Trump: “Ucciso il capo Isis”. NYT: tradito da una moglie

Non c’è dubbio che l’uccisione del Califfo nero, Abu Bakr al -Baghdadi, l’iracheno fondatore dello Stato Islamico, l’uomo più ricercato del pianeta, fosse la medaglia più ambita dal presidente americano Donald Trump. Specialmente dopo aver tradito i curdi siriani, che tanto hanno fatto per sconfiggere l’Isis , e aver permesso alla Turchia di far entrare in Siria nuove bande di jihadisti tagliagole giá autrici delle stesse efferatezze dell’Isis nei confronti degli abitanti del Rojava curdo. Ma nonostante i toni trionfalistici di The Donald per la riuscita dell’operazione messa a punto dalla Cia e realizzata dagli uomini della Delta Force nella regione siriana di Idlib, è stato lo stesso presidente americano a ricordare la dura realtá: “Conosciamo già il successore del leader dell’Isis al -Baghdadi, è già nei nostri sistemi.” Siamo di fronte, dunque, alla vittoria di una grande battaglia, ma non della guerra. Una battaglia vinta perchè tutti gli attori coinvolti nel lungo conflitto siriano, ovvero Stati Uniti, Russia, Turchia, Iraq e i curdi del Rojava hanno unito le forze. Un’unione che improvvisamente ha deciso di accelerare gli sforzi e dare il via libera al blitz militare anche sulla base dell’esigenza di far dimenticare all’opinione pubblica internazionale il criminale trattamento riservato ai curdi. La consegna della testa del Califfo serve soprattutto ai leader di questi stati a provare a rifarsi una credibilitá . Trump, come sempre , non è riuscito a tenere a bada la propria megalomania e ha affermato, tronfio: “Ora il mondo è un posto più sicuro”. L’Isis, per come è stata concepita dallo stesso al-Baghdadi, non ha bisogno di un capo per fare del male in giro per il mondo. E, inoltre, come ha ricordato Trump, ha giá un altro capo. È vero anche che il defunto Califfo, in quanto fondatore del Califfato tra Iraq e Siria era un eroe e più di un simbolo per la propria schiera di terroristi, oggi di certo non contenti. Un simbolo che , usando le parole di Trump per illustrare alla stampa il blitz, “è morto da codardo, piangendo e tentando di sfuggire ai nostri cani correndo in un tunnel, ma quando ha visto che non c’era uscita si è fatto esplodere con tre dei suoi figli… Sembrava un film”.

Di fondamentale importanza per comprendere perchè la Delta force è riuscita a rintracciare il Califfo nero, è il luogo dove è avvenuto il blitz americano, Idlib. È la provincia nel nord – ovest della Siria dove, soprattutto a causa dell’ingerenza della Turchia nel conflitto attraverso il sostegno ai jihadisti sunniti internazionali e locali in armi contro l’alawita Assad, sono confluiti i ribelli e terroristi islamici sopravvissuti alla rimonta dell’esercito di Assad grazie al sostegno dell’aviazione militare russa. Non è un caso che i seguaci dell’ex al-Nusra, l’organizzazione terroristica affiliata di al-Qaeda, e pertanto rivale dell’Isis, abbiano esultato alla notizia della morte del terrorista numero 1. Senza la collaborazione dei rivali sul campo dell’Isis, forse gli uomini della Delta force avrebbero avuto più problemi a rintracciarlo. A indicare lo spostamento del Califfo dalla zona di Raqqa, nel sud-est della Siria, alla zona roccaforte dei rivali di fede nel nord-ovest pare sia stata una delle mogli, catturata l’estate scorsa (non si sa da chi). La domanda che sorge è: per quale motivo il Califfo si è arrischiato a entrare nell’enclave, per giunta da mesi sotto i bombardamenti dei jet russi, dei rivali affiliati ad al-Qaeda? Forse perchè stava tentando di fuggire nella confinante Turchia? La meticolosa illustrazione del blitz da parte di Trump (sulla testa del Califfo c’era una taglia da 25 milioni di dollari) non ha fornito una risposta. Ciò che sappiamo dal presidente Usa è che, “una volta rintracciato, il leader dell’Isis ha rifiutato la resa e cercato una via di fuga addentrandosi nei tunnel sotterranei”.

L’esplosione ha poi fatto crollare il tunnel, ma le truppe Usa sarebbero riuscite a recuperare dei resti del cadavere e a portare a termine sul posto i primi esami del Dna, confermandone l’identitá. Anche se la Russia ha sollevato dubbi. Nel compound ci sarebbero stati undici bambini. Il commando americano, composto da un centinaio di militari, ne avrebbero ferito almeno uno, assieme ad altre tre persone, mentre due delle mogli del Califfo sarebbero rimaste uccise. Sarà molto complicato per la stampa e per il Congresso, tenuto all’oscuro “perchè a Washington le notizie sfuggono sempre” , ha detto con fare tra lo sprezzante e l’ironico The Donald, sapere come siano andate davvero le cose.

Ma mi faccia il piacere

Cifre. “Quando si voterà tra tre anni saremo sicuramente in doppia cifra” (Matteo Renzi, senatore e leader Italia Viva, Corriere della sera, 24.10). Zero virgola quanto?

Un partito senza “Saremo competitor del Pd. Noi vogliamo fare quel che ha fatto Macron senza il consenso dei socialisti francesi” (Matteo Renzi, senatore e leader Italia Viva, La Stampa, 21.10). Più che altro, senza il consenso. Punto.

