Confessioni di un’evasora d’imposte

Evasora… evatrice… evasata, ma come cavolo si dice evasore al femminile? Forse non c’è la parola, e se non c’è la parola manca pure il reato. Ma non è possibile che una pratica tanto famosa si declini solo al maschile. Magari per noi donne vale il detto: si fa ma non si dice. Guardo lo Zingarelli e scopro che si dice evaditrice. Sono davanti all’ennesima multa per divieto di sosta, me la sono dimenticata sulla scrivania e si è riprodotta da sola, spontaneamente, ha figliato un’altra multa, anzi due, parto gemellare, più gli interessi di mora! Poi si è unita con una multa per eccesso di velocità e ha partorito ancora e ancora, fino a mettere su una famigliola nutrita di avvisi e cartelle… l’ultimo nato è un fermo amministrativo. Non che non voglia pagare, ma ora proprio non posso. Ebbene sì, sono un’evaditrice! Finché non salderò il debito con la pubblica amministrazione sarò disprezzata e marchiata dalla mia cattiva coscienza, nel mirino inesorabile del fisco. Ma si può anche andare in prigione, mi chiedo? Chissà, forse sì. Se l’albero genealogico delle mie irregolarità finanziarie si dirama ancora magari mi condanneranno! Tra i sensi di colpa ho degli incubi, sogno un tribunale dove il giudice sentenzia con un semaforo rosso, le cartelle piene di numeri si alzano, diventano pareti di una cella che si rimpicciolisce e mi schiaccia, soffoco, non c’è scampo… colpevole, colpevole… pagherò… pagherò… magari a rate mensili… ma non ora! Mi appare il mio commercialista con un mantello azzurro e una mitragliatrice che mi indica il rogo… e mentre mi circondano coi cappucci cantano in coro… “L’evasore è quella cosa che fa rima con Questura/ se la tassa è troppo dura, lui se l’alleggerirà. Ma se poi viene stanato e gli arriva la Finanza/ senza appello in prima istanza, in galera finirà!”… Aaah!

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Portovesme, la Sider Alloys ora minaccia di non aprire

Sembrava una vertenza in dirittura d’arrivo, invece il futuro per lo stabilimento ex Alcoa di Portovesme è nuovamente a rischio, e con lui il destino dei 130 lavoratori riassunti e dei circa 500 fra diretti e dell’ indotto che ancora attendono fuori dai cancelli della fabbrica, nel deserto industriale del Sulcis che proprio a partire da qui cerca faticosamente la via del suo riscatto. Il nodo è sempre lo stesso: i costi troppo alti dell’energia e l’incertezza sulle mosse del governo rispetto agli strumenti da mettere in campo per le grandi aziende energivore italiane, che pesano come macigni sul riavvio delle produzioni di alluminio in Sardegna. Sider Alloys, la multinazionale svizzera che più di un anno e mezzo fa era approdata nel Sulcis rilevando gli impianti e promettendo un ambizioso piano di rilancio, ora minaccia di andar via ancora prima di aver completato il revamping delle celle elettrolitiche e riavviato la produzione. Un annuncio che per ora sembra orientato al pressing tattico più che a tradursi in fatti concreti dato che lo Stato, tramite Invitalia ha già iniziato ad erogare una parte degli 84 milioni di euro a tasso agevolato che rappresentano il grosso del contratto di sviluppo propiziato dall’allora ministro Carlo Calenda per il rilancio della fabbrica di alluminio: in tutto 140 milioni di investimento da cui non è semplice tirarsi indietro. Di questi, 20 milioni provengono dalla vecchia proprietà dell’Alcoa, 8 milioni li mette la Regione Sardegna, mentre la restante parte sarebbe in capo alla Sider Alloys. A questo accordo avrebbe dovuto poi affiancarsi il cosiddetto “pacchetto Calenda” sul costo dell’energia, rimasto inattuato per la fabbrica sarda.

I primi a farsi sentire per ora sono stati i vertici della Regione, con il presidente Christian Solinas che ha garantito, già dai prossimi giorni, “l’immediata apertura da parte della Regione di un tavolo politico che metta assieme azienda, organizzazioni sindacali, Invitalia e ministero per fare il punto sulla vertenza con l’obiettivo di trovare le soluzioni per il riavvio dell’attività produttiva dello stabilimento di Portovesme”. I lavoratori intanto, dopo essere scesi in piazza la scorsa settimana a Cagliari, si preparano ad unirsi ai colleghi Whirpool ed Embraco sotto le finestre del ministero dello Sviluppo economico (Mise) a Roma. “Da mesi stavamo lanciando l’allarme – spiega Bruno Usai, delegato Fiom-Cgil Sulcis – ed ora i nostri timori si stanno puntualmente realizzando: dopo l’intervento del ministro Calenda nel 2017 l’azienda andava rapidamente accompagnata nell’attuazione dell’accordo sull’energia invece da Roma sono arrivati segnali contraddittori che non hanno agevolato né il dialogo coi fornitori né quello con le imprese incaricate di attuare il revamping”.

Usai fa riferimento in particolare al contratto bilaterale con la centrale Enel a Portoscuso alimentata a carbone che avrebbe dovuto garantire la base fissa del costo dell’energia per alimentare la produzione dell’alluminio negli stabilimenti attigui dell’ex Alcoa. Ma il piano nazionale sulla decarbonizzazione che dovrebbe imporre anche in Sardegna il phase out al 2025 nonostante non siano ancora chiare le alternative sull’approvigionamento non fa che accrescere le incertezze. “I tempi sono slittati, il prezzo base è cresciuto da 40 a 50 euro, è cambiato due volte il governo senza applicare il pacchetto Calenda già pronto. Ora c’è un’azienda che ha riaperto i cancelli della fabbrica e che paga 800 mila euro al mese di stipendi senza produrre niente. È evidente che questa situazione non potrà durare ancora a lungo”.

