Capano, l’amico dell’uomo che sussurrava ai boss

L’avvocato Michele Capano, 45 anni, è un personaggio importante nell’universo radicale. Eletto nel Comitato nazionale 2019 dei Radicali Italiani (quelli di Emma Bonino con segretario Massimiliano Iervolino), Capano è stato per due anni, dal 2016, tesoriere del partito di Bonino ma è anche dirigente dell’altro gruppo, il Partito Radicale di Maurizio Turco. Nel luglio scorso è stato eletto infatti nel Consiglio Generale del Partito Radicale. Si è sempre impegnato sul fronte dei diritti dei detenuti, soprattutto malati. Proprio Il Fatto nel 2012 diede spazio alla sua vittoriosa battaglia per ottenere la condanna dei medici di un ospedale psichiatrico per sequestro e morte di un paziente sottoposto a Tso. Basta fare una ricerca sul Web per vedere decine di suoi interventi contro l’ergastolo ostativo e l’ergastolo bianco. In testa figura il duello con Rita dalla Chiesa su La7 a Tagadà. La figlia del generale ucciso nel 1982 gli ricordava i corpi crivellati dei genitori e concludeva tra gli applausi: “Riina è stato condannato all’ergastolo e ergastolo sia”.

Al Fatto che lo ha sentito nel giorno del fermo di Antonino Nicosia per mafia, Capano ha raccontato: “L’ho conosciuto nel 2016 quando organizzava dibattiti in Sicilia. Da Roma gli fecero il mio nome”.

Capano non è indagato. Il dirigente radicale è solo citato nel decreto di fermo di Nicosia per un paio di conversazioni che a prima vista potrebbero imbarazzarlo. Al Fatto dopo l’arresto del 48enne compagno di battaglie garantiste non rinnega gli “stretti rapporti anche di natura politica”, come scrivono i pm, con Nicosia. Alla domanda se lo considera un amico risponde: “Assolutamente sì”.

Per i magistrati di Palermo Nicosia definisce il boss latitante Messina Denaro “primo ministro”? Per Capano è un equivoco: “Prendeva in giro un tizio di Castelvetrano fiero del fatto che avesse il latitante nel proprio paese. Escludo che lui invece si riferisse al boss”.

Nel febbraio 2019 c’è un incontro presso il supermercato Sisa di Marsala tra la sorella del boss detenuto Vito Antonino Rallo, capomafia di Marsala, l’avvocato Capano e il solito Nicosia. Quando gli leggiamo al telefono le parole dei pm su una conversazione di Nicosia intercettata (“Si comprendeva – scrive il pm – che il Nicosia avrebbe cercato di fare ingresso nella struttura penitenziaria insieme non solo al Capano ma anche al Deputato”), l’avvocato non fa una piega. “In quel supermercato – spiega – sono andato molte volte perché ho parlato con la zia di un ragazzo rispetto a un mio mandato difensivo”. In pratica difende un altro membro della famiglia, non il boss. Quando gli si fa notare che il punto è un altro, cioé che Nicosia entrava con la deputata Occhionero e nel frattempo secondo le accuse portava messaggi ai detenuti, Capano sbotta: “Io sono enormemente scettico su questo. Poi per carità mi auguro per l’Italia che abbiano cose concrete. Perchè se le cose sono quelle che mi dite siamo rovinati”.

Poi nel decreto di fermo c’è la storia del carcere femminile di Venezia: il 14 febbraio Nicosia invia due messaggi audio alla deputata Giuseppina Occhionero. Secondo i Carabinieri le “aveva proposto di farsi corrispondere del denaro dai titolari di una cooperativa che, all’interno della Casa circondariale della Giudecca a Venezia, gestiva la Sezione in cui erano detenute le donne madri; all’esito di una ispezione, infatti, il Nicosia e la Occhionero avrebbero riscontrato una serie di irregolarità e il primo proponeva quindi al Deputato di chiedere del denaro per modificare il contenuto della relazione che avrebbero dovuto redigere”.

Il Fatto ha contattato l’Associazione “La Gabbianella e altri animali” e la cooperativa “Il granello di Senape” che operano nel carcere femminile. Nessuno ha mai sentito nulla in merito. Però sul web si trova traccia di un articolo rimosso nel quale si legge “nei prossimi giorni sarà presentata un’interrogazione della deputata Occhionero” e si riporta il giudizio di Nicosia: “L’Icam di Venezia va chiuso”.

Nicosia, per i pm, dice alla Occhionero: “Noi abbiamo visto delle cose che non sono in regola con il decreto del 2011. Quell’Icam lì va chiuso perché non corrisponde ai criteri pedagogici (…) i bambini vedono le divise e (…) ci deve essere l’asilo e non c’era (…) Chiamano per convincerti? Dai l’iban quando chiamano (…) in base a quello che mandano eventualmente modifichiamo le dichiarazioni ma capisci che non si può fare gratis”. Il 7 marzo poi la deputata presenta due interrogazioni parlamentari sul carcere e l’Icam.

