Condannatoda un tribunale tedesco, quello della Corte di Coblenza, a scontare una pena che terminerà con la fine dei suoi giorni: l’ex colonnello siriano Anwar Raslan è stato riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità per le torture inflitte a quattromila prigionieri nella struttura detentiva a cui tutti si riferivano come “l’inferno in terra”, il carcere di Al-Khatib a Damasco. Raslan, 58 anni, è stato arrestato in Germania nel 2019 quando è stato identificato come alto funzionario dei servizi di sicurezza del presidente Bashar al-Assad. A capo della prigione in cui venivano rinchiusi attivisti e manifestanti che hanno cominciato a protestare contro il regime nel 2011, ha torturato almeno 4mila persone per oltre dieci anni, fino al 2012. Durante gli abusi ha compiuto numerosi stupri e 58 omicidi, ma ai suoi avvocati che hanno tentato di farlo assolvere e ai giudici tedeschi, che lo hanno definito “supervisore di torture sistematiche e brutali”, si è sempre dichiarato innocente. Il verdetto della Corte di Coblenza sancisce un primato mondiale: si tratta del primo processo della storia a un funzionario di Stato siriano con l’accusa di tortura. “Una svolta in direzione della giustizia” e “un momento significativo per i civili sopravvissuti” ha scritto Human Rights Watch.
Non c’è solo l’Ucraina: la vera sfida tra Nato e Russia è sul Mar Nero
Non è l’Ucraina, ma il Mar Nero la posta in palio nel braccio di ferro tra Occidente e Russia, in atto in questi giorni su tutti i tavoli della diplomazia Est-Ovest. Mosca vuole che nessuno dei tre Paesi del cosiddetto Trio Associato, Ucraina, Moldavia e Georgia entri nella Nato e pretende un impegno in tal senso dall’Alleanza atlantica. Ucraina, Moldavia e Georgia non fanno parte dell’alleanza militare post-sovietica intervenuta, la scorsa settimana, nella crisi kazaka. “Se i Paesi del Mar Nero membri della Nato più Ucraina, Moldavia e Georgia non fanno squadra, la Russia trasformerà il Mar Nero nel suo lago interno, dominando completamente la zona” aveva detto il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, citato da Euractiv dopo un incontro a Batumi tra i leader del Trio Associato, nel luglio scorso. Di recente, i ministri degli Esteri dei tre Paesi sono stati a Bruxelles, alla Nato, acuendo gli allarmi di Mosca, anche se, stando alla lettera del Trattato dell’Atlantico del Nord, nessuno di essi può entrare nella Nato, perché ciascuno è segnato da conflitti interni: il Donbass, la Transnistria, l’Abkhazia e l’Ossezia. La Russia ne teme l’adesione all’Alleanza perché esporrebbe ampie fette del suo territorio a missili a medio raggio installati entro i loro confini.
L’attenzione di Mosca per il Mar Nero è confermata dall’interesse per il Mare d’Azov, un fazzoletto d’acqua tra la Crimea, il Donbass e la Russia. Per accedervi, c’è una sola via: lo Stretto di Kerch, che separa la Crimea dalla penisola di Taman, russa. Dopo l’annessione della Crimea, lo stretto è virtualmente divenuto tutto russo. Il controllo del Cremlino su quelle acque è divenuto totale ed effettivo con la costruzione del Ponte di Kerch, inaugurato nel 2018, presente Vladimir Putin. Questa settimana, c’è stata una maratona negoziale tra Occidente e Russia: i bilaterali Usa-Russia il 10 e l’11 a Ginevra; il Consiglio Nato-Russia il 12 a Bruxelles (non si riuniva da tre anni); e ieri il consulto dell’Osce a Vienna. Non ne sono scaturiti progressi: il cancelliere tedesco Olaf Scholz dice che “è compito comune favorire la de-escalation”, ma tutti sembrano invece contribuire all’escalation della tensione. Nel confronto tra blocchi la Russia di Putin porta nostalgie e reminiscenze di Unione sovietica. E il ministro degli Esteri francese Yves Le Drian avverte: “Non è accettabile una nuova Yalta”, cioè una divisione del mondo in zone d’influenza all’interno delle quali ciascuno fa come vuole. A Washington, il Senato prepara nuove sanzioni anti-Russia per l’ammassarsi di truppe ai confini con l’Ucraina, che, se includessero misure contro Putin, Mosca giudica paragonabili a una rottura delle relazioni.
