Due ruote elettriche: a Torino si dimette n. 1 della municipale

Torino

I monopattini elettrici fanno cadere il comandante della polizia municipale di Torino, Emiliano Bezzon, contestato per le multe salate fatte dai suoi agenti e per le dichiarazioni contro l’assessore comunale ai Trasporti, Maria Lapietra. E sempre ieri l’assessore Roberto Finardi ha lasciato le deleghe alla pubblica sicurezza, confermando come sul monopattino sia in corso una battaglia politica all’interno della maggioranza M5S, che sostiene la sindaca Chiara Appendino.

Il 21 ottobre scorso, Bezzon aveva diffuso una circolare agli agenti per spiegare come comportarsi: in sintesi, i monopattini sono stati equiparati ai ciclomotori e così in pochi giorni alcune persone erano state sanzionate per l’assenza del libretto di circolazione e dell’assicurazione con multe per più di mille euro in totale. E dopo le polemiche, aveva anche contestato l’assessora Lapietra per i ritardi nell’avvio della sperimentazione. La base M5S e molti eletti, però, non hanno gradito il piglio deciso del comandante dei civich (nome torinese dei vigili), in netto contrasto alla politica di apertura ai mezzi ecologici e alternativi all’auto. In tutto questo viene contestato pure Finardi – che vanta buoni rapporti con Bezzon – per non aver fatto pesare la voce dell’amministrazione. Da qui sembrerebbe nascere la sua decisione di rimettere le deleghe alla Sicurezza, mentre manterrà quelle per lo Sport. “L’intenzione dell’amministrazione è quella di valutare in quali passaggi vi siano stati problemi in modo che non si ripetano”, ha detto Appendino. Per il sindaco, i test sperimentali hanno “subìto battute di arresto dovute a decisioni non sempre allineate nella filiera che ha gestito l’iter”. “Ci vorranno ancora 48 ore per dare informazioni certe ai cittadini sulle modalità con cui si può usare il monopattino”, ha aggiunto, mentre aspetta un parere dal ministero “anche perché molte altre città sono in difficoltà”.

La giungla dei monopattini: regole, multe e cavilli sparsi

Al Tokyo Motor Show che si è concluso ieri ne sono stati esposti un paio, perché persino all’industria automobilistica conviene dire che conta la mobilità e non più l’automobile. Alleato contro traffico e inquinamento, il monopattino elettrico, insieme a hoverboard (volopattino), segway e monowheel (monoruota) si candida a essere il nuovo status symbol degli italiani. Qui da noi però, prima di montare “in sella”, è consigliabile verificare quanto deciso dal Sindaco della propria città o dal comando della Polizia municipale. Il decreto Toninelli sulla micromobilità elettrica, in vigore dal 27 luglio 2019, affida infatti ai Comuni la regolamentazione della circolazione dei mezzi alternativi “di ultimo miglio”. La parola d’ordine è “sperimentazione”, che dovrà essere chiesta dalle singole città entro un anno dall’entrata in vigore del regolamento del Mit. In teoria i Comuni autorizzano in via “sperimentale” la circolazione dei mezzi – finora vietati in quanto non previsti dal Codice della Strada – limitatamente alle sezioni di strada indicate dal decreto. In pratica, città che vai regola che trovi. A Torino la confusione è costata le dimissioni del comandante della Polizia municipale Emiliano Bezzon. Si attendono nuove dal resto d’Italia. Ad esempio a Bologna, che sta aprendo al test, sarà concesso soltanto il monopattino. Gli altri 3 mezzi inclusi nell’elenco ministeriale sono stati valutati “troppo ingombranti”. Le regole generali richiamano quasi totalmente il decreto: maggiore età o possesso della patente AM; dotazione di clacson, catadriotti e luce anteriore in ore notturne o quando le condizioni atmosferiche lo richiedano; obbligo di indossare giubbotto o bretelle; limitatore di velocità; no passeggeri o carichi. In aggiunta, circolazione vietata sotto i portici o in aree pedonali con “selciato non idoneo”, come piazza Santo Stefano. A Pisa la sperimentazione è stata già approvata – manca solo la segnaletica – e sono ammessi solo monopattini e segway. Idem a Pesaro e a Verona, comuni “apripista” insieme a Rimini, Cattolica, Casalpusterlengo (Lo), Mogliano Veneto (Tv) e Alcamo (TP). Anche a Torino sono stati esclusi gli hoverboard e monowheel. Gli altri mezzi potranno circolare nelle “zone 30” (area urbana con limite 30 invece che 50 km/h), nelle strade a velocità limitata e sulle piste ciclabili e ciclopedonali. A Milano invece normativa all inclusive: al via la circolazione di monopattini, segway, hoverboard, skateboard e monoruote nelle aree pedonali. Ciclabili, ciclopedonali e zone 30 saranno accessibili dopo la posa della segnaletica. In vigore tutti i divieti del decreto più quello di accesso alle strade pavimentate con sassi di fiume e alle corsie preferenziali. Altre restrizioni riguardano le strade dove passano le rotaie dei tram, a meno che non si trovino in una sede stradale separata o nelle aree di parcheggio a fondo cieco. Palermo, dopo multe e incertezze, ha approvato la sperimentazione sui 4 mezzi alternativi con indicazioni differenti sulla velocità: monopattini e segwaypotranno circolare nelle isole pedonali, senza superare i 6 chilometri orari, nelle piste ciclabili, con limite di 20 chilometri orari e anche nelle strade con limite di velocità di 30 km/h. I monoruota e i volopattini, invece, potranno essere utilizzati solo nelle isole pedonali, quindi a un massimo di 6 km/h. I conducenti già incappati e che incapperanno in multe e inconvenienti, perché disorientati dal groviglio di norme e adattamenti, hanno per ora il sostegno del Club del Monopattino, gruppo da 3000 iscritti su Fb. L’unica regola certa riguarda il casco: ovunque non è obbligatorio.