Eppure il decreto salva Ilva di un mese fa, con la previsione di agevolazioni per aziende che investono sull’energia verde, aveva fatto ben sperare. A quel punto le sigle sindacali si attendevano una convocazione al ministero dello Sviluppo che però non è mai arrivata. Intanto la questione ammortizzatori sociali, con la mobilità per le aree di crisi complessa prorogata fino al 31 dicembre, è solo rimandata. Si ripresenterà per il 2020 per i 500 lavoratori che aspettano ancora di essere riassorbiti dalla Sider Alloys. L’ultimo decreto “emergenze” approvato pochi giorni fa prevede in realtà una possibile via d’uscita perché insieme ai 250 milioni per ridurre l’onere della carbon tax prevede anche un centinaio di milioni da destinare ad interventi di efficientamento energetico: proprio da lì potrebbero provenire in parte le risposte che chiede l’amministratore delegato di Sider Alloys, Giuseppe Mannina. Eppure i presupposti per far bene e subito c’erano già tutti: “Il quadro normativo vigente costruito in oltre un anno di negoziato con l’Europa dà alle energivore presenti in Italia la garanzia di poter investire senza incorrere nel rischio di aiuti di Stato nel settore energetico” dice Francesco Sanna, ex deputato Pd ed estensore dell’emendamento alla legge Europea 2017 che ha introdotto la scontistica legata alla riduzione degli oneri generali del sistema elettrico per tutte le aziende che ne hanno diritto dal 1 gennaio 2018. In base a questa legge un’impresa energivora che prima aggiungeva al costo dell’acquisto dell’energia un pagamento che andava dai 40 ai 45 euro a mw/h oggi non li paga più. “La Sider Alloys non ne usufruisce semplicemente perché non è entrata ancora in produzione”.

C’è poi un secondo pilastro, quello dell’”interrompibilità”, attraverso il quale il gestore della rete elettrica Terna garantisce la stabilità complessiva del sistema scongiurando i grandi black out siglando con le imprese altamente energivore dei contratti che in cambio del distacco temporaneo dalla rete garantiscono un forfait annuo. Un sistema che il precedente governo giallo-verde sembrava aver messo in discussione a vantaggio delle rinnovabili che però non garantirebbero la continuità di sistema e non coprono i cosiddetti “buchi di somministrazione”. In questo quadro complesso si attendono ora le mosse della sottosegretaria al Mise Alessandra Todde (M5S) con delega alle vertenze industriali che a breve dovrebbe sentire le parti sociali e l’azienda, dopo che nella sua ultima visita nell’isola l’11 ottobre non aveva sciolto le riserve sulla dorsale del metano, mantenendo aperte, in teoria, le porte a tutte le soluzioni sul nodo del futuro energetico della Sardegna.

Ken Loach, il film-denuncia sui nuovi schiavi di Uber

Dopo aver denunciato le falle del sistema sociale inglese in Io, Daniel Blake, Ken Loach torna con Sorry We Missed You, una critica amara dell’“uberizzazione” del lavoro. Abbiamo guardato il film con i diretti interessati. “È un documentario più che una fiction”, osserva Jean-Daniel Zamor, rider e presidente del Clap-Collettivo dei fattorini autonomi di Parigi. Yannis, rider per Uber Eats, ha avuto la stessa sensazione: “Il film riflette la realtà. Anche per come i datori di lavoro insistono sul fatto che, facendo il rider, conservi la tua libertà”. I lavoratori “uberizzati” con cui siamo andati a vedere il nuovo film, sono tutti d’accordo su un punto: la storia è molto realistica. Il protagonista è Ricky Turner, inglese, padre di due bimbi, che, stanco di collezionare lavori precari, decide di fare il corriere per una società di consegne a domicilio, simile a quelle che lavorano in subappalto per Amazon. Ken Loach, che è venuto in Francia per un tour quasi più politico che promozionale, ha organizzato diverse proiezioni a Parigi. In un grande cinema sugli Champs-Elysées, il regista militante presenta il suo nuovo film a 900 persone: “Sono diversi sabato che volevamo venire sugli Champs-Elysées. Grazie a Ken Loach per averci invitato”, scherza Olivier Besancenot dell’Npa, il Nuovo partito anticapitalista, per il quale il regista inglese ha più volte invitato a votare. Nella sala ci sono fattorini, conducenti di auto a noleggio, sindacalisti, membri del Clap e fan di Ken Loach.

Il regista segue la famiglia Turner. Ricky sogna di mettersi in proprio. Un giorno, in un piccolo ufficio, si ritrova ad affrontare il suo nuovo datore di lavoro, o quasi. Gavin Maloney, con gilet senza maniche con i colori dell’azienda, gli spiega i termini del contratto e lo rassicura: “Non lavori per noi, ma con noi”. Ricky torna a casa con una pila di carte da firmare e tanti sogni di sicurezza economica. Sayah Baaroun, uno dei primi conducenti a essersi ribellato contro Uber, riconosce se stesso in Ricky alcuni anni fa: “I primi giorni, abbiamo tutti gli occhi che luccicano. I loro discorsi sulla libertà di intraprendere funzionano. Ma a un certo punto non ce la fai più. Ce la fanno solo i giovanissimi che non hanno famiglia, quelli che possono sacrificare la propria vita”. È il caso di Yannis, giornalista freelance e rider per Uber Eats, che ricorda le “belle speranze”: “All’inizio sei pieno di aspettative, poi ti rendi conto che sei più dipendente che indipendente e che, a forza di bonus e di promozioni speciali, ti fissi degli obiettivi sempre meno raggiungibili. Ti accorgi che sei incastrato”.

Prima di potersi mettere in proprio, Ricky deve fare dei sacrifici: vende l’auto della moglie, Abby, infermiera a domicilio. Abby ha un contratto a zero ore ed è remunerata a visita. Il tempo dei tragitti non è detratto dall’orario di lavoro e le persone anziane di cui si occupa vivono lontane l’una dall’altra. Ma per permettere a Ricky di noleggiare un camion per le consegne, vendono comunque l’auto. “Come il personaggio del film, molte persone credono al discorso sulla libertà che ci viene fatto. Ricky ha promesso a sua moglie molti soldi, vende la macchina e, nonostante gli enormi sacrifici, non ottiene nulla”, osserva Zamor. Abby finisce col passare più tempo nei bus. Deve fare tragitti lunghi per occuparsi di persone sole. Approfitta dei momenti calmi per telefonare ai figli. Ricorda loro il piatto di pasta che è in frigo, i compiti da fare prima di guardare la tv e di andare a letto presto. Trascurati dai genitori che lavorano troppo, la piccola Liza Jane e il fratello Seb non se la passano bene. Per poter lavorare Ricky si indebita, deve noleggiare il camion, pagare l’assicurazione e, alla minima assenza, trovare un sostituto o rimborsare 100 dollari. Un po’ alla volta si ritrova sommerso dai pacchi da consegnare e dagli orari imposti dal “gun”, una sorta di tablet interattivo che detta il tempo infernale delle sue consegne. I sogni di indipendenza e di sicurezza economica si allontanano. Zamor ricorda l’impatto del lavoro non regolamentato: “Può distruggere una società, una famiglia, una vita”. E infatti, Ricky subisce la violenza di un sistema disumanizzante, al punto da costringerlo a fare i suoi bisogni in una bottiglia di plastica per non perdere tempo. In sala due conducenti d’auto a noleggio sorridono imbarazzati. Probabilmente hanno avuto una bottiglia anche loro.

