Addio alla gallina dalle uova d’oro. Della Valle in aiuto dei conti Tod’s

I conti dei primi nove mesi del 2019, che saranno svelati stamane dal gruppo Tod’s, sono molto attesi dal mercato. Si vedrà se il gruppo posseduto dalla famiglia Della Valle sarà stato in grado di recuperare quei 6 milioni di euro di perdite nette fatte segnare nei primi sei mesi dell’anno. Quel rosso nel bilancio ha macchiato per la prima volta i conti del marchio della moda del lusso, per anni una vera e propria macchina da soldi, capace di realizzare abitualmente utili netti ogni anno per oltre 100 milioni, più del 10% del fatturato. Ma quegli anni paiono ormai lontani e non facilmente replicabili.

Nei fatti la Tod’s dopo più di un decennio di marcia trionfale nei profitti e nei prezzi di Borsa, viaggia ormai a passo di gambero. Almeno a partire dal 2015 quando la progressione si è arrestata ed è cominciata una lunga e inesorabile frenata. Nel 2018 il gruppo calzaturiero di Diego Della Valle ha realizzato utili per 47 milioni, la metà del carico di profitti fatti segnare fino al 2015. Da allora i ricavi sono scesi di 100 milioni in tre anni, pari al 10% del totale e inevitabilmente anche i profitti si sono dimezzati. Ora il primo rosso a giugno di quest’anno che verrà probabilmente recuperato nella seconda parte dell’anno, ma che lascia intravedere un’intera annata ancora in decelerazione.

Il consenso degli analisti vede infatti i ricavi scendere a poco più di 900 milioni (dai 950 milioni del 2018) e i profitti tornare positivi per poco meno di 10 milioni di euro, ben lontani da 47 milioni del 2018 e distanti anni luce dai 93 milioni realizzati nel 2015. Parabola discendente quindi per il gioiello di Diego Della Valle. Da Tod’s dicono che la ragione sono i maggiori costi e i maggiori investimenti per la crescita futura. Sarà, ma nel caso del passivo di giugno pesano anche e soprattutto svalutazioni per 68 milioni di euro. E gli effetti della battuta d’arresto si sono visti anche a monte. La Diego Della Valle srl, una dei due forzieri della famiglia marchigiana che possiede il 9,6% di Tod’s ha dovuto svalutare per 66 milioni nel 2018 il valore della partecipata. Tiene invece il resto del capitale, il 50,3% di Tod’s detenuto dall’altra holding la Di.Vi finanziaria dove il valore di bilancio di Tod’s è di soli 386 milioni, pari a un valore per azione di 24 euro. Ma sono lontani i tempi quando Tod’s quotava oltre 130 euro e che rendeva la plusvalenza insita formidabile.

Oggi il titolo veleggia poco sopra i 42 euro, un terzo dei suoi massimi storici. Certo Tod’s resta un affare d’oro per i Della Valle. La loro quota in Borsa vale comunque una cifra vicina ai 900 milioni di euro, il doppio sui valori di carico nelle holding dell’imprenditore marchigiano. Stella appannata quella di Tod’s, ma che non mette più di tanto in ombra ricchezze e potere di Diego Della Valle e di suo fratello Andrea. Hanno trovato un’exit strategy

per la Fiorentina, costata parecchi milioni negli anni. In carico per 90 milioni nella Diego Della Valle srl è stata ceduta per oltre 130 milioni a Comisso. L’ultima perdita è stata per 14 milioni nel 2018. E come non dimenticare i colpi più da finanziere che da industriale di Della Valle che riuscì a vendere Saks dopo tre anni dall’acquisto incassando una plusvalenza da 150 milioni. O anche le operazioni più fruttuose per le holding di famiglia come la vendita di Roger Vivier alla stessa Tod’s che fruttò nel 2016 oltre 400 milioni di incasso. Ma mentre Tod’s si appannava ecco il colpo grosso, uno degli affari della vita per Della Valle: la vendita di Ntv, il treno Italo, agli americani che ha portato in dote l’anno scorso all’imprenditore ben 298 milioni di euro di guadagno. La quota del 17% (è il primo investitore dell’avventura del treno veloce) è costata negli anni solo poco più di 30 milioni di investimento. Ne ha portati a casa 10 volte di più. Uno dei rendimenti più elevati che un’operazione industriale diventata finanziaria ha mai potuto ottenere.