Livorno, un’altra morte nel capannone dei rave

“Venite, c’è un cadavere in un’auto bianca appena fuori il capannone dell’ex Trw”. La telefonata anonima arrivata ieri mattina in Questura non lasciava spazio a interpretazioni: quando sul posto è arrivata l’ambulanza e gli uomini della Squadra Mobile, la trentenne Moira Piermarini era già morta. Uccisa probabilmente da una dose letale di droga, quella che girava in quantità industriali (insieme all’alcol) durante il rave party organizzato nel ponte dei Santi a Livorno, tra l’1 e il 4 novembre. Teatro della festa non autorizzata il capannone dell’ex fabbrica Trw a Stagno, periferia nord della città dove fino a pochi anni fa circa 450 operai producevano sterzi per auto. La ragazza di origine romana da tempo si era trasferita a Vecchiano (campagne pisane) e poi a Pisa: faceva la parrucchiera ed era figlia di un poliziotto di Pisa ormai andato in pensione. Lei era una degli oltre mille partecipanti provenienti da tutta Italia che nell’ultimo weekend avevano preso parte al rave a base di musica techno, alcol e droghe. Dopo la denuncia anonima, il medico arrivato sul posto ha provato a rianimare la ragazza per un’ora, ma ormai per lei non c’era più niente da fare: sarà l’autopsia, disposta ieri dal magistrato e che sarà effettuata nei prossimi giorni, a dare tutte le risposte necessarie sulle cause del decesso. È vero però che gli investigatori, sentiti anche alcuni testimoni che avevano preso parte alla festa, ritengono plausibile la pista della morte per overdose. Dalle prime indiscrezioni però la giovane donna sarebbe morta lunedì mattina dopo essersi sentita male nella macchina: dalle prime ricostruzioni, non sono state raccolte prove che facciano pensare a un trasferimento del corpo dal capannone all’esterno. Tra le cause possibili nessuna pista è esclusa e chi ha fatto le indagini preferisce attendere gli esiti dell’autopsia. Nella quattro giorni di rave, sono stati cinque i partecipanti che si sono sentiti male a causa dell’abuso di alcol e droga: uno di questi, un ragazzo di 26 anni di Cecina sabato notte era stato portato d’urgenza al pronto soccorso per aver assunto ecstasy e anfetamine. Domenica sera le forze dell’ordine avevano denunciato cinque persone per aver occupato abusivamente l’edificio. Nei giorni scorsi, la Digos aveva poi identificato 200 partecipanti ma nessuno era riuscito a fermare il terzo rave in un anno nel capannone dell’ex Trw: a inizio marzo, 64 persone erano state denunciate, mentre a Pasqua la festa abusiva si era conclusa con la morte per accoltellamento del deejay Maurizio Canavesi da parte dell’amico Sergio Ubbali. Il sindaco Luca Salvetti, venerdì, aveva convocato il Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica per ieri mattina e la proprietà per oggi, ma la tragedia ha fatto cambiare i piani: “Adesso quell’area va bonificata perché non si ripetano più situazioni del genere”.