A Bruxelles, l’Ue rinnova per sei mesi le sanzioni contro la Russia prese nel 2014, dopo l’annessione della Crimea e il conflitto nel Donbass. A Brest, i ministri degli Esteri dei 27 pensano a eventuali inasprimenti. A Vienna, dove si tiene il Consiglio dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, il ministro degli Esteri polacco Zbigniew Rau giudica che “il rischio di guerra nell’area Osce è oggi maggiore che mai negli ultimi trent’anni”. A tutti replica da Mosca il viceministro della Difesa russo Aleksandr Fomin: “Le relazioni Russia-Nato sono a un livello criticamente basso”. Più duro il viceministro degli Esteri Sergej Ryabkov, un falco in ascesa al Cremlino (c’è chi lo vede in corsa per sostituire il veterano Sergej Lavrov): “Non c’è alcun motivo per proseguire i colloqui di sicurezza con l’Occidente”, perché “abbiamo ripetutamente offerto all’Alleanza di adottare misure di riduzione dell’escalation ma sono state ignorate”. Il che “crea i prerequisiti per l’emergere di incidenti e conflitti e mina i fondamenti della sicurezza.” Che “differenze significative e non facili da superare” siano emerse tra Nato e Russia nel Consiglio di mercoledì a Bruxelles l’aveva riconosciuto, a caldo, il segretario generale dell’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg, che pure spronava a “continuare il dialogo”. Il vicesegretario di Stato Usa, Wendy Sherman, aveva ribadito che “ogni Paese ha il diritto sovrano di scegliere la propria strada.” Di fatto, sottolinea Stoltenberg, la Nato rigetta la richiesta di Mosca di “garanzie legali” per frenare l’allargamento dell’Alleanza a possibili nuovi membri: “Non siamo disposti a compromessi sui principi chiave, come il diritto dei Paesi a scegliere la propria strada e il diritto dei membri dell’Alleanza alla difesa reciproca.”
La Nato resta aperta al dialogo su controllo degli armamenti, limitazioni dei missili, cyber-security. Ed è disposta a riaprire le rispettive missioni, a Bruxelles e a Mosca, “senza precondizioni”.
Mail box
Chiamata immaginaria fra Draghi e il Caimano
Qualcosa (ma non dico cosa) mi suggerisce che sia andata così:
– Pronto, Mario?
– Ciao Silvio, guten morgen!
– Ascolta, questi rompono i coglioni per farti stare a Chigi fino a fine legislatura. Sono fatti così, hanno bisogno di piccoli punti di riferimento. Io, di contro, non posso morire senza essermi tolto lo sfizio più grande della mia vita: appendere la mia foto (ma non quella segnaletica) in tutte le questure e negli uffici dei magistrati di ogni ordine e grado. Sai che faccia faranno, tu che hai il senso dell’umorismo?
– Reumatismo?
– Vabbè, non fa niente. Ti propongo questo: io divento presidente, tu finisci la legislatura. Poi, subito dopo il voto, io mi dimetto e tocca a te.
Avrò 88 anni, la petizione del Fatto sarà arrivata a sedici milioni di firme e sarà il momento giusto per farmi da parte, ma non prima di aver visto le loro facce da stoccafisso nel rendersi conto che in questo Paese, ormai, è possibile solo ciò che è surreale.
– La obbligo a farmi un’altra domanda, questa riguarda la pandemia e gliela vieto.
– Eh? Cosa stai dicendo?
– No, niente, parlavo con i giornalisti…
Marco Fratta
In aula con le finestre aperte (anche a -6° C)
Mercoledì mattina a Tirano, in provincia di Sondrio, prima di uscire di casa per portare a spasso il cane ho guardato il termometro: 6 gradi sotto zero. Normale in Valtellina, visto che è gennaio. Poco dopo aver comprato Il Fatto sono passato per caso – a volte la strada la sceglie il cane – vicino alla scuola media Luigi Trombini: si sentivano le voci dei professori e dei ragazzini per via delle finestre aperte. Sì, aperte, con -6 gradi.