Secondo i pm da una frase detta da Nicosia a Capano in una conversazione intercettata il 19 febbraio si comprenderebbero due cose: che la Occhionero “aveva rifiutato la proposta dell’indagato” e che “l’iniziativa criminosa veniva illustrata dal Nicosia anche a Capano”. In realtà la conversazione non è affatto chiara.

Comunque Capano non ci vede nulla di male: “Me la ricordo questa conversazione. Il senso era esattamente l’opposto. Nicosia si era reso conto che non c’era un’attività sul piano trattamentale che corrispondesse a un’attività della cooperativa. La Occhionero invece si rendeva conto delle difficoltà delle cooperative e diceva ad Antonello: ‘Non ci andiamo così pesante su questa cosa’. Lui rispondeva: ‘Ma no, noi dobbiamo denunciarla’. In questo contesto Nicosia mi dice la frase: ‘Ma che a noi ci pagano questi per non denunciare?’. Non certo perchè volesse essere pagato davvero”.

“Lega: la truffa è prescritta, ma i 49 milioni vanno restituiti”

Il processo si è concluso con la prescrizione, ma la truffa ai danni dello Stato ci fu eccome e fu macroscopica. Lo ha stabilito la Cassazione, che ha ieri depositato le 76 pagine di motivazioni della sentenza con cui l’ex segretario della Lega Nord Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito sono stati “salvati” dall’accusa di aver truffato lo Stato sui rimborsi elettorali. La vicenda è quella dei famosi “49 milioni” (sempre dovuti nonostante la prescrizione in quanto permane la responsabilità civile) frutto di false rendicontazioni delle spese elettorali per anni 2008, 2009 e 2010, percepiti in ragione delle “condotte delittuose” degli imputati.

La Corte smonta punto per punto le motivazioni del ricorso in Cassazione contro la sentenza di appello del 2018, con cui i giudici di merito, pur dichiarando la prescrizione, “hanno evidenziato le grave lacune nella tenuta della documentazione contabile”, rilevando come “le macroscopiche omissioni” per “occultare la destinazione ad illeciti fini privati di somme uscite dalle casse e dai conti correnti del partito (la ristrutturazione dalle casa di Bossi, l’affitto di una casa a Genova per Belsito, la laurea comprata in Albania e il leasing di una Bmw per i figli del segretario, ndr) fossero “riconducibili ad un sistema caotico ed incontrollabile”. “Il tema centrale del processo – scrivono i giudici – attiene indubbiamente ai profili della insindacabilità delle spese sostenute dal partito”. In pratica le difese, lungi dal contestare la falsità dei rendiconti, sostenevano che i rimborsi elettorali fossero una semplice forma di finanziamento per l’attività generica del partito e non un rimborso delle spese elettorali sostenute. Tesi duramente censurata dalla Corte che stabilisce invece come la normativa imponesse “una modalità di tenuta della contabilità ordinaria di maggior rigore rispetto a quella prescritta per le normali associazioni non riconosciute”.

Marti, che melina: deciderà Palazzo Madama

Il ridicolo ping pong non è ancora finito. Dovrà essere il Senato ad autorizzare i magistrati di Lecce l’utilizzo delle intercettazioni che riguardano il leghista Roberto Marti, a cui sono contestati i reati di tentato abuso di ufficio, falso ideologico aggravato e tentato peculato per l’assegnazione di una casa popolare al familiare di un boss.

Lo ha deciso la Camera all’unanimità, mettendo un primo punto fermo a una vicenda che si trascina da mesi a causa dell’opposta interpretazione sulla questione della competenza da parte di Palazzo Madama. Che da 18 mesi tiene in congelatore una richiesta analoga, formulata questa volta dai magistrati del Tribunale di Napoli Nord e che riguarda il forzista Luigi Cesaro, alla sbarra con l’accusa di corruzione elettorale.

Questioni, quella di Marti e Cesaro (entrambi senatori oggi, ma deputati all’epoca dei fatti contestati), che si sono incrociate mandando in tilt i due rami del Parlamento. Con l’effetto di mettere in entrambi casi a rischio i due processi. Ma in realtà, almeno stando alla decisione di ieri della Camera, la soluzione era a portata di mano. E i mesi di stallo registrati fin qui potevano essere evitati.