Balotelli: l’ultrà provoca, Salvini è con lui

Il calciatore Mario Balotelli insultato allo stadio Bentegodi? Da denunciare. Ha diffamato la città di Verona.

Non c’è limite al peggio. Di ieri infatti un atto formale sottoscritto da cinque consiglieri comunali. Una mozione che invoca la “condanna politica per chi diffama la città di Verona”. Primo firmatario Andrea Bacciga (per gli amici Barzi) diventato famoso per il suo saluto fascista rivolto alle rappresentanti di “Non Una di Meno”. Ieri Barzi ha dato il meglio di se stesso mettendo nero su bianco e protocollando un testo dove si legge come “nessuno presente allo stadio udiva ululati” ma che in compenso “iniziava subito una campagna mediatica contro la città di Verona”.

La conclusione dunque è quella che il consiglio comunale impegni sindaco, assessori e uffici legali del Comune a diffidare legalmente e oppure adire a vie giudiziali nei confronti del calciatore e di tutti coloro che attaccano Verona diffamandola ingiustamente. “Non è più accettabile che Verona sia messa sul banco degli imputati pur quando, come in questo caso, non è accaduto niente”.

A parte questa chicca, la giornata si è contraddistinta per le dichiarazioni di Luca Castellini, capo degli ultras veronesi, ai microfoni dell’emittente Radio Cafè: “Balotelli secondo me è italiano perché ha la cittadinanza italiana ma non potrà mai essere del tutto italiano”. Aggiungendo: “Noi abbiamo una cultura identitaria di un certo tipo, siamo una tifoseria che è dissacrante, che prende per il c… il giocatore pelato, quello con i capelli lunghi, il giocatore meridionale e il giocatore di colore, ma non lo fa con istinti politici o razzisti. Questo è folklore, si ferma tutto lì. Ce lo abbiamo anche noi un negro, che ha segnato, e gli abbiamo battuto le mani. Balotelli è un giocatore finito, è stato spinto da qualcuno o qualcosa a fare quella pagliacciata”. Dal folklore all’obiettività di Federico Sboarina, primo cittadino scaligero: “Non c’è stato alcun coro razzista: allo stadio c’ero e non ho sentito alcun insulto razzista. E come me le molte altre persone che a fine partita mi hanno scritto e contattato. La mia città non deve essere messa alla berlina da una cosa che non è successa. I cori razzisti non ci sono stati”. In effetti non sono stati cori ma veri e propri ululati. Nel dubbio basta farsi un giro in internet per riascoltarli. Matteo Salvini cavalca la polemica: “Vale più un operaio dell’Ilva che dieci Balotelli. Il razzismo va condannato ma non abbiamo bisogno di fenomeni”. Come sempre in questi casi è rincorsa alle dichiarazioni tra politici. Chi ha il coraggio di dire le cose come stanno è l’ex ct Arrigo Sacchi a Circo Massimo suggerendo di “cominciare a pulire le curve” e definendo il calcio come riflesso della vita sociale e della storia di un Paese.

e.reguitti@ilfattoquotidiano.it

Il pm: “Condannate Scajola. Favorì la fuga di Matacena”

Fino all’anno scorso sarebbe stato sufficiente il dolo generico per applicare l’aggravante mafiosa al reato contestato all’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola, accusato di aver favorito la latitanza dell’ex parlamentare Amedeo Matacena e, per questo, arrestato nel 2014 dalla Dia. Il processo è durato cinque anni e la giurisprudenza, nel frattempo, è cambiata. Un paio di sentenze della Cassazione hanno costretto la Procura di Reggio Calabria a chiedere la sua condanna a 4 anni e 6 mesi di carcere solo per la procurata inosservanza della pena.

