Grand Hotel Scalfari: le confessioni (presunte) del fondatore di Repubblica

Domani, a Roma, l’editore Marsilio offre un sontuoso pomeriggio mondano: la presentazione al Tempio di Adriano, in piazza di Pietra, di Grand Hotel Scalfari, ovvero – così recita il sottotitolo – “Confessioni libertine su un secolo di carta”. Ci saranno Paolo Mieli e Carlo Verdelli. Il volume, ovviamente, è su Scalfari ma è qualcosa di più di un pretesto per qualsiasi altra cosa che racconti il fondatore de La Repubblica. Questo libro – scritto a quattro mani da Francesco Merlo e Antonio Gnoli – è tanto ontologicamente Scalfari quanto neppure il protagonista stesso del sé, del suo ES o del suo IO potrebbe appunto immaginare su di sé, sul suo ES e sul suo stesso suffragio a IO (la ninfa che ruba il marito, Zeus, alla dea Era di cui è sacerdotessa).

Che astuzia, la vita, nei suoi lapsus. Ha già dunque fatto tutto suo padre Pietro – legionario con Gabriele d’Annunzio a Fiume – a chiamarlo “Eugenio”. ES, infatti, è la sua cifra anagrafica e il romanzo di IO, allora, scritto in prima persona – già nell’avvio, con una sorta di autografia della barba – è scritto dall’io dei degli autori che sono due star del giornalismo italiano ma che alla faccia dei recinti mentali si sono adoperati al modo di Don Chisciotte e Sancho Pansa quando, capovolgendone il ruolo, svelano il loro stesso creatore facendone un personaggio per consegnarlo a un ulteriore capolavoro.

Ed è così che Miguel de Cervantes si ritrova pittato dalle sue stesse creature. Questo hanno fatto Merlo e Gnoli interrogando e trovando – altresì – uno Scalfari irriconoscibile agli occhi degli stessi scalfariani che mai e poi mai saprebbero pensarlo libertino qual è tra le delizie di un bordello o a braccetto con Indro Montanelli – gemello eterozigote, entrambi fondatori del giornalismo contemporaneo – oppure alle prese con il suo ormone femminile. Un ormone ormai prosciugato: “Con la regolarità di un mestruo” – eccolo, ES, è lui che parla _ “ogni quattro settimane, questo ormone prendeva il sopravvento e allora sentivo il bisogno di isolarmi nella mia casa di Velletri oppure in una camera d’albergo con una bottiglia di whisky, il ghiaccio e un sottofondo di musica jazz”. Ecco, sembra di vederli Don Chisciotte e Sancho – Merlo e Gnoli – osservare il loro don Eugenio de Cervantes col suo bicchiere. E poi raccontarlo.

E a questo punto c’è da dire che Grand Hotel, dove anche i capitoli dedicati al mondo noioso e piccolo dei giornali si bevono come l’acqua, scavalca tutti i recinti della cosiddetta “lingua” come nessun cosiddetto scrittore – tra i tanti venerati delle patrie lettere – saprebbe fare. L’oggetto di un sapere che fatalmente immalinconisce non è tanto, come nella definizione di Thomas Carlyle, la scienza triste dell’economia piuttosto la letteratura. Lugubre palestra di sfigati che in mancanza di IO, ES e Sé hanno soltanto l’ombelico, i letterati – i titolati definiti nella categoria “Narrativa” – dovrebbero andare a doposcuola studiando esclusivamente questo libro dove le parole non hanno cautele, tantomeno censure. E figurarsi i personaggi. Ecco Pietro Citati: “I comunisti andrebbero messi nelle gabbie, dove di solito si rinchiudono le scimmie. La differenza è solo in un particolare, non hanno la coda”.

Ps. Non so se io sia ancora tra gli Amici della Domenica, non conosco i tempi tecnici delle candidature, ma questo Grand Hotel Scalfari va senz’altro portato al Premio Strega. Anzi, deve vincere al Ninfeo. È letteratura pura. Come mai i letterati sapranno fare (e magari così capire come si scrive, perfino con la coda).

