Mattarella ora si aspetta una soluzione da Conte

Dopo l’incontro di oggi con i vertici di Arcelor Mittal, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si aspetta che il premier Giuseppe Conte sia in grado di chiamarlo e di informarlo su un esito positivo dei colloqui. Un auspicio quasi obbligato da parte del Quirinale, che osserva la situazione con sempre maggior preoccupazione: se così non fosse, infatti, il rischio che la situazione del governo degeneri è altissimo. Perché la chiusura dell’Ilva viene vista nel mondo della politica non solo come una crisi industriale pesantissima, ma anche come un punto di non ritorno rispetto alle difficoltà dell’esecutivo. Quella di ieri, per la politica italiana, è stata una giornata convulsa, all’insegna delle divisioni nella maggioranza, con il Pd e Italia Viva che pressano per il ripristino dello scudo e il M5S che, nonostante l’apertura di Conte, resta diviso.

Dubbi, irritazione, preoccupazioni, si registrano soprattutto in casa Pd. Il segretario Nicola Zingaretti, che molti descrivono in una condizione di confusione rispetto alle scelte da fare, sta cercando disperatamente una via d’uscita per evitare di rimanere stritolato dalle dinamiche di un governo che originariamente neanche voleva. Sullo sfondo, c’è la madre di tutte le battaglie. In Emilia-Romagna si vota il 26 gennaio: perdere quella Regione per i Dem sarebbe davvero l’inizio della fine. E così, davanti ai sondaggi non proprio favorevoli, lo stesso Zingaretti e il vice segretario, Andrea Orlando, stanno persino prendendo in considerazione l’idea di far cadere il governo prima, con l’idea di portare il paese alle elezioni lo stesso giorno, per evitare di intestarsi la sconfitta emiliana. Strategia che mostra più di qualche falla, tanto più che in primavera si fanno le nomine e nel 2022 si vota per il presidente della Repubblica.

Per il Nazareno, la chiusura dell’Ilva va scongiurata a tutti i costi. Pena la stessa credibilità del governo. Ormai il segretario lo ripete un giorno sì e un giorno no, tipo mantra “non si governa da nemici”. Ce l’ha soprattutto con i Cinque Stelle, “Noi siamo leali, aspettiamo di capire Di Maio come la mette. Ma anche noi cominciamo a stancarci”, ripetono i fedelissimi, M5S non ha ancora preso una decisione definitiva su se candidarsi in Emilia, non presentarsi o appoggiare Stefano Bonaccini. E ieri è saltata pure l’operazione alla quale Zingaretti lavorava da due mesi e mezzo, ovvero l’ingresso in giunta dei Cinque Stelle. Ha preso atto alla fine che il gruppo è diviso a metà e attribuisce il fallimento del progetto all’ostilità di Di Maio e di Virginia Raggi. Ma il segretario del Pd ce l’ha anche con Matteo Renzi. “Aprire una polemica su una manovra sottoscritta da tutti è un’operazione di basso livello che gli italiani giudicheranno”, ha detto a DiMartedì. Nel Pd trovano insopportabile che a far passare la manovra come quella delle tasse sia non l’opposizione, ma una componente della maggioranza.

Il fu Rottamatore, a sua volta, al netto della strategia di disturbo, comincia a montare insofferenza. Ha mal sopportato le critiche di tutta Base Riformista negli ultimi giorni (a partire da ex fedelissime come Alessia Morani): una batteria organizzata dall’ex amico, Luca Lotti. Non vuol dire che rovescerà il tavolo volontariamente, ma che a un certo punto potrebbe esagerare e far crollare una costruzione sempre più debole, resta una possibilità. A continuare a lavorare per puntellare il governo è Dario Franceschini: punta a un Movimento libero da Di Maio. Aveva puntato su Conte, è pronto pure a cambiare cavallo. Nel frattempo, ieri un Giancarlo Giorgetti particolarmente rilassato si dedicava persino a dare consigli al nemico: “Se io fossi Zingaretti, in Emilia mi presenterei con Bonaccini, senza i Cinque Stelle. Perché così si vince. E il giorno dopo farei cadere il governo e andrei alle elezioni”.

Mittal: “L’immunità non basta, elementi falsi dai commissari”

Lunedì sera, ArcelorMittal ha depositato al Tribunale di Milano una citazione per i tre commissari straordinari dell’Ilva di Taranto: è l’atto legale con cui intende recedere dal contratto d’affitto dell’acciaieria (l’acquisto scatterà solo nel maggio del 2021). I motivi sono quelli anticipati dal comunicato di lunedì pomeriggio che ha fatto scoppiare la bomba Ilva sui media italiani, ma con un di più che forse spingerà l’azienda a non apprezzare fino in fondo la retorica dei suoi molti legali (e citiamo, tra gli altri, l’ex giudice costituzionale Romano Vaccarella).

Il testo, rivelato dal giornale tarantino Il Corriere del Giorno, contiene almeno un paio di sorprese. La più grossa è l’ammissione che lo scudo penale è un falso problema: “Anche se la protezione legale fosse ripristinata, non sarebbe possibile eseguire il contratto”, scrivono gli avvocati di ArcelorMittal. Qual è il problema? L’intervento della magistratura, in particolare quello seguito alla morte di Alessandro Morricella – 35 anni, una moglie e due figlie – ucciso mentre lavorava all’altoforno 2 nel lontano giugno 2015.

I giudici, in sostanza, dopo l’incidente concessero all’Ilva di continuare a usare l’altoforno, ma vincolarono quel permesso al rispetto di sette prescrizioni, tra cui una sull’automazione nel cosiddetto “campo di colata” per evitare altre morti come quella di Alessandro: era il 31 ottobre 2015 e tutte e sette risultano, in tutto o in parte, non attuate. Ora, però, c’è il redde rationem: l’ultima scadenza fissata dal tribunale è il 13 dicembre 2019, ma il termine non verrà rispettato e questo dovrebbe comportare lo spegnimento dell’altoforno. “In tal caso – scrivono i legali – dovrebbero essere spenti anche gli altiforni 1 e 4 in quanto, per motivi precauzionali, sarebbero loro egualmente applicabili le prescrizioni” del tribunale. In sostanza, bisognerebbe spegnere l’intera area a caldo: una decisione già anticipata settimane fa da ArcelorMittal al governo (è il famoso piano con i 5mila esuberi su 8.700 dipendenti totali).