In sostanza, stando alla requisitoria del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, mentre da una parte non ci sono dubbi sul reato commesso dall’ex ministro di Forza Italia, dall’altra “non è dimostrato il dolo specifico”. In altre parole: “Non è dimostrato che Scajola abbia agito favorendo la latitanza di Amedeo Matacena al fine di agevolarlo quale componente esterno della ‘ndrangheta”. È agli sgoccioli il processo “Breakfast” che, tuttavia, secondo la Procura, una verità ce la consegna: “Il progetto di spostare Amedeo Matacena risultava collegato alla latitanza di Marcello Dell’Utri”. Tra il fondatore di Forza Italia e Amedeo Matacena, infatti, “dal punto di vista giudiziario non c’è nessuna differenza”. Il procuratore aggiunto Lombardo non ha dubbi: “Le operazioni vanno di pari passo e i meccanismi operativi sono gli stessi. Ritengo che Matacena era pronto a spostarsi in Libano”.

L’uomo di collegamento era Vincenzo Speziali, già condannato definitivamente per lo stesso reato contestato a Scajola. È lui “il soggetto – ha spiegato il magistrato – incaricato di svolgere le funzioni agevolatrici che avrebbero consentito di avere risposte dalla Repubblica del Libano”.

Imparentato con l’ex presidente e leader delle falangi libanesi, Amin Gemayel, infatti, Speziali “non è uno qualunque e il suo rapporto con Claudio Scajola è una chiave di lettura importante in relazione alla vicenda di Dell’Utri”. Vicenda di cui sarebbe stato a conoscenza l’ex ministro dell’Interno. Siamo nel 2014 e Scajola è consapevole che quella di Dell’Utri “è un’operazione in fase avanzata e realizzabile e lo stesso può avvenire per Amedeo Matacena”. Grazie alle intercettazioni registrate dalla Dia di Reggio Calabria, il procuratore Lombardo è riuscito a ricostruire i movimenti di Scajola, fino a poco tempo prima ministro dell’Interno del governo Berlusconi. Moltissimi, infatti, sono stati i contatti tra il politico ligure e la moglie di Matacena nei confronti della quale la Procura ha chiesto 11 anni e 6 mesi di carcere contestando l’aggravante mafiosa: “Non siamo in presenza di condotte virtuali. Ma siamo in presenza di soggetti che, in relazione a un condannato per mafia, ipotizzano un asilo politico. Siamo ben oltre l’umana solidarietà nei confronti di un soggetto condannato in via definitiva”. “Un latitante per mafia – dice Lombardo – non si aiuta”. Scajola, invece, l’avrebbe fatto, “consapevole che quel comportamento era penalmente rilevante”.

La requisitoria si è conclusa con la richiesta di condanna a 7 anni e 6 mesi di reclusione anche per la segretaria di Matacena, Maria Grazia Fiordaliso, e per il collaboratore, Martino Politi. L’11 novembre cominciano le arringhe della difesa e tra qualche settimana, il Tribunale di Reggio Calabria emetterà la sentenza.

Mastella punta al centro: lo vuole libero dai cani

Cerco un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea, sulle cose, sulla gente… L’indimenticabile canzone di Battiato deve essere la preferita di Clemente Mastella, già estratto ministro del Lavoro sulla ruota di Berlusconi, già ministro della Giustizia sulla ruota di Prodi, oggi sindaco di Benevento. Sulle cose, sulla gente, e anche sui cani, specie se scorrazzano e scacazzano per le vie della città. Che fare?, si chiede il primo cittadino con piglio leninista. E come fosse da Marzullo, si dà una risposta: urge mettere un freno alla cacca dei cani. Dappertutto? No; almeno in centro, per ora.

Ma dove sarà il centro?

Qui da Lenin si passa ad Amleto. Da decenni Mastella cerca il centro. L’ha cercato nella DC, nel CCD, nel CDR, nell’UDR, nell’UDEUR… Ciccia. Ora lo cerca in Forza Italia (c’è chi sente il richiamo della foresta, chi il richiamo del cespuglio), e lo cerca a Benevento, per poter elevare il divieto canino. Un nome l’ha fatto – Corso Garibaldi – la via dello struscio, il centro per antonomasia (più che un grande paese, l’Italia è una grande provincia). Vada per corso Garibaldi. Chissà la felicità delle vie accanto, vieni Fido, andiamo di qua a farla. Ma siamo sicuri che il sindaco si accontenterà? Sarebbe la prima volta. Vivessimo a Benevento, non dormiremmo sonni tranquilli ovunque in città, ma anche la periferia mi puzza…. Dove comincia il centro? E dove finisce? Vedremo. Cristo si è fermato a Eboli, Mastella si è appena messo in moto.