La pulce e l’elefante. “L’opa renziana su Pd e Forza Italia. La rottamazione non è finita. ‘Presto Italia Viva arriverà al 10%” (Repubblica, 21.10). L’idea che un partitucolo del 3% possa annetterne due che insieme superano il 25 ricorda la storiella di Achille Campanile sul soldato che esce dalla sua trincea e poco dopo grida al superiore: “Signor tenente, ho fatto 25 prigionieri”. “Bravo, portali qua!”. “Ma non mi lasciano venire!”.

Caso per caso. “La Consulta sull’ergastolo ostativo. Un atto di fiducia nei giudici. Non è vero che qualcuno ha riammazzato Falcone e Borsellino… Nessun mafioso e nessun terrorista tornerà in libertà. Spetterà al magistrato giudicare caso per caso” (Luigi Manconi, Repubblica, 24.10). Il caso che il mafioso, se nega il permesso premio, gli faccia saltare la casa e il caso che gli sciolga il figlio nell’acido.

C’era un ragazzo. “Dieci anni fa un ragazzo di Rignano ci ha insegnato che c’era una generazione pronta a prendersi il futuro senza chiedere il permesso a nessuno. Ce l’ha insegnato quel ragazzo di Rignano, ce lo insegna ancora e continuerà a insegnarcelo per molto tempo!” (Luigi Marattin, deputato Italia Viva, alla Leopolda, 20.10). Slurp.

Tale e quale show. “Se ci fosse veramente la voglia e la necessità di fare qualcosa di utile per gli italiani, lo farei con un mio movimento. Io piaccio perché non uso filtri tra me e il pubblico: quello che vedete, sono” (Emanuele Filiberto di Savoia, Tg5, 22.10). Il guaio è che è vero.

Buona questa. “Beppe Grillo non fu mai scritturato da Mediaset per l’abitudine, disse Silvio Berlusconi, di essere pagato senza fattura” (Mattia Feltri, La Stampa, 23.10). Il fatto che qualcuno prenda ancora sul serio una qualsiasi frase di B. è esilarante. Però questa dev’essere vera: B. ne avrà fatte di tutti i colori, ma che avesse dei fondi neri è da escludere al Mills per Mills.

La lingua batte. “Più che un governo pare una latrina. Dal letame nascono le tasse”, “La Raggi regina della monnezza”, “Il water d’oro prima stupisce, infine stanca”, “Un cesso di governo” (Libero, 23.10). Autobiografia di un giornale.

Colpa di Virginia. “Non mi parli di questi grillini, per carità: sono un branco di improvvisatori, incolti e ignoranti, non conoscono la storia. Ho visto che questa Raggi si è presentata in aula in Cassazione, probabilmente immaginava un verdetto diverso e non vedeva l’ora di esultare davanti alle telecamere. Le consiglierei di starsene in ufficio a governare una città senza governo” (Emanuele Macaluso, Il Foglio, 25.10). Macaluso ignora che il Comune di Roma era parte civile nel processo “Mondo di Mezzo” in quanto vittima della banda che l’aveva depredato, dunque la sindaca era in aula in veste ufficiale: che sia pure lui un improvvisatore, incolto e ignorante?

Il titolo della settimana/1. “Il giorno delle manette. Deriva giustizialista. Oggi la legge-tagliola per mettere in galera tutti quelli che evadono” (il Giornale, 21.10). Paura eh?

Il titolo della settimana/2. “Manette agli evasori, rischio carcere per le nuove soglie e sanzioni più alte” (Il Sole 24 ore, organo di Confindustria, 24.10). In effetti è bizzarro che una legge per le manette agli evasori comporti il rischio carcere per gli evasori.

Il titolo della settimana/3. “La stagione dei populisti fiscali” (Massimiliano Panarari, La Stampa, 21.10). Ieri i populisti fiscali erano quelli dei condoni agli evasori, oggi sono quelli delle manette agli evasori. Ma questi geni rileggono mai quello che scrivono?

Il titolo della settimana/4. “Credo che la sentenza vada nella giusta direzione” (Silvio Berlusconi, eurodeputato e presidente FI, sulla sentenza della Consulta che boccia come incostituzionale l’ergastolo ostativo ai permessi premio per gli stragisti mafiosi, 23.10). “Vince la mafia” (Alessandro Sallusti, il Giornale, 24.10). E fu così che il povero Sallusti si ritrovò una testa di cavallo nel letto.

La nuova Bce della Lagarde avrà il pilota automatico

Quando è arrivato alla Bce, otto anni fa, Mario Draghi ha ereditato una banca centrale impotente e screditata, che aveva fatto troppi errori – incluso quello di alzare i tassi di interesse nel pieno di una crisi globale – e assisteva impotente al collasso del progetto politico di cui era custode, quello della moneta unica europea. Venerdì Chrstine Lagarde diventerà presidente di una Bce diversa, ma non più facile da gestire.

Draghi ha dovuto cambiare un “paradigma”, come dicono gli economisti, imporre una nuova cultura di politica monetaria e una diversa lettura della crisi. La Lagarde trova una Bce “draghizzata” ma con il pilota automatico: venerdì ripartiranno gli acquisti di titoli di Stato per 20 miliardi al mese, nell’ambito del Quantitative easing, come già deciso, e per un po’ la politica monetaria super espansiva impostata negli ultimi quattro anni non si potrà toccare, anche perché le aspettative dell’inflazione a due anni hanno toccato nuovi mini, 1,4 per cento (l’obiettivo della Bce sarebbe il 2). La Bce ha esaurito le armi, finora soltanto la creatività di Draghi e il suo indiscusso carisma nel mondo finanziario hanno mascherato il problema, che la “cassetta degli attrezzi” è ormai vuota.