App anti-caporalato nei campi: però le aziende si sfilano

Contro il caporalato, la Regione Lazio sembra aver ingranato la giusta marcia, anche se a far rallentare la macchina ci stanno pensando le imprese. A fine luglio, in piena estate, gli assessorati al Lavoro, all’Agricoltura e alla Mobilità hanno lanciato un’ottima iniziativa: l’app Fair Labor, che permette alle aziende di inserire gli annunci di ricerca di personale per i campi e ai lavoratori di iscriversi e candidarsi.

Studiata per le esigenze del settore, un modo per rendere trasparente la domanda e l’offerta di lavoro, così da farle sfuggire ai canali informali e – soprattutto – criminali. Finora è stata sperimentata a Latina, proprio la zona nella quale pochi giorni fa un uomo è stato arrestato poiché “spronava” i suoi operai nei terreni a colpi di fucile. A distanza di tre mesi dall’avvio dell’applicazione, i datori che si sono registrati e hanno aggiunto posizioni vacanti, però, sono solo tre. Gli imprenditori che hanno voluto cogliere questa occasione per dare un segnale di contrasto all’intermediazione illecita, in pratica, si contano sulle dita di una mano. L’assessore regionale al Lavoro Claudio Di Berardino, comunque, resta ottimista: “Abbiamo appena iniziato – commenta – e non ci vedo una voglia di sfilarsi da parte delle aziende, ma solo un po’ di lentezza. E comunque, anche se i dati possono sembrare negativi, per noi sono positivi perché sono il germe di una buona pratica”. L’applicazione è stata costruita per colpire alla radice il fenomeno del caporalato: funziona in quattro lingue diverse, quindi è utilizzabile anche dagli stranieri, le vittime preferite di questo sistema. I lavoratori iscritti ottengono una tessera per viaggiare gratis sui mezzi pubblici verso i campi, e così possono evitare di finire in quel traffico di pullman malandati organizzati dagli “intermediari”, veicoli che spesso coinvolti in incidenti mortali.

Il mondo delle imprese, anche quelle sane, continua dunque a non mostrare entusiasmo di fronte all’idea di rivolgersi ai servizi pubblici per il collocamento. Nel 2018, in Provincia di Foggia si è tentato un esperimento simile. Un sistema pubblico di accoglienza, trasporti e incrocio domanda e offerta, sostenuto dall’allora prefetto Iolanda Rolli, poi rimossa dopo l’arrivo al Viminale di Matteo Salvini. Progetto naufragato perché le imprese non hanno pubblicato offerte di lavoro. Resta però il segnale che qualcosa si è mosso. La legge anti-caporalato approvata a novembre 2016 dal governo Renzi voleva agire non solo sulla repressione, ma anche sulla prevenzione. La via studiata era imporre la presenza dello Stato nelle attività tipiche dei criminali. Per esempio, svuotando le baraccopoli illegali e sostituendole con edifici a norma, organizzando una rete sicura di spostamenti e facendo emergere il lavoro in nero. Quelle norme, però, sono rimaste per oltre due anni lettera morta. Negli ultimi mesi hanno dato cenni di vita. Dopo tanta insistenza da parte della Flai Cgil, sempre più province stanno aprendo la Rete del lavoro agricolo di qualità. Le ultime arrivate sono Grosseto, Taranto e Barletta-Andria-Trani. “Nel Lazio – spiega Di Berardino – le abbiamo a Latina, Rieti e Viterbo. Vogliamo che aprano le altre due e che funzionino meglio quelle già esistenti. Contro il caporalato abbiamo messo in campo 10 azioni, 7 già attuate. Ne mancano tre, a fine anno faremo una valutazione su come estenderle”.

112, più che numero emergenze sembra un filtro anti-scocciatori

La premessa: “Abbiamo festeggiato i dieci milioni di chiamate”. Lo svolgimento: “Chi non telefona per una reale necessità è una piaga”. La conclusione: “Bisogna cambiare il cervello delle forze operative cui passiamo la chiamata, che perdono tempo rivolgendo all’utente domande la cui risposta è già sul loro schermo”. Più che un corso di formazione per la stampa, l’“Open Day” andato in scena giovedì scorso a Roma è sembrato uno show a metà tra l’excusatio non petita e l’argenteria lucidata.