Un cazzaro rosé: Renzi, l’altro Matteo funzionale a Salvini

Matteo Renzi e Matteo Salvini sono le due facce della stessa medaglia: la medaglia del cazzaro. Semplicemente uno è rosé e l’altro verde. Incarnano al meglio il peggio dell’italiano medio, e l’unica differenza tra loro è che il primo è un perdente senza pubblico e il secondo (per ora) un vincente. I due sono pure alleati: l’uno fa il gioco dell’altro. A Renzi è funzionale Salvini e viceversa. In nome della paura del bobo nero, qualche elettore è perfino disposto a farsi piacere il cazzaro rosé. Di contro, Salvini ha in Renzi l’uomo giusto per far cadere il governo Mazinga. Se non è ancora accaduto, è solo perché allo stato attuale Renzi (nel mondo reale, non quello dei talk-show) conta meno di niente e ha il peso di una libellula morta in uno zoo di ippopotami. Altre considerazioni sparse su quel che resta della Diversamente Lince di Rignano.

– Renzi ha goduto di una stampa miseramente servile. Il giornalismo italiano, al tempo del renzismo imperante, ha dato il peggio di sé. Ora molti di loro escono dal letargo e mostrano una volta di più tutta la loro eccitazione per questo Craxi minore trovato scaduto al discount. Lo definiscono “furbo”, come se uscire dal partito tre giorni dopo la nascita di un governo da lui voluto sia un vanto. Lo chiamano “scaltro”, come se cannoneggiare l’attuale esecutivo sia pure questa una qualità, e non l’ennesima prova di un egoismo tanto masochistico quanto pericoloso.

– A chi ripete che “Renzi ci ha salvato da Salvini”, giova ricordare che nessuno ha ingrassato (oltre alla Nutella) il cazzaro verde come gli orripilanti governi Renzi & Gentiloni. Salvini ha lucrato sulla pochezza renziana (prima) e sull’autolesionismo grillino (durante il Salvimaio). Se è vero che Renzi (con Grillo) è stato il più grande supporter del governo Mazinga, è altrettanto acclarato che è stato lui ad ammazzare sulla culla quel governo Pd-M5S che, nel maggio 2018, avrebbe cambiato la storia di questo Paese. Le colpe dell’uomo che al tempo varò la “strategia dei popcorn” restano enormi e non emendabili.

– Italia Viva, oltre a esibire un nome-ossimoro, non è un partito ma una bad company. Fatti salvi rari casi, sta raccattando il peggio della politica italiana: scappati di casa ex grillini, bolliti, carampane e dinosauri sconosciuti. Una sorta di bar di Guerre stellari, però peggio. Pare che pure Marini e Oliverio, dopo i loro capolavori in Umbria e Calabria, intendano accasarsi da Renzi. Sarebbe la ciliegina sulla torta. Resto comunque speranzoso sull’adesione a Italia Viva della donna barbuta, l’uomo scimmia e il Poro Schifoso (quest’ultimo capogruppo alla Camera).

– Renzi vorrebbe essere l’ago della bilancia, anche se vista la silhouette potrebbe essere al massimo l’armadio a sei ante del Valdarno. Tira la corda, insegue il titolo e attacca provvedimenti a caso (quota 100, sugar tax, plastic tax) purché qualcuno parli di lui, ma è un can che abbaia e non morde: se si va al voto domani, scompare. Pd e M5S, ogni volta che lui e i suoi giannizzeri spennacchiati alzano la cresta, devono ricordarselo: Renzi vorrebbe esser Tyson, ma ha il pugno moscio di Bugs Bunny. Di sicuro il suo comportamento scriteriato contro Conte fa felice giusto Salvini e quei giornalisti-opinionisti che, pur di sinistra, sperano nella morte del Mazinga. A lorsignori, temo senza speranza, ricordo che il governo che nascerà dopo questo sarò fatto dalla stessa gente che sei giorni fa non si è alzata di fronte a una donna straordinaria come Liliana Segre. Quando capiterà, sapremo chi ringraziare. A partire da quel che resta del cazzaro rosé.