Non è la sola violenza che Ricky deve incassare. C’è anche quella che gli fanno subire i clienti, che hanno fretta, e il suo capo. E poi il furto. Ricky viene picchiato e derubato. “Molti corrieri vengono aggrediti – osserva il presidente di Clap – In Inghilterra, la tecnica era di lanciare loro dell’acido e poi di derubarli”. Una volta in ospedale, Ricky deve aspettare diverse ore. In Inghilterra i pronto soccorso sono come in Francia: camere affollate e poco personale. Il suo capo lo chiama al telefono e lo informa che tutto il materiale rubato era assicurato, ma non due passaporti, che Ricky dovrà pagare di tasca propria. Abby non ne può più e crolla. Da quando Ricky fa il rider, la loro relazione va sempre peggio. “Qui il film non è realistico, in generale, si arriva alla separazione”, dice Sayah Baaroun. E aggiunge: “Com’è possibile lavorare 70 ore e riuscire anche a occuparsi della famiglia? Quando torni a casa devi affrontare l’incomprensione della moglie. Quando i miei colleghi mi raccontano le loro crisi di coppia, consiglio di dire alla moglie di iscriversi ai gruppi Facebook dei corrieri, come per dire: ‘Guarda, non sono il solo a sgobbare come un cane. Tanti altri sono nella mia stessa situazione’”. Anche per i giovani Turner la situazione è complicata. Soprattutto per Seb. L’adolescente salta le lezioni, cerca di attirare l’attenzione dei genitori assenti e si rifugia nel graffitismo. Visto che ha le tasche vuote, ruba le bombolette di vernice spray. Liza Jane, che era una ragazzina piena di vita, si chiude sempre di più in se stessa e rimpiange il passato. Consumata dall’“uberizzazione”, la famiglia esplode a poco a poco. Il film non è a lieto fine. “Forse aiuterà le persone a rendersi conto che i loro pacchi Amazon non arrivano da soli, come per magia. A prendere coscienza di quanta sofferenza c’è. Se i clienti e l’opinione pubblica sono dalla nostra parte, potremmo instaurare un vero rapporto di forza con i politici”, spera il presidente di Clap.

Dopo i tanti applausi, la parola passa a più persone. I discorsi si assomigliano un po’ tutti. Olivier Besancenot ritiene che questo film è “uno strumento per il dibattito politico”. Edouard Bernasse, rider e segretario generale del Clap, dichiara che “il lavoro divora la società”. Ricorda anche che i rider si oppongono alla legge Lom e al suo articolo 20 che protegge le piattaforme dalla riqualificazione dei lavoratori in dipendenti (è la Loi d’orientation des mobilitités, detta Loi Lom, discussa a settembre in Assemblea Nazionale. Se dovesse essere adottata, la legge non prevede nessun obbligo sociale per le piattaforme e i riders resterebbero lavoratori indipendenti, ndt). Una cameriera dell’hotel Ibis Batignolles di Parigi, in sciopero da luglio, si scusa perché ha la voce bassa: “Non ho più voce a forza di urlare sul picchetto – dice – I ritmi infernali e il subappalto riguardano anche noi. L’uomo del film non ce la fa più. Immaginate noi donne”. Poi sono i fattorini in sciopero di Chronopost a parlare, per lo più immigrati irregolari, senza documenti: “Le persone approfittano della nostra situazione per sfruttarci, perché sanno che non possiamo fare nulla”.

Nel cinema di una delle avenue più chic di Parigi, la rabbia si accumula e punta il dito contro il sistema ultra liberale. Ken Loach conclude la serata: “Una cosa ritorna ogni volta che si discute di questo tema. Da più di 40 anni abbiamo eletto politici per difendere i lavoratori, ma non fanno mai niente. Hanno tentato di regolamentare ciò che non si regolamenta. Il nodo del problema è il libero mercato”.

Il film era già stato presentato in anteprima il 14 ottobre, in una sala nel seminterrato dell’Assemblea Nazionale, su iniziativa di Clementine Autain, deputata della France Insoumise, il partito della sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon. Alla fine della proiezione c’è stata una standing ovation. Diversi lavoratori “uberizzati” hanno preso il microfono. Ken Loach era in piedi davanti allo schermo. Jérôme Pimot, vicepresidente della CoopCycle, che offre un’alternativa cooperativa all’“uberizzazione” dei rider, sogna di “scrivere un sequel” al film di Loach. Tugdual Le Lay, cofondatore di New Rights Now, un collettivo che aiuta i lavoratori “uberizzati”, ha detto che bisogna rimettere l’uomo al centro del lavoro. Il regista britannico ascoltava. Ha assicurato che “il deterioramento del mondo del lavoro è la grande storia di oggi”. Ha parlato dei new working poors, quelli che lavorano dalla mattina alla sera ma poi sono costretti a rivolgersi alle banche del cibo. “Uber non è una deriva del capitalismo, è il suo completamento – afferma il regista 83enne -. Ma qual è il costo umano di tutto questo?” Arthur Hay, del sindacato Cgt dei fattorini di Bordeaux, lo ha vissuto sulla propria pelle. Ha iniziato a lavorare perché gli piaceva andare in bici. Ha finito per fare lo schiavo. Punta un dito contro la maggioranza al potere. Contro quelli che, come Macron, continuano a dire ai giovani: “Non ti daremo nulla, quindi accontentati di quello che hai”. Arthur Haye non riesce a staccarsi dal microfono: “Perché il governo lo permette?”. La deputata Frédérique Dumas, che ha passato due anni nel partito presidenziale, La République en Marche, prima di sbattere la porta, annuisce. Prende la parola per denunciare una maggioranza “disumana”, ma ritiene che le proposte di Ken Loach per uscire da questa spirale non sono adeguate “al nuovo mondo”.

Il regista, attivista del Labour britannico vicino a Jeremy Corbyn, descrive le sue tre proposte per mettere fine al massacro: aderire ai sindacati, restituire ai lavoratori lo status dei dipendenti salariati e mettere fine ai contratti a zero ore, di cui si abusa nel Regno Unito. Come fare? Il regista inglese ha un’idea e lo dice con malizia: “Prima eravamo come voi in Francia, con una miriade di piccoli partiti di sinistra. Ora, ne abbiamo uno solo, ma grande, ed è un’ottima idea”.