Mentre mi si congelava il cuore mi sono venute in mente le parole di Travaglio dette a Di martedì, sul fatto che più che aprire le scuole, “hanno aperto le porte delle scuole”: per fare lezione con le finestre spalancate, anche nella fredda Valtellina dove l’edilizia scolastica è generalmente buona. Ma persino qui non è stato fatto nessun investimento per garantire lezioni in sicurezza e al caldo. E meno male che abbiamo i Migliori.
Filippo Colombo
Se Silvio va al Quirinale lascio il mio passaporto
Leggo sul Fatto di lettori che, in caso di elezione di B. a presidente della Repubblica restituirebbero il passaporto. Non penso che il documento possa essere restituito, sarebbe come restituire il proprio codice fiscale, la patente ecc. Anzi, suggerirei di conservare gelosamente il documento: potrebbe servire per lasciare questo Paese.
Mario Valentino
La proposta di Bassetti è da ventennio fascista
Ho letto la proposta dell’infettivologo Bassetti di non diramare più il bollettino quotidiano del numero dei contagiati, per evitare ricadute stressanti sulla popolazione. Non conosco le sue idee politiche, ma questo suggerimento mi fa venire in mente una frase del ventennio fascista, “Taci che il nemico ascolta”, prodromica a un’altra frase: “Mangia e sta zitto”.
Antonella Jacoboni
I treni dalla Sicilia sono pochi, pietosi e in ritardo
Sono residente a Imperia anche se sono originario del Sud, come la maggior parte degli abitanti del Nord Italia. Siamo in decine di migliaia che necessitiamo di viaggiare in treno, da Palermo al Piemonte e viceversa. All’insegna del “si stava meglio quando si stava peggio”, penso a quando la Sicilia era collegata con treni efficienti e decorosi (due da Torino, due da Milano, uno da Venezia), ora tutti cancellati. Ormai è rimasto un unico treno da Milano per la Sicilia e viceversa: trasandato, sporco, con servizi igienici pessimi e aria condizionata spesso fuori uso. A prova di ciò, il viaggio che ho fatto lo scorso 30 novembre dalla Sicilia a Genova: le toilette del bagno e alcune delle cuccette guaste, e più di cinque ore di ritardo. Ci è stato rimborsato l’intero biglietto, ma come ci risarciscono lo stress subìto, i danni di mancate coincidenze con altri treni o navi, aerei e appuntamenti con medici o di lavoro saltati? Tra Milano e Roma c’è un treno ogni 20 minuti, e a dimostrare l’inutilità e l’enorme spreco di denaro per il Tav, ora un treno collega il capoluogo lombardo a Parigi in meno di otto ore, con grande soddisfazione dei viaggiatori intervistati. Ma i nostri politici, spudorati, pensano solo alle poltrone e alle prossime elezioni?
Luigi Crifò
Da uno studente: “La scuola si sta dimenticando di formare cittadini”
Cara redazione, colgo l’occasione offertami dall’articolo di Marco Lodoli, pubblicato martedì sul Fatto, per porre all’attenzione alcuni problemi urgenti in merito alla lettura e al mondo della scuola.
Il modello scolastico a cui noi ci ispiriamo – un modello di stampo americano che volge la propria attenzione alla prestazione, a scapito di qualunque erotismo per l’oggetto di studio – ha sacrificato la soggettività dell’alunno sull’altare della produttività. Basta recarsi in qualunque liceo o istituto per realizzare quanto sia sempre più difficoltoso, per uno studente, esprimere correttamente un concetto secondo un proprio spirito critico. Ci sono limiti didattici evidenti che meritano di essere affrontati. Da una parte, non ci si può soffermare su uno specifico argomento, dal momento che bisogna terminare a tutti i costi il programma; dall’altro, l’unico mezzo di studio è il noioso libro di testo, motivo per cui moltissimi studenti detestano studiare. Immaginate per un attimo se studiassimo storia su un libro di Bocca o Montanelli, filosofia sui testi di De Crescenzo e Severino, italiano attingendo alle fonti primordiali (persino i romanzi di Calvino appaiono noiosi su un libro di testo). E, cosa più importante, bisogna che si organizzi un congresso nazionale, che coinvolga soprattutto i professori, al fine di riflettere collettivamente sul destino della “conoscenza”.