Il 3 novembre del 2011, alla sua prima riunione con il Consiglio dei governatori, Draghi marca subito la distanza dal suo assai meno celebrato predecessore, Jean Claude Trichet, e taglia i tassi di interesse. Mentre a Cannes si apre il G20 che rende manifesta l’incapacità del governo Berlusconi di reagire alla crisi di fiducia dei mercati nell’Italia, Draghi pronuncia un discorso che oggi sembra davvero uscire da un’altra epoca. L’accento è tutto sulla necessità che i governi dell’eurozona dimostrino “l’inflessibile determinazione a onorare appieno le loro obbligazioni sovrane” (tradotto: tagliare il deficit per rendere sostenibile il debito), poi la richiesta di riforme delle pensioni, di riforme del lavoro per ridurre le rigidità (tradotto: licenziamenti più facili), e austerità: “La moderazione è essenziale, sia in termini di profitti che di salari”.

In otto anni sono cambiate sia le analisi di Draghi sulla natura della crisi dell’eurozona, sia il contesto, sia gli interlocutori politici (non tutti, Angela Merkel è sempre al suo posto). E nella sua ultima conferenza stampa, giovedì scorso, Draghi ha presentato ai governi dell’eurozona una lista di priorità completamente diversa: servono sempre le “politiche strutturali” (non si dice più “riforme”) e i governi che hanno problemi di debito elevato come l’Italia devono rispettare gli obiettivi sul deficit perchè così, se dovesse arrivare la recessione, avrebbero un po’ di margine per gestire caduta del Pil e aumento della spesa sociale senza sfasciare la finanza pubblica. Però per dare un futuro alla zona euro, ha ribadito Draghi, bisogna che la Germania faccia la sua parte. Non l’ha nominata, ma era chiaro a chi si riferiva il presidente della Bce quando ha detto che i Paesi che hanno capacità fiscale – cioè che possono aumentare deficit e debito – devono farlo per contrastare la stagnazione. Anche se non basterà, ha chiarito Draghi. Il futuro dell’euro dipende dalla creazione di una “capacità fiscale che sia davvero in grado di stabilizzare l’economia nel ciclo”. Serve un ministero del Tesoro dell’eurozona che possa intervenire quando serve, con risorse davvero comuni.

Nel secondo trimestre 2019 l’economia tedesca si è ridotta dello 0,1 per cento e il governo propone un piano di investimenti green straordinari da 60 miliardi. Ma fare i “compiti a casa”, per usare un’espressione un tempo cara alla Merkel, non basta, bisogna farli anche a Bruxelles. O la Germania smette di opporsi a ogni forma di condivisione del rischio e delle risorse in materia di politica fiscale, oppure le oscillazioni del ciclo economico continueranno a essere una minaccia mortale per tutta l’Unione: dopo un decennio di stagnazione, la nuova recessione potrebbe avere effetti devastanti. Questo è il senso del testamento di Draghi.

Christine Lagarde non è un’economista, a differenza di Draghi che nel curriculum vanta anche un dottorato al Mit di Boston. Ma la Lagarde è una politica, sopravvissuta a una imbarazzante vicenda giudiziaria (condannata per negligenza in un arbitrato che ha indennizzato con 404 milioni di euro pubblici l’amico imprenditore Bernard Tapie) e alla caduta del suo primo sponsor, Nicolas Sarkozy. E forse è proprio un politico che serve oggi per interagire con la Germania: i tedeschi hanno un problema strutturale con la Bce, molti continuano a negare la compatibilità stessa delle sue scelte recenti con la Costituzione tedesca. Sabine Lautenschlaeger si è dimessa all’improvviso a fine settembre dal board della Bce, otto anni fa il governatore della Bundesbank Axel Weber aveva rinunciato a sfidare Draghi per la presidenza perché non era disposto ad alcuna politica straordinaria e per questo se ne era andato nel settore priato, il capo economista Jürgen Stark si è dimesso nel 2011 in polemica contro i primi acquisti di titoli di Stato, e l’attuale governatore della Bundesbank Jens Weidmann ha guidato la resistenza a Draghi durante tutto il suo mandato.

A Berlino attribuiscono tutti i problemi ai tassi bassi che penalizzano risparmiatori e creditori. Ma il Fondo monetario internazionale ha calcolato che le politiche monetarie espansive hanno spinto la crescita mondiale dello 0,5 per cento nel solo 2019. Erik Nielsen, il capo economista di Unicredit, indica tre problemi strutturali della Germania che non c’entrano con la Bce: la guerra commerciale di Donald Trump alla Cina, mercato cruciale per l’industria tedesca, e Greta Thunberg, nel senso di una transizione verso un’economia più verde che rischia di fare molte vittime, soprattutto nel settore dell’auto. Ora tocca alla Lagarde trattare con Berlino.

La lingua batte. “Più che un governo pare una latrina. Dal letame nascono le tasse”, “La Raggi regina della monnezza”, “Il water d’oro prima stupisce, infine stanca”, “Un cesso di governo” (Libero, 23.10). Autobiografia di un giornale.