La questione è nota: la direttiva 396 del Consiglio delle Comunità Europee nel 1991 invitava gli Stati membri a dotarsi del Numero unico per le emergenze (Nue), il 112. Molti Paesi si sono adeguati nel 1992, altri nel 1996, l’Italia nel 2019 non ha ancora finito. Tra le Regioni in cui il 112 ha unificato i precedenti numeri delle centrali operative (112, 113, 115 e 118) c’è il Lazio, che ha dovuto correre ai ripari nel 2015, quando il Papa ha proclamato il Giubileo. “Avevamo ricevuto già pesanti sanzioni dall’Europa”, ha spiegato giovedì Livio De Angelis, a capo della direzione regionale 112. “Non è vero”, ha sussurrato seduto tra il pubblico un membro del coordinamento nazionale. Ma vabbè, l’importante è che ora tutto funzioni al meglio. Quindi niente polemiche, per favore, solo critiche costruttive: “Siamo meglio persino di Milano. Rispondiamo in 2,2 secondi, il tempo medio di gestione di una chiamata è di 120 secondi”. De Angelis si difende con i numeri e previene domande, perché troppe sono state le volte in cui i ritardi nelle risposte sono finiti sui giornali. Ma come funziona il 112? Dalla sala operativa di primo livello risponde un operatore. “Figura professionale riconosciuta per legge”: peccato che il corso (modulo base o avanzato non si capisce, al Nue ogni dirigente dice una cosa diversa) duri 122 ore. In pratica dopo appena sei settimane una persona deve essere in grado di individuare il tipo di emergenza, gestire l’eventuale panico del chiamante e localizzarlo (“conoscere le caratteristiche fisiche e toponomastiche del territorio”. In sei settimane. A Roma). E infatti “l’emergenza si fa in strada”, chiariscono i poliziotti e persino Massimo Improta, il dirigente dell’Ufficio prevenzione generale e Soccorso pubblico della Questura capitolina.

L’operatore poi manderà un’ambulanza o una volante? No. Metterà in contatto chi chiama con le sale operative di polizia o carabinieri, vigili del fuoco e sanitari, i quali – avendo davanti una scheda con tutti i dati – fanno le stesse e altre domande. Non proprio il modo per velocizzare un servizio emergenze: tanto è vero che, dati alla mano, la media nazionale della time-line dell’intero processo era 147’’ pre-Nue e 146’’ post-Nue. E dunque il 112, a parte che ce l’ha chiesto l’Europa, a cosa serve? Lo spiega De Angelis: “La signora che ha litigato col marito non sa neanche lei perché chiama, ma ci impalla. Però dobbiamo comunque rispondere con cortesia e professionalità”. E ci mancherebbe. L’orgoglio? “Nel 2018 abbiamo ricevuto quasi tre milioni di chiamate, il 58% delle quali non è stato inoltrato”. Più che un servizio emergenze, lo si poteva chiamare filtro antiscocciatori.

Quando il mercato conta più del cliente

Prima o poi, come quella del Maggiolino, finirà anche l’epoca della Golf. Ma non ora. Ora la più rappresentativa e carismatica auto di Wolfsburg ha un compito da svolgere: abbandonare definitivamente il pantano del dieselgate, costato oltre 30 miliardi di euro, e traghettare l’azienda verso un futuro digitale e a batteria. Ma come, si obietterà, il programma di elettrificazione di Volkswagen non è già in corso d’opera, con diversi modelli in rampa di lancio? Certamente.

Ma, come per gli altri costruttori, si tratta di investimenti certi a fronte di ritorni che non lo sono. Impossibile infatti anche solo ipotizzare un successo simile nei numeri e negli anni alla compatta più famosa d’Europa. Che non sarà più il blockbuster di un tempo, quando da sola valeva un quinto dei profitti Vw come fa sapere la rivista specializzata Automotornews, ma ancora rappresenta fino all’8% dei guadagni di Wolfsburg. E che, soprattutto, è frutto di un progetto nato per fare soldi. A partire dallo sfruttamento di piattaforme, motorizzazioni e tecnologie già esistenti, al punto che in fabbrica sono riusciti a riutilizzare l’80% dei macchinari usati per costruire il modello precedente. Oltre a elettroni, connettività e digitalizzazione, insomma, la parola d’ordine di quest’ottava generazione di Golf è anche “risparmio”. E viene sbandierata come se, più che i consumatori, si volessero convincere gli analisti finanziari. Di solito accade l’esatto contrario.