Pongo un esempio pratico: se, come è vero e come si sente ripetere spesso, le leggi sono la base di uno Stato, è normale che in un liceo non si studi Diritto, che non si sappia distinguere tra un reato e una sanzione amministrativa, che non si abbia la minima idea di cosa sia una prescrizione o un’amnistia? O ancora, altro esempio, è normale che la maggioranza degli studenti non sappia chi sia il proprio presidente del Consiglio o il proprio ministro della Giustizia? Qui parliamo di chi governa il Paese, dunque indirettamente le nostre vite, di chi orienta le scelte vitali della politica sociale, economica, giuridica della comunità. Segnalo inoltre, e con non poca preoccupazione, che non parliamo di semplici studenti, ma della futura classe dirigente. E se fino a oggi i prodotti sono stati i Renzi e i Salvini, domani potrebbe arrivare di peggio. Siamo di fronte a un’involuzione linguistica, dunque di pensiero, senza precedenti. Pertanto sposo in pieno la tesi di Lodoli e ripropongo la lettura dei quotidiani in classe, sempre che lo Stato voglia formare dei cittadini dotati di spirito critico. O no?
Andrea Campanelli, uno studente qualunque
La Djoko-novela da “dio” a “untore”
La telenovela, la serie, il thriller dell’anno? “Djokovic contro tutti”, il superuomo che batte chiunque sul campo da tennis divenuto l’omuncolo battibile da chiunque; è la nemesi divina, ah, se ci fosse ancora Sofocle! I colpi di scena sono in tempo reale; per la sua decisione di volare in Australia sebbene non vaccinato e positivo al tampone, Djoko rischia, a seconda di come girerà la roulette, l’espulsione, la multa, la reclusione, i servizi sociali, oppure di vincere uno dei tornei più ricchi al mondo. Oggi sei re, domani sei in galera, magari tutt’e due in un colpo solo.
Fatte salve le incredibili colpe del protagonista, da lui stesso ammesse, abbiamo l’ennesima riprova che il Covid ha mandato il pianeta in stato confusionale, ben oltre l’orlo di una crisi di nervi.
Benedetto uomo: essendo noto in tutto il mondo, era matematico che il mondo intero ti si sarebbe rivoltato contro. Djokovic è stato paragonato al Marchese del Grillo, ma le mosse sembrano più quelle dell’ispettore Clouseau quando indaga sulla Pantera Rosa. Più Grullo che Grillo.
Benedetti fustigatori dei costumi No Vax. Roberto Burioni gli dà dell’“irresponsabile pericoloso untore”; ma gli untori, insegna Manzoni, erano coloro che impestavano di proposito, non risulta che Djokovic si muova nottetempo, casa per casa, munito di unguento velenoso sulla racchetta. Eppure gli infetti sono diventati untori, così come i medici sono diventati dittatori; il Covid ha infettato il pensiero, e non c’è vaccino che tenga.
Il bello è che Djoko ha violato la quarantena stando benissimo. Ci si chiede quante persone positive, non essendo numero uno al mondo, possano muoversi tranquillamente tra noi, perché nulla li distingue da chi è negativo. Forse è arrivato il momento di dirci che il mondo non si divide tra chi è positivo e chi è negativo al Covid, ma tra chi sta bene e chi sta male. Se l’indiscutibile leggerezza del protagonista rendesse chiara questa semplice verità, la Djokonovela non sarebbe stata invano.