Lo ha fatto capire chiaramente in aula il presidente della Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio, Andrea Del Mastro Delle Vedove: “La questione era già stata risolta nella passata legislatura con un precedente illustre: era il precedente di Denis Verdini. In occasione del quale la Giunta per le autorizzazioni della Camera, unitamente a quella del Senato, in modo prima informale e poi formale, aveva ritenuto che la competenza si radicasse presso la Camera di attuale appartenenza del parlamentare”. Ma come si era arrivato a definire quel precedente? È presto detto: l’articolo 68 fa riferimento esplicitamente al fatto che in caso di intercettazioni di un parlamentare, è necessaria l’autorizzazione preventiva “della Camera alla quale appartiene”.

E del resto non può che essere così, se si ragiona sul senso della norma. Come ha spiegato lo stesso Del Mastro Delle Vedove, convinto che l’articolo 68 sia innanzitutto posto a presidio dell’integrità dell’Istituzione e non del singolo eletto, altrimenti si tratterebbe di un privilegio.

A quanto pare insomma la questione era più semplice di quanto è sembrato fin qui. Ma almeno ora il caso chiuso? Giammai. Perché al Senato non sono affatto convinti di questa interpretazione e sono stati già annunciati ulteriori approfondimenti per adeguarsi (eventualmente) all’orientamento di Montecitorio.

In quel caso si dovrà riconoscere l’errore commesso in precedenza e finalmente si entrerà infine nel merito della vicenda. Che poi è rimasta per circa 18 mesi sullo sfondo. Va data o no l’autorizzazione per usare le intercettazioni in cui vi sarebbe prova delle promesse di posti di lavoro e commesse pubbliche fatte per agevolare l’elezione del figlio di Cesaro a Palazzo Santa Lucia? E che succederà quando arriverà in Senato la pratica Marti? Nessuno è in grado di escludere ulteriori colpi di scena. E intanto i magistrati di Napoli e Lecce fanno la muffa.

Senato, 700 euro al mese: assegnino per Formigoni

Il Senato si è commosso di fronte a una storia tanto triste. E così ha accordato a Roberto Formigoni una pensione sociale da circa 700 euro perché il rischio è che non abbia di che sfamarsi. E a breve Palazzo Madama potrebbe pure restituirgli il vitalizio che gli ha congelato appena lo scorso 1 agosto, dopo che la sua sentenza di condanna per corruzione è diventata definitiva. A febbraio, infatti, la Cassazione aveva confermato il “gravissimo sistema illecito di storno di denari pubblici a fini privati” alla base del processo sulla mala gestio del sistema sanitario di Regione Lombardia. In cui l’ex governatore è stato riconosciuto colpevole di aver asservito la sua funzione agli interessi economici della Fondazione Maugeri e del San Raffaele. Che grazie ai suoi “santi” uffici avevano ricevuto per anni un fiume di finanziamenti pubblici grazie a delibere regionali adottate contro la legge. Ovviamente a fronte di vantaggi ingenti: secondo i giudici Formigoni è stato ricompensato con denaro, favori, sconti, ma pure viaggi, vacanze, benefit di ogni genere, oltre che il finanziamento di spese elettorali.

Ora però “il Celeste” dice di passarsela malissimo. Anzi di più, come hanno sottolineato i suoi agguerritissimi legali alla Commissione contenziosa del Senato presieduta dal forzista Giacomo Caliendo. Che ha accolto immediatamente la sua richiesta. E del resto come resistere a certi argomenti? “Roberto Formigoni ha dedicato l’intera propria esistenza alle Istituzioni, con 18 anni di impegno presso la regione Lombardia e 16 anni presso il Parlamento europeo, la Camera e il Senato”, hanno scritto i suoi avvocati nel ricorso in cui chiedono la restituzione del vitalizio da 7.709, 28 euro lordi al mese, ridotti a “soli” 3.385,14 da gennaio per effetto del ricalcolo contributivo degli assegni di tutti gli ex senatori. Ma per Formigoni sembra questione di vita o di morte. E di portafogli. Perché ha 72 anni e è ai domiciliari. E quindi la revoca del vitalizio è una vera ingiustizia: “È stato privato – sostengono – anche di un reddito minimo che assicuri la sua stessa sopravvivenza”. Dopo la conferma della condanna in Cassazione i magistrati gli hanno pignorato tutto. O almeno tutto quello che hanno trovato: sul suo capo pende infatti una richiesta da 47 milioni di euro da parte della Corte dei Conti della Lombardia. Ma almeno sui depositi bancari non hanno scovato granché. Gli sono stati sequestrati invece altri beni compreso il vitalizio che gli corrispondeva la Regione. Quando il Senato ha smesso di erogargli l’assegno da ex senatore si è dunque visto perso. Ma non vinto. Ha chiesto indietro l’assegno ma ha pure chiesto i danni per l’ingiustizia che Palazzo Madama gli avrebbe inflitto lasciandolo a secco e senza nemmeno “premurarsi di verificare le reali condizioni in cui versava e versa attualmente”. Argomenti che hanno fatto breccia.