Inail, su strada il 60% degli infortuni mortali

Le morti sul lavoro sono una delle piaghe del nostro Paese. Ma gli ultimi dati diffusi dall’Inail mettono in evidenza un aspetto ancora più inquietante, strettamente connesso alla mobilità: più della metà delle vittime è stata infatti causata da incidenti stradali. Nel dettaglio, lo scorso anno, delle 704 morti sul lavoro registrate dall’Istituto, ben 412 sono avvenute con il coinvolgimento di mezzi di trasporto: il 58,5%. Parliamo ad esempio di conducenti di camion o taxi, che rimangono coinvolti in sinistri sia durante l’orario lavorativo che durante il tragitto da e per la propria abitazione. In più, c’è da sottolineare il fatto che quelli su strada sono gli infortuni che causano i più alti gradi di inabilità: in media maggiori del 40% rispetto ad altre tipologie di infortunio. Quanto alle menomazioni, poi, quelle avvenute per strada sono mediamente di 7,3 gradi, contro i 5,2 di quelle non stradali. Dopo anni di riduzione costante, le morti sul lavoro dal 2017 in poi sono tornate a crescere. Tutto questo ha dei costi sociali altissimi. Ed è proprio del 2017 l’ultimo dato disponibile a riguardo, contenuto nello “Studio di valutazione dei costi sociali dell’incidentalità stradale”, realizzato dalla Direzione generale della sicurezza stradale del ministero dei Trasporti: tra vittime, feriti e danni al patrimonio, si tratta di oltre 17 miliardi di euro. Per cercare di sensibilizzare gli utenti riguardo a questo tema, il direttore generale dell’Inail Giuseppe Lucibello, ha annunciato che “nel 2020 è prevista “un’importante campagna sugli stili di guida, finanziata in parte dall’Inail, che sarà molto utile per tutti i lavoratori, non solo per chi utilizza il mezzo di trasporto per lavorare”.

Golf, ecco l’ottavo atto. Al via l’era dell’elettrificazione

L

a lenta ma inesorabile diffusione delle auto elettriche sembra rendere obsoleto ogni prodotto spinto da motore endotermico. Volkswagen ha già presentato la ID.3, suo primo modello a batteria che, per dimensioni e impostazione, è simile alla nuova Golf. Quest’ultima ha dalla sua 45 anni di carriera alle spalle e 35 milioni di unità vendute. Tuttavia, nel giro di una decade, quando le vetture elettriche saranno una realtà più concreta (e abbordabile) di quanto non lo siano ora, una fra Golf e ID.3 potrebbe rimetterci le penne. Questione di sovrapposizioni. Ma è presto per i requiem e la compatta di Wolfsburg, che sarà nelle concessionarie dal primo trimestre 2020, vuole mantenere la leadership del mercato europeo ancora per qualche anno. Per questo l’ottava serie di questo classico, appena presentata, punta forte su digitalizzazione e tecnologia ibrida. Lunga circa 4,3 metri, è realizzata sulla piattaforma modulare MQB e prevede, di serie, chicche come i gruppi ottici a led e il cruscotto virtuale da 8,25 pollici. Mentre il sistema infotelematico con touchscreen da 8,25 pollici è stato spostato all’apice della plancia, beneficia dei comandi vocali (pure sfruttando l’app Alexa) ed è totalmente compatibile con smartphone e connesso alla rete.

I consumi scendono fino al 12% grazie all’adozione di ben cinque motorizzazioni elettrificate: si va dalle mild hybrid con potenza da 110, 130 e 150 Cv di potenza, arrivando alle più sofisticate plug-in hybrid, da 204 e 245 Cv, che possono percorrere una cinquantina di chilometri in modalità 100% elettrica, alimentate da una batteria da 13 kWh ricaricabile alla spina. Due i turbodiesel, con potenza da 115 e 150 cavalli.