Toh, il Corbani: così Milano scopre un sindaco-ombra
Milano ha scoperto di avere un sindaco-ombra. Non è un politico dell’opposizione, non siede in Consiglio comunale. No, è Luigi Corbani, che è stato vicesindaco della città quando ancora c’erano la Dc, il Psi, il Pci dei “miglioristi” che amministravano Milano insieme ai socialisti di Craxi. Finita quella stagione, si è impegnato nella organizzazione culturale e ha dato alla città un’istituzione musicale come La Verdi. Non è mai stato un Che Guevara, il “migliorista” Corbani. Moderato, ragionevole, governista. Eppure di fronte a Sala ci pare un gigante della sinistra, un campione della difesa dell’interesse pubblico assediato dagli interessi privati, uno che ancora parla di partecipazione, di democrazia. Il caso che lo ha fatto tornare sulla scena è quello di San Siro: due società private pretendono di abbattere un bene del Comune, il Meazza, e di costruire su terreni pubblici grattacieli, uffici, centri commerciali, per potersi ripagare i costi di uno stadio nuovo. Un’operazione immobiliare che serve a Milan e Inter per rimettere a posto (con i soldi nostri) i loro conti in profondo rosso. Corbani ha dato vita al comitato Sì Meazza e sta spiegando con pacatezza alla città perché la scelta di Sala di concedere la “dichiarazione di interesse pubblico” all’operazione dei due club sia una follia. Sala ha dichiarato: “Provate voi a convincere Milan e Inter a non demolire il Meazza”. Risponde Corbani: “Vorremmo ribadirLe che non spetta a noi dover convincere le squadre a non demolire San Siro, di proprietà del Comune di Milano. Questo compito, per legge, spetta a Lei e spetta a Lei spiegare perché Lei, la giunta e il Consiglio comunale ritengono giusto demolire uno stadio, del tutto valido e funzionante. Troviamo singolare che si risponda con il fatto che sono le squadre a volere demolire San Siro. È curioso come si accetti di discutere sulla pretesa di un privato di demolire un bene pubblico. Ci siamo sentiti rispondere che si deve demolire il Meazza perché le due società intendono costruire, su suolo pubblico, un nuovo stadio, il cui costo è il doppio di quello di altri 29 stadi costruiti negli ultimi anni in Europa, come hanno fatto rilevare gli uffici comunali”.
Prosegue Corbani: “Avete considerato normale che le società non indicassero il progetto di stadio e ignorassero le prescrizioni e le condizioni poste per la definizione di ‘interesse pubblico’: con ciò confermando, peraltro, il convincimento che l’oggetto del pubblico interesse non è la realizzazione di un impianto sportivo, ma esclusivamente e prioritariamente la realizzazione di un colossale intervento edilizio, con una evidente inversione, rispetto a quello normativamente previsto, tra l’oggetto principale dell’intervento (l’impianto sportivo) e le attività accessorie e funzionali (l’attività edilizia)”. Intanto il progetto neppure c’è. “Vorremmo dunque conoscere se sono stati depositati in Comune progetti nuovi (quelli presentati ai giornali con tanta enfasi e con tanto di rendering ‘somewhere over the rainbow’) con studio di fattibilità aggiornato, con piano economico e finanziario aggiornato, con proposta di pagamento della concessione congrua (come richiesta dagli uffici) e con la previsione di tutte le procedure fidejussorie necessarie per le concessioni pubbliche”. “Riteniamo anche necessario conoscere se sono state previste delle clausole vincolanti per evitare la cessione dei diritti di concessione di aree pubbliche a terzi”. “Dopo due anni sarebbe lecito e opportuno che le società proprietarie pro tempore di Inter e Milan presentino una proposta al Comune di Milano e non solo alla stampa. Non siamo disponibili a fare le comparse in una recita in cui il soggetto è nascosto e l’oggetto è misterioso”. Così scrive Corbani, il sindaco-ombra. Che cosa risponde Sala, ormai l’ombra del sindaco?
I nostri giornaloni e i mercanti di verità che rubano le pensioni
Nei giorni scorsi il quotidiano la Verità, dopo che il Fatto aveva scoperto la notizia qualche mese fa, ha dato conto dettagliatamente della “truffa” all’Inps da parte del gruppo Gedi, editore, tra gli altri, del quotidiano Repubblica. Truffa realizzata grazie al pensionamento indebito di un’ottantina tra dirigenti e quadri del gruppo editoriale. Una vicenda che risale alla gestione della famiglia De Benedetti e che coinvolge gli ex vertici aziendali a cominciare dall’ex amministratrice delegata Monica Mondardini.
Il gruppo ha subito un sequestro preventivo di circa 30 milioni di euro e nel decreto firmato dal Gip di Roma Andrea Fanelli si legge, tra le altre cose, di un’intercettazione della stessa Mondardini che in una cena, presente anche l’ex direttore Ezio Mauro, ammette di aver orchestrato gli “artifizi” che poi hanno portato alle indagini.