(traduzione Luana De Micco)

Con la Cavallerizza brucia il sistema Torino di Fassino

Lunedì scorso l’ennesimo incendio della Cavallerizza Reale si è portato via non solo un altro pezzo della Torino barocca: ad essere incenerita è stata soprattutto la reputazione del ceto politico e della classe dirigente di una città incapace di custodire ciò che ha di più prezioso, cioè lo spazio pubblico monumentale. Che è come dire la democrazia fatta materia.

In quelle fiamme arde la tronfia irresponsabilità di Piero Fassino, e del Sistema Torino di cui è stato fedele interprete. Di fronte alle Pagliere in fiamme, Fassino non ha esitato a tirare la croce sulle spalle di Chiara Appendino, accusandola di non aver continuato a correre sull’autostrada della privatizzazione imboccata dal Pd. Era il 2010 quando la giunta Chiamparino ‘cartolarizzò’ la Cavallerizza e la cedette alla Cassa Depositi e Prestiti, applicando la dottrina che Giulio Tremonti aveva prospettato per tutto il patrimonio culturale italiano. Un caso clamoroso sul piano culturale e legale, perché riguardava un pezzo fondamentale di un sito Unesco. Ma anche un caso di scuola sul piano politico, perché rappresenta in modo icastico quella sinistra-di-destra che, persa la bussola della Costituzione e del bene comune, pensava (e tuttora pensa) di destinare al lusso privato il patrimonio storico e artistico della nazione.

Fassino tuttavia non ha torto, è triste doverlo riconoscere, quando condanna l’inerzia della giunta Appendino sulla Cavallerizza: solo che essa avrebbe dovuto muoversi in direzione diametralmente opposta a quella invocata dall’intramontabile esponente del Pd. In campagna elettorale, Appendino aveva giustamente legato la salvezza della Cavallerizza alla rinegoziazione nominale del debito: perché o la città riprende il controllo del proprio bilancio, o non potrà che cedere i propri monumenti alle facoltose fondazioni private – proprio come un tempo i poveri mandavano i figli a servizio nelle case dei ricchi, perché almeno mangiassero. Sembra che nessuno, a livello politico, abbia il coraggio di affrontare il problema alla radice: bisogna recuperare la proprietà della Cavallerizza, sanando la cessione alla Cassa Depositi e Prestiti magari attraverso il conferimento di altri beni immobili di minor importanza storica e civile.

Nel frattempo, diventa vitale riprendere il controllo pubblico se non altro dell’uso del monumento. Nel 2015, Appendino immaginava “un processo partecipativo deliberativo in cui venga allestito un progetto condiviso, che individui le parti da vincolare all’uso pubblico e le parti da cedere eventualmente a privati per attività commerciali e culturali, ripartendo da un esame delle diverse porzioni”. Ma una volta diventata sindaco e, nonostante le continue richieste del suo vice Guido Montanari (dimessosi nella scorsa estate proprio per un radicale dissenso sul governo del patrimonio pubblico), Appendino non è riuscita ad attuare in alcun modo quell’idea.

Sul suo tavolo si trova oggi una proposta molto diversa: quella del regolamento dei beni comuni elaborato da un gruppo di giuristi guidato da Ugo Mattei, che prevede il conferimento del monumento a una Fondazione Cavallerizza Bene Comune. I comitati e le associazioni contestano, dal basso, questa soluzione sul piano dei principi (uno strumento di diritto privato per gestire un bene pubblico), sul piano della reale partecipazione e trasparenza delle decisioni (che sarebbero a quel punto chiuse dentro la fondazione), e su quello della direzione politica (il peso dei soci privati, che potrebbero aderire alla Fondazione, potrebbe far pendere la bilancia decisionale verso una estesa privatizzazione). Indubbiamente la trasparenza delle decisioni è l’argomento più importante, in una vicenda tutta giocata sull’ambiguità. Un esempio: si parla spesso di ospitare nella Cavallerizza ‘uno studentato’. Ma un conto è pensare a uno studentato pubblico che attui uno dei diritti costituzionali più negati, quello allo studio. Altro conto è pensare a uno studentato privato esclusivo, il grottesco travestimento attraverso cui, per esempio a Firenze, si incrementa oltre ogni limite di piano la proliferazione di alberghi di lusso, con la conseguente gentrificazione, cioè con l’espulsione progressiva dei residenti da quartieri sempre meno popolari.

In queste ore, d’altra parte, si riaffacciano anche le prospettive più speculative: l’incendio – evidentemente doloso – sembra voler far inclinare il discorso pubblico torinese verso la soluzione militare: sgombero e lucchetti. Una soluzione che metterebbe fine a una occupazione che ha conosciuto momenti gloriosi sul piano artistico e civile, e che spianerebbe la strada alla messa a reddito privato della Cavallerizza: non per caso Fassino si è affrettato a cavalcare le fiamme.

Da una parte l’estrema debolezza della giunta Appendino, e dall’altra il ruolo di uomo forte assunto nel governo Pd-Cinque Stelle dal ministro per i Beni Culturali fa supporre che la soluzione possa arrivare da Roma: e cioè che Franceschini possa trovare i sei milioni necessari per partire nel recupero della Cavallerizza, imponendone in cambio la sostanziale privatizzazione. E magari concedendo graziosamente una riserva indiana di spazio pubblico che favorisca il consenso degli intellettuali, i quali non cessano di salire sul carro del generoso ministro. Non ci sarebbe di che stupirsi: giacché a bruciare, di questi tempi, è soprattutto la verità.

Lotta Continua, 40 anni fa: la vera storia della lobby

“Lotta Continua promette anche un inverno più caldo”. È il 28 novembre del 1969 quando La Stampa, il quotidiano della Fiat, titola così la nuova puntata dell’inchiesta di Giampaolo Pansa sui “movimenti estremisti di Milano”. Scrive il giornalista: “Dice Lotta continua: ‘L’operaio oggi deve lottare contro due padroni: quello di sempre e quello che si è aggiunto, quello nuovo, il sindacato’. Sì esce dalla lettura del settimanale storditi da un’immagine allucinata della realtà italiana”. Qualche riga dopo, Pansa aggiunge: “Nascono così i nuovi slogan: ‘Lotta dura–senza paura’, ‘Lotta continua è ciò che vale se vuoi combattere il capitale’. E all’orizzonte si profila, adagio, ‘l’inverno caldo’”.