E dire che gli avvocati della multinazionale erano partiti proprio dalla cosiddetta “esimente penale”, considerata “presupposto imprescindibile” per l’impegno di Arcelor a Taranto: “Del resto, nel corso della gestione commissariale, i manager di Ilva sono stati sottoposti a procedimenti penali in relazione a situazioni pre-esistenti, che non sono sfociati in rinvii a giudizio proprio per effetto della protezione legale”. Poi, nell’affastellarsi di motivi per cui i giudici dovrebbero consentire la rescissione del contratto, quella voce dal sen fuggita: “Anche se la protezione legale fosse ripristinata, non sarebbe possibile eseguire il contratto”. E il punto è proprio l’altoforno 2 e la sua storia giudiziaria innescata dalla morte di Morricella.

È tanto centrale, quella vicenda, che gli avvocati della multinazionale la citano in relazione anche ad altri motivi di recesso (“impossibilità sopravvenuta” a rispettare il contratto per le prescrizioni del tribunale), ivi compreso il più sorprendente: “Il dolo”.

In sostanza, Arcelor sostiene che i commissari nascosero informazioni fondamentali prima della definitiva stipula del contratto (31 ottobre 2018): ad esempio una nota, depositata in Tribunale l’8 ottobre 2018, in cui il custode giudiziario dell’altoforno 2 “ha rilevato che alcune prescrizioni non erano state, in tutto o in parte, attuate”; né la multinazionale fu “tempestivamente informata” sulle iniziative legali di quel periodo per far dissequestrare l’altoforno. Insomma, chi rappresentava Ilva ha “deliberatamente descritto in maniera erronea e fuorviante circostanze fondamentali relative alle condizioni dell’altoforno 2 e allo stato di ottemperanza delle prescrizioni”. Un’accusa sanguinosa a cui tanto i commissari dell’epoca quanto il livello politico (a partire dal ministro Di Maio) dovranno rispondere in modo netto.

“Era evidente, l’azienda cercava un alibi. Hanno sbagliato il piano industriale”

Parte da ciò che aveva bollato come “un pretesto”, l’immunità penale. Perché in serata Arcelor Mittal lo ammette: “Via da Taranto anche in caso di ripristino dell’immunità”. Così il ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli rivendica: “Penso che fosse evidente a tutti come la questione dello scudo fosse una foglia di fico per celare problemi industriali che non sono riusciti a risolvere. Dispiace che non lo abbiano capito le opposizioni”. Però l’ex capogruppo del M5S in Senato non straccia il filo con l’azienda: “Siamo ancora pronti ad accompagnare con ogni strumento il risanamento ambientale e il rilancio produttivo dell’acciaieria”.

Per quale ragione Mittal vuole recedere? Perché pretendeva migliaia di esuberi?

Già il 12 settembre, quando ho incontrato per la prima volta i vertici dell’azienda, mi hanno esposto le criticità industriali che stanno affrontando, legate al mercato dell’acciaio e al sequestro della banchina disposto dalla magistratura, che non consente un approvvigionamento diretto dei materiali e causa quindi un aumento dei costi di produzione. Per questo credo che il vero motivo dietro all’annuncio sia il quadro industriale complessivo. Dopodiché bisognerebbe capire come si è arrivati a questo quadro.

Lei che opinione si è fatto?

Non si è lavorato sugli altiforni, il cuore della produzione a caldo. Ma un colosso come Mittal può e deve fare delle scelte industriali. Abbiamo notato una sovrapproduzione di acciaio sul mercato estero, in particolare in Estremo Oriente, a fronte di un calo a Taranto. Ritengo che determinate scelte dell’azienda abbiano prodotto la crisi attuale.

Quando le hanno chiesto i 5mila esuberi di cui ha parlato oggi?

È una richiesta che è parsa sempre più chiara con il susseguirsi degli incontri. Sono ministro da 50 giorni, e con l’azienda ci siamo visti quattro volte finora.

Arcelor ha rilevato l’Ilva soprattutto per toglierla ai concorrenti?

Non è un mercato in cui esistono decine di concorrenti. È chiaro che spesso la strategia di alcuni gruppi è quella di occupare spazi di mercato per toglierli ad altri, più che per interesse diretto. E vale per Mittal come poteva valere per l’altra cordata, quella di Jindal.

Al posto dell’immunità lei ha proposto una norma che chiarisca quanto prevede l’articolo 51 del Codice penale: “L’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine della pubblica Autorità esclude la punibilità”.

Il dibattito non può più essere quello di reintrodurre l’immunità: va discusso se introdurre una norma che chiarisca in modo definitivo quanto previsto dall’ordinamento.

Il ripristino dell’immunità è stato proposto da Luigi Di Maio. Fu un errore?

Le fasi convulse in cui è successo tutto questo, dall’approvazione del decreto imprese in agosto con la formula salvo intese fino alla nascita del nuovo governo, non hanno favorito il dialogo tra l’esecutivo e il gruppo parlamentare del M5S. Il governo ha operato in una direzione, e i parlamentari in un’altra. E io, da ex capogruppo, ho il massimo rispetto del potere legislativo.

Forse i senatori del M5S avevano ragione…

È giusto fare battaglie identitarie, ma è altrettanto giusto avere contezza delle conseguenze. Per arrivare al risanamento ambientale servono accordi di programma e la continuità di produzione. Detto questo, stiamo parlando di alibi e non del vero problema di Mittal, l’aver sbagliato il piano industriale.

Per essere chiari: l’immunità non andava riproposta?

