dalla bioraffineria di Venezia, che dovrebbe ridurre la carbon intensity usando come materia prima olio di palma e altri prodotti di scarto. Le associazioni contestano: usare olio di palma incentiva le piantagioni necessarie a produrlo e l’impatto ecologico complessivo è negativo.

Proprio questo Green Diesel è uno degli aspetti contestati dall’istruttoria Antitrust: i consumatori, si legge nel documento, vengono indotti a confondere il carburante (Diesel+) con il suo ingrediente (Green Diesel). Gli altri parametri indicati con tanta precisione negli spot Eni si rivelano poi vaghi o contestabili o soggetti a una lunga serie di prerequisiti che rendono difficile sostenere che l’impatto sia così positivo come l’azienda sostiene. L’Eni ha tempo fino a metà dicembre per produrre altra documentazione per dimostrare di non aver ingannato i consumatori. Poi, a meno di ulteriori rinvii, prima di Natale dovrebbe arrivare la decisione finale dell’Antitrust che può infliggere una multa fino a 5 milioni di euro. Una minuzia per il bilancio dell’Eni, ma per le associazioni ricorrenti sarebbe una vittoria di principio importante.

Domini, così Google vuole blindare il controllo della Rete

Il Leviatano dei colossi del digitale stringe i suoi tentacoli intorno al mercato online. Il Congresso degli Stati Uniti sta valutando il comportamento di Google sul sistema di identificazione di Internet. Sembra materia un po’ esoterica, ma in fondo è tutto abbastanza comprensibile. Il Dns è il sistema dei “domini” Internet e funziona come un grande elenco telefonico: traduce i nomi di un sito come promarket.org in indirizzi Ip: è molto più facile ricordare il nome che una lunga stringa di numeri. Oggi nessun singolo soggetto controlla il sistema Dns. Ma le cose potrebbero cambiare.

A giugno Google ha annunciato il piano per criptare il sistema Dns usato dal suo browser, Chrome. Codificando i dati Dns, Google impedirebbe ad altri soggetti, come le aziende che offrono servizi digitali, di tracciare gli utenti nei loro comportamenti online. Dal punto di vista di Google, sarebbe un modo per aumentare parecchio i profitti: avrebbe il controllo assoluto del sistema operativo (Android) e del browser (Chrome) e una visibilità assoluta ed esclusiva su quello che fanno gli utenti.

Il piano per criptare il sistema Dns deriva dalla volontà di conservare il proprio potere di mercato nel settore della pubblicità online. Secondo i dati di eMarketer, Google oggi vale il 37 per cento di tutte le inserzioni in digitale e il 78 per cento di tutte le ricerche. Una posizione di forza che per Google è importante proteggere. Nessun soggetto terzo dovrebbe poter controllare la cronologia della navigazione di un utente senza il suo permesso, afferma Google. Nobile principio, se non fosse che è Google stesso che lo fa da anni senza alcuna autorizzazione.

Il piano per criptare il Dns non è una mossa isolata, ma un pezzo di una strategia che vuole chiudere l’ecosistema della pubblicità digitale per escludere chiunque altro. A settembre Google ha iniziato a testare una tecnologia che blocca la possibilità per parti terze di tracciare i cookies dentro Google Chrome, così da impedire a potenziali concorrenti di fare offerte mirate agli utenti sulla base dei siti visitati.

A sua difesa, Google afferma che criptare il sistema Dns serve a evitare che gli hacker possano spiare i comportamenti degli utenti online. Aumentare la privacy e la sicurezza è sicuramente importante per gli utenti finali. Ma se per farlo Google adotta comportamenti anti-competitivi che penalizzano i concorrenti, questo è un problema.

I sostenitori della linea di Google osservano che anche Mozilla, un motore di ricerca concorrente, stia criptando il Dns. Ma Mozilla ha quote di mercato minime, a una sola cifra, e quindi deve criptare il Dns per mantenere un minimo di competitività. Se i piccoli concorrenti imitano i comportamenti dell’impresa dominante, non hanno certo lo stesso impatto sulla concorrenza nel mercato. Gli effetti negativi sulla competizione derivano dalla presenza di un potere di mercato e da condotte escludenti: devono esserci entrambi questi requisiti perché si producano danni.

Al momento, per la verità, è ancora da dimostrare che le condotte escludenti di Google stiano avendo effetti anti-competitivi. Per farlo le autorità Antitrust dovrebbero riscontrare che uno o più dei comportamenti a rischio – come criptare i Dns o bloccare i cookies di parti terze – determinano prezzi più alti per gli inserzionisti o pagamenti inferiori ai siti che ospitano la pubblicità. Dal momento che Google non ha ancora iniziato ad applicare su vasta scala queste strategie di chiusura del mercato, al momento però la prova definitiva dell’effetto anticompetitivo di queste condotte ancora non c’è.

Ma forse alle autorità Antitrust basterebbe dimostrare che società concorrenti di Google o il potere contrattuale dei siti che ospitano pubblicità potrebbero limitare, almeno al margine, la forza di Google. E magari questi soggetti potrebbero anche evolversi, crescere e arrivare forse ad arginare o addirittura minacciare il monopolio di Google nella pubblicità. Con i giusti argomenti le autorità di regolazione, o i tribunali, potrebbero fermare il tentativo di Google di escludere tutti gli altri dal proprio sistema di gestione della pubblicità prima che il Leviatano digitale blocchi con i suoi tentacoli il mercato delle inserzioni online per un altro decennio.