L’inverno del 1969 è sicuramente caldo, ma per un altro motivo: la bomba di piazza Fontana, a Milano del 12 dicembre. Ovvero il culmine della strategia della tensione, la “Strage di Stato” ideata ed eseguita in un milieu che raccoglie pezzi dello Stato, servizi segreti non solo italiani, gruppi neofascisti, il cui obiettivo è di instaurare un regime di destra sull’esempio di quello dei colonnelli greci. Nel senso indicato da Pansa, invece, l’autunno era stato più scottante con le migliaia di ore di sciopero di tutte le categorie sociali, le battaglie dure dei lavoratori alla Fiat e alla Pirelli, i cortei degli studenti. In questo contesto, un anno dopo il ’68, quando la rivoluzione per qualcuno sembrava alle porte, il primo novembre 1969 esce il numero uno di Lotta Continua, in seguito settimanale e quindi quotidiano. Inizia così da Torino la storia della maggiore formazione dell’estrema sinistra italiana, conclusasi con lo scioglimento nel 1976. Una storia che, nel 1988, avrebbe avuto come epilogo drammatico l’arresto (e poi le condanne definitive nel 1997) dell’ex capo di Lotta continua (Lc) Adriano Sofri, di Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, per l’omicidio nel 1972 del commissario di polizia Luigi Calabresi. In quel medesimo 1988, in Sicilia, la mafia avrebbe assassinato Mauro Rostagno, che era stato un rappresentante di rilievo del movimento.

Intanto, quel primo novembre del ’69, su Lotta Continua, in prima pagina, ci sono due soli articoli. Uno è sulle lotte a Pisa; l’altro è intitolato “Operai e sindacati di fronte ai contratti”. Guido Viale, uno dei dirigenti degli studenti torinesi e poi del gruppo di Lc, rammenterà che quel numero fu pagato “vendendo un quadro che ci era stato donato da Giovanni Pirelli”, l’intellettuale di sinistra fratello di Leopoldo Pirelli, il padrone dell’omonima grande azienda milanese. La sigla che dà il nome al periodico, ha rievocato Luigi Bobbio, uno dei figli di Norberto Bobbio, tra i leader della stessa Lc, era apparsa già “dal 27 maggio 1969 in calce ai volantini distribuiti fuori dai cancelli della Fiat che fino ad allora uscivano con la firma ‘a cura di operai e studenti’”. Nel presentare il giornale, redatto allora da Bobbio e da Viale, in quel novembre del ’69 si sottolinea che l’idea “è quella di trovare i nessi per saldare le lotte operaie con quelle degli studenti, dei tecnici, dei proletari più in generale in una prospettiva rivoluzionaria”.

Lotta Continua nasce su basi operaiste e movimentiste dalla convergenza di alcuni esponenti del movimento studentesco di Torino, Trento (con Marco Boato e Mauro Rostagno), Pisa e altre città, oltre che del gruppo del “Potere Operaio” pisano, in cui militava Adriano Sofri. Proprio il trasferimento di Sofri a Torino, nella primavera del ’69, e l’incontro tra alcuni studenti e operai della Fiat Mirafiori, fu determinante, scrive Bobbio nella sua storia di Lc pubblicata da Feltrinelli, “nel definire la natura e l’esistenza stessa di Lotta Continua”. Il movimento nato nel ’69 morì in un altro novembre, quello del ’76, dopo l’ultimo congresso, travolto dalla fine dell’antagonismo operaio, dalla crisi della militanza, dagli insuccessi elettorali dell’estrema sinistra, dallo scontro col femminismo. Il quotidiano sopravvisse fino al 1982. Nella Storia di Lotta Continua, Bobbio (morto nel 2018) osserva che “la crisi della militanza è l’espressione di un malessere antico, iniziato molto prima, quando l’adesione alla politica come ‘scelta di vita’ aveva cominciato a separarsi dalle ragioni e dagli impulsi originari che l’avevano determinata (la ribellione, il movimento) per diventare attivismo e mestiere”.

Dopo l’arresto di Sofri, su Lc si abbatté una campagna denigratoria. Si sostenne l’esistenza di una sorta di lobby degli ex del movimento, gente che aveva fatto carriera, dalle grandi aziende ai mass media, e che però cercava, nel contempo, di inquinare le prove sul delitto Calabresi. Enrico Deaglio, già direttore di Lotta Continua, in un’intervista del 1988 a Repubblica rispose: “Il giudice teme che gli ex di Lotta Continua possano inquinare le prove e per questo motivo nega persino gli arresti domiciliari ai 3 imputati. Il giudice Lombardi non ha nulla da temere. Aver paura di complotti a dodici anni dallo scioglimento di Lotta Continua è al di fuori della realtà. Non siamo la P2, né una lobby con affari e potere da rivendicare. Siamo solo un club. Un club a ingresso limitato, di persone di mezza età che ogni tanto si incontrano per giocare a ping pong” .

In Italia si può diventare magistrati senza sapere cos’è la mafia

Quella di oggi è una piccolissima storia, che serve a spiegarne una molto più grande, portandoci diritti dall’università ai palazzi di giustizia. Tutto nasce da una studentessa di giurisprudenza, a Milano. Roberta (nome di fantasia) mi scrive chiedendo un appuntamento. Una lettera gentile, dalla quale traspare la richiesta di un consiglio per i propri studi, nulla di più. Le suggerisco di venire al ricevimento studenti. Quando viene, è lei a ricordarmi la lettera. E appare visibilmente imbarazzata, come se dovesse comunicarmi una notizia sgradevole. “Io l’ho conosciuta a Sesto San Giovanni”, mi spiega. “L’ho sentita parlare lì la prima volta nella mia scuola, un istituto dei salesiani. Si ricorda?”. Sì, ricordo. “Ecco”, continua, “rimasi molto colpita dal suo discorso sul bisogno di legalità, sulla presenza delle mafie nel nostro Paese. Tanto che decisi allora che avrei voluto fare il magistrato”.

Resto lusingato da quella conseguenza mentre lei prosegue: “Ed è per questo che mi sono iscritta a giurisprudenza, per entrare nella magistratura e combattere la mafia”. Non faccio in tempo a completare il mio stato di gratificazione che il suo viso si trasfigura di colpo. “E invece lo sa che sono arrivata al quarto anno e ancora a lezione nessun professore ha mai nominato la parola mafia?”. A questo punto, improvvisamente, Roberta scoppia a piangere. Forse per l’emozione, certo per la rabbia e la delusione chissà quanto a lungo trattenute. Chiede quali corsi può frequentare da noi a scienze politiche, le do qualche consiglio, e un poco si riprende.