Più in là, invece, arriveranno le edizioni sportive, con oltre 300 Cv, e quelle a metano, con propulsore da 130 Cv. Curata la sicurezza, che sfrutta cruise control adattivo, mantenimento automatico della corsia e della distanza dal veicolo che precede. L’auto può persino riconoscere la segnaletica stradale e marciare in autostrada “senza che il guidatore debba sterzare, accelerare o frenare attivamente”, promette la casa madre.

E se è vero che ogni soldo risparmiato è un soldo guadagnato, allora la Golf 8 sta già contribuendo a riempire il portafoglio del costruttore: sfruttando la MQB, infatti, Vw ha dovuto modificare solo il 20% dell’attrezzatura necessaria per fabbricare l’auto, limando al contempo costi e tempi produttivi. “La standardizzazione ancora più elevata di macchinari e processi costruttivi ha permesso di ridurre gli investimenti di oltre la metà rispetto alla Golf precedente”, conferma Andreas Tostmann, capo della produzione. Le concorrenti? Renault Mégane, Ford Focus e Peugeot 308. FCA, invece, resta a guardare.

Ora al Tesoro puntano sulla fantasia: i Btp in dollari, di cui non c’era bisogno

La settimana scorsa il Tesoro ha collocato nuovi Btp Italia. Una decina di giorni prima titoli in dollari, che non emetteva da dieci anni. Due prestiti accolti con commenti entusiastici. In realtà per i cittadini italiani non c’è niente da festeggiare quando lo Stato aggiunge debiti ai tanti che ha già. Ci sarebbe semmai da dolersi.
In particolare i nuovi titoli nella valuta Usa, dalla stampa subito battezzati Btp in dollari, hanno riscosso applausi scroscianti, silenziando le critiche condivise dagli esperti della materia, ma sgradite al potere. Non è mica scontato che a conti fatti risulti conveniente per la finanza pubblica indebitarsi in dollari, come invece viene dato per certo. Potrebbe benissimo capitare il contrario. Prendiamo i titoli decennali. Per la precisione si tratta delle Italy 2,875% 17-10-2029 con codice Isin US465410BY32 e quotate anche al Mot (Mercato Telematico delle Obbligazioni). Sono state collocate a un rendimento sul 3% annuo, corrispondente a circa l’1,5% sopra i tassi dei corrispondenti titoli americani. Una differenza analoga allo spread sull’euro coi titoli di Stato tedeschi.
È stato sottolineato che il Tesoro non si è assunto rischi per un’eventuale salita del dollaro, coprendo subito l’alea del cambio. Il meccanismo dell’operazione è complesso, ma comunque ora come ora essa abbassa il costo complessivo del finanziamento dal 3% a circa l’1%, quindi grosso modo allo stesso livello dei tassi dei Btp in euro. Peccato che le condizioni di mercato possano cambiare anche radicalmente nei prossimi anni; e il giochetto potrebbe non funzionare più così bene. Col che l’operazione si ritorcerebbe a danno del Tesoro, cioè dei contribuenti italiani.
Gestire il debito pubblico italiano dev’essere anche noioso. Quindi psicologicamente si comprende che i burocrati del Tesoro si dilettino di ingegneria finanziaria. Lo si vide anche in passato con la stipula di così tanti contratti derivati. Non è un precedente che faccia ben sperare.
Passando poi sul versante degli investitori, si è letto che per sottoscrivere i cosiddetti Btp in dollari si sarebbero formate lunghe code in banca. Un’altra esagerazione. Il risalto dato all’emissione ha però spinto parecchi a chiedersi se meriti investire in tali titoli. Ma siamo sempre allo stesso punto come con le obbligazioni in lire turche, rand sudafricani ecc. Bisogna non perdere col cambio più di quanto si guadagna coi maggiori rendimenti nominali dei titoli nella valuta estera. Cosa del tutto imprevedibile. Un risparmiatore prudente farà bene a non schiodarsi dai Btp Italia o Btp-i.