Con quell’incasso prodigioso, l’imprenditore marchigiano ha potuto permettersi l’anno scorso le pulizie di casa. La Diego Della Valle srl ha fatto svalutazioni su quasi tutte le partecipazioni per quasi 100 milioni: 66 milioni sono state le rettifiche su Tod’s; poi 14 milioni è stato l’onere pagato su Interbasic, la società che possiede Schiapparelli; 10 milioni di svalutazioni su Piaggio; 2 milioni sulla Bialetti e 1 milione su Safilo. In portafoglio Diego Della Valle continua a detenere titoli per 48 milioni di euro di Rcs e azioni Mediobanca per 40 milioni di euro, oltre ai 38 milioni investiti su Piaggio dopo le rettifiche di valore in meno per 10 milioni. È il giardinetto delle partecipazioni di peso – cui si aggiunge da sempre la Charme di Montezemolo – negli ex salotti buoni che hanno contraddistinto la vita di Diego Della Valle. Che non ha mai avuto problemi di liquidità. Tuttora tiene oltre 140 milioni investiti in polizze a premio unico a capitale garantito con rendimenti poco sopra l’1,5% annuo. Ogni anno un paio di milioni di euro arrivano in tasca senza correre rischi. Ex re di Borsa del lusso e contemporaneamente investitore iper-prudente per se stesso. Non solo, ma con Tod’s in crisi in Borsa, tocca a Diego Della Valle sostenere il titolo. La sua DDv srl solo nella prima parte del 2019 ha comprato azioni Tod’s per 33 milioni di euro. Per lui, evidentemente, c’è valore in Tod’s, ma se vedete un rialzo magari non è il mercato che sta comprando, ma lo stesso suo patron.

La ridente Pomigliano, i grandi media e le fake news

Questa che state per leggere è un’ovvietà necessaria: tutti possono sbagliare e tutti sbagliano, compreso – e più spesso di quanto vorrebbe – chi scrive. Quel che segue, dunque, non è un pezzo su un errore, ma sulla natura antropologica del sistema dei media. Domenica in un reportage sulla Stampa compare, tra le altre, questa informazione (presente anche nella titolazione): “A Pomigliano d’Arco, il paese natale di Luigi Di Maio, su 39mila abitanti 12mila hanno ottenuto il reddito di cittadinanza”. Non è l’unico dato scorretto dell’articolo, ma quello più rilevante e, diciamo, il cuore ideologico del racconto: il centro per l’impiego di Pomigliano però – ha spiegato il ministero del Lavoro – serve sei Comuni la cui popolazione totale è di 208mila abitanti. La Stampa solo ieri ha modificato l’articolo online, non pare aver fatto rettifiche sul cartaceo e per il resto si è limitata ai social spiegando che “il senso dell’articolo rimane intatto” (il senso sarebbe che non si trova lavoro e non è chiaro se – alla luce di questo fatto – andrebbe abolito anche il sostegno al reddito). Ieri mattina, però, la falsità sui numeri anomali del Rdc a Pomigliano è stata riportata in tv da Marco Bentivogli, segretario della Fim Cisl, e poi rilanciata dagli account social dal suo sindacato. Ora prendetevi un attimo per riflettere sui pensosi articoli sulle fake news che influenzano l’opinione pubblica e le elezioni che abbiamo letto pure sulla Stampa: se questa è la reazione a un errore, però, forse il problema non sono le fake news, ma averne l’esclusiva.

Aggiustare il reddito minimo al Sud

I Cinque Stelle hanno smesso di parlare di Reddito di cittadinanza, che pure resta il loro principale risultato politico. Il compito di difenderlo viene lasciato a Pasquale Tridico, presidente dell’Inps. Ma il lato Inps è l’unico che ha funzionato, oltre 1,5 milioni di domande gestite senza troppi problemi. L’annuale rapporto Svimez, però, conferma che l’impatto sul mercato del lavoro al Sud è stato nullo o negativo: le politiche attive che dovevano aiutare il percettore di reddito a riqualificarsi non sono mai partite. Il progetto era velleitario (non sbagliato, ma poco compatibile con la divisione di competenze in materia tra Stato e Regioni e con l’assenza di opportunità). Questi problemi sono impossibili da risolvere a breve. Ma non è una buona ragione per abbandonare la lotta contro la povertà.

Il rapporto Svimez ricorda che il Reddito di cittadinanza è troppo generoso con i single e troppo poco con le famiglie, non distingue chi è povero in città da chi è povero in zone rurali. La nuova povertà è urbana e riguarda i giovani: la quota di famiglie in povertà assoluta raggiunge, nel caso di capo-famiglia under 35, il 14 per cento nel Mezzogiorno e circa il 9 per cento nel Centro-Nord. E un posto di lavoro non basta, visto che l’economia italiana si è ormai assestata sul proliferare di impieghi part time che non garantiscono salari dignitosi. Per questo, ricorda il rapporto Svimez, bisogna usare anche politiche di welfare che offrono servizi ai poveri, non solo denaro (la spesa pro capite delle amministrazioni pubbliche nel 2017 era più bassa al Sud che al Nord, 11.309 euro contro 14.168).