I vari cambi di opinione sul punto non hanno aiutato a risolvere il vero nodo, il rilancio della produzione a Taranto e la realizzazione di opere nell’area. Parlare tutto il tempo di immunità è stato un errore, anche del M5S.

Però il Pd e Matteo Renzi vogliono ripristinarla.

Credo che tutto il governo debba chiedere a Mittal di dare esecuzione agli impegni assunti con i contratti, e basta. Ritengo un po’ surreale che una parte della maggioranza chieda all’esecutivo di riferire in aula (il capogruppo dem in Senato Andrea Marcucci, ndr). La maggioranza deve parlare con una voce sola, e non con 50 tweet differenti.

Oggi vedrete Mittal. Chiederanno fondi per la cassa integrazione e uno sconto sull’affitto?

Mi aspetto che l’azienda comprenda la volontà del governo di tenere aperto l’impianto. Abbiamo già dato disponibilità ad attivare tutti gli strumenti possibili per aiutare la produzione.

La gara, lo scudo, le inchieste: il caso Ilva rispiegato da capo

Oggi, quando Giuseppe Conte incontrerà Arcelor Mittal, si capirà tutto: la multinazionale vuole davvero restituire l’Ilva allo Stato o è disposta a restare? Una cosa è certa: l’azienda ha iniziato la partita non mettendo la pistola sul tavolo, ma sparando. Venerdì ha infatti inviato ai commissari dell’acciaieria la lettera con cui recede dal contratto d’affitto degli impianti (il passaggio di proprietà avverrà nel maggio 2021). Motivo: l’abolizione dello “scudo penale” per chi gestisce la fabbrica e la pretesa dei giudici che gli altiforni non siano pericolosi per chi ci lavora. Lunedì, poi, Arcelor ha depositato al Tribunale di Milano una citazione nei confronti dei commissari. Il governo, dal canto suo, ritiene non ci siano i presupposti per recedere dal contratto: lo “scudo penale” non ne fa parte, l’azienda sta forzando la mano. Questo è un breve riassunto per capire come siamo arrivati fin qui e per orientarsi nel delirio da talk show.

L’inizio. L’acciaieria di Taranto, la più grande d’Europa, finì alla famiglia Riva nel 1995. C’era già prima, però, e c’è ancora un problema sottovalutato nel dibattito pubblico: l’Ilva inquina. A Taranto si muore e ci si ammala più che nel resto d’Italia, tanto che nel 2012 la magistratura, dopo una vasta indagine per reati ambientali, chiederà il sequestro dell’impianto. È qui che inizia tutto. A dicembre 2012 arriva infatti il primo della dozzina di “dl Salva-Ilva” (governo Monti): consente alla fabbrica di rimanere aperta nonostante il sequestro e impone ai proprietari una nuova Autorizzazione integrata ambientale (Aia) per rendere la fabbrica “a norma”. Il governo concede all’azienda tre anni di tempo: dopo sette è stato fatto assai poco, l’attuale scadenza è fissata al 2023.

I commissari. Il primo, nominato dal governo Letta, è Enrico Bondi (giugno 2013), gli succederà Piero Gnudi fino all’inizio del 2015, quando l’Ilva finirà in amministrazione straordinaria (estromettendo di fatto i Riva): è allora che s’insedia la triade Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba, che si dovrebbe occupare pure delle bonifiche (anche lì poco o niente, nonostante il miliardo sequestrato ai Riva). I commissari dovrebbero risanare la fabbrica e venderla: faranno solo la seconda cosa. Nel 2015 arriva pure la famosa “esimente penale” concessa ai gestori dal governo Renzi: copre tutto, persino le morti sul lavoro.

La vendita. Le procedure di gara iniziarono a gennaio 2016. Le cordate erano sostanzialmente due: “AM Investco” (ArcelorMittal e Marcegaglia) e “Acciai Italia” (gli indiani di Jindal, Cassa depositi e prestiti, la Delfin di Del Vecchio e le acciaierie italiane Arvedi). Il governo pare schierato con la seconda, tanto più che all’interno c’è Cdp. Non solo: sia il piano industriale che quello ambientale di Jindal & C, secondo le valutazioni tecniche, battono senza appello quelli di Arcelor. E ancora: l’impegno a una parziale decarbonizzazione porta alla cordata anche il sostegno di Regione e Comune. E poi c’è un’ultima considerazione: Mittal è il principale produttore di acciaio in Europa, continente già in sovracapacità produttiva per milioni di tonnellate. L’unico motivo per cui il colosso franco-indiano vuole Ilva è sottrarla a un concorrente e acquisirne il portafoglio clienti. Nel 2017, però, vince Arcelor: ha offerto più soldi per l’acquisto e il ministro dello Sviluppo Calenda decide che il successivo rilancio di Jindal è arrivato troppo tardi (nota a margine: l’attuale ad di Arcelor Lucia Morselli, appena nominata, guidava la cordata perdente). Quella scelta ha caricato la pistola che ha sparato lunedì.

Lo scudo penale. Introdotto da Renzi nel 2015 è stato oggetto di un bizzarro balletto. Nel decreto Crescita approvato da Lega e 5 Stelle nella primavera 2019 si era deciso di togliere l’immunità ai nuovi gestori dell’Ilva e lasciarla solo ai commissari per fare le bonifiche: quella norma ha peraltro indotto la Consulta a non pronunciarsi su un ricorso avanzato a febbraio dal Gip di Taranto, a cui è stato chiesto di riformulare il quesito. A luglio, però, Mittal ha fatto sapere che senza immunità avrebbe chiuso la fabbrica. Luigi Di Maio, all’epoca ministro dello Sviluppo, decide allora di reintrodurre parzialmente l’esimente penale: finirà, dopo il cambio di maggioranza, nel decreto Imprese. Qui accade l’imponderabile: lo stesso Di Maio, durante l’esame in Senato, cede a un gruppo di senatori grillini pugliesi e fa cancellare la sua norma (votano sì M5S, Pd, Iv e LeU). Arcelor è senza “scudo penale” dal 3 dicembre, la lettera di recesso è del 1 novembre.