Cattivi pagatori, come uscire dal nuovo girone infernale

Si entra in banca per chiedere un mutuo per la casa o in una finanziaria per ottenere un prestito per comprare il televisore 4K da 65 pollici e si scopre che la richiesta viene negata perché si risulta cattivi pagatori. Si tratta, cioè, di tutti quelli che hanno pagato in ritardo o per niente le rate di un prestito e che vengono iscritti nei Sistemi di informazioni creditizie (Sic). Un condizione che rappresenta “la morte civile”, perché per anni gli istituti di credito non concederanno altri finanziamenti. Dal 2005 a disciplinare l’attività dei Sic c’è un Codice di deontologia e di buona condotta che dovrebbe tutelare i diritti di quanti risultano censiti. Condizionale d’obbligo, visto che nel corso degli anni sono molti i consumatori che si sono visti iscrivere erroneamente.

Regole che ora il Garante della privacy ha provveduto ad aggiornare per allinearle al Gdpr, il regolamento sulla protezione dei dati personali valido per tutta l’Ue, prevedendo maggiori tutele per chi risulta censito nelle black list e un’apertura alle nuove tecnologie e ai servizi del fintech. Le novità del testo riguarderanno non solo i dati su prestiti e mutui, ma anche quelli relativi alle diverse forme di leasing, al noleggio a lungo termine e alle più innovative forme di prestito gestite tramite piattaforme tecnologiche. A non essere chiaro è, invece, quando il Codice diventerà operativo: sul sito del Crif, che da solo raccoglie i dati relativi a oltre 85 milioni di posizioni creditizie, di cui oltre 9 milioni riconducibili a imprese, non ce n’è ancora traccia.

Nell’attesa, vediamo i punti più importanti del Codice. I dati censiti potranno essere trattati senza il consenso degli interessati, sulla base del cosiddetto legittimo interesse delle società partecipanti ai Sic, garantendo però i più ampi diritti previsti dal Regolamento europeo in materia di protezione dei dati. Maggiore trasparenza sul funzionamento degli algoritmi che analizzano il rischio nei finanziamenti. Ad esempio, chi richiede un mutuo, in caso di rifiuto, potrà conoscere se la decisione è stata assunta anche basandosi sul punteggio di rischio attribuito all’utente dall’algoritmo (capacità reddituale e creditizia) e, in tal caso, chiedere di conoscerne la logica di funzionamento. Particolare attenzione è stata posta sulle misure di sicurezza adottate per proteggere i dati da accessi illeciti e garantire l’affidabilità dei sistemi.

Per rafforzare le garanzie di chi rischia di finire nella lista dei cattivi pagatori, si aumenterà la semplificazione dell’obbligo di preavviso verso la persona che il Sic sta per iscrivere. Così, per stare al passo con la tecnologia, il preavviso verrà comunicato oltre che con la Pec (la posta elettronica certificata) anche attraverso un messaggio dal cellulare.

Una modalità comunque concordata con l’interessato che potrà scegliere anche di ricevere la comunicazione sul canale riservato del proprio home banking o tramite un messaggio WhatsApp. Mentre ora si riceve (o si dovrebbe) solo una raccomandata con ricevuta di ritorno. Ma se si tratta del primo ritardo di un finanziamento, la segnalazione viene resa visibile sul Sistema di informazioni creditizie solo in caso di mancato pagamento per due mesi consecutivi. L’iscrizione vera e propria viene trasmessa al Sic solo dopo 15 giorni dall’invio del preavviso.

Una segnalazione che chiama in causa milioni di consumatori visto che quasi 4 italiani su 10, più precisamente il 39,4% del totale della popolazione maggiorenne, risulta avere almeno un contratto di credito rateale attivo (+8% rispetto a un anno fa), mentre a livello pro-capite mensilmente vengono rimborsate rate per un importo pari a 344 euro (-1,5%). Le Regioni in cui i cittadini ogni mese sostengono la rata media più elevata sono il Trentino Alto Adige con 430 euro, il Veneto (390 euro) e la Lombardia (387 euro).