Ora che la temperatura ideologica sul tema si è attenuata, correggere gli errori è possibile: più soldi ai giovani e meno agli anziani, di più a chi sta in città, maggiori risorse agli stranieri (i più bisognosi) e più attenzione alle politiche di contorno. Il Reddito di cittadinanza si è rivelato, come dicevano alcuni dei suoi critici, un reddito minimo garantito. Ma può comunque essere uno strumento importante.

Mail Box

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile direttore, in relazione a quanto pubblicato sul Fatto ieri (in particolare nei passaggi “ma spesso, dietro il garantismo all’italiana, si celano collusioni” e ancora “la natura di lobby garantista usata come bus dai criminali di ieri, oggi e domani, assunta dai radicali”), replichiamo che siamo noi Radicali, attaccati duramente in queste pagine, la vera parte lesa nella vicenda di Nicosia. Qualora fossero confermate le accuse, si tratterebbe di reati gravissimi con danno enorme nei confronti di quanti lottano da decenni per garantire lo stato di diritto e la giustizia per tutti, dentro e fuori gli istituti penitenziari. In questi decenni i parlamentari e i consiglieri regionali radicali hanno effettuato migliaia di visite ispettive al solo scopo di verificare le condizioni di vita negli istituti penitenziari del paese e di tutelare i diritti dei detenuti e dell’intera comunità penitenziaria: polizia, direttori, assistenti sociali, medici e volontari. In più, grazie a noi, centinaia di cittadini hanno potuto conoscere una realtà, come quella carceraria, del tutto inaccessibile per la maggior parte delle persone. In Radicali Italiani questi principi ispirano la vita associativa. L’iscrizione è annuale, chiunque può farlo. Non ci sono indagini preventive o postume. Il movimento è responsabile per la sua politica e per le scelte prese collettivamente, mentre per le scelte individuali esiste il limite esterno della legge e l’opera della magistratura, verso cui nutriamo rispetto. Se questo vuol dire essere una “lobby garantista”, ben venga, soprattutto se dall’altra parte c’è la “lobby forcaiola” di chi non perde occasione per celebrare processi mediatici divulgando intercettazioni, e per sottrarre o negare diritti che la stessa Costituzione riconosce a tutti i cittadini. Questo episodio è per noi uno stimolo a proseguire le nostre battaglie con convinzione ancora maggiore.

Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini, Igor Boni – Radicali Italiani

 

Se non avessimo “divulgato intercettazioni”, peraltro depositate in un provvedimento cautelare e dunque non più coperte da segreto, i radicali non potrebbero proclamarsi parte lesa né – volendo – liberarsi subito delle mele marce in base ai fatti già emersi, senza aspettare comodamente la Cassazione. Quanto alla “lobby forcaiola”, siamo fieri di stare sempre dalla parte dei magistrati, delle forze dell’ordine e dei cittadini antimafia e mai da quella dei mafiosi.

M. Trav.

 

 

Gentile direttore, in relazione all’articolo “Inps, l’appalto vinto col ribasso dell’81%: e adesso si licenzia” di Marco Palombi, pubblicato sabato dal Fatto, riteniamo doverose alcune precisazioni.

La gara europea per la fornitura del servizio di contact center, bandita nel 2017 dopo molti anni dalla precedente, è stata predisposta recependo tutte le indicazioni fornite dall’Agenzia per l’Italia Digitale e dall’Autorità Nazionale Anticorruzione e sottoposta a vigilanza della stessa Anac. Nel bando è stato previsto che l’attività dovesse essere svolta sul territorio nazionale.

Per la prima volta in Italia è stata applicata la norma (introdotta dalla Legge di stabilità 2017) in base alla quale il costo del personale, determinato dopo accordo con i sindacati maggiormente rappresentativi, non è soggetto a ribasso d’asta.

È stata infine apposta la clausola che prevede che “in caso di successione di imprese nelle attività previste dalla presente procedura, l’appaltatore dovrà garantire la prosecuzione dei rapporti di lavoro in essere”.

L’operato della commissione che ha aggiudicato la gara, oltre alla vigilanza dell’Anac, è stato già sottoposto al vaglio del giudice amministrativo, che ha respinto ogni ricorso. Anche alla luce di quanto riportato, facilmente verificabile, appaiono infondati gli allusivi riferimenti al ruolo che avrebbe svolto il Presidente dell’Inps pro tempore, il quale non ha interferito in alcun modo nella procedura, né poteva comunque condizionare l’imparziale operato amministrativo della tecnostruttura. Allo stato l’Inps partecipa a un tavolo ministeriale per agevolare il processo di cambiamento della commessa, vigilando sul comportamento sia degli operatori economici entranti che di quelli uscenti. Infine è noto che l’attuale presidente Tridico sta promuovendo l’internalizzazione del servizio, che avverrà alla scadenza del vigente contratto.