Di questa inchiesta, che ha un valore altissimo per cogliere lo stato dell’editoria italiana e le radici della sua crisi, c’è una curiosità eclatante: tra gli indagati figura infatti tal Romeo Marrocchio che all’epoca dei fatti era vice-responsabile delle Risorse umane. Ora è Direttore centrale personale e operations del Gruppo Sole 24 Ore che proprio in queste ore sta discutendo un piano di prepensionamenti da 25 unità e una Cassa integrazione da 2 giorni al mese per tutti. Non sappiamo se il Sole 24 Ore intenda far gestire fino in fondo questa ristrutturazione a una persona indagata per pre-pensionamenti fasulli né sappiamo se il gruppo Gedi abbia intenzione di allontanare i dirigenti che ha ancora in carico. Quello che è certo è che tutto muove dall’esigenza, chiaramente espressa ai propri manager dalla famiglia De Benedetti (che non risulta indagata), di ridurre i costi e “massimizzare i profitti”.
Per l’ennesima volta constatiamo il vecchio adagio del capitalismo italiano (e non solo) per cui i profitti sono privati e le perdite sono costi scaricati socialmente, in questo caso sull’Inps. Che oltre a licenziare il funzionario responsabile del dolo, ha chiesto anche un risarcimento diretto che la Corte dei Conti ha quantificato in 2,6 milioni. Spiccioli in realtà rispetto al danno più generale.
La pratica dei prepensionamenti, infatti, è costata alle casse del “Fondo straordinario per gli interventi di sostegno all’editoria” – dati del Dipartimento per l’editoria – 1 miliardo e 813 milioni tra il 2014 e il 2027, 130 milioni all’anno. Un esborso che non ha consentito di salvare quasi nulla della libera stampa italiana vista la crisi conclamata. I prepensionamenti – con il corollario di pre-pensionati rimasti sempre in attività grazie alle collaborazioni esterne – hanno costituito l’unica vera grande visione strategica dell’editoria italiana talmente affezionata allo strumento da fare letteralmente carte false per poterlo adoperare. Come dice Mondardini nell’intercettazione, in riferimento ai finti trasferimenti dei dirigenti con l’obiettivo di pre-pensionarli, “lei crede che io sarei qui se fossero trasferiti realmente?”.
Un bel libro uscito recentemente a firma della ex direttrice esecutiva del New York Times, intitolato Mercanti di verità, delinea una analisi molto dettagliata degli editori statunitensi, delle loro lentezze, colpe e tentativi di rinascita. I mercanti di verità italiani, però, sono molto peggio, assomigliano a dei magliari. Capaci, sui loro giornali, di infierire contro i poveri che “rubano” il Reddito di cittadinanza o agognano a una pensione dopo 40 anni di lavoro mentre loro, nel frattempo, rubano alla stessa Inps. Le ragioni profonde della crisi della stampa italiana bisognerebbe cercarle nei bilanci aziendali. Ma quelli veri, non quelli pubblici.
Gli scienziati governativi del “darwinismo c(l)inico”
Uno spettro si aggira per l’Italia: il darwinismo clinico. L’opinione pubblica è stata divisa in due: quelli che amano i lockdown, i Dpcm, le zone rosse, il coprifuoco; e i minimizzatori del virus, desiderosi di “tornare alla vita” sulle ali del draghismo, per ciò autonominatisi “team vita” in opposizione al “team morte” rappresentato dai primi.
È una confezione narrativa che è partita già quando si moriva a colpi di 1000 persone al giorno e gli ottimisti stilavano le statistiche delle influenze stagionali per confronti aberranti; poi si è fatta strada negli angiporti della Tv, i talk-show, dove il minimizzatore ospite, indifferentemente politico, giornalista o virologo, si diceva preoccupato per l’eccessivo allarmismo e per la morte per fame di albergatori e baristi decretata da Conte; ora, sotto il trionfale governo dei Migliori, è diventata mainstream, propagandata da esimi scienziati con pubblicazioni all’attivo su prestigiose riviste e/o su blog personali, desiderosi di far sapere al mondo che presto sarà tutto finito perché la variante Omicron è “la fine della Covid”.
