Domani, a Roma, l’editore Marsilio offre un sontuoso pomeriggio mondano: la presentazione al Tempio di Adriano, in piazza di Pietra, di Grand Hotel Scalfari, ovvero – così recita il sottotitolo – “Confessioni libertine su un secolo di carta”. Ci saranno Paolo Mieli e Carlo Verdelli. Il volume, ovviamente, è su Scalfari ma è qualcosa di più di un pretesto per qualsiasi altra cosa che racconti il fondatore de La Repubblica. Questo libro – scritto a quattro mani da Francesco Merlo e Antonio Gnoli – è tanto ontologicamente Scalfari quanto neppure il protagonista stesso del sé, del suo ES o del suo IO potrebbe appunto immaginare su di sé, sul suo ES e sul suo stesso suffragio a IO (la ninfa che ruba il marito, Zeus, alla dea Era di cui è sacerdotessa).
Che astuzia, la vita, nei suoi lapsus. Ha già dunque fatto tutto suo padre Pietro – legionario con Gabriele d’Annunzio a Fiume – a chiamarlo “Eugenio”. ES, infatti, è la sua cifra anagrafica e il romanzo di IO, allora, scritto in prima persona – già nell’avvio, con una sorta di autografia della barba – è scritto dall’io dei degli autori che sono due star del giornalismo italiano ma che alla faccia dei recinti mentali si sono adoperati al modo di Don Chisciotte e Sancho Pansa quando, capovolgendone il ruolo, svelano il loro stesso creatore facendone un personaggio per consegnarlo a un ulteriore capolavoro.
Ed è così che Miguel de Cervantes si ritrova pittato dalle sue stesse creature. Questo hanno fatto Merlo e Gnoli interrogando e trovando – altresì – uno Scalfari irriconoscibile agli occhi degli stessi scalfariani che mai e poi mai saprebbero pensarlo libertino qual è tra le delizie di un bordello o a braccetto con Indro Montanelli – gemello eterozigote, entrambi fondatori del giornalismo contemporaneo – oppure alle prese con il suo ormone femminile. Un ormone ormai prosciugato: “Con la regolarità di un mestruo” – eccolo, ES, è lui che parla _ “ogni quattro settimane, questo ormone prendeva il sopravvento e allora sentivo il bisogno di isolarmi nella mia casa di Velletri oppure in una camera d’albergo con una bottiglia di whisky, il ghiaccio e un sottofondo di musica jazz”. Ecco, sembra di vederli Don Chisciotte e Sancho – Merlo e Gnoli – osservare il loro don Eugenio de Cervantes col suo bicchiere. E poi raccontarlo.
E a questo punto c’è da dire che Grand Hotel, dove anche i capitoli dedicati al mondo noioso e piccolo dei giornali si bevono come l’acqua, scavalca tutti i recinti della cosiddetta “lingua” come nessun cosiddetto scrittore – tra i tanti venerati delle patrie lettere – saprebbe fare. L’oggetto di un sapere che fatalmente immalinconisce non è tanto, come nella definizione di Thomas Carlyle, la scienza triste dell’economia piuttosto la letteratura. Lugubre palestra di sfigati che in mancanza di IO, ES e Sé hanno soltanto l’ombelico, i letterati – i titolati definiti nella categoria “Narrativa” – dovrebbero andare a doposcuola studiando esclusivamente questo libro dove le parole non hanno cautele, tantomeno censure. E figurarsi i personaggi. Ecco Pietro Citati: “I comunisti andrebbero messi nelle gabbie, dove di solito si rinchiudono le scimmie. La differenza è solo in un particolare, non hanno la coda”.
Ps. Non so se io sia ancora tra gli Amici della Domenica, non conosco i tempi tecnici delle candidature, ma questo Grand Hotel Scalfari va senz’altro portato al Premio Strega. Anzi, deve vincere al Ninfeo. È letteratura pura. Come mai i letterati sapranno fare (e magari così capire come si scrive, perfino con la coda).