Ufficio relazioni con i media dell’Inps

 

È sempre difficile replicare a una “precisazione” che si limita a raccontare con parole diverse gli stessi identici fatti descritti nell’articolo: gara legittima, fatta secondo legge, approvata da Anac e che, visto che il ribasso sulla parte mobile era dell’81%, si sta traducendo nel tentativo di licenziare dell’impresa subentrante. Curiosamente tocca a noi, però, rettificare: non c’è alcun “allusivo riferimento” nel testo al ruolo dell’ex presidente Inps Boeri nell’assegnazione dell’appalto all’azienda controllata dal Fondo Carlyle, gestito per l’Europa da Marco De Benedetti. Solo le legittime critiche di un sindacato (l’Usb) sull’opportunità di un tale incrocio, riportate tra virgolette e introdotte dal verbo “maramaldeggiare”. A meno che non sia ritenuto offensivo il mero accostamento dei nomi Boeri e De Benedetti: nel qual caso, ce ne scusiamo.

Ma. Pa.

Maria Falcone. “Ecco perché aderisco alla vostra petizione sull’ergastolo”

Gentile Direttore, non posso nascondere la mia preoccupazione per i potenziali effetti della sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale la norma dell’ordinamento penitenziario che negava i benefici carcerari agli ergastolani per reati di mafia che non avessero avviato una collaborazione con la giustizia. Non dimentichiamo che si tratta di una disposizione legislativa introdotta dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, un momento tragico per l’Italia, un Paese che ha dovuto fare i conti con una mafia del tutto peculiare rispetto alle altre organizzazioni criminali. Non dimentichiamo che in nessun altro Stato tanti uomini delle istituzioni hanno pagato con la vita il loro impegno contro le mafie.

Faccio questa premessa per ricordare la ratio e la storia di una norma che, come tutta la legislazione premiale per i cosiddetti pentiti, è servita a scardinare una organizzazione considerata granitica. Perciò il legislatore aveva dato a chi passava dalla parte dello Stato, ed era realmente intenzionato a recidere i legami con il clan, una chance che potesse garantirgli quella rieducazione prevista dalla Costituzione come doverosa per chiunque. E ciò a differenza del trattamento stabilito per chi ha scelto di rimanere fedele al giuramento prestato per diventare uomo d’onore.

La sentenza della Consulta impone ora una “rivisitazione” normativa. È fondamentale che la Corte costituzionale abbia con la sua pronuncia escluso che si passasse a una sorta di automatismo al contrario, optando invece per l’attribuzione al giudice terzo della valutazione della concessione dei benefici agli ergastolani mafiosi. Io ho piena fiducia nel giudizio dei magistrati che sapranno valutare e scegliere. Pongo però due temi: quello della possibilità di pensare a concentrare la competenza sulla materia a una sola autorità giudiziaria, come accade già per le questioni relative all’applicazione del 41-bis (affidate a un solo organo, il Tribunale di sorveglianza di Roma). Questo consentirebbe di avere un indirizzo giurisprudenziale unitario su argomenti tanto delicati. Inoltre sarebbe auspicabile che a occuparsi di queste questioni sia un organo collegiale e non un giudice monocratico, per evitare sovraesposizioni e possibili pressioni sul singolo.

L’auspicio è che la risposta legislativa, che la decisione della Consulta impone, garantisca una continuità della azione antimafia per scongiurare un pericoloso ritorno al passato. Gran parte della politica, cito per tutti il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ha manifestato preoccupazione per il dopo sentenza e ha sottolineato la necessità di arrivare a una soluzione legislativa che salvaguardi quanto con fatica si è fatto nella lotta alla mafia, che deve restare una priorità per tutti.

 

Tassa sulla plastica, i tormenti verdi dei compagni dem

Dobbiamo confessare, cari lettori, tutto il nostro smarrimento di fronte ai tormenti che agitano i compagni progressisti di fronte all’emergenza ecologica. Tremiamo anche noi, proprio come Matteo Renzi mentre firmava, nel 2015, l’accordo di Parigi (relativo alla riduzione delle emissioni di gas serra): lo ha confessato l’ex premier del Pd a Porta a Porta, parlando della battaglia di Greta Thunberg mentre rinfacciava a Salvini di aver votato contro quell’intesa. “Sono immagini che allargano il cuore, ora tocca alla politica fare sul serio”, cinguettava Renzi commentando le manifestazioni dei ragazzi di Fridays for future. Noi sì che pensiamo al futuro e alle nuove generazioni, e mica solo di venerdì, tutta la week for future! Ora, ricorderete di certo l’appassionato discorso di Greta all’Onu, qualche settimana fa: “Come osate! Mi avete rubato i sogni e l’infanzia con le vostre parole vuote. E io sono una delle più fortunate. Le persone stanno soffrendo. Le persone stanno morendo. Interi ecosistemi sono al collasso. Siamo all’inizio di un’estinzione di massa. E tutto quello di cui parlate sono i soldi e le favole dell’eterna crescita economica”. Ebbene quel “Come osate” (una specie di “fate presto” verde) ha riscosso applausi scroscianti in tutto il mondo. Intendiamoci: Greta ha certamente il merito di avere imposto il tema dell’emergenza ambientale. Tanto che nella manovra italiana è spuntato un capitoletto che s’intitola ambiziosamente Green New Deal. C’è pure una tassa “un tanto al chilo” (in ogni senso) sulla plastica, che dovrebbe assicurare un maggior gettito di 1,1 miliardi nel 2020, destinati a salire a 1,8 a regime: il che significa che non si prevede che il nuovo balzello possa influire più di tanto sui consumi (continueremo a bere acqua dalla bottiglietta, che dovrebbe costare 4 cent in più).

