Dopo aver denunciato le falle del sistema sociale inglese in Io, Daniel Blake, Ken Loach torna con Sorry We Missed You, una critica amara dell’“uberizzazione” del lavoro. Abbiamo guardato il film con i diretti interessati. “È un documentario più che una fiction”, osserva Jean-Daniel Zamor, rider e presidente del Clap-Collettivo dei fattorini autonomi di Parigi. Yannis, rider per Uber Eats, ha avuto la stessa sensazione: “Il film riflette la realtà. Anche per come i datori di lavoro insistono sul fatto che, facendo il rider, conservi la tua libertà”. I lavoratori “uberizzati” con cui siamo andati a vedere il nuovo film, sono tutti d’accordo su un punto: la storia è molto realistica. Il protagonista è Ricky Turner, inglese, padre di due bimbi, che, stanco di collezionare lavori precari, decide di fare il corriere per una società di consegne a domicilio, simile a quelle che lavorano in subappalto per Amazon. Ken Loach, che è venuto in Francia per un tour quasi più politico che promozionale, ha organizzato diverse proiezioni a Parigi. In un grande cinema sugli Champs-Elysées, il regista militante presenta il suo nuovo film a 900 persone: “Sono diversi sabato che volevamo venire sugli Champs-Elysées. Grazie a Ken Loach per averci invitato”, scherza Olivier Besancenot dell’Npa, il Nuovo partito anticapitalista, per il quale il regista inglese ha più volte invitato a votare. Nella sala ci sono fattorini, conducenti di auto a noleggio, sindacalisti, membri del Clap e fan di Ken Loach.
Il regista segue la famiglia Turner. Ricky sogna di mettersi in proprio. Un giorno, in un piccolo ufficio, si ritrova ad affrontare il suo nuovo datore di lavoro, o quasi. Gavin Maloney, con gilet senza maniche con i colori dell’azienda, gli spiega i termini del contratto e lo rassicura: “Non lavori per noi, ma con noi”. Ricky torna a casa con una pila di carte da firmare e tanti sogni di sicurezza economica. Sayah Baaroun, uno dei primi conducenti a essersi ribellato contro Uber, riconosce se stesso in Ricky alcuni anni fa: “I primi giorni, abbiamo tutti gli occhi che luccicano. I loro discorsi sulla libertà di intraprendere funzionano. Ma a un certo punto non ce la fai più. Ce la fanno solo i giovanissimi che non hanno famiglia, quelli che possono sacrificare la propria vita”. È il caso di Yannis, giornalista freelance e rider per Uber Eats, che ricorda le “belle speranze”: “All’inizio sei pieno di aspettative, poi ti rendi conto che sei più dipendente che indipendente e che, a forza di bonus e di promozioni speciali, ti fissi degli obiettivi sempre meno raggiungibili. Ti accorgi che sei incastrato”.
Prima di potersi mettere in proprio, Ricky deve fare dei sacrifici: vende l’auto della moglie, Abby, infermiera a domicilio. Abby ha un contratto a zero ore ed è remunerata a visita. Il tempo dei tragitti non è detratto dall’orario di lavoro e le persone anziane di cui si occupa vivono lontane l’una dall’altra. Ma per permettere a Ricky di noleggiare un camion per le consegne, vendono comunque l’auto. “Come il personaggio del film, molte persone credono al discorso sulla libertà che ci viene fatto. Ricky ha promesso a sua moglie molti soldi, vende la macchina e, nonostante gli enormi sacrifici, non ottiene nulla”, osserva Zamor. Abby finisce col passare più tempo nei bus. Deve fare tragitti lunghi per occuparsi di persone sole. Approfitta dei momenti calmi per telefonare ai figli. Ricorda loro il piatto di pasta che è in frigo, i compiti da fare prima di guardare la tv e di andare a letto presto. Trascurati dai genitori che lavorano troppo, la piccola Liza Jane e il fratello Seb non se la passano bene. Per poter lavorare Ricky si indebita, deve noleggiare il camion, pagare l’assicurazione e, alla minima assenza, trovare un sostituto o rimborsare 100 dollari. Un po’ alla volta si ritrova sommerso dai pacchi da consegnare e dagli orari imposti dal “gun”, una sorta di tablet interattivo che detta il tempo infernale delle sue consegne. I sogni di indipendenza e di sicurezza economica si allontanano. Zamor ricorda l’impatto del lavoro non regolamentato: “Può distruggere una società, una famiglia, una vita”. E infatti, Ricky subisce la violenza di un sistema disumanizzante, al punto da costringerlo a fare i suoi bisogni in una bottiglia di plastica per non perdere tempo. In sala due conducenti d’auto a noleggio sorridono imbarazzati. Probabilmente hanno avuto una bottiglia anche loro.