In un clima non facile. Perché in questi giorni la Commissione Caliendo è stata al centro delle polemiche dopo che è venuto fuori, grazie alle rivelazioni del Fatto Quotidiano, un micidiale intreccio di rapporti tra Nitto Palma, il capo di gabinetto della presidente del Senato Casellati e due membri della Commissione da lei nominati nell’organismo. Ebbene nella seduta in cui si è dovuto prendere atto delle dimissioni della senatrice pentastellata Elvira Evangelista che ha così preso le distanze dall’organismo, la Commissione che fa? Ha integrato il collegio con un sostituto in modo che si potesse intanto accogliere l’istanza cautelare proprio dell’ex governatore lombardo. In attesa di sapere se gli ridaranno il vitalizio vero e proprio su cui Formigoni è pronto ad arrivare fino alla Consulta.

Perché ritiene che siano stati violati una manciata e più di articoli della Costituzione con la decisione che gli ha sottratto l’assegno. E lui non se lo merita proprio. Perché, come hanno scritto i suoi avvocati, le sue iniziative politiche istituzionali e legislative non si contano e “hanno intensamente ritmato la sua attività pubblica. La quale, a buon diritto va considerata caratterizzata da un reale tasso di innovatività dando altresì vita a modelli di governo della res publica di avanguardia ed eccellenza nell’intero panorama occidentale”. Amen.

Alessandro Di Battista si rimette in viaggio. “Vado in Iran per lavorare al nuovo libro”

In queste settimane di mare molto agitato, lo hanno invocato diversi Cinque Stelle, anche di rango. Ma ieri sera, Alessandro Di Battista, è ripartito. Per l’Iran. L’ex deputato romano, silente da diverso tempo per seri problemi familiari, dovrebbe restare nel paese mediorientale per alcune settimane, probabilmente fino a Natale.

A chi lo ha sentito nelle scorse ore, Di Battista ha spiegato che resterà in Iran per compiere “ricerche” per un nuovo libro, incentrato sulla politica internazionale. Un viaggio anche di lavoro, insomma, proprio mentre il Movimento discute della sua identità e della sua rotta. E in particolare dell’opportunità o meno di allearsi con il Pd alle prossime Regionali. La linea del capo politico Luigi Di Maio è chiara: no a nuovi accordi dopo la disfatta dei giallorossi in Umbria. “Comunque decideremo assieme ai territori”, ha garantito Di Maio, che dagli eletti di Emilia-Romagna e Calabria ha già ricevuto un (quasi) unanime muro a intese ai dem. In sintesi, ha sentito quello che voleva sentire. E che avrebbe voluto sentire anche Di Battista, anche lui contrario agli accordi locali, assicurano dai piani alti del Movimento. “Su questo tema Luigi e Alessandro sono perfettamente allineati”. Proprio come lo erano in agosto, quando entrambi erano contrari a far nascere un esecutivo con il Pd. Poi il fondatore Beppe Grillo e gli iscritti sulla piattaforma web Rousseau (nonché Giuseppe Conte) prevalsero.

Ma Di Battista in queste settimane non ha cambiato idea. Da qui a dicembre si occuperà e penserà soprattutto ad altro. “Ma continuerò a seguire il dibattito in Italia”, ha assicurato l’ex deputato. Attento in particolare alla discussione sulle norme che toccano l’ambiente e al caso Ilva. I suoi temi, quando era in Parlamento. Molto prima dell’Iran.

Ecco la bomba referendum sul taglio dei parlamentari

Arrotolate gli striscioni, per un momento. Neanche un mese fa, in estasi per i 553 sì dei deputati, i Cinque Stelle hanno celebrato il taglio delle poltrone davanti a Montecitorio con un sorridente Luigi Di Maio: da 630 a 400 seggi alla Camera, da 315 a 200 al Senato. Adesso sulla riforma della Costituzione – che recupera il perduto “apriscatole” di grillina memoria – incombe la raccolta delle firme di palazzo Madama per chiedere un referendum che la blocchi e incombe pure sulla tenuta della legislatura e perciò del governo di Giuseppe Conte.

Il senatore Andrea Cangini, già giornalista, direttore e capolista di Forza Italia nelle Marche, è fiero dell’opera di persuasione fin qui svolta: “Un sentimento di resipiscenza alberga nel cuore dei colleghi, noi pretendiamo che siano i cittadini a decidere se il taglio è giusto, proporzionato e dunque legittimo, perché non vogliamo che la democrazia sia travolta dal qualunquismo. Le posso annunciare che abbiamo certificato 42 adesioni, tra cui il senatore a vita Carlo Rubbia, premio Nobel per la fisica, e il traguardo di 65 non è lontano. Però le confesso che io predico prudenza”. Più che prudenza, occorre pazienza. Perché il limite invalicabile di Cangini è il 12 gennaio, quel giorno, a tre mesi dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e se la cancelleria della Cassazione non riceve una proposta di referendum costituzionale, detto anche sospensivo o confermativo, entra in vigore la riforma del taglio che porta il nome dell’ex ministro Riccardo Fraccaro, promosso dai Cinque Stelle a sottosegretario a Palazzo Chigi. “C’è ancora del tempo e siamo a buon punto, il desiderio di referendum aumenta”, chiosa Cangini.