Ma non sono tanto i consumatori a preoccupare i politici, quanto i produttori. Intendiamoci: la preoccupazione è fondata e legittima perché lo Stato interviene nel suo sistema produttivo, non contro. Ammettiamo che si riconosca una catastrofe ambientale dovuta alla produzione e al consumo di plastica: più che tassare, in quel caso si dovrebbe vietare del tutto la plastica monouso (posto che dal 2021 alcuni prodotti come posate e bicchieri di plastica saranno fuori legge, per via del recepimento di una direttiva Ue). I tormenti della sinistra nello specifico riguardano le prossime elezioni in Emilia-Romagna, dove si produce il 63% della plastica (il distretto tra Bologna, Modena e Reggio lo chiamano packaging valley) e dove Salvini si è trasferito in pianta stabile in vista delle elezioni regionali di gennaio. Il governatore uscente e candidato del Pd Stefano Bonaccini si è un tantino allarmato temendo che i compagni al governo vogliano fare le Grete con la plastica sua. Il premier Conte ha saggiamente annunciato di voler incontrare le imprese del settore e intanto anche il mondo dell’ambientalismo è piuttosto scettico sulla tassa. Il coordinatore dei Verdi Angelo Bonelli ieri spiegava a Repubblica che la tassa dovrebbe stare (posizione assai condivisibile) “alla fine di un percorso che dice ai produttori quali sono le filiere merceologiche interessate e come devono avviare i processi di conversione produttiva”. E anche l’ex ministro dell’Ambiente Edo Ronchi ha definito il provvedimento “inefficace dal punto di vista ambientale”. Insomma la questione è più complicata di quello che potrebbe sembrare da una piazza di Fridays for future: se ne discuta cercando di ottenere il miglior risultato per tutti. Facciamolo con serietà, possibilmente senza pensare solo alle elezioni di gennaio e soprattutto senza l’armamentario retorico degli improvvisati discepoli di Greta.

Una “condanna politica” per Shakespeare: pure da lui fango su Verona

Vorrei avvertire il direttore e gli avvocati che qui si rischia grosso. Perché io vorrei scrivere sulla ridente città di Verona, quella con “la squadra fantastica a forma di svastica”, come cantano certi suoi tifosi. Vorrei scrivere di quel bellissimo borgo, insomma, ma mi capita sotto gli occhi una mozione presentata da un consigliere comunale proprio a Verona, in cui si chiede una “condanna politica” (eh?) per chi diffama la città di Verona. Quindi se io faccio una battuta su Verona – che è in effetti il più bel quartiere di Brescia – può anche darsi che debba subire una “condanna politica” dalla città di Verona, di Giulietta, dell’Arena, eccetera eccetera, che potrà anche (leggo la mozione) “adire le vie giudiziali” se uno si permette di attaccare Verona “diffamandola ingiustamente”.

Che palle, nasce tutto dallo stadio, dai cori razzisti a Balotelli, che hanno causato un’ondata di sordità in città, con la difesa schierata a testuggine: cori razzisti? Ma nemmeno per sogno! E intanto fioriscono su Youtube filmini e prove audio-video, oltre a certi divertenti cortometraggi con capo ultras – aspirante SS allo spritz – che inneggia ad Adolf Hitler (Luca Castellini, ieri diffidato dalla società Verona calcio). Ma insomma, la città di Verona, di cui vorrei parlare un gran bene per non incorrere in una “condanna politica” (eh?) del consigliere comunale Andrea Bacciga (già rinviato a giudizio per saluto fascista), non è nuova alle orecchie foderate di prosciutto. Meno di un mese fa i buuu razzisti erano per Kessie, bravissimo zappatore del Milan, e la risposta della società Hellas Verona, via social, è che non era vero e avevano solo fischiato l’arbitro. Insomma, niente, orecchie tappate. E occhi ben chiusi, perché è capitato che sugli spalti degli ultras del Verona comparissero bandierine con la svastica, per dire.

