Report, dall’India all’Italia la filiera sporca dei farmaci

Un fiume diventato un laboratorio a cielo aperto in cui batteri resistenti agli antibiotici proliferano e rischiano di uccidere i soggetti più deboli anche in Italia; farmaci contaminati da una filiera senza controlli e poco trasparente; un sistema che in nome del risparmio mette a repentaglio la sicurezza sanitaria europea e mondiale: il viaggio di Report, in onda questa sera su Rai 3 e di cui possiamo dare una anticipazione, è una spiegazione di ciò che accomuna il recente ritiro di alcuni farmaci per la pressione (Valsartan, Losartan e l’Irbesarta) e per lo stomaco come (Zantac e Randil) a causa della contaminazione dei loro principi attivi e i decessi che si sono registrati in Toscana a causa di un batterio resistente agli antibiotici denominato “Nuova Delhi”.

Tutto inizia il 19 settembre quando l’Ema, l’Agenzia europea per i medicinali, chiede alle aziende farmaceutiche di controllare i farmaci che producono perché potrebbero essere contaminati da nitrosammine, che anni di letteratura scientifica hanno identificato come cancerogeni e che attaccano il fegato, lo stomaco e l’esofago. Le “impurezze” si trovano in farmaci anche molto popolari e secondo le stime dell’Ema potrebbero causare un tumore ogni 3500 pazienti circa. Ma l’agenzia ammette anche che la portata non è quantificabile con precisione. Manca la qualità, mancano i controlli, le cosiddette Mdma non dovrebbero essere presenti neanche a soglie bassissime. Risalire la filiera di produzione è complicatissimo. I foglietti illustrativi riportano solo gli ultimi luoghi da cui si è mosso il lotto dei medicinali, ma in realtà i principi attivi per il 60% arrivano da paesi extra europei: India, Cina, Brasile, Armenia e Argentina. Ogni pillola, si spiega nell’inchiesta di Giulio Valesini, può avere componenti da 12 paesi e quattro continenti. Sull’opportunità di segnalare la provenienza dovrebbe decidere l’Ema, che però è finanziata all’80 per cento proprio dall’industria farmaceutica. Le aziende, infatti, sostengono che Cina e India siano i posti migliori da cui rifornirsi, da lì arrivano anche i principi attivi dei medicinali generici. La filosofia – dicono – è andare dove costa meno ma solo se i produttori sono bravi e verificati secondo gli standard europei. Peccato che le ispezioni sono “pilotate” oppure rilevino macchinari arrugginiti e condizioni igieniche insufficienti senza però apparenti conseguenze.

Così si arriva in India dove c’è la fabbrica della Saraca, una di quelle che vende la ranitidina contaminata utilizzata anche per i farmaci in vendita in Italia. È al centro di un distretto farmaceutico a sud dell’India, uno dei più importanti al mondo con 170 impianti. Qui c’è anche Aurobindo, il gigante indiano fornitore dei generici, ma soprattutto ci sono le aziende che forniscono i prodotti intermedi necessari per scatenare le reazioni chimiche che poi portano al principio attivo. Le telecamere di Report mostrano solventi chimici, sporcizia, macchinari arrugginiti, reattori, barili di plastica. “Non sembra igienico” dice il giornalista. “Noi qui facciamo semilavorati e seguiamo i loro standard – risponde il titolare -. Se ne seguissimo di più alti, i costi si moltiplicherebbero e la gente comune non potrebbe permettersi farmaci a costo più basso”. Mostra il sistema delle acque di raffreddamento, gli scarti finiscono nei fiumi. Inquinano e i sistemi di trattamento non sono efficaci.

Lo si nota bene a Hyderabad, lungo il fiume Musi, una zona legata con un filo tragico alla Toscana. Qui, accanto alle fabbriche che producono farmaci distribuiti poi in tutto il mondo, ci sono le baracche in cui vive la bassa manovalanza, pagata pochissimo, 5 euro al giorno. Nei villaggi attorno, l’inquinamento è una piaga, i pesci muoiono nei fiumi a causa delle acque di scarto dell’industria dei farmaci, i fumi delle sostanze chimiche intossicano l’aria. I camion cisterna devono portare acqua potabile, le falde sono verdi e puzzano di solventi. Le persone si ammalano, gli animali non possono bere, la terra non si può coltivare. E l’inquinamento ha anche un’altra conseguenza: le acque sono piene di antibiotici.