Il fatto è che mi si è conficcato nella testa quel pianto: son venuta qui per combattere la mafia, e ancora in tre anni nessun professore ha mai nominato la parola. Ecco, partiamo di qua, allora, per capire che cosa succede nei nostri tribunali, dove stanno gli altri e più importanti protagonisti di questa storia collettiva.

Per capire perché ci siano voluti decenni per ottenere il riconoscimento della mafia in Piemonte e soprattutto in Liguria. Perché celebri clan siano stati definiti mafiosi in Lombardia, di cui avevano conquistato i cantieri con le bombe, solo dopo una sfilza di sentenze benevole o tolleranti. E perché, per parlare di attualità, sia una fatica inenarrabile fare riconoscere la presenza mafiosa in una capitale, Roma, che proprio non ama sentirne parlare. Complicità? Paura? Quieto vivere? Opportunismo? Forse, alternativamente o insieme, anche questo. Ma prima, un fatto incontrovertibile: si può diventare magistrati senza sapere nulla di mafia. L’ignoranza, ecco il motivo principale. Si può concludere una facoltà di giurisprudenza senza avere mai udito la parola mafia (in realtà a Milano alla fine non avviene). Si può diventare magistrati senza che la propria conoscenza dell’argomento sia mai stata verificata da chicchessia, dipende dai temi scelti per le prove scritte e dalle domande delle commissioni all’orale. E si può restare magistrati, a maggior ragione, senza saperne un piffero, perché i corsi di aggiornamento sono volontari.

Morale: si può arrivare a giudicare in processi di mafia, che sono per definizione tra i più complessi e insidiosi immaginabili, senza avere la più pallida idea della materia su cui si deve giudicare. Senza essersi studiati la lettera, la ratio, la genesi, gli scopi, del 416 bis, su cui non per caso il giudice Giuliano Turone ha scritto un monumentale manuale di 700 pagine. Per inventarsi di fatto il codice penale e sostituirlo con “la mafia secondo me”. Dove, ovviamente, il “secondo me” è il medesimo inzeppato di stereotipi che governa il senso comune degli italiani. Non più la definizione giuridica, che fissa specifici requisiti di esistenza del fenomeno, ma una personale e abborracciata definizione sociologica.

Siamo al rovesciamento di una storica pretesa. Di quando – nel 1966 – il procuratore della Cassazione Tito Parlatore chiedeva l’assoluzione degli assassini del sindacalista Salvatore Carnevale, perché la mafia era “materia per sociologi” e non “per tribunali”. Ora, infatti, sono i magistrati a volere fare i sociologi. E da (confusi) sociologi a decidere nei tribunali. Rieccoci così al grido di dolore di Roberta: può un Paese, che da 160 anni affronta una criminalità potente e sanguinaria, non studiarla nemmeno là dove si forma chi deve amministrare la giustizia? E può, quel Paese, giudicare una tale criminalità non “in nome della legge” ma in nome di disordinate e personalissime opinioni?

Razzismo: immigrato umiliato alle Poste. C’è il video, ignorato

Ciao Selvaggia, vorrei raccontarti questo aneddoto. Non mi ascolta nessuno, spero che tu abbia un consiglio da darmi. Sono andata all’ufficio postale per ritirare un pacco. Una rottura di scatole, ma non è questo il punto. La sede in cui mi sono recata è un servizio di paese, quelle senza numero da prendere, devi ancora chiedere chi è l’ultimo. Di fronte a me avevo una decina di persone e ovviamente su tre sportelli ce n’erano “attivi” solo due. La persona di fronte a me era un ragazzo di colore ben vestito, tranquillo, niente da dire. Ma tu sai cosa vuol dire questo per una filiale di paese delle Poste. Questo povero ragazzo stava per pagare la sua prima bolletta all’ufficio postale. Era felice perché si stava integrando bene, abbiamo scambiato due chiacchiere. Arrivato allo sportello l’impiegata delle Poste ha cominciato a dirgli che la busta la doveva aprire e non dargliela chiusa e piegata, che lei è mica lì per aprire i documenti e che se questo discorso non gli piace può tornare a casa sua. Lui non aveva detto NULLA. E questa, di fronte al mio stupore, continua la sua crociata contro il povero ragazzo: “Cos’è, la prima bolletta che paghi perché le altre te le abbiamo pagate noi?” E lui zitto. Cosa poteva dire? Uno straniero in un Paese straniero come può sentirsi? Come se avesse tutti contro. Io ho iniziato a filmare. Ho scritto alle Poste per questo. Sai cosa mi hanno risposto? “Non si può filmare per la privacy”. E basta. Nel video ho la faccia e le parole della signora. Sono molto amareggiata. Perché succede questo e perché le Poste lasciano che i loro dipendenti si comportino in questo modo? Grazie per aver letto.

Jessica Corradini

Cara Jessica, oggi sia la tua lettera che quella precedente raccontano qualcosa di simile ed inquietante, ovvero di come certi italiani, a furia di slogan e di paure inculcate, siano ormai feroci e abbrutiti anche di fronte a persone ed episodi del tutto innocui. Una mamma con un bambino in braccio sprovvista di biglietto come talvolta accade anche ai nostri figli o al signore italiano sbadato, un ragazzo che paga la prima bolletta della sua vita e viene sgridato perché non ha tolto la busta che la conteneva. Di contro, però, ci sono le reazioni degli italiani perbene e queste lettere lo dimostrano. La ragazzina che regala un biglietto alla mamma di colore e affronta da sola l’ostilità degli altri passeggeri, tu che riprendi col telefonino l’impiegata razzista e maleducata. Credo sia proprio questa la soluzione: le persone perbene devono alzare la voce, protestare, farsi sentire. A tal proposito, visto che ho verificato e mi sono fatta mandare il video di cui parli, mi rivolgo alle Poste: davvero non hanno intenzione di fare un richiamo a quell’impiegata? Io, al posto loro, ricorderei a quella signora che proprio le Poste, l’azienda per cui lavora, nascono con uno scopo ben preciso, che forse lei ha dimenticato: connettere il mondo, unire i Paesi, le persone, permettere a realtà lontane di conoscersi e comunicare. Sono nate per questo, le Poste. E l’azienda dovrebbe ricordarlo ai suoi dipendenti, soprattutto a quelli che hanno così tanta paura del mondo al di là dello sportello.