Però l’odio non si può arrestare

Detesto gli ebrei, detesto i musulmani, detesto i serbi, detesto i croati, detesto gli italiani, detesto gli americani, detesto gli omosessuali, sono orgoglioso di essere ebreo, sono orgoglioso di essere musulmano, sono orgoglioso di essere serbo, sono orgoglioso di essere croato, sono orgoglioso di essere italiano, sono orgoglioso di essere americano, sono orgoglioso di essere omosessuale. Se scrivo queste cose passerò sotto le forche caudine della Commissione straordinaria la cui istituzione è stata votata il 30 ottobre per il contrasto a “intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza nelle loro diverse manifestazioni di tipo razziale, etnico nazionale, religioso, politico e sessuale”?

E poco importa se queste affermazioni io le faccio sul web o su carta stampata o parlando in televisione o in qualsiasi altro luogo pubblico perché il contrasto ai fenomeni messi all’indice dalla Commissione deve essere, a rigor di logica, omnicomprensivo. Qui non è in discussione la figura della senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, che ha diritto, come ogni altro cittadino, al rispetto e che ha, come ogni altro cittadino, a disposizione per sua difesa il Codice penale che punisce il reato di ingiuria, qui sono in gioco princìpi fondamentali e indisponibili di libertà garantiti dalla nostra Costituzione all’articolo 21. Non è necessario essere di destra o essere Matteo Salvini per condividere in pieno questa sua affermazione: “Non vogliamo bavagli, non vogliamo uno stato di polizia che ci riporti a Orwell”. Qui siamo al di là anche della pur discutibilissima legge Mancino del 1993 che punisce “discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.

L’odio è un sentimento, come la gelosia, l’ira, l’amore e ai sentimenti, in quanto tali, non si possono mettere le manette. Per quanto ci risulta, come abbiamo già avuto modo di scrivere su questo giornale, neanche i peggiori totalitarismi si erano spinti fino a questo punto: punivano le azioni, le ideologie, le opinioni, ma non i sentimenti. In una democrazia tutte le opinioni o ideologie o sentimenti, giuste o sbagliate che siano, dovrebbero avere diritto di cittadinanza. L’unico discrimine è che nessuna opinione, nessuna ideologia, nessun sentimento può essere fatto valere con la violenza. Io ho il diritto di odiare chi mi pare, ma se gli torco anche solo un capello devo finire in galera.

L’istituita Commissione va oltre la legge Mancino perché si focalizza anche sui nazionalismi, gli etnocentrismi e sulla politica. In base a questa concezione, Donald Trump che afferma “America first” dovrebbe finire in gattabuia. E con lui qualsiasi formazione politica che non sia in linea con le opinioni del grande fratello di orwelliana memoria o che abbia un orgoglio etnico.

A nostro avviso i parlamentari italiani, invece di istituire Commissioni che non si sa se definire tragiche o ridicole, dovrebbero smetterla di azzuffarsi ogni giorno nei talk in modo scomposto e verbalmente violento dando così un pessimo esempio a quella popolazione che dicono di voler formare. Un minimo di buona educazione, ecco quello che dobbiamo pretendere dai nostri parlamentari. A noi basterebbe. Ce ne sarebbe anzi d’avanzo.

È il mafioso che nega i diritti dell’uomo

La vicenda giudiziaria che ha portato alla dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 4 bis comma 1 dell’Ordinamento penitenziario (con conseguente possibilità anche per i mafiosi ergastolani di fruire di permessi premio), a seguito della sentenza Cedu che ha ritenuto detta disposizione incompatibile con l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani, pur nell’imprescindibile rispetto delle decisioni assunte, impone alcune riflessioni sulle ricadute al contrasto alla criminalità organizzata in modo da poterla colpire nei suoi aspetti vitali.

Il mafioso ha avuto una certezza antica, sino alla sentenza della corte di Cassazione del 30 gennaio 1992, che ha reso definitive le condanne inflitte in esito al primo maxi-processo palermitano, e all’inizio della stagione repressiva caratterizzata da numerose collaborazioni con la giustizia, iniziata dopo le stragi di Capaci e di via Mariano d’Amelio. Il carcere bisogna farlo, senza lamentarsene e con dignità. Il carcere è provvisorio. Il mafioso non era abituato e non subiva condanne all’ergastolo. È, dunque, un dato obiettivo che la possibilità di uscire dal carcere per il mafioso rappresenta una flessione dell’azione di contrasto. La condanna all’ergastolo rappresenta un mezzo per tentare di recidere i legami criminali tra il detenuto e il territorio di riferimento e, al contempo, un incentivo alle collaborazioni con la giustizia, che rappresentano la sola prova di un autentico percorso rieducativo del sodale. Il mafioso può recidere i propri legami con l’organizzazione solo in un altro modo, con la morte. Rammento che, intorno al 2000, quando ancora lavoravo alla Procura della Repubblica di Caltanissetta, esponenti della commissione provinciale di Palermo, come Pietro Aglieri, Carlo Greco e altri tentarono di avviare un dialogo con le istituzioni, manifestando la disponibilità a dissociarsi, a fronte della concessione di benefici penitenziari, fra i quali i permessi premio. Fu una contromisura per arginare il profluvio di collaborazioni che stava scompaginando Cosa Nostra. Quell’operazione fu giustamente respinta.