“Abbiamo testato campioni di acque e suolo – spiega Christoph Lubbert, infettivologo di Lipsia -. È come un maxi reattore a cielo aperto per batteri multi farmaco resistenti”. Hanno selezionato 28 siti, trovato batteri resistenti a moltissimi farmaci. “Ci aspettavamo di trovare il batterio Nuova Delhi – spiega, riferendosi al germe che in Toscana ha già infettato 126 persone – ogni volta che c’è una nuova resistenza in India, in Cina o in Italia, non resta dove si trova. Quelli che stanno dando problemi in Toscana sono molto simili a quelli trovati ad Hyderabad”. Da novembre ad oggi, è deceduto un terzo di chi è stato infettato (cinque persone nel solo ospedale di Viareggio). E guarire, se aumenta l’antibioticoresistenza, sarà sempre più difficile. “Se si continua così – spiega Lubbert – torneremo indietro, in una sorta di era pre-antibiotici. I trapianti, le operazioni chirurgiche, tutto quello che noi abbiamo messo insieme con la medicina moderna, si basa su antibiotici efficaci. Se perdiamo gli antibiotici, perdiamo il potere della medicina moderna”.

La Terra sotto i piedi è sempre solida. Silvestri conquista i palasport

Ci sono momenti in cui i tempi modesti in cui viviamo ci costringono ad ancorarci a qualcosa di solido. A guardare l’orizzonte – e forse una lucina là in fondo – con la consapevolezza che, prima di avventurarci sul nostro filo da acrobati, abbiamo bisogno di sentire ancora una volta la terra sotto i piedi. Esposti agli altri, senza protezioni né sbarramenti, eppure ben saldi sul nostro pavimento scuro. E quando quel pavimento, anzi quel terreno si trasforma in una sorta di piattaforma che è difficile chiamare palco – almeno nel senso tradizionale del termine – il gioco è fatto. Un uomo al centro, Daniele Silvestri, sulla cima della sua collina, e altri nove uomini, i suoi strepitosi musicisti, quasi satelliti attorno a lui per ricordarci che sono 25 anni dall’inizio di una carriera e poche ore dal debutto nei palasport italiani.

Dopo una data zero, Silvestri ha inaugurato il tour La terra sotto i piedi nella sua Roma che – non fosse per l’acustica da galera del Palalottomatica, per questo boicottato da altri promoter – lo ha ripagato alla grande con due serate sold out. Non un concerto tradizionale, né un appuntamento nostalgico, né uno show futuristico. Ma tutto questo, tutto insieme.

“Dicevano che non era possibile/E che lo sforzo sarebbe stato inutile/E invece/Eccoci qui/Dicevano non è un terreno fertile/Non c’è nessuno ormai che ha voglia di resistere/E invece/E invece guardaci”, canta Silvestri e in effetti a guardare la “sua” gente Qualcosa cambia lo si può dire davvero. Perché tra l’ironia, l’amore e le elaborazioni grafiche, passano sullo schermo in fondo anche le immagini di alcuni politici: Craxi, Berlusconi, Salvini e, come in una sinfonia stonata, è un crescendo di fischi dal pubblico. A Roma non possono mancare i gol e gli “esempi” Totti e De Rossi, come in tutta Italia non potranno mancare le agende rosse di Borsellino, sventolate sotto il palco sulle note de L’appello.

Quasi tre ore di musica, con una scaletta divisa in tre parti (ma senza interruzioni): si parte, appunto, dall’album che dà il titolo al tour e si ritrovano in video i contributi di alcuni amici speciali, Caparezza e Agnelli. Sul palco, sale invece colui che tanti (adulti) hanno imparato a conoscere a Sanremo, Rancore, che esegue due pezzi con Silvestri e uno – Arlecchino, suo – da solo. Poi è storia, quella di 25 anni di carriera in mezz’ora di canzoni che partono nel 1994 con Dove sei e finiscono nel 2016 con La mia casa, non trascurando neppure la (troppo) breve ma felice esperienza con Fabi e Gazzè (L’amore non esiste). Il pubblico partecipa, canta, balla, reclama.