È vero: di Verona si parla soprattutto per questioni di destra ultrà, cattolici col cilicio e feti di plastica per portachiavi, buontemponi che inneggiano a Hitler e che al Family day, sfilano con politici di prima fila (tipo quel Fontana che diventò ministro per la Famiglia). Non è giusto. Ora se ne parlerà anche per la mozione che punisce chi “getta fango” su Verona, è un passo avanti.

Immagino una simile mozione votata, che so, a Parigi nella seconda metà del- l’Ottocento. Zola e Balzac nella stessa cella che giocano a briscola rimproverandosi certe descrizioni: “Ma che cazzo, potevi star zitto sui topi della Senna!”. Oppure lo Stato dell’Arizona che condanna Steinbeck per aver messo in cattiva luce gli abitanti di laggiù, un po’ severi (a schioppettate) con i migranti. Insomma, la mozione di Verona, per cui vorrei che questa bella città andasse famosa nel mondo, apre scenari interessanti soprattutto dal punto di vista letterario (Dostoevskij fu condannato a morte per molto meno, e la scampò all’ultimo minuto). Denuncerei anche Shakespeare, se fossi in loro, perché Verona non merita che si getti fango su di lei e la si descriva come un posto dove le famiglie si odiano e una storia d’amore finisce con tutti quei morti. Presto, una “condanna politica” (eh?) per il vecchio William! Immagino lo sconcerto in città quando Otello (che è “negro” come Balotelli) strangola Desdemona (Le “nostre” donne!).

So perfettamente che a Verona abitano anche molte persone normali, bravi cittadini e gente perbene, che probabilmente vivono male questa fama della città e che vedranno a occhio nudo lo tsunami di ridicolo portato da una simile mozione. A loro va tutta la solidarietà, ovvio, ma anche quel vecchio monito da avanspettacolo, per cui si potrebbe dire all’ultras nazi: “Io non ce l’ho con te, ma con chi non ti butta di sotto”. Per dire che sottovalutazione e accettazione del fenomeno, i vari “sono ragazzate” e “non è vero”, non curano e non sopiscono, ma suonano come incoraggiamento.

Ps. Comunque è bellissima, eh!

Le sorti comuni Pd-5S: serve un congresso

Con logica stringente, Massimo Cacciari ha argomentato la tesi secondo la quale Pd e M5S sono legati a una sorte comune. Una “condanna” da riconvertire in opportunità. Sta scritto nei numeri. Quelli di una destra a guida Salvini altrimenti priva di reali competitor. Non essendo plausibile che né Pd né più M5S possano stringere alleanze con lui. Né che Pd e 5 Stelle si acconcino a un solipsismo puramente testimoniale: la regressione al vaffa grillino e la velleitaria presunzione dell’autosufficienza che fu del Pd.

E tuttavia, in politica, talvolta, la logica e persino il calcolo razionale delle convenienze possono essere disattesi. Ahimé, è perfettamente possibile che negli attori politici prevalgano dilettantismo, autoreferenzialità, convulsioni autodistruttive. Segnali non mancano. A cominciare dalla endemica conflittualità interna alla maggioranza originata dalla miope e strumentale ricerca della visibilità da parte dei suoi componenti. Una pratica nella quale su tutti eccelle Italia Viva. Essa agisce caparbiamente al fine di minare il carattere strategico dell’alleanza di governo. Dal suo punto di vista, “scientifica” e strategica è semmai la sua quotidiana azione interdittiva e ostruzionistica dentro la maggioranza, già un minuto dopo il via libera al Conte 2. Incurante della manifesta circostanza che una tale opera divisiva è un servizio reso alla destra e a Salvini.

Dunque, Pd e 5 Stelle devono fronteggiare due avversari. Uno esplicito: la destra. L’altro implicito ma evidente e insidioso, in quanto formalmente interno alla maggioranza: Italia Viva, con la sua programmatica doppiezza. Una sfida difficile e tuttavia ineludibile, che sconta altresì problemi irrisolti nel foro interno di entrambi: il Pd, come sempre alle prese con il suo correntismo e con l’autoreferenzialità di un ceto politico consumato ma irriducibile, che intralcia il passo al volonteroso Zingaretti; il M5S a sua volta afflitto da problemi di leadership, di democrazia interna e soprattutto da un’irrisolta questione identitaria. Ciononostante – ha ragione Cacciari – entrambi, piaccia o non piaccia loro, non dispongono di alternative.

Di qui cinque corollari.

Primo: prendere consapevolezza di tale comune destino, trasformando uno stato di necessità in una opportunità. Riconoscendo appunto il carattere strategico di un’alleanza ancorché partorita dentro una congiuntura emergenziale.

Secondo: gestendo tale alleanza con intelligenza e accortezza tattica. Evitando scorciatoie verso intese organiche improvvisate e forzose sul territorio, come nel caso umbro o, all’opposto, proclamando precipitosamente l’abbandono di qualsiasi forma di cooperazione, sulla scorta di un precipitoso giudizio circa l’esito di un primo esperimento oggettivamente circoscritto. Con un solo risultato sicuro: farsi del male a vicenda e aprire un’autostrada al comune avversario sistemico.