Oggi. Arcelor a Taranto perde 60 milioni al mese e, come detto, non ha interesse a tenere aperta l’Ilva: a meno che il governo non gli accordi un grosso sconto sul prezzo, la Cassa integrazione per gran parte dei dipendenti (8.700 totali) e una sorta di salvacondotto dalle azioni dei magistrati, a partire dall’ordine di spegnimento pendente sull’altoforno 2 (vedi pagina accanto).

Prima gli indiani

Ha ragione Padellaro, qui sotto: l’altroieri, all’annuncio-ricatto dei padroni delle ferriere di Arcelor Mittal, il governo avrebbe dovuto inviare suoi uomini nei tg e nei talk a spiegare le cose come stanno e a contrastare con i fatti la propaganda dei due Mattei e delle loro penne da riporto. Ma il problema vero, come sempre, è l’“informazione”, che ancora una volta è riuscita a superare se stessa. Chi non sa a chi e a cosa servono i giornaloni, penserà a un esercito di creduloni che si bevono tutti quanti la favoletta dei poveri imprenditori indo-francesi traditi dal governo cattivo che vuole mandarli in galera per le colpe dei predecessori. Chi invece conosce il mondo editoriale e chi c’è dietro sa bene la verità (confermata ieri dalla stessa Mittal): dal 2012, quando i giudici sequestrarono l’Ilva come arma del delitto usata da (im)prenditori-serial killer per fare strage di operai e residenti in cambio di profitti da favola, c’è uno scontro all’ultimo sangue (degli innocenti) fra chi vuol produrre e guadagnare in spregio al Codice penale e al diritto alla salute e alla vita tutelati dalla Costituzione, e chi tenta di riportare la legalità nuel Far West chiamato Taranto.

Da allora si sono succeduti sei governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1 e Conte 2). I primi quattro hanno varato la bellezza di 11 decreti salva-Ilva che in realtà salvavano prima i Riva, poi i commissari governativi, infine i compratori indo-francesi sempre elogiati da Calenda (contro una cordata italiana molto migliore), con vari scudi impunitari (alcuni bocciati dalla Corte europea). Il governo giallo-verde levò l’immunità a Mittal, salvo poi ripristinarla parziale e graduale sotto il solito ricatto “O ce la ridate o ce ne andiamo”. Infine, in Senato, la maggioranza giallo-rosa, su proposta M5S ma col voto decisivo di Pd, LeU e renziani, ha finalmente posto fine a quello scempio giuridico, stabilendo che anche Mittal, gestendo una fabbrica italiana, è sottoposto alla Costituzione e al Codice penale italiani. E quei signori, che avevano rilevato l’Ilva con un contratto senz’alcuna immunità e promesso 1,15 miliardi di investimenti per il risanamento ambientale, salvo poi licenziare l’ad che aveva osato impegnarsi, hanno testualmente dichiarato: “L’eliminazione della protezione legale e i provvedimenti del Tribunale di Taranto rendono impossibile eseguire il contratto”. Primo caso al mondo di un gruppo imprenditoriale che pretende di operare violando le leggi del Paese che lo ospita, con un salvacondotto che gli conferisca licenza di inquinare e uccidere impensabile perfino nel terzo o quarto mondo.

Ora Renzi e il Pd, che l’avevano appena giustamente cancellato, vorrebbero ripristinarlo per “togliere l’alibi a Mittal”. Cioè ANCHE SE sanno già che Mittal racconta balle, perché aveva già deciso tutto a tavolino, essendo interessato non a rilevare e rilanciare l’Ilva, ma soltanto a tenerla ferma, ridimensionarla e poi chiuderla, evitando che cadesse in mano a concorrenti che avrebbero potuto disturbare il suo monopolio sulle acciaierie del resto d’Europa. Ma, anziché trarne le conseguenze e fare fronte comune per inchiodare questi signori ai loro impegni e smascherare la loro propaganda, Pd e Renzi si associano ai ballisti del centrodestra e dei giornaloni che fingono di credere alla leggenda della fuga per lo scudo scomparso. E danno la colpa indovinate a chi? Ma naturalmente ai 5Stelle, che dopo vari tentennamenti hanno finalmente riportato Taranto in Italia e nella legalità. Resta da capire che fine abbiano fatto i “sovranisti”, quelli che “prima gli italiani”. Questa storia sarebbe perfetta per la loro narrazione: un gruppo mezzo indiano mezzo francese pretende di violare impunemente le nostre leggi col permesso dello Stato, cioè di fare ciò che non sarebbe consentito loro né in India, né in Francia, né in nessun altro angolo del mondo civilizzato. E lo dice pure, anzi lo mette per iscritto, incolpando il Parlamento e la magistratura italiani di intralciare i suoi propositi illegali (solo chi intende delinquere chiede il permesso di farlo, anche perché l’idea che qualcuno, in uno Stato di diritto, rischi di finire indagato per delitti commessi da chi c’era prima non ha alcun senso: la responsabilità è personale).
Un sovranista degno di questo nome risponderebbe: provate a fare nei vostri Paesi ciò che vorreste fare nel nostro. Ma qui casca l’asino: i nostri sovranisti se la prendono col governo italiano, dando ragione al gruppo straniero che tratta l’Italia come una colonia da spolpare e avvelenare. E i giornali, naturalmente, dietro. Tutti: di destra, di centro e di sinistra. Repubblica parla di “attacchi tardivi del Pd alla linea dura imposta dal M5S” e chiama “colpevoli” non quelli che pretendono la licenza di uccidere, ma quelli che gliel’hanno levata. Il Messaggero fa anche meglio: addita al pubblico ludibrio i “quattro populismi” che avrebbero offeso il sacro cuore di Mittal: “Grillini, dem, Cgil e toghe”. Sul Corriere, il solito Fu(r)bini dice che “la politica industriale ha perso la bussola”, come se la politica industriale fosse garantire a una multinazionale l’impunità su omicidi e inquinamenti. Il Sole 24 Ore boccia il no allo scudo penale come “demagogia”. Per La Stampa, è colpa delle “politiche ambientali” del governo. Per il Foglio, dell’“ambientalismo ideologico”, del “giustizialismo chiodato” e della “decrescita infelice”. Poi c’è il trio Giornale-Verità-Libero, con i titoli-fotocopia “L’Ilva chiude per colpa di M5S e Pd”, “Capolavoro giallorosso”, “L’Ilva assassinata dalla scempiaggine M5S”. E le colpe di Arcelor Mittal e di chi gli ha gentilmente offerto l’Ilva? Non pervenute. Bei tempi quando i Riva si compravano i giornalisti. Oggi vengono via gratis.