Tra quelli per cui bisogna “normalizzare il virus” uno dei più attivi è Guido Silvestri, professore di Patologia alla Emory University e fra gli autori del blog Pillole di ottimismo, il quale in collegamento a In Onda ha detto fuori dai denti quel che molti pensano da tempo: esprimendosi a favore della riapertura delle scuole, ha detto che “non è eticamente accettabile che la scuola venga penalizzata, bisogna bilanciare i rischi alla salute psicologica dei bambini col rischio di avere qualche morto in più”. Il professore non insegna Etica o Pedagogia: da scienziato del virus, ha valutato come inaccettabile il rischio (tutto da provare) dei danni della Dad e “accettabile” il rischio (certo) di più morti di Covid. Lo stesso professore, impegnato in una martellante propaganda social, ha twittato una “provocazione”: “Abrignani (immunologo del Cts, ndr) pone la domanda cruciale: ‘Molti Paesi stanno razionalizzando la possibilità di tornare a una nuova normalità con meno restrizioni. Siamo pronti in Italia a tollerare 3-4 mila decessi per Covid al mese per 4-5 mesi l’anno in cambio di una vita di nuovo normale?”. Attenzione alle parole: “razionalizzando”. Per chi ha una soglia etica alta, la risposta è senza dubbio no; per gli ottimisti che razionalizzano, 20mila morti in 5 mesi sono tutto sommato un buon affare, a fronte della normalità godibile dai superstiti al costo di vite altrui. Purtroppo i cultori del “team vita” non specificano se i malati accettabilmente morituri devono essere curati nelle rianimazioni, o lasciati morire a casa per non saturare le terapie intensive (tanto varrebbe).
Costoro non sono che una variante della figura del darwinista edizione 2020, quello che si opponeva ai lockdown di Conte perché “tanto muoiono solo gli anziani”, mentre politici di levatura opinabile intrisi di etica confindustriale intimavano al governo di riaprire tutto perché così avrebbero voluto i morti di Bergamo e Brescia, dalle loro bare portate via coi camion militari.
Ora ci sono quelli per cui Omicron è un “raffreddore”: un raffreddore che spedisce in ospedale una certa percentuale di contagiati, per cui al crescere esponenziale di questi si ha proporzionalmente una crescita di intubati e morti, a cui si sommano i malati gravi di Delta e Delta Plus, il che determinerà a breve il collasso del sistema sanitario. Ma ecco pronta la soluzione: non comunicare più il bollettino quotidiano dei positivi. Capito qual è la musica che piace al governo, ogni giorno infettivologi vip la suonano per i padroni. È oscuro cosa gliene venga in tasca, a queste majorettes della contabilità approssimata per difetto, dal fatto che la gente non sappia più nulla dei contagi (e magari, perché no, presto pure dei morti). Il “team vita” capitanato da Matteo Bassetti (idolo prima di Salvini, ora naturalmente di Renzi) è molto ascoltato ai piani alti: il sottosegretario alla Salute Costa, diplomato geometra dunque nel governo dei Migliori, sta “valutando” la proposta.
È la normalizzazione, bellezza. Una variante deluxe del negazionismo. Lo scienziato che non diffonde allarmismo è un perfetto araldo del nuovo corso: infonde ottimismo, fluidifica i consumi, invoglia la gente a mangiare panini nei bar del centro e a recarsi in ufficio come desidera Brunetta (tutti muniti di Super Green Pass, notoriamente una corazza contro i contagi).
Conte fu crocifisso perché metteva al primo posto la salute e le vite umane; Draghi, ormai sulla linea fatalista di Boris Johnson che tanto ci indignò l’anno scorso, quando ci facemmo belli delle nostre origini greche e del rispetto che portiamo agli anziani, ci ha ridato alla vita. Ciò naturalmente a patto di intendere per “vita” la catena produci-consuma-crepa vecchia di 50 anni, ma rivenduta come nuova con la scocca luccicante dei Competenti.
I giorni della massoneria, Hitler in televisione e B. sempre al telefono
E ora, per la serie “Cretinaggini adamantine”, la posta della settimana.