Terzo: della suddetta intelligenza politica fa parte la consapevolezza che l’imminente competizione sull’Emilia Romagna, a detta di tutti, rappresenta un appuntamento cruciale e dirimente. Per il governo e per il rapporto Pd-M5S e che, di riflesso, andare al voto da avversari – come se il partner di governo e la destra di Salvini pari fossero – sarebbe suicida.

Quarto: forti della consapevolezza che il governo rappresenta il potenziale laboratorio di un’alleanza politica strategica (dalla quale, reciprocamente, la qualità della sua azione acquisterebbe respiro e orizzonte), stabilire forme, più o meno pubbliche e formali, di consultazione tra i due partiti, che governino le tensioni e facciano fronte comune verso chi, sistematicamente, le alimenta. Segnatamente: Renzi. Il cui spregiudicato spirito manovriero trae vantaggio da un deficit di coordinamento tra i due principali partner di governo, giocando egli di sponda ora con l’uno ora con l’altro.

Quinto (è la precondizione a monte): che ciascuno per la propria parte, Pd e 5 Stelle, mettano a tema un chiarimento, urgente e necessario, circa il proprio statuto ideale e pratico, la propria identità e la propria missione. Qualcosa cui un tempo avremmo dato il nome di congresso. Lo chiamino come credono e lo facciano a modo loro. Conta la sostanza: così non possono andare avanti. Non è problema solo loro. Riguarda tutti noi, la sorte della nostra Repubblica democratica.

Se le cose precipitassero gliene sarà chiesto conto a lungo.

Soldi occulti a Lega e Dem: i tesorieri a rischio processo

Il tesoriere della Lega, Giulio Centemero, rischia il processo. E come lui anche l’ex tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi, ora passato tra i renziani di Italia Viva. I magistrati capitolini hanno infatti chiuso l’indagine – atto che di norma prelude a una richiesta di rinvio a giudizio – sui flussi di denaro partiti dall’imprenditore Luca Parnasi e indirizzati alla politica. Finanziamento illecito è il reato contestato dal pm Paolo Ielo sia a Bonifazi che a Centemero, anche se per versamenti diversi. Partiamo dunque dal leghista, finito sotto inchiesta insieme a Parnasi (ora a processo per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione), e ad Andrea Manzoni “revisore legale del gruppo Lega-Salvini al Senato”.

Al centro dell’indagine c’è un finanziamento da 250 mila euro erogati dalla Immobiliare Pentapigna srl, società in passato riconducibile all’imprenditore romano, e finiti nelle casse della “Più voci”, onlus di area leghista. I soldi sono arrivati in due tranche: un primo bonifico da 125 mila è stato emesso il primo dicembre 2015, un secondo con lo stesso importo è arrivato a febbraio del 2016. Si tratta di contributi “erogati – secondo il capo di imputazione – in assenza di delibera da parte dell’organo sociale competente e senza l’annotazione dell’erogazione nel bilancio di esercizio”. In passato Centemero ha sempre spiegato che quei versamenti erano regolari e che neanche un centesimo era andato al partito di Matteo Salvini. Ma la procura è convinta che la “Più Voci” sia un’associazione “riconducibile alla Lega Nord quale sua diretta emanazione e comunque costituente una sua articolazione”. Centemero ha qualche guaio anche a Milano, dove pure è accusato di finanziamento illecito ma per altri contributi. Ossia 40 mila euro versati dalla Esselunga alla “Più Voci”. La catena di supermercati ha regolarmente iscritto a bilancio l’erogazione. Anche a Milano l’indagine è stata chiusa.

Il finanziamento illecito è il reato contestato a Roma pure a Bonifazi. In questo caso al centro dell’indagine ci sono 150 mila euro pagati dalla Immobiliare Pentapigna Srl a cavallo delle scorse elezioni politiche per uno studio di ricerca. Il progetto, dal titolo “Case: il rapporto degli italiani con il concetto di proprietà”, viene pagato dalla Immobiliare Pentapigna – a fronte di una fattura emessa dalla alla Fondazione Eyu il 22 febbraio 2018 – con due bonifici. Uno del 1° marzo 2018 dall’importo di 100 mila euro, un secondo per altri 50 mila euro effettuato quattro giorni dopo. Per i pm però la ricerca era solo un modo per camuffare il contributo economico. Insomma tra la società e la Eyu (le cui attività ora sono state congelate) vi era un “contratto di consulenza fittizio”. Per questo sono stati iscritti nel registro degli indagati, sempre per finanziamento illecito, anche l’ex commercialista di Parnasi Gianluca Talone e Domenico Petrolo “componente del dipartimento di cultura e formazione del Pd, nonché responsabile relazioni esterne” di Eyu.