Appena l’otto di ottobre, per dire della coerenza politica, la riforma Fraccaro è passata tra le fanfare alla Camera con un plebiscito che somigliava all’ultima penitenza di una “casta” ormai arresa. Nessuno ha considerato davvero l’ipotesi del referendum. Chi avrà le risorse finanziarie e strutturali per procacciare 500.000 firme di cittadini? Chi avrà l’ardire di coinvolgere cinque consigli regionali? Chi avrà il coraggio di intestarsi un’iniziativa per niente popolare con un quinto degli appartenenti a un ramo del Parlamento? E invece il senatore di Forza Italia ha congegnato un sistema perfetto: cominciare da palazzo Madama dove i numeri sono ridotti, piluccare di qua e di là, suscitare l’entusiasmo degli onorevoli. “Perché i Cinque Stelle, fautori della democrazia diretta, dovrebbero opporsi al referendum?”, dice un esponente di rilievo del Pd.

“Io mi muovo – afferma Cangini – con spirito libero e non di partito. Ho riscontrato il sostegno di senatori di Forza Italia e di Italia Viva, ho coinvolto la maggioranza di governo con il Partito democratico e ricevuto una spinta persino dagli ‘avversari’ dei Cinque Stelle, senza dimenticare il gruppo misto. Chi l’avrebbe mai detto? Qui non parliamo di un conforto all’interno di una ‘casta’, ma di una partecipazione concreta e convinta perché le 42 firme sono state già autenticate dalla segreteria di Palazzo Madama e conto di arrivare a breve a 50”. Com’è facile intuire, all’appello di Cangini mancano la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, gli unici politici che, sospinti dal voto in Umbria e dai sondaggi più freschi, non temono né le elezioni anticipate né il taglio effettivo dei seggi.

Dal vaglio in Cassazione alla delibera del Consiglio dei ministri fino al decreto di indizione delle elezioni del Quirinale, per il referendum costituzionale – valido senza quorum – servono più o meno cinque mesi e quindi gli italiani potrebbero votare in giugno. E poi ci sono le variabili e le tattiche che possono compromettere o agevolare la vita del Conte 2.

Borgonzoni in testa, ma non per papà: “Io voterò Bonaccini”

Nel 2010, in occasione della qualificazione dell’Italia ai Mondiali di calcio, la Provincia di Bologna decide di suonare l’inno di Mameli prima di ogni seduta del consiglio. Per giorni, alla prima nota, i consiglieri della Lega Nord escono dall’aula. A guidarli c’è una ragazza di 34 anni, dai capelli rossi e le unghie laccate di verde: Lucia Borgonzoni, oggi candidata alla presidenza dell’Emilia Romagna. “Mia madre, che votava Lega lombarda, mi faceva trovare tutto il merchandising su Alberto da Giussano. Mi ha fatto un lavaggio del cervello”.

Nipote di Aldo, pittore partigiano che volse la pittura all’impegno sociale le cui opere sono esposte (tra l’altro) al museo Puskin di Mosca, Lucia inizialmente segue le orme familiari. Si iscrive all’Accademia di Belle Arti e si laurea con una tesi in Fenomenologia degli Stili con Concetto Pozzati. Poi la folgorazione per la Lega. Una scelta che il padre Giambattista, architetto molto noto a Bologna, non condivide fin dal 2016 quando la figlia va al ballottaggio contro il dem Virginio Merola: “Ti auguro di cuore di raggiungere tutti i risultati che meriti, che tu ce la faccia a diventare sindaco perché hai grandi qualità. Penso che la Lega Nord sia il termometro della febbre, ma non la cura per il Paese. Quello degli immigrati è un problema gigantesco, non saranno i muretti bassi di Salvini a risolverlo”.

Lo scorso autunno, l’architetto prende anche la tessera Pd, ma assicura di non voler fare attività politica: “L’ho fatto vedendo come fosse in sofferenza quel partito dalla grande tradizione, un colpo di commozione”. Oggi della figlia non vuole parlare. “Le parole hanno un peso e io non voglio entrare in questa vicenda. Auguro ogni bene a Lucia ma, come è noto, voterò per Stefano Bonaccini, è stato un ottimo presidente. È un fatto culturale, non è assolutamente detto che ascendenti e discendenti debbano avere le stesse opinioni”.