“All’inizio volevo solo scappare, neanche cantare”

“Ho letto da qualche parte che Nada in sanscrito significa suono, e io da sempre inseguo un suono che so di trovare solo dentro di me. L’importante è continuare a cercare”. Non mette in pagina, la ragazza di Gabbro, la storiella già troppo usurata: quella della profezia di una zingara di nome Nada a sua madre, la venuta al mondo di una figlia che avrebbe avuto fortuna. Perché nell’autobiografia a ritroso intitolata Materiale Domestico, il successo è ancora un trauma irrisolto: i fasti adolescenziali da Ma che freddo fa in avanti sono lasciati in fondo al libro.

“Ero troppo giovane per sapere esattamente quello che mi stava succedendo, sentivo però che qualcosa funzionava male, ma non capivo. Volevo scappare, non mi andava di cantare. Mi tenevano imprigionata in quel successo di cui a me non importava nulla, come non mi importava di denaro, macchine, vestiti, attico e superattico, contratti, niente, volevo solo andare via. Scoprire chi ero davvero e imparare”. Affrontando pure le flebo prima di concedersi alla sua “musica storta”, che ha sempre venduto poco ma che è pietra angolare del vero indie italiano, quello dove l’inchiesta sul suono si incrocia con il dialogo con la psiche, in equilibrio instabile, “mugolando” senza posa – spiega lei – per ribellarsi alla prevedibilità del canto troppo educato.

Ma per fare ordine nel percorso serve una mano del Caso: un giorno Nada apre un armadio e cadono giù centinaia di nastri di canzoni arrangiate in maniera ostinatamente provvisoria. Roba splendidamente imperfetta, necessaria per mettere insieme la metà sonora del progetto, il doppio album anch’esso intitolato Materiale domestico: 24 provini (4 inediti) in uscita venerdì. Pure qui Nada si concentra sulla parte fieramente sghemba della carriera: non ci troverete Il cuore è uno zingaro, di quando vinse l’odiato Sanremo con Nicola Di Bari (e solo lui sarebbe andato all’Eurofestival, dopo aver tirato a sorte), ma le infatuazioni alt-rock scaturite dall’incontro con John Parish (produttore di P.J.Harvey) o le incandescenze elettropop anni ’80 alla Kraftwerk.

Nel libro, Nada si circonda di assenze: la madre è evocata nel giorno della scomparsa, coi brutti sogni di quel mattino, “serpi che uscivano dalla mia borsa e si arrotolavano alle caviglie, topi che sbucavano dai cassetti della credenza”. E il dialogo della vigilia, quando dal capezzale la mamma le disse: “Sai, non sono sicura di avere fatto bene a farti cantare”. “Mi stava dicendo”, scrive Nada, “che capiva le mie scelte e si rendeva conto di quanto era stato difficile per me prendere in mano la mia storia”. O il rapporto con Fausto Mesolella degli Avion Travel che con Ferruccio Spinetti diede vita al Nada Trio: serate a far felici pochi spettatori, poi la caccia alle migliori pizzerie. Finché anche l’amico Mesolella non se ne andò, e troppo presto, inchiodandola “al più grande dolore della mia vita”, con la sola consolazione che “Fausto è una stella cadente”. O ancora, l’esperienza “sciamanica” di quando sognò il già scomparso Gianni Marchetti (il magnifico Maestro che dava corpo musicale alla poesia di Piero Ciampi). Il fantasma di Marchetti “…si incamminò dicendo che doveva andare via, ma prima di scomparire nella nebbia mi disse di portare tre rose bianche nella siepe davanti a casa mia, e lì potevo fargli sentire la canzone che avrebbe ascoltato con gioia”. Nada andò alla siepe con i fiori e il computer con l’album Occupo poco spazio. Con Marchetti e Ciampi Nada aveva realizzato nel ’73 un disco di clamorosa bellezza, Ho scoperto che esisto anch’io: le copie invendute, quasi tutte, furono inviate al macero. Tre anni più tardi i discografici la convinsero a una nuova partnership, a metà tra Ciampi e Conte. Nada soggiornò per un mese nell’angusta camera degli ospiti dell’avvocato, ad Asti, il livornese si rodeva di gelosia. Artistica, beninteso.

I piani andati in malora. Il rendez-vous in un bar romano con Antonioni, che la voleva protagonista in un film. “Quando arrivai, lui era già al tavolo seduto di fronte a un ragazzone con un paio di occhiali da sole. Di sera?, pensai. Era carino”. Quel giovane era Peter Fonda. I discografici di Nada si opposero sostenendo che “il cinema avrebbe nociuto alla sua immagine”. Antonioni si incazzò. O gli scontri con Dario Fo, che l’aveva voluta per l’Opera dello sghignazzo. Fo si fece perdonare con uno suo quadro e la dedica: “Andarono per tagliatori di teste, incontrarono Nada che la tagliò loro”. Lei replicò con Ti stringerò, uno dei successi dell’82. Accadeva prima della rivendicazione della “musica storta” con Mesolella, Motta, Parish, Carlo Basile, gli Zen Circus o Massimo Zamboni dei CSI. Alla ricerca del vero suono della ragazza di Gabbro.