Colpa di Virginia. “Non mi parli di questi grillini, per carità: sono un branco di improvvisatori, incolti e ignoranti, non conoscono la storia. Ho visto che questa Raggi si è presentata in aula in Cassazione, probabilmente immaginava un verdetto diverso e non vedeva l’ora di esultare davanti alle telecamere. Le consiglierei di starsene in ufficio a governare una città senza governo” (Emanuele Macaluso, Il Foglio, 25.10). Macaluso ignora che il Comune di Roma era parte civile nel processo “Mondo di Mezzo” in quanto vittima della banda che l’aveva depredato, dunque la sindaca era in aula in veste ufficiale: che sia pure lui un improvvisatore, incolto e ignorante?

Il titolo della settimana/1. “Il giorno delle manette. Deriva giustizialista. Oggi la legge-tagliola per mettere in galera tutti quelli che evadono” (il Giornale, 21.10). Paura eh?

Il titolo della settimana/2. “Manette agli evasori, rischio carcere per le nuove soglie e sanzioni più alte” (Il Sole 24 ore, organo di Confindustria, 24.10). In effetti è bizzarro che una legge per le manette agli evasori comporti il rischio carcere per gli evasori.

Il titolo della settimana/3. “La stagione dei populisti fiscali” (Massimiliano Panarari, La Stampa, 21.10). Ieri i populisti fiscali erano quelli dei condoni agli evasori, oggi sono quelli delle manette agli evasori. Ma questi geni rileggono mai quello che scrivono?

Il titolo della settimana/4. “Credo che la sentenza vada nella giusta direzione” (Silvio Berlusconi, eurodeputato e presidente FI, sulla sentenza della Consulta che boccia come incostituzionale l’ergastolo ostativo ai permessi premio per gli stragisti mafiosi, 23.10). “Vince la mafia” (Alessandro Sallusti, il Giornale, 24.10). E fu così che il povero Sallusti si ritrovò una testa di cavallo nel letto.

Gli adoloscenti sono i nuovi alieni cresciuti a social e videogiochi

Muoiono a gruppi – le chiamano le “nuove stragi del sabato sera” – anche tre o quattro per volta, di notte, in macchine affollate dove sono tutti, spesso, incredibilmente senza cintura. Oppure muoiono strafatti in discoteca, per pasticche prese senza pensarci. Come passatempo, invece, creano chat come ad esempio The Shoah Party dove si inneggiava a Hitler, si diffondevano video con abusi su bambini e messaggi con bestemmie e oscenità, salvo dire alla polizia “io cancellavo i messaggi pensavo che sparisse tutto”. Di chi è la colpa di tanta allucinante inconsapevolezza? Gli adolescenti di oggi sono incuranti del pericolo come quelli del passato, ma con una massiccia dose di alienazione in più, perché la morte su Instagram non esiste e quella è l’unica realtà. E sono pure molto meno cattivi, magari, ma solo perché per essere malvagi devi saper distinguere bene e male e loro invece al massimo riconoscono gli emoticon. E allora il problema, forse, non sono solo le famiglie che latitano, come hanno subito detto gli psico–esperti chiamati a commentare i fatti. La verità è che il sistema li ha rincitrulliti con cartoni animati surreali, videogiochi a gogo, sport virtuali sulla play, video di Youtube, un’educazione parallela a cui si è aggiunto il consumismo senza freni veicolato da messaggi di vip della moda e del calcio. Che si comprano una macchina per ogni post pubblicato sui social, alla faccia dei ragazzi, che credono di essere protagonisti quando mettono like e invece sono solo prodotti. Così, spinti nel virtuale da modelli irraggiungibili e videogiochi senza contatto col mondo, diventano, letteralmente extra–terrestri. Abitanti di un altro pianeta. Ecco perché salgono su una macchina pensando di essere su uno schermo, entrano in discoteca credendosi incorporei, scrivono di Shoah pensando che forse, chissà, Hitler era semplicemente un potente influencer.

Trump è il vero bimbominkia. I piccoli sbandano ma si redimono

Quanto mi sono rotta di sentir parlare dell’emergenza giovani? Da uno a dieci, cinquantaquattro – gli anni che ho. Per ragioni anagrafiche mi sono sorbita l’emergenza giovani degli anni Settanta (“perché si drogano? Perché sparano? Perché si menano per la politica?”), degli Ottanta (“perché si drogano? Perché si infilano spille da balia nel naso e si fanno i capelli a cresta? Perché si menano per la roba firmata?”), dei Novanta (“perché si drogano? Perché vanno a schiantarsi contro gli alberi il sabato sera? Perché ammazzano i genitori?”) e dei Duemila (perché si drogano? Perché sono sempre connessi? Perché non si staccano mai dai genitori?”). Non mi hanno rotto i problemi dei giovani, ma le paturnie dei vecchi sui problemi dei giovani. Basta conoscere un po’ di storia e di geografia per rendersi conto che l’unico contesto in cui i giovani non sono un “problema” sono le dittature e le teocrazie. Perché vengono irreggimentati e, appena possibile, mandati ad ammazzarsi e ad ammazzare, se maschi, o maritate e messe a figliare se femmine. Tant’è che già nell’Atene di Socrate, l’unica democrazia dell’antichità, la lamentela sui giovani ribelli, viziati e incoscienti era l’argomento preferito dei conservatori. Dove i ragazzi sono liberi, non muoiono di fame e hanno qualche accesso all’istruzione, possono vivere le inquietudini, i tormenti e pure la stupidità fisiologica della loro età, e anche commettere grosse cazzate, secondo le disponibilità tecnologiche e psicotrope della loro epoca. Sicuramente la nostra dà loro la possibilità di commettere grossissime cazzate stando seduti a casa davanti a un computer o con un telefonino in mano. Che poi è ciò che fa tutti i giorni il presidente degli Usa, anni 73. La differenza è che Trump potrebbe ottenere un secondo mandato, mentre una seconda adolescenza (vera, non bimbominkiesca) non l’avremo mai. Purtroppo e per fortuna.