La solidarietà è una colpa. Cede il biglietto a una donna di colore: rivolta in autobus

Ciao Selvaggia, ti scrivo da Como. Oggi in ufficio ho assistito allibita ad una telefonata tra la mia collega e la sua giovane figlia. Valentina, 22 anni, ha chiamato sua mamma in lacrime e disperata perché sull’autobus ha dato un biglietto ad una signora di colore con un neonato in braccio, altrimenti l’autista l’avrebbe fatta scendere. Da sottolineare che a Como pioveva a dirotto. Ebbene, una signora le si è rivoltata contro dicendole di vergognarsi ad aiutare questa gente con tutti gli italiani che muoiono di fame. In un attimo si è ritrovata tutto l’autobus contro, addirittura due ragazzi l’hanno insultata volgarmente. Lei non si è persa d’animo e ha chiamato i carabinieri. Una volta arrivate, le forze dell’ordine hanno bloccato l’autobus ma non hanno potuto fare altro che stringerle la mano e complimentarsi con la ragazza che ha donato il biglietto. Tutti hanno continuato a guardarla male, come se avesse sbagliato qualcosa. È davvero deprimente che alla fine lei abbia telefonato alla madre in lacrime, desolata e mortificata dalla situazione, trattata come fosse un’amica di un delinquente, anziché una persona capace di tendere una mano a chi ha bisogno, specie se è una donna ed è incinta. L’autista in tutto ciò non ha mosso un dito. Mi sembrava una storia molto bella da raccontare per fare onore a questa ragazzina, spero sia un segnale luminoso in questo periodo tanto buio.
Valeriana

Cara Valeriana, se qualche anno fa ci avessero raccontato che il gesto generoso di una ragazzina su un autobus sarebbe diventato una ragione per cui dover chiamare le forze dell’ordine non ci avremmo creduto. E invece.

 

Razzismo: immigrato umiliato alle Poste. C’è il video, ignorato

Ciao Selvaggia, vorrei raccontarti questo aneddoto. Non mi ascolta nessuno, spero che tu abbia un consiglio da darmi. Sono andata all’ufficio postale per ritirare un pacco. Una rottura di scatole, ma non è questo il punto. La sede in cui mi sono recata è un servizio di paese, quelle senza numero da prendere, devi ancora chiedere chi è l’ultimo. Di fronte a me avevo una decina di persone e ovviamente su tre sportelli ce n’erano “attivi” solo due. La persona di fronte a me era un ragazzo di colore ben vestito, tranquillo, niente da dire. Ma tu sai cosa vuol dire questo per una filiale di paese delle Poste. Questo povero ragazzo stava per pagare la sua prima bolletta all’ufficio postale. Era felice perché si stava integrando bene, abbiamo scambiato due chiacchiere. Arrivato allo sportello l’impiegata delle Poste ha cominciato a dirgli che la busta la doveva aprire e non dargliela chiusa e piegata, che lei è mica lì per aprire i documenti e che se questo discorso non gli piace può tornare a casa sua. Lui non aveva detto NULLA. E questa, di fronte al mio stupore, continua la sua crociata contro il povero ragazzo: “Cos’è, la prima bolletta che paghi perché le altre te le abbiamo pagate noi?” E lui zitto. Cosa poteva dire? Uno straniero in un Paese straniero come può sentirsi? Come se avesse tutti contro. Io ho iniziato a filmare. Ho scritto alle Poste per questo. Sai cosa mi hanno risposto? “Non si può filmare per la privacy”. E basta. Nel video ho la faccia e le parole della signora. Sono molto amareggiata. Perché succede questo e perché le Poste lasciano che i loro dipendenti si comportino in questo modo? Grazie per aver letto.
Jessica Corradini

Cara Jessica, oggi sia la tua lettera che quella precedente raccontano qualcosa di simile ed inquietante, ovvero di come certi italiani, a furia di slogan e di paure inculcate, siano ormai feroci e abbrutiti anche di fronte a persone ed episodi del tutto innocui. Una mamma con un bambino in braccio sprovvista di biglietto come talvolta accade anche ai nostri figli o al signore italiano sbadato, un ragazzo che paga la prima bolletta della sua vita e viene sgridato perché non ha tolto la busta che la conteneva. Di contro, però, ci sono le reazioni degli italiani perbene e queste lettere lo dimostrano. La ragazzina che regala un biglietto alla mamma di colore e affronta da sola l’ostilità degli altri passeggeri, tu che riprendi col telefonino l’impiegata razzista e maleducata. Credo sia proprio questa la soluzione: le persone perbene devono alzare la voce, protestare, farsi sentire. A tal proposito, visto che ho verificato e mi sono fatta mandare il video di cui parli, mi rivolgo alle Poste: davvero non hanno intenzione di fare un richiamo a quell’impiegata? Io, al posto loro, ricorderei a quella signora che proprio le Poste, l’azienda per cui lavora, nascono con uno scopo ben preciso, che forse lei ha dimenticato: connettere il mondo, unire i Paesi, le persone, permettere a realtà lontane di conoscersi e comunicare. Sono nate per questo, le Poste. E l’azienda dovrebbe ricordarlo ai suoi dipendenti, soprattutto a quelli che hanno così tanta paura del mondo al di là dello sportello.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2.

L’oriundo giramondo: “L’Italia è il mio destino”

A ben osservare Pietro Figlioli, capitano della nazionale di pallanuoto italiana, mentre insieme ai compagni di squadra scivola in acqua e si muove come fosse nel suo habitat naturale o afferra il pallone con la mano e carica il braccio muscoloso per scagliarlo contro la rete e fare gol, a ben vederlo quindi mentre tira su la coppa dei passati Campionati del mondo di nuoto 2019 a Gwangju (Corea) con al collo la medaglia d’oro, o quando con il corpo scultoreo e ancora bagnato alza le braccia al cielo in segno di vittoria a bordo piscina, viene da pensare immediatamente all’antico mito di Oannes, la creatura per metà uomo e per metà pesce.

Secondo quanto scrive Berosso (storico attivo sotto il regno di Alessandro Magno) nel suo Storia di Babilonia, Oannes emerse intorno agli anni 3.000 o 4.000 a.C. dal Mar Eritreo – da lui, deriveranno poi com’è evidente le sirene e i tritoni della cultura nordica o il Colapesce dei cunti di Giuseppe Pitré –, ed è grazie a lui se “gli uomini furono in grado di esercitare le arti, coltivare i campi, innalzare templi, edificare città, istituire leggi,” precisa lo storico.