Da ragazza, Lucia passa una breve fase dark, poi metallara con camicia a quadri e pantalone sdrucito e ogni tanto fa la barista al centro sociale Link. “Non rinnego quel periodo, i centri sociali sono cambiati, un tempo non mettevano a ferro e fuoco le città, sapevano chi votavo e nessuno mi ha mai detto nulla”. Lascia la Provincia per il consiglio comunale e qui inizia a fare sul serio, seguendo il trend leghista del momento.

Nel 2012, nel giorno della Memoria, propone di censire i musulmani residenti per dimostrare che Bologna non ha bisogno di nuove moschee. Un’idea che condivide con un ancora semi-sconosciuto capogruppo leghista nel comune di Milano, Matteo Salvini.

Nonostante Lucia sia una fedele di Umberto Bossi, il feeling tra i due cresce. Nel 2014 durante una visita in un campo rom viene aggredita a calci e schiaffi da un’ospite. Immediato l’arrivo di Salvini, nel frattempo assurto a leader nazionale, al grido di “non esistono zone franche”. Alcuni ragazzi dei centri sociali gli assaltano l’auto, spaccandone i vetri. Onori che Lucia e Matteo si appuntano al petto, stellette al merito.

A farne le spese è Manes Bernardini, definito il “leghista atipico”, faccia pulita che non dispiace anche a sinistra, maroniano doc. Nel 2011, candidato sindaco, prende 63mila voti contro Merola. Una buona performance nel momento più nero del Carroccio quando Bossi vieta persino all’ex amico Bobo Maroni di parlare ai comizi. In consiglio comunale Lucia e Manes siedono fianco a fianco ma non si amano, lei spesso lo bacchetta “sei troppo moderato”. Bernardini scompare.

Esplode il caso dei fondi neri. Una ventina di esponenti della Lega, da Reggio Emilia a Piacenza, si accusano di aver rubato per anni soldi al partito. I pm formalizzano l’accusa di appropriazione indebita: 150mila euro spesi in buffet elettorali, rimborsi chilometrici, multe stradali. Lucia ci finisce in mezzo, per soli 764 euro. È il primo processo politico mai svolto a Reggio ma con la riforma Orlando va tutto in fumo, per il reato di appropriazione indebita non si può più agire d’ufficio.

Nel governo giallo-verde diventa sottosegretaria ai Beni culturali, ma si fa notare principalmente per una dichiarazione: “L’ultimo libro l’ho letto tre anni fa”. Il suo avversario Stefano Bonaccini, Pd, non perde occasione per ricordare la recente gaffe sui confini della Regione, allungati fino al Trentino. Lei guarda gli ultimi sondaggi e ride.

Retelit, la versione di Conte compatta la maggioranza

Il chiarimento di Giuseppe Conte sul caso Fiber 4.0 alla Camera dei deputati si conclude con un compattamento della maggioranza, che si riconosce tutta nella relazione del presidente del Consiglio, e in un’occasione di scontro tra Lega e M5S sulle mancate comunicazioni di Salvini sul Russiagate.

La questione riguarda la consulenza legale prestata dal primo ministro, quando era ancora solo avvocato, a una società, la Fiber 4.0., partecipata dal finanziere Raffaele Mincione, e relativa al contenzioso tra questa e la Retelit, società di infrastruttura telematica di cui Fiber possiede il 12%. All’epoca, Conte segnalava alla Fiber che la Retelit, in cui spiccava una componente azionaria riconducibile al governo libico, avrebbe dovuto notificare la propria governance ai sensi della legge che permette all’esecutivo di esercitare i poteri speciali, il golden power, previsto in caso di aziende strategiche per il Paese. Quei poteri speciali il governo Conte li esercitò effettivamente il 7 giugno in una seduta in cui il premier era assente e che fu presieduta da Matteo Salvini, vicepremier.

“Ho accettato l’incarico di redigere il parere per la società Fiber 4.0 – dice Conte alla Camera – in un momento in cui io stesso non potevo immaginare che di lì a poco sarebbe nato un esecutivo da me presieduto”. L’incarico viene infatti conferito il 23 maggio e al quotidiano Libero che ha scritto ieri di un incontro avvenuto il 13 maggio con Salvini e Di Maio (circostanza ripresa in aula dai deputati di Fratelli d’Italia), Conte ha spiegato che l’incontro è “comunque intervenuto a distanza di giorni dall’accettazione dell’incarico e quando l’attività di studio della questione giuridica e di elaborazione del parere era ormai completata”. Il parere viene infatti consegnato il giorno dopo, il 14 maggio.