Ci sono pezzi che Silvestri non può non fare e infatti la terza e ultima parte dello show è dedicata a quelli: Gino e l’Alfetta, Salirò e poi Le Navi: “Qualche anno fa ho scritto una canzone breve per le persone che si lasciavano alle spalle una grande disperazione per andare incontro a una grande speranza. Oggi è diventata quasi una canzone sovversiva e proprio per questo mi piace cantarla” racconta Silvestri, che resta uno dei più “politici” – se la parola ha ancora un senso – di quella generazione di cantautori. E allora tutti con i pugni chiusi per Cohiba, una bandiera cubana presa in prestito da un fan e la voglia – eterna, come l’acqua delle fontane di Roma – di giocare, di ridere, di stupire. Con la stessa ironia di 25 anni fa, ma con la speranza che la Terra sotto i piedi non manchi mai.

Santi pure gli spettatori: Roma chiude col segno più

Numeri, volti e scazzi di un successo. La Festa del Cinema di Roma s’archivia col segno più: i biglietti venduti registrano un aumento del 10% sul 2018, idem gli incassi (+18%) e gli accrediti (+13%). In ascesa anche la copertura stampa, +23%, e web, +45%, sicché il direttore Antonio Monda gongola e risvela il segreto: “I nostri ospiti condividono il proprio tempo con tutti voi, nel segno dell’amore per il cinema”.

Se Benicio Del Toro ha dato forfait e alla fine solo Martin Scorsese ha accompagnato “il” film The Irishman, gli ospiti sono stati comunque tanti e illustri: da Bret Easton Ellis, cui si deve probabilmente il migliore incontro con il pubblico, a John Travolta e Fanny Ardant, dai premiati alla carriera Viola Davis e Bill Murray a Wes Anderson e – nella Capitale a sorpresa e di sua sponte – Frances McDormand.

Non “è una potenza di fuoco da far invidia a Cannes”, come pretenderebbe Monda, ma è tanta roba: il pubblico ha risposto al “salto in avanti”, e ha fatto Festa. A rovinarla ci ha provato Bill Murray, inibendo la traduzione del suo rendez-vous: qualche spettatore è insorto, la coda è ancora polemica, tra Monda – “Narcotizzare Murray e accontentare chi non parla inglese? Macché, prendere o lasciare” – e alcuni cronisti – “Vergognoso, c’era gente pagante” – non è pari e patta. Croce e delizia? Può essere, di certo i vincoli di registi e attori non in promozione sono meno stringenti e gli imprevisti – dai telefoni staccati alle, dicunt, sbornie non smaltite – dietro l’angolo: take it or leave it, appunto. Più sottilmente, sarebbe da chiedersi quale spazio della Festa sia riservato al privé. Parole, opere e omissioni – la “pizzeria per studenti” assiduamente frequentata da Anderson, di cui Monda non fa il nome – che il direttore e il presidente della Fondazione Cinema per Roma Laura Delli Colli sciorinano in chiusura: dalla ricetta degli spaghetti à la Travolta allo sleeping bus su cui si è presentato Murray, fino allo Scorsese “scasciatissimo” e con la barba sfatta che a Papa Francesco confida il senso di The Irishman, “È un film sul rimorso”, per poi discettare di Dostoevskij. Cortesie per gli ospiti.