Agnelli & Conte, calunnia continua

Nei giorni scorsi, parlando all’assemblea dei soci della Juventus, il presidente Andrea Agnelli se n’è uscito in modo inatteso con un’intemerata nei confronti dell’ex allenatore Antonio Conte riaprendo un capitolo a dir poco scabroso. “Pensiamo – ha testualmente detto – a quella che è stata la gestione sul calcio scommesse di tesserati Juventus nel 2012 per fatti commessi comunque quando erano in altre società. Abbiamo Fabio (Paratici, n.d.r.) che potrebbe scrivere un libro sulla gestione della prima squadra senza l’allenatore per sei mesi in panchina. Solo Fabio è detentore di quelli che sono gli aneddoti di quei sei mesi dietro vetri e balconate. Io spesso mi sono domandato, noi spesso anche con Pavel (Nedved, n.d.r.) e con Fabio, ci siamo domandati: quale altra società sarebbe stata in grado di gestire sei mesi senza il primo allenatore in panchina?”.

Considerando che la Juventus, sia in sede di processo sportivo sia in sede di processo penale, spacciò a lungo Antonio Conte per l’Enzo Tortora della situazione (“Non risulta che Antonio Conte faccia parte di questo quadro preoccupante – disse Agnelli in una conferenza stampa indetta ad hoc il 28 maggio 2012, con l’allenatore al suo fianco –; dai fatti che abbiamo avuto modo di leggere il ruolo che sarebbe attribuito ad Antonio è vicino all’insignificante. La Juventus società ed io personalmente sono al fianco di Antonio che è e sarà il nostro allenatore”), delle due l’una: o Conte era una vergine illibata e allora non si capisce perché oggi, dopo averlo difeso con spiegamento di forze nelle aule dei tribunali, Agnelli torni ad esibirne pubblicamente i panni sporchi; o Conte aveva davvero le mani nella marmellata (come pare, essendo stato squalificato) e allora si deduce che la Juventus ha un codice etico double–face, sei pulito se vesti la maglia bianconera (i “fatti commessi in altre società” di cui parla Agnelli, allora erano fandonie) e hai la rogna non appena ti accasi altrove, specie se lo fai in casa dell’odiato nemico. Agnelli dice che Paratici “potrebbe scrivere un libro sulla gestione della prima squadra per sei mesi senza l’allenatore in panchina”.

Noi nel nostro piccolo qualche fatterello l’abbiamo raccontato: come quello del 23 ottobre 2012 quando Conte, in tribuna perché squalificato, chiese a Paratici di ordinare via sms ad Alessio le sostituzioni da effettuare nel match di Champions Nordsjelland–Juventus 1–1 infrangendo il regolamento. Paratici si sbagliò e inviò gli sms sul telefono di un agente sportivo, Gianluca Fiorini; “Hai sbagliato persona”, lo avvisò quest’ultimo. Il giorno dopo Fiorini venne chiamato da Paratici che lo scongiurò di non raccontare nulla: Conte avrebbe rischiato una nuova squalifica. Poi successe che Paratici e Fiorini litigarono: l’agente inviò alla Procura Figc e alla Procura Coni un esposto in cui documentava l’invio degli sms proibiti ma il Palazzo nemmeno gli rispose; così come restò in silenzio quando Fiorini chiese l’autorizzazione ad adire le vie legali nei confronti di Marotta (che invece gli fece causa violando bellamente la clausola compromissoria col tacito assenso del Palazzo). “Quale altra società sarebbe stata in grado di gestire sei mesi senza allenatore in panchina?”, chiede oggi Agnelli. Siamo d’accordo: solo la Juve. Senza allenatore in panchina ma con molti santi in paradiso, naturalmente.

Mussolini e Salvini, due atei devoti: la fede come convenienza politica

Mussolini cattolico per convenienza politica. Come Matteo Salvini. È la tesi implicita del saggio di padre Giovanni Sale, storico dell’Università Gregoriana, sull’ultimo quaderno della Civiltà Cattolica, il quindicinale della Compagnia di Gesù tornato in auge con il pontificato del gesuita Bergoglio. Titolo: “Mussolini, ateo devoto”. Appunto.

La premessa di padre Sale parte dall’attualità. “L’interesse per il leader del fascismo è dovuto al momento storico che stiamo vivendo segnato dalla crisi” della democrazia, cui corrispondono la rinnovata “fascinazione per l’uomo forte” e “l’avanzata” dell’estrema destra in Europa. Il leader leghista non è mai citato ma la comparazione tra il Mussolini ateo devoto e le destre di oggi include soprattutto lui, diventato il paladino dei clericali tradizionalisti grazie ai rosari e alle invocazioni mariane nei comizi di partito.

Lo storico della Gregoriana affronta però un nodo mai sviscerato sinora: ossia il rapporto tra Salvini e la fede, una questione che interpella “la coscienza”. Mussolini non ebbe mai slanci mistici o spirituali, credeva in una “forza divina” e tutto sommato a livello intimo non dimenticò mai il feroce anti-clericalismo della sua giovinezza.