Tommaso Foti di Fdi gli contesta comunque che mentre consegnava il parere aveva già in testa la proposta che gli era stata fatta la sera prima, ma forse la circostanza non è così solida. E infatti ieri l’opposizione, a parte la sfacciataggine del deputato di Forza Italia Mulé che ha esaltato la legge sul conflitto di interessi voluta da Silvia Berlusconi, non è sembrata molto aggressiva. Conte ha così potuto ricordare le sue puntuali astensioni da qualsiasi decisione nel corso dei Consigli dei ministri che si sono occupati della questione, con tanto di lettere, poi diffuse alla stampa, consegnate alla Segreteria generale di Palazzo Chigi in cui si metteva nero su bianco tale decisione. E infine, ha ricordato la decisione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che, nel corso dell’adunanza del 23 gennaio 2019, “ha ritenuto di non dover avviare alcun procedimento”. Applausi dalla sua maggioranza con Nicola Zingaretti che ha rimarcato il gesto di Conte di presentarsi in aula ricordando poi che il governo decise in una seduta in cui a capotavola c’era Matteo Salvini.

Il ricatto di Arcelor, i Tafazzi giallorosa e chiacchiere da bar

Lunedì sera, gli svariati milioni di italiani che davanti alle tv cercavano di saperne qualcosa di più sull’imbroglio ex Ilva, hanno capito che il governo è formato da una manica di imbecilli (e forse pure di venduti allo straniero, a sentire i sovranisti un tanto al chilo). Dementi che rischiano di mandare in malora il più grande impianto siderurgico d’Europa, con l’annunciata fuga di ArcelorMittal, e dunque di mettere sul lastrico 20mila lavoratori tra operai e occupati nell’indotto. Una catastrofe sociale senza precedenti per Taranto e la Puglia che potrebbe costare all’Italia qualcosa come l’1,4 per cento del Pil. Un suicidio perfetto che d’ora in avanti convincerà qualsiasi investitore estero a starsene prudentemente alla larga da un Paese guidato da un ex bibitaro dello stadio San Paolo nonché da incompetenti patentati felici di mandare in galera gli imprenditori di buona volontà, e che teorizzano la “decrescita felice”, ovvero il ritorno all’età della carrozza a cavalli e dei mulini a vento. Questa è una breve sintesi (testuale) di ciò che abbiamo ascoltato saltando da un canale all’altro, dibattiti tutti indistintamente dominati dallo sgomento e da una mesta considerazione: in che mani siamo finiti.

Ma le cose stanno davvero così? E chi lo sa? Infatti l’altra sera mentre il governo veniva ridotto a brandelli, la voce del governo semplicemente non c’era. O se c’era non si sentiva proprio. Chiariamo subito: per ragioni di ascolto non esiste talk, perfino il più faziosamente avverso al Conte bis che non farebbe carte false per avere in studio un ministro, un viceministro o anche un semplice sottosegretario in grado di controbattere alle accuse di incapacità, sottomissione al nemico ecc. con gli argomenti che sicuramente al Conte bis non mancano. Un problema sicuramente avvertito a Palazzo Chigi, tanto è vero che per ore è stato annunciato un video del premier, mai apparso. Con il risultato che ieri mattina, nei discorsi da bar (che poi diventano schede sonanti nell’urna) la percezione di un maggioranza allo sbando era quella appena descritta. Con un sottotesto anch’esso percepibile: quando arriva Salvini?

Questo diario non ha le pretese, e neppure le necessarie competenze per addentrarsi nel roveto ardente dell’ex Ilva anche se un’opinione se l’è fatta: che cioè ArcelorMittal aspettasse soltanto la scusa buona per ricattare lo Stato italiano, l’alibi per sganciarsi da un investimento considerato non più produttivo. Visto che ciò era noto anche ai sassi, a seguito dell’emendamento soppressivo dello scudo penale – a firma M5S, votato da Pd, Italia Viva e LeU –, ci si chiede perché mai il governo non abbia giocato d’anticipo ponendo subito un perentorio chi va là! alla multinazionale francoindiana? In modo da non farsi trovare del tutto impreparato, come invece è avvenuto.

Possibile, come abbiamo letto da qualche parte, che il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli (che conosciamo come persona seria) avesse pochi giorni fa tranquillizzato i colleghi dell’esecutivo assicurando che la proprietà della fabbrica non aveva intenzioni ostili? Ne capiremo di più nei prossimi giorni, anche se il problema centrale resta quello dell’evidente squilibrio tra la sempre più invasiva comunicazione dell’opposizione di destra e la sempre più flebile e balbettante comunicazione giallorossa.

Può darsi che il governo parli poco (e male) perché non sa cosa dire. Più credibile l’idea di un risiko dei Malavoglia, con il quale ogni pezzo della maggioranza cerca di mangiarsi un altro pezzo, possibilmente quello elettoralmente più contiguo, per ragioni di pura propaganda. Un giochino al massacro che è sotto gli occhi di tutti quando nei vari salotti televisivi assistiamo alla polemica di Carlo Calenda contro Matteo Renzi, di Matteo Renzi contro Nicola Zingaretti, di Calenda e Renzi contro Conte, dei Cinquestelle contro chi capita.