Ci sono anche i film: pollice alto – gli organizzatori se la suonano e se la cantano, ma sono giudizi criticamente condivisibili – per Antigone di Sophie Deraspe, candidato dal Canada agli Oscar, e Waves, un nuovo Moonlight per la regia dell’americano Trey Edward Shults, anche questo papabile per gli Academy Awards, cui aggiungiamo Share di Pippa Bianco. Bene anche i francesi La belle époque e Il meglio deve ancora venire, il Premio del Pubblico in un’annata poco esaltante per gli italiani, nondimeno, va a un film nazionale, il documentario di Alessandro Piva Santa subito, che inquadra l’assassinio di Santa Scorese, una 23enne attivista cattolica della provincia di Bari accoltellata dal suo persecutore il 15 marzo del 1991. Un caso a metà “tra femminicidio e martirio”, una vittoria che Piva non s’aspettava: “Evidentemente avevamo sottovalutato il pubblico italiano, pensavamo andasse a vedere solo i blockbuster e trascurasse i film di impegno”. Santi subito pure gli spettatori, insomma.

Ride anche la sezione autonoma e parallela – invero più confliggente che convergente – Alice nella Città, che chiude con un 26% di biglietti in più sull’anno scorso, complice l’aumentata capienza, e premia The Dazzled di Sarah Suco e, per la regia, il Lorenzo Mattotti dell’animazione buzzatiana La famosa invasione degli orsi in Sicilia. Italiano anche il film di chiusura della Festa, Tornare di Cristina Comencini, sottotitolo (nostro) homo mulieris lupus: la regista predica che “la femminilità non va punita”, e ci mancherebbe, riflette sulla violenza di genere, ma quest’opera-matrioska con Giovanna Mezzogiorno sconta un tot di irresolutezza. Ambivalente anche il doc Cecchi Gori. Una famiglia italiana: Simone Isola e Marco Spagnoli non sono invero gli unici registi, Vittorio ha campo e agio, dunque condiziona non poco il racconto dell’epopea sua e del babbo Mario.

 

“La Lollo piangeva di notte, Sordi mi saltò addosso e la Vanoni mi intimoriva”

Più che l’aquila di Ligonchio, Iva Zanicchi sembra l’aquila dei quattro continenti: partita dal paesino emiliano, zitta zitta, cheta cheta, ha suonato in Unione Sovietica (“la prima italiana in assoluto”), in Iran davanti allo Scià (“E siamo scappati poco prima della rivoluzione”), in Sudamerica (“In Cile pure insieme alla Lollobrigida”) e al Madison Square Garden (“con la famiglia dei Gambino che alla fine mi ha regalato un rotolo di carta igienica”). Nel frattempo ha vinto tre Sanremo (“sempre con la tremarella”), venduto milioni di dischi, vissuto qualche amore (“fino a 26 anni vergine, eh”), scampato qualche assalto maschile (Alberto Sordi e Walter Chiari protagonisti), ha scoperto i grigi della politica (con Berlusconi); però nel “menu” oltre la musica, c’è una presenza costante, un richiamo atavico: il cibo (“Mi piace, è una colpa?”).

Il tutto è narrato in un’autobiografia sincera, Nata di luna buona, scritta da lei, non vezzosa, non artefatta, diretta, un po’ come del buon lambrusco abbinato allo gnocco fritto, da degustare con il sorriso sulle labbra e l’adeguata leggerezza nel rispetto della storia e della tradizione.

I suoi primi ricordi sono legati alla guerra.

Di quando mio padre è tornato dal campo di prigionia: ero piccola, ma ho nitida la sensazione di terrore e delusione quando l’ho rivisto.

Come mai?

Era alto 1.85 eppure pesava 40 chili, gli occhi infossati e vuoti, la pelle distrutta, non si reggeva in piedi e non parlava; io mi ero immaginata un genitore biondo, alto, forte e sorridente, e invece mi trovavo davanti a un essere distrutto. Per giorni rimase a letto, in posizione fetale, con mamma che lo accudiva, mentre io piangevo perché mi aveva tolto il posto nel lettone; giorni dopo venne da me e di nascosto mi allungò una cartina con dello zucchero, allora una rarità. Da quel momento è diventato il mio papà.

Pansa ha raccontato delle lotte partigiane nel triangolo emiliano.