Occorre chiedersi quale significato assume per un cittadino vedere il mafioso condannato all’ergastolo che ritorna nel suo paese o nella sua abitazione, dopo essere stato condannato all’ergastolo e aver espiato 7,5 anni di detenzione (si può essere ammessi dopo dieci anni decurtabili di un quarto con l’applicazione della liberazione anticipata), per fruire di un permesso premio, ove ha sempre esercitato l’attività di organizzazione e direzione del sodalizio a lui facente capo e il proprio potere criminale, attraverso periodiche intimidazioni ai danni di imprenditori, commercianti, onesti lavoratori, e assassini di rivali o di uomini, donne e bambini inermi? La fruizione del permesso premio consente ai consociati e, soprattutto, alle vittime di percepire un messaggio rafforzativo del potere di quel mafioso che lo vedono e un senso di smarrimento per chi è stato vittima di sopruso. Il mafioso viene lasciato libero di dialogare senza che venga disposto alcun controllo o presenza di appartenenti delle forze dell’ordine per evitare contatti con sodali o terze persone, il detenuto potrebbe impartire ordini o far giungere messaggi ad altri sodali o soggetti collegati, anche per il tramite di familiari conviventi. Se poi il permesso fosse accordato con la fruizione del servizio di scorta per essere trasportato ove ha esercitato il suo incontrastato potere mafioso, il cittadino è indotto a ritenere che il mafioso agisca con la palese patente da parte dello Stato, che gli mette a disposizione i propri mezzi.

Credo che sia giunto il momento di avviare una riflessione culturale sul significato della giurisdizione e degli strumenti repressivi, che abbandoni l’angusto limite del solo principio di rieducazione della pena, senza mai considerare la valenza retributiva-punitiva che la stessa deve avere, nella prospettiva di valutare globalmente tutti i valori di rango costituzionali che ruotano attorno alla specificità del contrasto al crimine mafioso con la possibilità di usufruire di benefici, bilanciando le garanzie del reo, con le contrapposte preminenti esigenze di tutela, riconducibili alla salvaguardia delle garanzie collettive e individuali delle vittime e della collettività che dia centralità al problema della criminalità mafiosa, che compromette i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e come collettività, nei diritti alla vita, di iniziativa economica, di proprietà e di libertà personale. E in questa prospettiva perché accordare al mafioso la liberazione anticipata, che offre la possibilità di detrarre 45 giorni per ogni singolo semestre di pena espiata, sulla mera base della partecipazione all’opera di rieducazione, quando lo stesso mantiene sempre una condotta carceraria ineccepibile?

Mail box

 

Ergastolo ostativo, i penalisti fingono di non capire

Sono una dei 53.000 italiani che hanno firmato la petizione appoggiata dal vostro quotidiano e ho letto delle critiche del presidente dell’Unione delle Camere Penali, Caiazza. Ma va?!? Davvero si poteva pensare che questi signori, che si arricchiscono difendendo i peggiori criminali, potessero condividere una iniziativa di legalità e di civiltà? Tra l’altro non si preoccupano neppure di rendersi ridicoli, fingendo di non comprendere un appello di una chiarezza disarmante e di una linearità di pensiero, politico e giuridico, tale da arrivare a tutti gli strati sociali. Solo la malafede può sottendere a tali critiche che, spero, nessun organo politico voglia prendere in considerazione. Pronta a sostenervi in qualsiasi altra iniziativa vogliate intraprendere sulla via della legalità e dell’onestà, che da sempre caratterizza il vostro giornale e tutta la sua redazione, vi saluto con affetto.