Restano, infine, confermati i tempi di conservazione dei dati. Tutte le richieste di credito non vanno mantenute oltre 6 mesi. Ma se la domanda non viene accolta, il Sic ha tempo 30 giorni per provvedere alla cancellazione dei dati. Mentre per i ritardi successivamente regolarizzati le informazioni sono visibili per 1 anno se il ritardo non è superiore a due rate o due mesi, mentre per i ritardi superiori si sale a due anni dalla data di regolarizzazione. Invece, le informazioni negative sui finanziamenti non rimborsati possono essere conservati per 36 mesi dalla data di estinzione prevista o dalla data in cui la banca ha fornito l’ultimo aggiornamento. Un termine che non può mai superare i 5 anni.

L’Umbria svolta a destra. Batosta per i giallorosa

Si è infilato una maglietta verde ed è sceso nella sala dell’hotel Fortuna, a Perugia. Segue lo spoglio da lì, Matteo Salvini. Ma non ha bisogno di nemmeno di aspettare: “A occhio, abbiamo fatto un’impresa storica”, dice il leader della Lega. Gli exit poll, d’altronde, hanno subito parlato chiaro. Stravince la senatrice leghista Donatella Tesei, a pezzi il candidato civico dei giallorosa Vincenzo Bianconi: 57 a 37, è il bilancio finale secondo le proiezioni di Opinio/Rai. Venti punti di distacco: a nulla è servita la “foto di Narni”, quella con cui tre giorni fa Luigi Di Maio, Nicola Zingaretti, Giuseppe Conte e Roberto Speranza hanno provato a dimostrare unità.

Gli umbri sono andati a votare: tanti, circa il 64,4 per cento, 9 punti in più delle Regionali del 2015. E per la prima volta in cinquant’anni hanno scelto di voltare le spalle alla sinistra e di provare la carta Salvini.

Un trend, va detto, che era già iniziato nelle ultime tornate amministrative, a cominciare da Perugia che nel 2014 si è affidata ad un sindaco di Forza Italia, Andrea Romizi, rompendo la ventennale egemonia rossa. E lo stesso vale per Terni, Orvieto, Foligno, Spoleto.

Ma questo voto significa certamente qualche cosa in più. Perché è una sonora sconfitta dell’esperimento giallorosa, per di più al suo esordio. Matteo Salvini lo andava ripetendo da settimane e ieri ha subito detto che chi sta al governo deve sentirsi “abusivo”. Ma anche se il fallimento dell’operazione Bianconi non dovesse avere ripercussioni sul governo nazionale – ancora l’altro ieri, il premier considerava la foto di Narni “la garanzia che si va avanti qualunque cosa succeda” – cambierà di sicuro le sorti delle prossime elezioni regionali. In Emilia Romagna si vota a gennaio, poi sarà la volta di Toscana, Campania, Calabria, Puglia, Veneto, Liguria e Marche. E l’idea di replicare il modello umbro – già non popolarissima – rischia di naufragare del tutto, magari anche in contesti dove potrebbe avere maggiori probabilità di successo: “L’esperimento non ha funzionato – è stato il primo commento a caldo del Movimento – Questa esperienza testimonia che potremo davvero rappresentare la terza via solo guardando oltre i due poli contrapposti”.

Sono loro quelli che ne escono peggio. Perchè se è vero che il M5S non è mai andato forte nel voto locale, in Umbria si è giocato la faccia nell’esperimento più a rischio. Ed è andata malissimo: 8,5 è il voto di lista, secondo le prime proiezioni di Swg per La7. Il Pd sfiora il 20 per cento. La Lega è intorno al 37 per cento, Fratelli d’Italia supera il 10, mentre Forza Italia non arriva al 6.

Stavolta, i Cinque Stelle, non potranno nemmeno usare l’attenuante di aver corso da soli contro coalizioni di partiti e liste civiche. E il dimezzamento dei voti rispetto al Pd è pesante soprattutto perché l’Umbria è la Regione in cui i democratici sono stati messi in ginocchio dalle inchieste giudiziarie ed era stato proprio il M5S ad affossare l’ex governatrice Catiuscia Marini. “C’era bisogno di cominciare proprio da qui?”, si è domandato nelle scorse settimane il Movimento umbro e non solo.

Da oggi, certamente, saranno anche altri a rinfacciarlo a Luigi Di Maio. Ieri la prima analisi, piuttosto impietosa, è arrivata dal senatore umbro Stefano Lucidi: “I motivi del successo del centrodestra sono vari. Temi semplici e immediati da comunicare, macchina organizzativa efficiente, filiera politica autorevole sul territorio. Quello che manca a noi”.