Febbre da Ferrante: vince chi arriva primo?

“È lungo 336 pagine, dense ma trascinanti, l’impaginazione è agevole: il consiglio è di stimare circa 5/6 ore di lettura”. Se leggendo tale descrizione, si fosse sfiorati dal dubbio si tratti di una libreria composita, “densa e trascinante” per l’appunto, di un noto marchio svedese che richiede “5/6 ore” di operazioni di montaggio, o ancora se si tratti della posologia di un nuovo farmaco sperimentale, anch’esso “denso e trascinante” e che concede “5/6 ore” di sollievo da un qualche malanno, ebbene tale dubbio sarebbe più che ragionevole.

Tuttavia, si tratta del nuovo romanzo di Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti, che chi scrive ha ricevuto oggi a tarda notte “molto tardi, a pagine dei giornali chiuse” per volere della casa editrice e/o che ha organizzato un vero e proprio “lancio in contemporanea”, in modo che selezionati giornalisti “possano ricevere il testo nello stesso momento”.

La comunicazione che nei mesi addietro ha preceduto l’uscita del nuovo romanzo – aggettivato sempre come “atteso” o “attesissimo” – sperimenta un che di americano (si nota, ormai, che la casa editrice ha acquisito una caratura international grazie alle sedi in America e nel mondo arabo, sedi che senza il successo internazionale riscosso dai libri di Elena Ferrante sarebbero state impossibili da varare): tutto è cominciato mesi fa con una mail recante la data di uscita, il 7 novembre 2019, senza rendere noto il titolo ma con un breve estratto che inizia così: “Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta”.

Un mese dopo, i “gentilissimi colleghi” giornalisti venivano istruiti su come e quando avrebbero ricevuto l’impaginato prima e il volume dopo del nuovo romanzo di Ferrante.

“L’attesa attorno a questa nuova storia è altissima”, scrivono gli amici della e/o, che si dicono certi che “verrà accolta dai lettori con il calore che merita”, un po’ dimentichi della lezione di Lorenzo il Magnifico che, più di qualche secolo fa, recitava che “del doman non v’è certezza”.

Il tono capziosamente e gentilmente persuasivo – una costante dei comunicati stampa e più in generale delle comunicazioni ufficio stampa/giornalisti – qui assume un plusvalore: forti, infatti, del riscontro del pubblico che ha di fatto trasformato Elena Ferrante nel fenomeno editoriale più rilevante degli ultimi anni del panorama non solo italiano ma soprattutto internazionale (parliamo, infatti di undici milioni di copie vendute in tutto il mondo), gli editori sembrano voler in qualche modo creare attesa e aspettativa anche nella stampa italiana, colpevole – c’è da dirlo – di aver snobbato i romanzi dell’autrice, o meglio, di essersi fatta solleticare più da curiosità biografiche e anagrafiche che ne hanno forse viziato la valutazione letteraria; di aver probabilmente confinato sotto l’etichetta “pop” questa autrice fantasma seppure nota a tutti e di averla, in virtù di questo marchio, messa da parte.

Mentre invece, all’estero è inneggiata a gran voce forse anche per il suo anonimato: nel 2016, il Times l’ha per paradosso e meriti inserita tra le cento persone più influenti al mondo; nel 2013 sul New Yorker, il critico James Wood parla di “gioia letteraria” riguardo a I giorni dell’abbandono; per Francis Wilson del Times Literary Supplement, “l’anonimato della Ferrante lascia ai suoi lettori un prezioso spazio vuoto dove scatenarsi a fantasticare su di lei”.

E proprio negli Stati Uniti, bisognerà aspettare il 9 giugno per leggere la traduzione in inglese di questo decimo libro, The Lying Life of Adults, ma basta che l’account twitter di Europa Edition (la sede americana di e/o) pubblichi l’incipit del nuovo romanzo, che persino il New York Times si scomoda per darne notizia ai propri lettori.

Di La vita bugiarda degli adulti sappiamo solo che è “un romanzo forte, importante, in cui l’autrice porta avanti i suoi temi con la voce che ci è nota e che tanto è stata amata”, così ci comunicano gli editori. Adesso che è arrivato nella notte, non ci resta che leggerlo e dirvi com’è.

Ira contro Teheran, spari sulla folla

Anche ieri cinque manifestanti sono stati uccisi dalle forze dell’ordine che, assieme alle milizie sciite filo iraniane, hanno già fatto 250 vittime dall’inizio di ottobre. L’Iraq è nel caos e il timore che questo si possa trasformare in un conflitto civile inizia a farsi spazio. Più che di una guerra civile “classica”, in questo caso bisognerebbe parlare di repressione dello Stato nei confronti di tutta la cittadinanza, indipendentemente dalla religione di appartenenza e dall’ideologia politica. Per la prima volta i fedeli delle tre principali confessioni (sciita, sunnita e cristiana) sono scesi nelle strade per chiedere le dimissioni dell’intera classe politica accusata di incapacità e corruzione, e la revisione di tutto il sistema politico. Dopo l’invasione americana dell’Iraq nel 2003 e l’esecuzione di Saddam Hussein, la nuova Costituzione prevede la spartizione del potere tra le 3 confessioni. Una legge che, anzichè garantire un equilibrio intersettario, ha prodotto l’arroccamento della classe politica nella propria torre d’avorio, lasciando la popolazione sola, impoverita e senza futuro.