Angelisa

 

Abusare di una incosciente dovrebbe essere un’aggravante

Nel 2016 una ragazzina allora 14enne, partecipando a una festa in Catalogna, e avendo esagerato con un mix di alcool e droga, perse i sensi. Del suo corpo approfittarono 5 squallidi ragazzi. Ma il tribunale di Barcellona ha derubricato il reato da stupro ad abuso. Quindi a una pena più lieve.

Due considerazioni: intanto credo che a volte anche i giudici dovrebbero avere organismi di controllo ed eventuali sanzioni. Inoltre questa condanna, oltre che violentare nuovamente la vittima, lancia un pessimo messaggio. Ossia di non responsabilità. Perché è proprio del prossimo la responsabilità di non approfittarsi di persone in difficoltà o che non possano difendersi. Questo stupro, perché di ciò si tratta, per come è avvenuto, risulta ancora più grave. E questi balordi meriterebbero di essere giudicati sia per questo che per essere persone meschine e una vergogna per la comunità intera.

Cristian Carbognani

 

La plastica finisce nei piatti, bisogna intervenire

Renzi, Salvini, Meloni contro la tassa sulla plastica: le tre M (Matteo, Matteo, Meloni) attaccano il governo per la tassa sulla plastica senza conoscere (da politici dilettanti) i gravi problemi che hanno portato il governo a questa decisione. I risultati pubblicati dimostrano che ogni anno, in Italia, sono circa 60mila i decessi per patologie dovute a sostanze contaminanti nell’ambiente. Non è un caso se l’Italia è stata deferita alla Corte di giustizia dell’Ue per il mancato rispetto dei valori limite stabiliti per la qualità dell’aria e per aver omesso di prendere misure appropriate per ridurre i periodi di superamento, oltre ad aver violato la normativa Ue in materia di omologazione delle autovetture.

Ogni settimana mangiamo 5 grammi di plastica; se ne ingeriscono fino a 2.000 minuscoli frammenti a settimana, equivalenti al peso di una carta di credito. In media sono oltre 250 grammi all’anno.

Vito Mario Burgio

 

DIRITTO DI REPLICA

Vi scriviamo in relazione all’articolo pubblicato venerdì 1° novembre dal titolo “Biglietti nominali: contro i bagarini online, togliamo il business ai promoter”. Il concerto di Phil Collins si è tenuto prima dell’entrata in vigore della Legge Battelli e quindi non può essere preso a esempio. Il nominale in quel caso fu applicato con semplici verifiche a campione senza alcun regolamento di legge e senza sanzioni in caso di omesso controllo. Come da autoregolamentazione adottata anche da Live Nation, si poteva dare un solo nome per 4 biglietti, mentre con la Legge Battelli vale un nome per ogni biglietto. Applicare la legge dunque e farlo in modo rigoroso è cosa ben più impegnativa del semplice pragmatismo evocato e ha come unica conseguenza quella di creare file, procurare disagi al pubblico e in molti casi precludere il concerto a tutti quelli non in regola. Su Sting abbiamo potenziato tutti i servizi (informazioni, apertura cancelli, biglietteria, sicurezza, assistenza, comunicazione). Applicando la legge (in modo serio) la conseguenza è quindi solo quella di aumentare le spese e creare disservizi, mentre l’unica soluzione sarebbe violarla, cosa che ovviamente non abbiamo fatto. La questura ci ha addirittura chiesto di accettare documenti fotocopiati e scannerizzati, non previsto dalla Legge Battelli. Se con 10.000 persone ci sono stati questi problemi pensiamo a cosa potrà succedere in mega raduni come i Festival o i lunghi tour. Live Nation Italia – che gestisce complessivamente 2 milioni di spettatori l’anno – ribadisce quindi la sua massima contrarietà a una legge che penalizza il pubblico e punisce gli organizzatori, rischiando di mettere in grave difficoltà un settore che è una grande risorsa culturale ed economica per il nostro Paese. Come poi dimostrato (vedi il calcio in particolare) il biglietto nominale non combatte il bagarinaggio. Infatti anche per il concerto di Sting erano copiosi i biglietti presenti sulle piattaforme di secondary ticketing. Idem dicasi per quello di Phil Collins.

Live Nation Italia

 

Per molti impresari italiani la legge sui biglietti nominali genera solo disagi e costi aggiuntivi. Attendiamo nuove proposte degli operatori per contrastare con altrettanta fermezza, magari dirottando quelle risorse, la vergogna del bagarinaggio online.

Ste. Ma.