L’ultima richiesta a Di Maio: cambiare il capo delegazione

Finora le trasferte lunghe sono state solo due. Cinque giorni a New York a settembre, altri tre a Washington a ottobre. Un consiglio europeo in Lussemburgo, una tappa a Matera. Normale amministrazione per chi fa il ministro degli Esteri. Poi però ci sono gli impegni da capo politico, che gli hanno fatto fare avanti e indietro dall’Umbria, seppur invano: 7 volte negli ultimi 20 giorni. Non si può dire che non si dia da fare, Luigi Di Maio. Ma tra i 5 Stelle di casa a palazzo Chigi si comincia a ragionare di nuovo sulla sua capacità di essere efficacemente multitasking.

La questione si era già posta ai tempi del governo gialloverde, quando il leader M5S era vicepremier e gestiva due ministeri importanti come lo Sviluppo Economico e il Lavoro. Così, agli albori dell’era giallorosa, in cima alle priorità si mise il sollevamento dagli incarichi di Di Maio, visti i risultati che aveva portato l’essere uno e trino. Esclusa l’ipotesi di lasciare la guida del Movimento, mollati i ministeri più impegnativi, si era pensato che la Farnesina fosse un buon compromesso tra il necessario prestigio e lo sgravio di reperibilità. C’è ancora chi lo crede, a cominciare dal ministro stesso. Ma tanti altri, compreso chi condivide con lui le responsabilità di governo, iniziano a dubitare che con tutto quello che ha da fare riesca pure a fare il capo delegazione come si deve.

È il ruolo che si sono inventati per ovviare alla mancanza di vicepremier: Dario Franceschini guida i dem, Di Maio i 5 Stelle. Solo che lui spesso non c’è, e se non c’è, succede il finimondo. È accaduto in maniera eclatante nel Consiglio dei ministri sulla manovra: Giuseppe Conte ha portato a sorpresa al tavolo anche il decreto fiscale che conteneva un’infinità di questioni non concordate e il giorno dopo a Di Maio è toccato dissociarsi pubblicamente dalle decisioni prese, seppur “salvo intese”. “Al tavolo – ragionano i 5 Stelle di governo – ci deve sempre essere qualcuno che ha pieno mandato politico per trattare. L’inghippo sulla manovra è nato così, perché lui non c’era”.

Ora, fare di un episodio la norma è un tantino eccessivo. E infatti, tra i ministri M5S, c’è anche chi sostiene che non può essere quella trasferta a Washington che lo ha tenuto lontano da palazzo Chigi il metro con cui misurare la capacità di Di Maio di tenere tutto sotto controllo. “Luigi c’è sempre, è mancato una sola volta. Ma perfino prima di quel Cdm aveva partecipato al tavolo in cui si era deciso di rimandare l’esame del dl fiscale: poi sappiamo come è andata”, aggiungono i difensori di Di Maio, come a dire che la colpa non sta nella sua assenza ma in chi non ha rispettato gli accordi. Eppure, la preoccupazione che la faccenda si ripeta è alta. E si fanno perfino i nomi di due potenziali sostituti: “Se il capo delegazione fosse Bonafede o Patuanelli il problema sarebbe risolto: sono persone di fiducia di Luigi, in sintonia col resto del Movimento”. Chi spinge per il cambio in corsa ricorda che lo stesso hanno fatto gli altri partiti della coalizione: nessuno dei leader politici ha ruoli operativi. Renzi ha Teresa Bellanova come ministro e segretaria di Italia Viva, Zingaretti ha scelto Franceschini come capo delegazione. Una cornice che, nelle intenzioni dei suoi sostenitori, aiuterebbe anche a gestire meglio le questioni interne al M5S, ora piuttosto abbandonate a loro stesse, come dimostra la faticosissima elezione del capogruppo alla Camera. Il risultato delle Regionali in Umbria non farà che aumentare il pressing. Difficile vada a buon fine: “Si è complicato la vita da solo, come fa a tornare indietro?”.