A Petrolo e Bonifazi i pm di Roma contestano anche l’emissione di fatture per operazioni inesistenti: la fattura del 22 febbraio 2018 da 150 mila euro comprensivi di Iva, sarebbe stata emessa “al fine di consentire alla Immobiliare Pentapigna l’evasione delle imposte sui redditi”.

Ora gli indagati avranno 20 giorni di tempo per farsi interrogare o per presentare memorie. Poi la Procura deciderà se chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio.

La Occhionero l’ha allontanato a maggio, ma a ottobre Nicosia era all’ultima Leopolda

Otto foto, condivise all’ora di pranzo del 19 ottobre dalla stazione Leopolda di Firenze. In primo piano il palco con il logo della decima edizione della convention di Matteo Renzi. C’era anche Antonello Nicosia all’ultima manifestazione dell’ex presidente del Consiglio, la prima dopo la scissione del Pd e la fondazione di Italia Viva. E proprio nel nuovo partito di Renzi è di recente arrivata Giuseppina Occhionero, la deputata eletta con LeU che dal gennaio 2019 si avvaleva della collaborazione del sedicente professore di “storia della mafia” all’Università di Santa Barbara in California. Quella collaborazione per Nicosia era un escamotage per entrare in carcere e fare da tramite tra i boss detenuti e Cosa Nostra, suo vero datore di lavoro secondo la Procura di Palermo che lunedì ha fermato l’attivista radicale con l’accusa di associazione mafiosa.

Per chiarire i rapporti tra Occhionero e Nicosia, ieri i pm siciliani hanno sentito la parlamentare, passata con Renzi il 25 ottobre, pochi giorni dopo l’ultima Leopolda. Era andata anche lei a Firenze a sentire il suo nuovo leader? Ed era in compagnia di Nicosia? Una domanda importante visto che – dopo il fermo del suo ex assistente – Occhionero ha spiegato di aver interrotto ogni rapporto di collaborazione già nel maggio scorso. Eppure nel corso delle perquisizioni di lunedì gli investigatori hanno trovato il tesserino da collaboratore parlamentare che Nicosia non ha evidentemente mai restituito. “I progetti politici, come le proposte vanno sempre valutate: riuscirà stavolta a non deluderci il buon Renzi? Chissà”, scriveva su Facebook l’uomo-cerniera tra boss detenuti e clan, nei giorni in cui era alla Leopolda. Niente di grave: come fanno notare dallo staff, la kermesse dei renziani è un evento pubblico, aperto a tutti. Bisognerebbe capire, semmai, se il radicale fosse lì per accompagnare Occhionero – che nessuno tra gli organizzatori ricorda tra i presenti – oppure in solitudine. “Ho sbagliato, mi sono fidata di lui. Nicosia mi era stato presentato dai radicali, l’ho conosciuto così e poi, anche in virtù del rapporto personale che si era creato, mi sono fidata ciecamente”, si è giustificata la parlamentare con i pm Francesca Dessì, Gerry Ferrara e all’aggiunto Paolo Guido, in quasi tre ore di colloquio che l’Ansa definisce “drammatico”.

Ma come ha fatto a non accorgersi che il suo ex collaboratore aveva una condanna a dieci anni e mezzo per spaccio di stupefacenti? “Alla Camera non c’è alcun controllo, perché avrei dovuto fare controlli io?”, ha risposto la deputata. Che compare in alcune conversazioni contenute nelle 187 pagine del decreto di fermo. Come quando, il 14 febbraio scorso, Nicosia le propone una truffa in piena regola: farsi pagare dai titolari di una cooperativa che, nel carcere della Giudecca a Venezia, gestiva la sezione con le detenute madri. La proposta è indecente: modificare il contenuto della relazione che la deputata avrebbe dovuto redigere – in cui si denunciavano irregolarità – in cambio di soldi. “Ma se lei compra 5 Louis Vuitton all’anno io e te ne dobbiamo comprare almeno una, capito? Dai l’Iban quando chiamano dici: senta io non ho tempo, le sto dando Iban, in base a quello che mandano eventualmente modifichiamo le dichiarazioni; ma capisci che non si può fare gratis questa cosa”, diceva Nicosia a Occhionero. Una proposta rifiutata dalla deputata che il 7 marzo presenta un’interrogazione sulle irregolarità riscontrate nell’istituto veneziano. Quattro giorni dopo, però, viene revocato il decreto che autorizzava le intercettazioni ambientali: i rapporti tra i due si erano intensificati e la Occhionero, in quanto parlamentare, non si può intercettare deliberatamente. Poi a un certo punto, i pm annotano che il legame tra i due si è interrotto nel maggio 2019 e “non per volontà dell’indagato”, cioè Nicosia. Che pochi mesi dopo era alla Leopolda.