Di qui il rapporto “ambiguo e opportunistico” con la religione, considerata “un fatto politico” e “antropologico-culturale”. Sembra l’identikit del Salvini religioso. In un’intervista di tempo fa a un quotidiano tradizionalista online, il leader della Lega disse che pregava ogni tanto e il premuroso intervistatore-tifoso fu bravo a evitare la domanda più insidiosa, quella su Salvini che non va a messa e che non può fare la comunione. All’epoca rilevammo proprio qui che l’eventuale quesito posto a Salvini avrebbe mandato in crisi il fronte dei clericali di destra.

Per un semplice motivo: l’ex ministro dell’Interno è divorziato e ha avuto due convivenze. Per ricevere la comunione dovrebbe aderire alle aperture della Amoris Laetitia di papa Francesco, così contestata dai suoi sostenitori farisei. Un paradosso clamoroso. Ma la distanza tra dimensione religiosa e vita privata non riguarda solo Mussolini e Salvini. È stato un problema anche per gli atei devoti berlusconiani, ça va sans dire.

La democrazia ha bisogno anche di chi non può votare

Uno degli slogan dei giovani indignados spagnoli era: abbiamo il voto, ma non abbiamo voce. Nelle democrazie contemporanee votare non equivale a influenzare le scelte politiche fondamentali. Il tema è stato ben cavalcato da populisti di vario orientamento.

Ugualmente importante, anche se meno esplorata, è la domanda opposta: coloro che non possono votare, hanno comunque il diritto di farsi sentire? La questione riguarda il numero crescente di immigrati esclusi dai diritti di cittadinanza anche in paesi in cui risiedono da lungo tempo, ma anche molti cittadini. Si pensi ai detenuti, a chi è interdetto dal voto ai minori. La voce di questi ultimi si è fatta più e più sentire negli ultimi tempi, irritando parecchi adulti.

Davanti ai ragazzini che hanno riempito le strade per dar voce e corpo alle loro preoccupazioni per l’ambiente, numerosi liberali italiani (così si definiscono) hanno intimato loro di chiudere la bocca e tornare a scuola: da Maria Giovanna Maglie a Vittorio Feltri, passando per Filippo Facci e Silvio Berlusconi, per citarne solo alcuni.

Piuttosto ripetitivi per tono e contenuti, gli “attacchi” possono riassumersi nell’idea che i ragazzi (e le ragazze) consumano quanto e più degli altri, non sanno di cosa parlano e quindi dovrebbero lasciar perdere le strade e tornare a scuola.

La squadra dei critici livorosi occupa solo metà del campo. Nell’altra metà ci sono i sostenitori, ovvero quanti vedono negli studenti in marcia l’esempio della “meglio gioventù” e la speranza del futuro. Questa squadra include anche alcuni nostalgici che cercano echi del ’68 e dintorni. Le posizioni di questi ultimi sono l’opposto di quelle dei primi: i ragazzi fanno bene a manifestare contro lo sfruttamento insostenibile del pianeta, dovuto alla voracità dei genitori.

Non vogliamo qui discutere se i ragazzi comprendano o no la questione ambientale e le sue implicazioni. Anche perché, diciamo la verità, quanti adulti possono dire di capirla davvero?

La domanda più importante e’ un’altra: che cosa ci dicono queste reazioni del modo in cui la società politica del ventunesimo secolo guarda ai suoi cittadini più giovani? Coloro che non possono ancora votare, hanno un posto nel dibattito politico?

I leader politici del secolo scorso, autoritari o democratici, avevano compreso bene che nella propaganda politica, niente funziona meglio dei bambini. Sia che preparassero il loro Paese per la guerra, che ne pianificassero drammatiche trasformazioni economiche, o che cercassero il modo di ricostruire società in frantumi, i leader del ventesimo secolo (quasi sempre uomini in là con gli anni) hanno usato i bambini per raccontare la loro versione del futuro. I bambini sono stati di volta in volta dichiarati fascisti e anti-fascisti, comunisti e democratici, patriottici e internazionalisti, militaristi e pacifisti.

E adesso che le vecchie ideologie sono cadute? Siamo in grado di confrontarci con i cittadini più giovani delle nostre società (ancora supposte) liberali, ascoltandone le istanze? Le reazioni scomposte suscitate da Greta Thunberg e da quanti hanno marciato nei Fridays for Future suggeriscono di no.

Ci piace ripetere che “tutto quello che facciamo lo facciamo per i nostri figli”; ma in cambio ci aspettiamo un’acquiescente accettazione. Pesa ancora il vecchio motto inglese secondo il quale “children should be seen but not heard” (i bambini devono essere visti, ma non sentiti).

I bambini, e soprattutto le bambine, ci piacciono sorridenti e silenziose, da usare come pubblicità per i progetti degli adulti. Ci piacciono meno le ragazzine che ci guardano arrabbiate ed alzano la voce.

Quando le ragazzine prendono la parola per ricordarci i nostri limiti o ci chiedono conto delle nostre mancanze diventiamo intolleranti e violenti: “Greta Thunberg? La metterei sotto con l’auto” (Maglie), “mi provoca fastidio fisico” (Facci), o “Greta è una scriteriata e i suoi seguaci dei rimbecilliti” (Feltri)?

Si dirà che è sufficiente guardare all’altro campo: a coloro ai quali Greta piace così tanto che vorrebbero farne una nuova piccola santa, o ancora meglio in un’ideale piccola martire, a cui passare il bastone della responsabilità per il futuro. Ma santificare equivale davvero ad ascoltare?