Caro Daniele, davvero Berlusconi punta al 27 gennaio, il giorno del quarto scrutinio, per diventare presidente della Repubblica? (Walter Padovani, Bologna). Non credo. Nonostante i numeri per ora sembrino non esserci (ma Sgarbi ha confessato allegramente di aver aiutato Silvio con 50 telefonate a grandi elettori indecisi: “Caro onorevole, ho qui accanto a me il presidente Berlusconi che vorrebbe salutarla”; e c’è già la testimonianza, come sanno i lettori del Fatto, di una promessa telefonica a un ex-grillino pentito: “Vedrai, se sarò eletto Forza Italia avrà un futuro radioso e tornerà al 20% e tu potresti avere un ruolo importante nel partito. Se hai bisogno di qualcosa fammelo sapere, chiama la segreteria di Arcore e chiedi di me”), e nonostante sia impresentabile (ma siamo in Italia, il Regno Birbonico della terza fase, cfr. bit.ly/3Gt4hoS), credo che Berlusconi punti con tutte le forze a essere eletto il 26 gennaio. Per un motivo semplice, ma non banale: i massoni hanno il gusto delle date fatidiche, e il 26 gennaio è un giorno fatidico per Berlusconi. Il 26 gennaio 1978 si affiliò alla P2. Il 26 gennaio 1979 la Fininvest Roma S.r.l. incorporò per fusione la Fininvest S.p.A. di Milano assumendone la denominazione e trasferendo la sede a Milano. Il 26 gennaio 1994 Berlusconi fece il suo ingresso in politica. Essere eletto presidente della Repubblica il 26 gennaio sarebbe la ciliegina sulla torta, oltre che una conferma del ruolo, a quanto si dice non marginale, che la massoneria ha nell’elezione del capo dello Stato. Come mai mi sono accorto della data fatidica? Perché sono nato il 26 gennaio.
Come funziona l’elettricità? (Carlo Pittaluga, Alassio). Non lo so. So solo che mi calma.
Provo sempre un grande imbarazzo nei cessi degli autogrill. Non vedo l’ora di finire la pisciata e andarmene. E tu? (Alfredo Restivo, Bari). No. Io dico a chi entra: “Vieni qui. Voglio farti vedere una cosa”.
In Giappone hanno mandato in onda una pubblicità con Hitler che dichiara guerra al freddo (Gianni, Trapani). Ideata dalla stessa agenzia che fece la pubblicità di una salsa “più piccante del sesso con bambini ciechi”.
Le feste di Natale servono solo a ricordarmi che non sopporto i miei parenti (Nadia Maggio, Saronno). I parenti bisogna tenerseli buoni, altrimenti, quando muori, come foto sulla tomba mettono quella dove stai facendo i gargarismi.
Secondo una statistica, in Italia ogni anno muoiono più di 500 uomini durante pratiche autoerotiche. Mi pare una cifra eccessiva (Alberto Vignale, Gorizia). Sembrava anche a me, poi mi sono ricordato di quante volte mi sono quasi ammazzato di seghe normali.
Un no-global arrestato in Francia rischia quasi 12 anni di carcere in Italia per la sua partecipazione alle manifestazioni anti G8 a Genova nel 2001. Non è assurdo? (Sandra La Torre, Caserta). Le accuse: falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita, finanziamento illecito, corruzione, rapporti non episodici con la mafia.
Ghisleri dà una notizia, la Stampa la nasconde
Di primo acchito il sondaggio di Alessandra Ghisleri pubblicato ieri dalla Stampa sembra l’ennesimo plebiscito pro Draghi. Almeno a leggere il titolo in prima pagina, che mette l’accento sulla popolarità del premier (meno brillante di qualche tempo fa, ma sempre solida) e sulla maggioranza bulgara di italiani favorevoli al vaccino obbligatorio: “Draghi, si fida un italiano su due. Il 70% chiede l’obbligo vaccinale”. In verità nel sondaggio si leggono numeri assai meno compiacenti di quanto non suggerisca l’enfatica titolazione. Per scoprirlo bisogna lasciarsi alle spalle i titoli e avventurarsi nella lettura dell’articolo intero. Se c’è una notizia, a ben vedere, è un’altra. Ed è la risposta secca a questa domanda: “Secondo lei, sono chiare le ultime indicazioni del governo presenti nell’ultimo decreto del 5 gennaio sull’emergenza Omicron?”. Il 60,7% risponde “no”. Mica pochi. Per 6 intervistati su 10 le ultime norme del governo non si capiscono. Il resto però va tutto benissimo, per carità. Basta leggere i titoli.