Non è la sola violenza che Ricky deve incassare. C’è anche quella che gli fanno subire i clienti, che hanno fretta, e il suo capo. E poi il furto. Ricky viene picchiato e derubato. “Molti corrieri vengono aggrediti – osserva il presidente di Clap – In Inghilterra, la tecnica era di lanciare loro dell’acido e poi di derubarli”. Una volta in ospedale, Ricky deve aspettare diverse ore. In Inghilterra i pronto soccorso sono come in Francia: camere affollate e poco personale. Il suo capo lo chiama al telefono e lo informa che tutto il materiale rubato era assicurato, ma non due passaporti, che Ricky dovrà pagare di tasca propria. Abby non ne può più e crolla. Da quando Ricky fa il rider, la loro relazione va sempre peggio. “Qui il film non è realistico, in generale, si arriva alla separazione”, dice Sayah Baaroun. E aggiunge: “Com’è possibile lavorare 70 ore e riuscire anche a occuparsi della famiglia? Quando torni a casa devi affrontare l’incomprensione della moglie. Quando i miei colleghi mi raccontano le loro crisi di coppia, consiglio di dire alla moglie di iscriversi ai gruppi Facebook dei corrieri, come per dire: ‘Guarda, non sono il solo a sgobbare come un cane. Tanti altri sono nella mia stessa situazione’”. Anche per i giovani Turner la situazione è complicata. Soprattutto per Seb. L’adolescente salta le lezioni, cerca di attirare l’attenzione dei genitori assenti e si rifugia nel graffitismo. Visto che ha le tasche vuote, ruba le bombolette di vernice spray. Liza Jane, che era una ragazzina piena di vita, si chiude sempre di più in se stessa e rimpiange il passato. Consumata dall’“uberizzazione”, la famiglia esplode a poco a poco. Il film non è a lieto fine. “Forse aiuterà le persone a rendersi conto che i loro pacchi Amazon non arrivano da soli, come per magia. A prendere coscienza di quanta sofferenza c’è. Se i clienti e l’opinione pubblica sono dalla nostra parte, potremmo instaurare un vero rapporto di forza con i politici”, spera il presidente di Clap.
Dopo i tanti applausi, la parola passa a più persone. I discorsi si assomigliano un po’ tutti. Olivier Besancenot ritiene che questo film è “uno strumento per il dibattito politico”. Edouard Bernasse, rider e segretario generale del Clap, dichiara che “il lavoro divora la società”. Ricorda anche che i rider si oppongono alla legge Lom e al suo articolo 20 che protegge le piattaforme dalla riqualificazione dei lavoratori in dipendenti (è la Loi d’orientation des mobilitités, detta Loi Lom, discussa a settembre in Assemblea Nazionale. Se dovesse essere adottata, la legge non prevede nessun obbligo sociale per le piattaforme e i riders resterebbero lavoratori indipendenti, ndt). Una cameriera dell’hotel Ibis Batignolles di Parigi, in sciopero da luglio, si scusa perché ha la voce bassa: “Non ho più voce a forza di urlare sul picchetto – dice – I ritmi infernali e il subappalto riguardano anche noi. L’uomo del film non ce la fa più. Immaginate noi donne”. Poi sono i fattorini in sciopero di Chronopost a parlare, per lo più immigrati irregolari, senza documenti: “Le persone approfittano della nostra situazione per sfruttarci, perché sanno che non possiamo fare nulla”.
Nel cinema di una delle avenue più chic di Parigi, la rabbia si accumula e punta il dito contro il sistema ultra liberale. Ken Loach conclude la serata: “Una cosa ritorna ogni volta che si discute di questo tema. Da più di 40 anni abbiamo eletto politici per difendere i lavoratori, ma non fanno mai niente. Hanno tentato di regolamentare ciò che non si regolamenta. Il nodo del problema è il libero mercato”.
Il film era già stato presentato in anteprima il 14 ottobre, in una sala nel seminterrato dell’Assemblea Nazionale, su iniziativa di Clementine Autain, deputata della France Insoumise, il partito della sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon. Alla fine della proiezione c’è stata una standing ovation. Diversi lavoratori “uberizzati” hanno preso il microfono. Ken Loach era in piedi davanti allo schermo. Jérôme Pimot, vicepresidente della CoopCycle, che offre un’alternativa cooperativa all’“uberizzazione” dei rider, sogna di “scrivere un sequel” al film di Loach. Tugdual Le Lay, cofondatore di New Rights Now, un collettivo che aiuta i lavoratori “uberizzati”, ha detto che bisogna rimettere l’uomo al centro del lavoro. Il regista britannico ascoltava. Ha assicurato che “il deterioramento del mondo del lavoro è la grande storia di oggi”. Ha parlato dei new working poors, quelli che lavorano dalla mattina alla sera ma poi sono costretti a rivolgersi alle banche del cibo. “Uber non è una deriva del capitalismo, è il suo completamento – afferma il regista 83enne -. Ma qual è il costo umano di tutto questo?” Arthur Hay, del sindacato Cgt dei fattorini di Bordeaux, lo ha vissuto sulla propria pelle. Ha iniziato a lavorare perché gli piaceva andare in bici. Ha finito per fare lo schiavo. Punta un dito contro la maggioranza al potere. Contro quelli che, come Macron, continuano a dire ai giovani: “Non ti daremo nulla, quindi accontentati di quello che hai”. Arthur Haye non riesce a staccarsi dal microfono: “Perché il governo lo permette?”. La deputata Frédérique Dumas, che ha passato due anni nel partito presidenziale, La République en Marche, prima di sbattere la porta, annuisce. Prende la parola per denunciare una maggioranza “disumana”, ma ritiene che le proposte di Ken Loach per uscire da questa spirale non sono adeguate “al nuovo mondo”.
Il regista, attivista del Labour britannico vicino a Jeremy Corbyn, descrive le sue tre proposte per mettere fine al massacro: aderire ai sindacati, restituire ai lavoratori lo status dei dipendenti salariati e mettere fine ai contratti a zero ore, di cui si abusa nel Regno Unito. Come fare? Il regista inglese ha un’idea e lo dice con malizia: “Prima eravamo come voi in Francia, con una miriade di piccoli partiti di sinistra. Ora, ne abbiamo uno solo, ma grande, ed è un’ottima idea”.
(traduzione Luana De Micco)