Greta, saggiamente e ostinatamente, ripete che non ha risposte. Che non sta a lei averle. E che non sta a lei neppure rappresentare il futuro. Quello che afferma è semplicemente che vuole avere una voce sulla questione forse più importante dei nostri tempi. Parlare alle Nazioni Unite potrebbe sembrarci una trionfale affermazione della voce dei più giovani. Ma lo è davvero? Solo se siamo disposti ad accettare che anche chi non vota deve avere rappresentanza. L’alternativa è che i più giovani decidano che la società politica degli adulti non li riguarda. Come ci ha insegnato Albert O. Hirschman, chi non può esercitare l’opzione di far sentire la propria voce può soltanto andarsene. Non può infatti esserci lealtà senza voce. Ma non può esserci neppure democrazia senza la partecipazione di chi ha più da perdere e da vincere dal futuro.

 

Berlino non insegna: nel mondo 170 muri

Elegia di un muro molto alto. Versi potenti di Mustapha Benfodil. Cinquantenne poeta, drammaturgo, scrittore. E’ andato in Palestina. Ha visto. Ha sofferto. Ha metabolizzato rabbia. Indignazione. Tristezza. “Il cemento è una lingua barbara/Il muro è un paese irrazionale”. Aveva vent’anni quando il Muro di Berlino venne fatto a pezzi il 9 novembre del 1989. Fu una lunga, epocale, felice, drammatica notte. Mustapha, nato in Algeria, condivise l’euforia e le speranze di tutti noi?

“Il muro e le lacrime e l’urina e lo sperma e il sangue e il tempo e la morva/e la merda e l’orgoglio e il sangue e il muro e le lacrime e l’urina e lo sperma …”. Il canto di Benfodil è una parete di parole dolorose, un sipario di vite spezzate, di popoli divisi, di odio, di paura. All’ombra del muro che divide Israele da Gaza. Da Gerusalemme. Una infinita palizzata dello spirito.

“Il muro è la lingua materna dei falchi/(o dei coglioni?)”, incalza Benfodil. I muri sono come buchi neri. Più forti della memoria. Più atroci dell’esilio. Alfabeto del potere, simbolo di forza e autorità. Bastione di sovranismi. Testimonianza di impotenza e di dialoghi impossibili. Ingenuamente abbiamo creduto, quella notte di gioia e liberazione, che dopo il crollo del Muro di Berlino, altri ne sarebbero caduti, come in una sorta di gioco del domino. Lo promettevano i leader del mondo cosiddetto libero. Gorbaciov. Il Papa. La caduta del Muro rappresentava, coi suoi ruderi, la rovina di un conflitto tanto ideologico quanto geopolitico. Era un muro “cattivo”. Emblema della Guerra Fredda. Del Male Comunista. L’Occidente fu seppellito da un delirio di roboanti ed ottimistiche promesse. Non ci saranno più muri!

Tutte balle. Da allora i Muri si sono moltiplicati. Erano sedici, trent’anni fa. Oggi sono dieci volte di più. Centosettanta, secondo il calcolo di Antonio Polito (Il muro che cadde due volte, ed. Solforino, 2019). Muri in cemento. In acciaio. In fili spinati elettrificati. Muri cibernetici. Barriere invalicabili. Migliaia e migliaia di chilometri. Tra il 1990 e il 2001, sono stati realizzati 6 muri “di sicurezza” contro il pericolo potenziale dei terroristi: Israele/Gaza, Kuwait/Iraq, India/Bangladesh, Uzbekistan/Afganistan, Uzbekistan/Kirghizistan, Turkmenistan/Uzbekistan. Nello stesso periodo gli Stati Uniti hanno cominciato a mettere in piedi il loro muro anti-immigrazione (lungo 4.300 km, di cui mille in ferro), imitati dalla Spagna che ha isolato Ceuta e Melilla, le due enclave che possiede in Marocco. Dopo l’11 settembre, la febbre murale ha contagiato altre nazioni che hanno edificato 15 nuovi muri e barriere per contrastare i terroristi islamici. L’Arabia Saudita, per esempio, ha parzialmente isolato il suo territorio dall’Iraq, gli Emirati, l’Oman, il Qatar, la Giordania e lo Yemen con 885 chilometri di muri e barriere elettroniche. Nel 2003 lo ha fatto persino il Botswana, una barriera elettrificata lungo la sua frontiera con lo Zimbabwe. L’India ha raddoppiato le strutture anti-invasione nel confine con il Bangladesh.

E in Europa? La lezione del Muro di Berlino non ha avuto allievi. È stata bigiata. Le guerre balcaniche. I nuovi nazionalismi. La crisi dei migranti. Tutto ciò ha indotto parecchie nazioni a trincerarsi. Contro gli “altri”. Contro l’Isis. Contro Mosca: la diffidenza verso la Russia di Putin ha costretto i piccoli paesi baltici a misure onerose per blindare i loro confini. Persino svedesi, norvegesi e finlandesi si attrezzano. L’Europa senza frontiere si è trasformata nell’Europa dei Muri.

Ecco le barriere tra Macedonia e Grecia che insieme alla Bulgaria ha fortificato i confini con la Turchia di Erdogan. L’Ungheria sovranista di Orban ha messo al bando i migranti con una barriera di 175 chilometri lungo il confine con la Serbia e un’altra di 350 chilometri con la Croazia. Idem la Slovacchia che cingerà i confini con Croazia, Slovenia ed Austria. I Balcani, insomma, sono diventati un labirinto di reticoli, muri e barriere, a loro volta collegati con centrali che raccolgono e archiviano video e dati Id. In questo Grande Gioco della sorveglianza e della repressione, in nome della “giusta guerra” al terrorismo e della politica dei respingimenti, si è affacciata Brexit. Londra, infatti, ha finanziato una barriera alta quattro metri attorno al porto di Calais, in Francia, per stoppare l’afflusso di rifugiati e migranti diretti in Inghilterra. Una panacea: i migranti arrivano per altre vie. Anche da morti. L’ultima strage, i 39 cadaveri di cinesi scoperti dentro un Tir nell’Essex, in Inghilterra.