E il Mar Eritreo, oggi Oceano Indiano, lambisce anche la patria sportiva di Figlioli, l’Australia, sebbene Pietro sia in realtà un melting pot di culture. Nato in Brasile a Rio de Janeiro da genitori di discendenza italiana – la mamma Marta di Comacchio e la famiglia del padre (il nuotatore e campione brasiliano José Sylvio) di Pescara –, si trasferisce da ragazzo nello Stato australiano del Queensland. Lo si nota anche dall’accento esotico che infonde al suo perfetto italiano, ora dalle vocali arrotondate e musicali del portoghese ora dalle sillabe finali tronche dell’inglese–americano. “In Australia,” racconta in una pausa dagli allenamenti, “ho praticato molti sport a scuola: calcio, basket, pallavolo. Poi a 13 anni ho scoperto la pallanuoto e me ne sono innamorato.”

Il talento esplode subito e inizia a far parte delle selezione nazionale australiana con cui partecipa a due Olimpiadi e tre Mondiali, poi però dal 2004 inizia a giocare in Italia e dal 2009 decide di militare nella nazionale azzurra. E Pietro, l’Italia, l’ha proprio scelta per amore: “Ero come destinato all’Italia, di cui avevo i racconti dei miei genitori e dei miei nonni. Non è un caso che sia io sia mia sorella (Carla, ndr) abbiamo nomi italiani. Qui mi sono innamorato di mia moglie Laura, qui sono nati i miei figli Lorenzo e Matteo, qui vedo il mio futuro”. Non si fa in tempo, infatti, a parlare dell’argento olimpico guadagnato dal Settebello (così è chiamata la nazionale maschile azzurra) a Londra 2012 o della medaglia di bronzo a Rio nel 2016, e quasi si sorvolano i due ori mondiali a Shangai nel 2011 e a Gwangju nel 2019, che Pietro inizia a parlare del suo ménage come papà: “Al mattino mi alzo verso le sette, mi piace svegliare i miei figli, preparare loro la colazione e stare tutti insieme a tavola. Approfitto delle ore mattutine perché loro vanno a letto alle 21,30 e con gli allenamenti non sempre riesco a dare loro il bacio della buonanotte. Voglio godermeli più che posso con passeggiate, giri in bicicletta o in vacanza, adesso che sono piccoli, perché poi so che andranno via”.

Non stupisce, allora, che questo gigante buono che mangia tantissimo – “patatine fritte, cioccolata, di tutto, ma con moderazione,” precisa – sia una guida per la squadra azzurra verso le Olimpiadi di Tokyo 2020: “La prima Olimpiade è pazzesca, la seconda anche ma la sai gestire. Più vai avanti con gli anni, più impari a governare l’adrenalina che può far sciupare la prestazione. Tokyo sarà la mia quinta rassegna, ho la testa quadrata e ben chiari gli obiettivi miei e della squadra perché il settebello non sono solo i sette in piscina, siamo tutti e tredici, siamo sempre tutti in campo come una famiglia”. Dolce e paterno con i compagni, Pietro – che ascolta rock alternativo, gruppi indie, l’hip-hop e immancabilmente la musica brasiliana, su tutti Gilberto Gil – sa essere feroce contro l’avversario: “Io non mollo mai fino al fischio finale, e spingo sempre al massimo per mettere all’avversario più pressione di quella che sto vivendo io. Essere capitano significa anche essere un esempio per gli altri.”

Bello, il sorriso largo e l’allegria carioca, adesso deve riprendere gli allenamenti in piscina. In acqua sguscia così lesto che dalle gambe lunghe e ben tornite sembrano spuntare delle pinne, nuota e guizza nel suo elemento come una creatura per metà uomo e metà pesce, proprio come il buon Oannes.

“L’Olocausto chiude la porta che Cristo aveva aperto”

Sono stati pubblicati quasi insieme due libri su un problema che non può finire: l’imbarazzante e irrisolvibile rapporto, laico e religioso, con la Shoah. I due libri sono Storia senza Perdono di Walter Barberis (Einaudi) e Le terze tavole di Massimo Giuliani (Edizioni Dehoniane Bologna). Entrambi meritano una profonda riflessione saggistica, con strumenti di filosofia e teologia, oltre che di ritorno alla storia. Ma il cenno di questa breve nota può servire a far notare la continuazione di un discorso essenziale (il racconto tragico del prima, il duro avvertimento del dopo Olocausto) ad opera di studiosi che è necessario conoscere o di cui almeno sapere.

Walter Barberis si pone il problema dello storico e sgombra un ampio spazio di “fiction” accumulatosi intorno al dettagliato progetto di eliminazione di un popolo, tenendosi vicino alla voce e alle parole di Primo Levi e ai materiali della storia che colmano gli spazi che altrimenti sarebbero stati svuotati dalla finzione, soprattutto finzione e persino ambizione letteraria. L’autore resta rigorosamente sul terreno della Shoah incancellabile fatto della storia, e affronta il problema del come passare avanti. Non con il perdono, è la sua conclusione.

Il testo profondamente religioso di Massimo Giuliani, dotato di un’ampia citazione di testi delle due religioni, ebraica e cristiana, coinvolte nel progetto distruttivo del popolo ebraico, allarga di molto la tradizionale percezione (costernazione e separazione) dalla vicenda di cui stiamo (e stanno, i due autori) parlando.

Giuliani usa una citazione del filosofo americano Robert Nozick per chiarire il tragico rapporto tra l’evento Olocausto e la fede (anche se le parole sono di un non credente): “La teologia cristiana sostiene che l’umanità ha subito due trasformazioni, una con la caduta e l’altra con la crocifissione e la resurrezione di Cristo, che l’ha redenta e ha dato una nuova via d’uscita dal suo stato di caduta. L’Olocausto ha chiuso la porta che Cristo aveva aperto”.

Ma non dimentichiamo il sottotitolo del libro di Giuliani: “La Shoah alla luce del Sinai”. Infatti scrive Giuliani a pag. 41: “Che cosa significa il silenzio di Dio nell’ora più buia della storia ebraica, alla luce del fuoco del Sinai? Qual’è il valore storico e politico di quegli eventi e quale il loro significato religioso e teologico? Riusciremo noi a rompere l’istintivo silenzio indotto dal tremore e timore dinanzi a quei fatti, e dire a nostra volta qualcosa di sensato e utile non solo alla fede ma anche alla ragione affinché non soccomba alla sfiducia in se stessa? Come terremo insieme il tremendum di Auschwitz e la fede nel Dio di Israele?”.

In altre parole, qui si saldano o si rompono le Tavole? Non sono le domande di un’impossibile sciarada ma la misura (immensa e non finita nel tempo) che ispira la ricerca fra i testi di Giuliani, e con cui tutti, anche solo parlando di ritorno del fascismo, ci stiamo misurando. Con disorientamento e angoscia.