Dopo l’incontro di oggi con i vertici di Arcelor Mittal, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si aspetta che il premier Giuseppe Conte sia in grado di chiamarlo e di informarlo su un esito positivo dei colloqui. Un auspicio quasi obbligato da parte del Quirinale, che osserva la situazione con sempre maggior preoccupazione: se così non fosse, infatti, il rischio che la situazione del governo degeneri è altissimo. Perché la chiusura dell’Ilva viene vista nel mondo della politica non solo come una crisi industriale pesantissima, ma anche come un punto di non ritorno rispetto alle difficoltà dell’esecutivo. Quella di ieri, per la politica italiana, è stata una giornata convulsa, all’insegna delle divisioni nella maggioranza, con il Pd e Italia Viva che pressano per il ripristino dello scudo e il M5S che, nonostante l’apertura di Conte, resta diviso.
Dubbi, irritazione, preoccupazioni, si registrano soprattutto in casa Pd. Il segretario Nicola Zingaretti, che molti descrivono in una condizione di confusione rispetto alle scelte da fare, sta cercando disperatamente una via d’uscita per evitare di rimanere stritolato dalle dinamiche di un governo che originariamente neanche voleva. Sullo sfondo, c’è la madre di tutte le battaglie. In Emilia-Romagna si vota il 26 gennaio: perdere quella Regione per i Dem sarebbe davvero l’inizio della fine. E così, davanti ai sondaggi non proprio favorevoli, lo stesso Zingaretti e il vice segretario, Andrea Orlando, stanno persino prendendo in considerazione l’idea di far cadere il governo prima, con l’idea di portare il paese alle elezioni lo stesso giorno, per evitare di intestarsi la sconfitta emiliana. Strategia che mostra più di qualche falla, tanto più che in primavera si fanno le nomine e nel 2022 si vota per il presidente della Repubblica.
Per il Nazareno, la chiusura dell’Ilva va scongiurata a tutti i costi. Pena la stessa credibilità del governo. Ormai il segretario lo ripete un giorno sì e un giorno no, tipo mantra “non si governa da nemici”. Ce l’ha soprattutto con i Cinque Stelle, “Noi siamo leali, aspettiamo di capire Di Maio come la mette. Ma anche noi cominciamo a stancarci”, ripetono i fedelissimi, M5S non ha ancora preso una decisione definitiva su se candidarsi in Emilia, non presentarsi o appoggiare Stefano Bonaccini. E ieri è saltata pure l’operazione alla quale Zingaretti lavorava da due mesi e mezzo, ovvero l’ingresso in giunta dei Cinque Stelle. Ha preso atto alla fine che il gruppo è diviso a metà e attribuisce il fallimento del progetto all’ostilità di Di Maio e di Virginia Raggi. Ma il segretario del Pd ce l’ha anche con Matteo Renzi. “Aprire una polemica su una manovra sottoscritta da tutti è un’operazione di basso livello che gli italiani giudicheranno”, ha detto a DiMartedì. Nel Pd trovano insopportabile che a far passare la manovra come quella delle tasse sia non l’opposizione, ma una componente della maggioranza.
Il fu Rottamatore, a sua volta, al netto della strategia di disturbo, comincia a montare insofferenza. Ha mal sopportato le critiche di tutta Base Riformista negli ultimi giorni (a partire da ex fedelissime come Alessia Morani): una batteria organizzata dall’ex amico, Luca Lotti. Non vuol dire che rovescerà il tavolo volontariamente, ma che a un certo punto potrebbe esagerare e far crollare una costruzione sempre più debole, resta una possibilità. A continuare a lavorare per puntellare il governo è Dario Franceschini: punta a un Movimento libero da Di Maio. Aveva puntato su Conte, è pronto pure a cambiare cavallo. Nel frattempo, ieri un Giancarlo Giorgetti particolarmente rilassato si dedicava persino a dare consigli al nemico: “Se io fossi Zingaretti, in Emilia mi presenterei con Bonaccini, senza i Cinque Stelle. Perché così si vince. E il giorno dopo farei cadere il governo e andrei alle elezioni”.