Nella notte di domenica quattro manifestanti erano stati uccisi durante un attacco della folla contro il consolato iraniano nella città santa sciita di Karbala. Dopo aver scalato la barriere di cemento che circondano l’edificio hanno appeso bandiere irachene con la scritta: “Karbala è libera, l’Iran fuori, fuori!” per segnalare la rabbia contro l’interferenza di Teheran. La rivolta della popolazione coinvolge ormai tutte le città. I manifestanti hanno bloccato anche il grande porto di Bassora, cruciale per le esportazioni e le importazioni. Le forze di sicurezza e i miliziani agli ordini del vicino Iran non sparano più in aria per tentare di disperdere la folla ma ad altezza uomo. “Vogliono ucciderci, non disperderci”, dicono ai media internazionali i manifestanti che tentano, invano, di difendersi dai gas lacrimogeni. Il fatto che siano soprattutto i cittadini di religione islamico-sciita a protestate è motivato dalla maggioranza numerica di questi ultimi rispetto ai cittadini delle altre confessioni. E ciò non può che preoccupare ulteriormente la Guida Suprema iraniana Ali Khamenei che contende al Grande Ayatollah iracheno Ali al-Sistani la leadership del mondo islamico sciita. La rivolta è andata montando negli ultimi due anni, ma da ottobre – al termine di una lunga estate torrida senza acqua ed elettricità nonostante l’enorme riserva di petrolio e gas dell’Iraq – gli iracheni hanno detto basta. “Non abbiamo più nulla da perdere”, ci dice Sarah, studentessa universitaria, rientrata a Baghdad da un paese europeo, dove studia, per partecipare alle proteste. “Anche se io sono più fortunata di tanti miei coetanei perché i miei genitori avevano delle proprietà e le hanno vendute per permettermi di laurearmi, ho sentito la necessità di tornare perché questo paese è marcio e i miei fratelli non hanno alcuna prospettiva. Noi siamo cristiani e condivido quanto ha scritto Sant’Agostino: ‘Nulla differenzia uno Stato da una banda di ladri se non vige il principio di giustizia, se i cittadini non sono uguali di fronte alla legge’”.

“Cile, stato d’emergenza finito. Non per i carabineros, però”

“Lo stato d’emergenza è terminato, eppure le strade continuano a essere militarizzate, le forze dell’ordine utilizzano sempre lacrimogeni, proiettili di gomma e molta violenza contro i manifestanti, è inspiegabile”. Natalia Bravo è una avvocato cilena dell’associazione Abofema (avvocate femministe): da quando sono iniziate le proteste, assiste i manifestanti fermati dalla polizia che – spiega al Fatto – vengono fermati senza seguire nessun protocollo internazionale dei diritti umani, né alcuna garanzia. “Violazioni sistematiche, lontane dallo Stato di diritto che è il Cile, che hanno come unico obiettivo quello di fermare con la paura le manifestanti e i manifestanti”. Tali azioni vanno dal fermo illegale dei partecipanti, lasciati per giorni senza comunicare con l’esterno, ad atteggiamenti vessatori, soprattutto nei confronti delle donne. Ma Natalia e le sue colleghe non sono certo le uniche a denunciare questa situazione che ogni giorno viene monitorata anche dall’Indh (Istituto nazionale dei diritti umani) così come dalla Difesa giuridica organizzata dall’Università del Cile, di cui Abofema è parte. È grazie al loro lavoro che si conoscono i numeri della repressione da parte delle forze dell’ordine del presidente Sebastián Piñera. Si tratta di 179 denunce, di queste sono 5 quelle per omicidi, 132 per torture, altre 11 per altri tipi di violenza e 18 per abusi sessuali, 2 per stupro.

È soprattutto di questi ultimi che si occupa Bravo. “Parliamo di costrizioni a spogliarsi, a piegarsi in avanti, di minacce, palpeggiamenti, fino alla violenza sessuale vera e propria”. Azioni, queste “non giustificate dagli scontri durante le proteste e che vengono perpetrate soprattutto dai carabineros” continua Bravo. Abofema sta raccogliendo le denunce delle donne abusate, anche attraverso un questionario sui social perché a nessuna passi per la testa di aver frainteso il comportamento dei miliari, e soprattutto che il trattamento a loro riservato risponda a un protocollo. Le testimonianze raccolte dai media cileni, in effetti, sono agghiaccianti. Una donna di 31 anni ha raccontato di aver cercato di difendere suo padre dai colpi dei poliziotti durante le proteste a Santiago. Dopo aver colpito l’anziano, gli uomini in divisa hanno arrestato lei trascinandola nella camionetta mentre le urlavano frasi volgari e la insultavano davanti al genitore. Una violenza “politico-sessuale”, quella nei confronti delle donne che – evidenzia Bravo – ha come scopo quello di “eliminare dalla partecipazione sociale le donne e le persone Lgbtq che hanno richieste ancora più forti rispetto al cambiamento politico e sociale”. Anche per questa ragione le “donne in lutto” hanno sfilato in testa al corteo della manifestazione di venerdì – una delle più grandi da quando è iniziato il dissenso – nelle principali città cilene, perché il dramma femminile sia al contrario più evidente. Ma non si tratta soltanto di denunciare perché “nessuna adolescente o donna che manifesta in strada debba subire questo stesso trattamento – chiarisce Natalia – ma di costringere le forze dell’ordine ad aprire un’inchiesta interna o anche a livello governativo su questi abusi”. Tuttavia “non è facile. Solo per avere i numeri delle denunce dai commissariati – racconta – abbiamo dovuto chiedere l’aiuto di parlamentari, pur trattandosi di informazioni in teoria pubbliche e che in quanto avvocati avremmo dovuto avere a disposizione”. Il boicottaggio però “non è casuale”, secondo l’avvocato.

“Come Abofema non possiamo dire che dietro a questi comportamenti dei carabineros ci sia una regia, ma se guardiamo alle denunce non possiamo neanche dire che siano casuali o eccezionali”. Si tratta di azioni evidenziate in molte città cilene e – suggerisce Bravo – troppo simili tra loro per essere dei casi isolati. Piuttosto, sembrerebbe esistere una direttiva”. Ma né le donne né gli uomini cileni sembrano fermarsi perché spaventati dalle violenze. Così ieri in decine di migliaia hanno manifestato di nuovo e scioperato contro il governo Piñera. Tra loro anche il Premio Nobel per la Pace del Guatemala, Rigoberta Menchú, che ha marciato dalla sede centrale dell’Università del Cile al Palazzo La Moneda, sede dell’esecutivo, per consegnare una lettera al presidente al quale chiede di porre fine alla violenza della polizia. “Ci sono vittime che non sono state rese note, o di cui è stato ritardato l’annuncio”, ha sottolineato Menchù ricordando lo sgomento provato alla notizia di episodi di violenze e stupri di donne. “Non vogliamo essere i vostri giudici, ma non vogliamo essere complici del silenzio”, ha concluso Menchù.