Mentre sull’altro versante, dimenticati i nefasti del Papeete e rinvigorito dal plebiscito umbro, il salvinismo ha ben compreso che non c’è bisogno di agitarsi più di tanto, e ciò nella fiduciosa attesa che il Conte bis imploda per conto suo.

Domanda a Conte, Zingaretti e Di Maio (a Renzi è inutile): prima che l’alleanza Pd-M5S finisca definitivamente in frantumi (oggi, stando ai sondaggi, i due partiti insieme valgono la Lega da sola), per salvare il salvabile non sarebbe meglio piantarla con queste insopportabili guerricciole? E farsi sentire con una voce sola, forte e chiara? Altrimenti non sarebbe meglio andare quanto prima al voto?

“La fuga di Mittal era più che prevedibile. Ora basta giochetti, pensate a Taranto”

“La fuga di Mittal? Non ne sono sorpreso, c’erano stati già segnali che avrebbero dovuto essere colti e non lo sono stati. Sono invece molto preoccupato per quello che potrebbe accadere, rischiamo che all’emergenza ambientale, tuttora ben lontana dall’essere risolta, si aggiunga quella sociale. Taranto è una città che soffre per la mancanza di opportunità per i giovani, che continuano ad andare via per realizzare le proprie aspirazioni, non possiamo permetterci ulteriori sacrifici di posti di lavoro”.

Monsignor Filippo Santoro, vescovo di Taranto, a suo parere ArcelorMittal se ne va per via dello scudo penale? I 5Stelle gli hanno offerto l’assist eliminandolo?

Certo, cambiare le condizioni in corso d’opera ha dato ad ArcelorMittal il pretesto per rimettere in discussione l’accordo che con così tanta fatica era stato sottoscritto dalle parti. Tutta la vicenda è stata gestita con approssimazione e demagogia: parliamo dell’acciaieria più grande d’Europa, avremmo avuto bisogno di lungimiranza e senso di responsabilità. Altresì leggo strumentalizzazioni politiche che non favoriscono la comprensione di un problema complesso: è stata la magistratura ad adottare i provvedimenti di sequestro degli impianti non a norma e il provvedimento che abolirebbe lo “scudo penale” presente nel decreto Salva-imprese è al vaglio della Corte costituzionale perché sempre la magistratura ha richiesto il giudizio di legittimità.

Cinque governi diversi hanno provato a trovare soluzioni per l’ex Ilva di Taranto: siamo davvero alla resa dei conti?

Questo sta a significare che non c’è nessuna parte politica che possa dirsi “innocente”. Finora ci si è adoperati per trovare soluzioni per ex Ilva, ora è il momento di trovare soluzioni per Taranto e per i suoi cittadini, per i lavoratori. La città è disorientata, smarriti sono i lavoratori vittime di volta in volta di chi li ha additati come “collusi” quando non “responsabili” dell’inquinamento e della paura quotidiana di non essere più in grado di sostenere la propria famiglia. Siamo al punto in cui sono diventati intollerabili i giochetti della politica per lucrare il consenso.

Lei in passato si è sempre battuto per chiedere il bilanciamento tra diritto alla salute e diritto al lavoro: crede ancora che possano convivere?

Devono convivere! L’attuazione del Piano ambientale è possibile solo utilizzando risorse rivenienti dai bilanci dell’acciaieria e non possiamo condannare alla cassa integrazione prima e alla disoccupazione poi gli operai che si andrebbero ad aggiungere ai tanti disoccupati per i quali non si trova soluzione. Occorre uno sforzo di rinnovata analisi e di creatività per creare posti di lavoro stabili. Se lo stabilimento dovrà limitare la produzione per rispettare i parametri ambientali, si faccia subito l’impossibile per dare garanzie per la creazione di alternative credibili.

Volgendo un attimo lo sguardo al passato, ha condiviso la scelta di affidare la fabbrica a Mittal nonostante i tecnici dei commissari avessero indicato nel piano di Jindal l’offerta migliore?

Sono stati fatti tanti errori, l’ho già detto, non è costruttivo fare valutazioni con il senno di poi, dobbiamo impiegare tutte le nostre energie per valutare il presente e programmare il futuro. Mi auguro che tutte le parti in causa lo facciano e abbandonino le schermaglie e il gioco delle parti che denota solo mancanza di rispetto per il dramma di una città intera.

Salvini sostiene che un operaio vale dieci Balotelli, che ne pensa?

Sono un vescovo: Gesù Cristo, il Vangelo, mi hanno insegnato il valore dell’uomo in quanto tale. Ogni uomo per me vale Gesù Cristo. Vivere da cristiani è mettere in pratica gli insegnamenti che abbiamo ricevuto, non stilare graduatorie.