Davide Vs. Golia (del web) “I big tech vanno arginati. Basta la ricerca del profitto”

Il saluto con il pugnetto chiuso, i capelli rossi lunghi da un lato e corti dall’altro, una voce incerta e sommessa, ma da cui traspaiono anni di esperienza e di lavoro per cercare di creare una “rete”, il web, cha avesse davvero questo senso. E forse anche la consapevolezza che il lavoro non è ancora finito: incontriamo Mitchell Baker a Lisbona, in occasione del Web Summit, uno dei maggiori eventi europei del settore. È il presidente esecutivo della Mozilla Foundation e della Mozilla Corporation, coordina lo sviluppo delle applicazioni open source, incluso il browser Web Firefox. Per dirla in estrema sintesi, è a capo della non profit che ha sviluppato l’unica vera alternativa a Google quando stava per monopolizzare completamente la navigazione di Internet. Semplicemente, fornendo una alternativa valida lontana dalla ricerca del profitto a tutti i costi.

Negli anni Internet è cambiata molto: cosa rappresenta oggi Mozilla nella galassia web?

Ha usato la parola Internet e la parola web. Partiamo dalla prima: di base, Internet è una tecnologia in grado di connettere le persone. Di giorno in giorno, però, sta diventando molto di più. È una sorta di presenza costante, è attorno a noi in ogni istante. È passata dall’essere una fonte di meraviglie all’essere un organo interno. Cosa meravigliosa, ma certo anche disturbante.

Perché?

La natura umana, direi. O meglio: perché puoi vedere tutta la natura umana attraverso di essa, anche la magnificazione della parte peggiore dell’umanità. È difficile per le persone riuscire a scendere a patti con le novità che avanzano, soprattutto quando sono negative. Ci vuole tempo e tenacia per trovare un compromesso adeguato ai propri valori. È il motivo per cui è nato Mozilla: è un’organizzazione che rappresenta ciò che Internet potrebbe essere, che rappresenta la giusta idea di web (di Rete, ndr) ovvero ciò che accade quando la tecnologia interagisce con gli esseri umani e quando le persone sperimentano davvero la tecnologia.

In che senso?

In molti sviluppano tecnologie: organizzazioni, governi, società civili. Lo fanno, però, perseguendo la loro sola esperienza individuale. Ognuno si chiude nei propri gruppi di ricerca, lavora nella propria parte del mondo, segue i propri interessi. Creare una organizzazione non profit significa invece pensare alle piattaforme e alla tecnologia come obiettivi globali e universali. La nostra missione è parte di una missione umana che include sviluppare ciò che di positivo Internet può dare. Non avere poi la pressione degli aspetti finanziari e del profitto aiuta. Ma crediamo che ci sia un potenziale per il bene sociale anche nel mercato.

E come?

Un nuovo prodotto può avere diversi impatti: migliorare la società, l’esperienza dell’utente, la vita delle persone. Inoltre, può innescare cambiamenti più velocemente di quanto possano fare i governi o i regolatori. Un prodotto può mostrare nuove possibilità, aiutare chi fa le leggi a incanalarsi nella giusta direzione e a trovare vie d’uscita sensate. È un impatto che non va sottovalutato. È importante che ci sia spazio per altri e soprattutto idee basate su principi diversi. In passato internet era governata e controllata da una sola compagnia e questo aveva reso l’esperienza degli utenti brutta, insicura, non protetta.

A chi si riferisce?

Microsoft. Quando arrivò il World wide web, la Rete, era la compagnia dominante. Il browser Explorer l’aveva traghettata in questo dominio. Poi sono arrivati i regolatori, ma prima di loro fu Firefox a porre un freno. Insomma, quando offri un prodotto che è migliore, poi le persone lo vogliono usare. E se è il cambiamento, genera il cambiamento.

Si è passati però dal controllo di uno al controllo di pochi. Come si evita? Aziende, governi e società civile possono lavorare assieme?

Possono perseguire lo stesso obiettivo. Innovatori, imprenditori, tecnologi potrebbero mostrare che qualcosa di diverso è possibile, che un sistema può essere cambiato e che può funzionare lo stesso anche se non si tracciano tutti i dati, anche se è sicuro e si ha il controllo sulle proprie informazioni.

Gli utenti iniziano però a essere più coscienti dei pericoli.

Certo, perché le cose brutte hanno iniziato ad accadere…

Qual è il problema di Big Tech?

Faccio un esempio. Quando Google ha costruito il browser Chrome lo ha fatto pensando a quale fosse il modo migliore e più veloce per ottenere quello che voleva dagli utenti. Il nostro obiettivo è stato inverso: il punto di vista sei tu persona e non l’azienda. E tu devi rivendicare la tua esistenza, e influenza, nel mondo. Per questo bisognava creare un sistema che fosse accessibile a tutti gli hardware, che permettesse a stili e macchine diverse di poter lavorare assieme. È il potere della diversità e della decentralizzazione. Non devi avere un solo tipo di hardware, andare in uno specifico app store, avere la stessa app. È come se nella tua città avessi un solo negozio e basta. Inoltre, non tutti hanno l’automobile per andare nel centro commerciale della città accanto. Questo è ingiusto.

Un’alternativa è possibile?

Sì, ma non rapida. Ci sono molte tecnologie che vanno in questa direzione, ma spesso sono sviluppate da piccoli gruppi, da nicchie, considerate anche strane da chi le osserva dall’esterno. Non c’è ancora la sensibilità per vedere le cose diversamente. Ci vorrà del tempo, un’altra ondata di decentralizzazione, che però non mi sembra imminente.

Guardi per un momento indietro, alla sua carriera: c’è qualcosa che cambierebbe?

Essere stata troppo lenta nel cambiare. Io, come Mozilla. Ci ho messo troppo tempo a capire che il valore delle cose non stava nel farle sempre con lo stesso metodo, ma nella loro motivazione.