In questo mondo sbarrato l’Europa è sempre più incattivita, xenofoba. Resa crudele dai conflitti regionali e dalla dispute territoriali. In un tripudio di preoccupazioni nazionaliste e slanci patriottici, gli estoni progettano con Lettonia e Lituania confini che tengano alla larga i russi, i quali godono di una enclave strategica, quella di Kaliningrad. Tra rampe di missili, spie satellitari, droni occhiuti e terre di nessuno trasformate in trappole letali, i valori del Vecchio Continente fanno i conti con la realpolitik: la Lettonia si premunisce contro la Bielorussia che considera fedele alleata di Mosca, dunque potenziale nemica. La Polonia, più guardinga, teme l’Ucraina, la quale, a sua volta, deve badare all’invadente Russia che si è pappata la Crimea. Un ritorno al passato che ci è costato due Guerre Mondiali. L’Europa conta quaranta “piccole patrie”. Ed altrettante rivendicazioni. Le identità territoriali cozzano con il mondo connesso, e il vento che attraversava le nostre anime di cittadini del mondo si è fatto più fievole.

Celebreremo, com’è giusto, la caduta del muro più celebre, dopo il vallo di Adriano e l’ incredibile Muraglia Cinese. Un muro (per fortuna) tra i più fugaci. Quello che divide in due Cipro è in piedi dal 1974. Da 45 anni. I caschi blu dell’Onu lo sorvegliano, senza illusioni. Chi ha criticato “il Muro della vergogna” di Berlino (oggi la visita guidata ai resti del Muro costa 16 Euro…), ne ha messo in piedi uno ben più inquietante col Messico. Giustificato per impedire immigrazioni selvagge e limitare il traffico di droga (ma ciò non avviene…). In realtà, costruire i muri è un business colossale. Secondo Victoria Vernon, docente all’università di New York, e Klaus Zimmermann del Global Labor Organization (Walls and Fences: A Journey Through History and Economics, marzo 2019) vale miliardi di dollari. La militarizzazione ultra tecnologica delle frontiere è un formidabile volano di profitti. Per esempio, tra il 2002 e il 2017, l’export delle compagnie israeliane specializzate in high-tech security dei confini ha registrato il 22 per cento d’incremento. Il paradosso è che il muro di Trump porterà benefici pure ad aziende messicane, come la Cemex. O che, per effettuare i lavori necessari, vengono assunti centinaia di lavoratori clandestini. Succede così che a tirar su il muro tra Messico e Stati Uniti siano soprattutto operai messicani pagati una miseria. L’altra faccia della medaglia è che i muri hanno costi pesantissimi, non solo legati alla loro elaborata edificazione: isolamento commerciale delle zone di confine; rottura dei legami interculturali; terreni agricoli sacrificati; scombussolamenti ecologici di flora e fauna.

E tuttavia, concludono Vernon e Zimmermann, “come gli antichi valli, i moderni muri parzialmente riescono a raggiungere i loro obiettivi”: nessuna barriera fisica può impedire una effettiva protezione contro il terrorismo e gli armamenti più evoluti. Nessuna fortificazione può impedire ai migranti di raggiungere la terra usando barche o aerei. Nessun muro può ridurre il traffico di stupefacenti o l’ingresso illegale dei clandestini. Gli svizzeri, per esempio, utilizzano nel Canton Ticino droni specializzati nell’individuare chi entra illegalmente, usando infrarossi. Ma il flusso dall’Italia continua lo stesso. Tempo fa, Janet Napolitano, segretaria di Stato americano per la Sicurezza Interna, dichiarava rassegnata: “Costruite pure muri alti anche 15 metri. Vedremo prima o poi apparire scale alte 16 metri…”.

In verità, i muri funzionano all’inizio. Quello di Berlino ha quasi azzerato la fuga dei tedeschi dell’Est verso l’Ovest, rallentando la penetrazione dei valori occidentali nella sorvegliata società della Germania di Pankow. A lungo termine, secondo gli analisti, perdono efficacia. Come osserva Frederyk Taylor, autore di The Berlin Wall. A World Divide, 1961-1989 (2006): “Potete pure arrestare i popoli; potete pure imporre dei limiti, ma essi troveranno comunque altre strade…I muri mostrano che i politici arrivati alla fine delle loro idee per trattare una situazione difficile coi loro vicini e non possono pensare ad altri mezzi”. I muri sono storicamente condannati, simbolizzato la chiusura contro l’apertura, l’immobilismo contro il movimento, la morte contro la vita. I muri vacillano. Invitano a scovare il modo di superarli. Di aggirarli. Di scoprirne i punti deboli.

Lo sanno bene gli egiziani che hanno scoperto parecchi tunnel sotto il muro che divide la Striscia di Gaza dal Sinai: nel marzo del 2007 i palestinesi hanno organizzato un’azione di massa distruggendo, in parte, il muro. E i nordcoreani? Hanno scavato gallerie imponenti sotto una delle frontiere più militarizzate della Terra, per far passare reggimenti corazzati. In Irlanda del Nord, a Belfast, l’hanno chiamato Muro della Pace. Tornata di nuovo assai fragile. Chi innalza muri non sa che rafforza la trasgressione. E la resistenza.