Le Black Hills dei Sioux ora sono nere di petrolio

Le ‘colline nere’ non erano mai state così nere. Le Black Hills, Paha Sapa nella lingua dei Lakota, cioè dei Sioux, corrono dal South Dakota fino al Wyoming. Si chiamavano così perché viste da lontano apparivano scure, tanto la vegetazione era fitta. Ora, sono nere di petrolio: la Keystone XL, la contestatissima pipeline che Barack Obama aveva bocciato, che Donald Trump ha ri-autorizzato e che le tribù della regione hanno inutilmente tentato di fermare, ha disperso quasi 400 mila galloni di petrolio nella Contea di Walsh nel North Dakota, l’equivalente di un milione e mezzo di litri.

Non è la prima volta che accade. Nel 2017, l’oleodotto aveva già lasciato fuoriuscire oltre 400 mila galloni nel South Dakota. E da quando l’impianto funziona, cioè da dieci anni, è la quarta volta che si viene a sapere di una fuga. Un disastro “prevedibile”, secondo Greenpeace, che considera a priori il trasporto di carburanti fossili un rischio e che valuta che le fuoriuscite di petrolio negli Stati Uniti hanno fatto, negli ultimi dieci anni, 20 morti, 35 feriti, 2,6 miliardi di dollari di danni e disperso nell’ambiente 34 milioni di galloni. L’incidente ha provocato la chiusura temporanea dell’impianto. Come se le maledizioni degli indiani sulla pipeline avessero colpito nel segno.

Non è chiaro quando il petrolio abbia iniziato a fuoriuscire nella Contea di Walsh e quante ore, o giorni, siano passati dalla perdita di greggio alla chiusura dell’impianto. La società che gestisce l’oleodotto, la TC Energy, ha dichiarato di averlo chiuso subito dopo avere rilevato un calo di pressione una settimana fa, ma la perdita aveva ormai interessato un’area di circa 2000 mq. “Abbiamo attivato le procedure di emergenza e inviato i nostri tecnici per valutare la situazione”: l’azienda sostiene di non avere rilevato danni alla fauna. La Keystone XL è una rete di oleodotti destinata a trasportare 500 mila barili al giorno di greggio dall’Alberta in Canada alle raffinerie del Midwest, negli Usa: attiva dal 2010, la rete è in fase d’ampliamento e dovrebbe raggiungere il Golfo del Messico, ma, nonostante il parere favorevole dell’Amministrazione federale, la TC Energy fatica a ottenere i permessi. È di pochi giorni fa il parere negativo di un’autorità tribale locale, perché l’ampliamento devierebbe le acque dei fiumi Cheyenne, White e Bad e disturberebbe le attività quotidiane di caccia e pesca della tribù Yankton Sioux che vive nell’area. Sull’ambiente, Trump, se possibile, ha fatto peggio che sui migranti o sugli accordi di disarmo, denunciati e non rispettati: dall’uscita dall’Accordo di Parigi contro il cambiamento climatico all’autorizzazione alle trivellazioni nell’Artico, dalla cancellazione o riduzione delle aree protette dei Parchi nazionali all’autorizzazione dell’ampliamento del Keystone. Eppure, i Sioux erano scesi sul piede di guerra. Nel febbraio del 2017, a Cannon Ball, c’è stata una battaglia meno epica di quella del Little Big Horn: gli indiani l’avevano persa, ma la guerra va avanti e l’esito resta incerto, perché ambientalisti e una buona fetta dell’opinione pubblica sono dalla loro. Cannon Ball sta nel North Dakota, mille miglia a Est di Little Big Horn, nel Montana: lì era stato montato, nell’estate del 2016, un campo, per protestare contro la realizzazione di un braccio dell’oleodotto, il Dakota Access, che attraversa terre sacre alla tribù Sioux, dentro la grande riserva di Standing Rock.

Bloccata da Obama, l’opera era stata autorizzata da Trump; e le corti federali avevano respinto i ricorsi d’urgenza. Ci furono arresti – una decina – alcune tende furono incendiate, ma non ci furono scontri con le forze dell’ordine, né feriti. L’operazione di polizia era stata preceduta da un ultimatum. Molti manifestanti se n’erano andati, senza opporre resistenza. Il governatore dello Stato Doug Burgum aveva dato una spiegazione ‘ecologica’ dell’autoritario repulisti: evitare che i corsi d’acqua dell’area fossero contaminati dai rifiuti del campo. trascinati via dalle piogge in arrivo. L’inquinamento da oleodotto preoccupa evidentemente meno, anche se la causa dei Sioux è stata sposata da politici e investitori progressisti, che chiedono alle banche che finanziano il progetto (17, e c’è pure Intesa San Paolo) d’abbandonarlo. Sul banco degli imputati, non c’è solo Trump, che ha smantellato molte misure verdi di Obama, ma anche il premier canadese Justin Trudeau, appena rieletto: Trudeau ha sì introdotto la carbon tax, ma è un paladino del Keystone XL e pure della pipeline che collega la costa del Pacifico all’Alberta. L’ultima mossa degli ambientalisti, a parte portare Greta, simbolo della riscossa verde, a visitare la terra ferita dall’oleodotto. è stata sollecitare i candidati alla nomination democratica per Usa 2020 a impegnarsi a rovesciare “l’imprudente e unilaterale decisione del presidente Trump” e a bloccare “la Keystone XL”.