La lotta con i tedeschi è stata terribile: un giorno le SS hanno piazzato al muro l’intero paese, me compresa; ma a volte abbiamo temuto pure alcune bande di presunti partigiani composte da ex carcerati di Modena, persone senza scrupoli, e uno di loro, nome di battaglia “Lupo”, era il peggiore.

Non è mai stata comunista.

In paese le donne votavano Dc perché altrimenti il prete le minacciava di scomunica, mentre gli uomini se ne fregavano e preferivano il Pci.

Suo padre socialdemocratico.

Una volta lo hanno convinto a candidarsi, lui certo di poter ottenere almeno quindici voti, e invece il giorno delle elezioni ne ha ottenuto solo uno. Il suo.

Neanche la moglie.

Tornò a casa avvelenato, e mamma: “Non voglio mica andare all’inferno per te”.

Cantava alle feste de l’Unità?

Credo di aver battuto tutti i record di presenza, e una sera ho convinto l’allora segretario della Cgil, Luciano Lama, a intonare con me Fiume amaro, però andavo pure alle feste dell’Amicizia e in un caso mi sono confusa.

In che senso?

Pensavo di stare in mezzo ai democristiani, e mi sono lanciata in un sentito Bianco fiore; all’improvviso ho sentito delle urla: ero a una festa de l’Unità. Quindi ho sorriso: “Era uno scherzo, sciocchi!”.

Però è andata in Unione Sovietica.

Prima di partire il prete del paese mi convoca: “Attenta, lì mangiano i bambini”.

Un classico.

Appena arrivata a Mosca chiedo di visitare la Piazza Rossa, e scatto una foto ad alcuni ragazzini paffutelli; al ritorno la mostro allo stesso prete: “Lo vede padre, ci sono e pure cicciottelli”. E lui: “Li ingrassano per avere più carne”.

In Urss veniva controllata?

Sempre, perennemente e comunque: in quelle settimane avevo delle persone con me, e una di loro, in teoria la più disponibile e tranquilla, l’ho ritrovata il giorno della partenza in aeroporto che mi apriva pure le creme del viso.

Lì si è innamorata.

Dopo un corteggiamento in stile Dottor Zivago, una sera mi decido e dico al tipo “ci vediamo in camera”, peccato che entro nella hall dell’albergo e trovo mio marito.

Altro viaggio: Iran.

Vissuto insieme a Lando Buzzanca, a quel tempo talmente famoso da non poter camminare per strada; alla fine di uno spettacolo vedo una delle nostre guide sputare sulla foto dello Scià.

Pericolosissimo.

E infatti stupita lo racconto ai nostri referenti: “Impossibile, sarai confusa”. Invece il giorno dopo assisto con altri alla medesima scena; lì ho capito che era il caso di tornare in Italia, e due mesi dopo è scoppiata la rivoluzione e Moira Orfei, ancora lì, perse il circo.

Nel libro parla spesso di cibo.

È una questione genetica, ci sono nata: a due mesi piangevo sempre, mamma disperata non capiva il motivo, fino a quando è arrivata una zia e ha preparato un pancotto con aglio e olio: mangiato tutto. Con me le diete non funzionano.

Di fame ha sofferto.

Quando sono andata via di casa e non volevo aiuti perché eravamo poveri: sono cresciuta con gli abiti dismessi dalle mie sorelle, il primo cappotto l’ho conquistato a 18 anni e ci nutrivamo dei “frutti” del bosco; ho mangiato talmente tanti porcini da diventare allergica.

Amiche nel mondo della musica?

Era complicato, lavoravamo veramente tanto, e ci ritrovavamo giusto agli appuntamenti comuni, come Sanremo.

Con Mina?

Altro livello, di lei potevi avvertire giusto la scia; nei primissimi anni Settanta la Rai aveva previsto un programma per me, lei era fuori dall’Italia; secondo Corrado Pani tornò appositamente per non lasciare spazio a un’altra cantante.

Ornella Vanoni.

Ho sempre subito il suo fascino, ma è complicato mantenerci un rapporto: una volta ti butta le braccia al collo, quella successiva neanche ti saluta; un giorno mi disse: “Tu a Sanremo porti canzoni brutte e vinci, io bellissime ma niente”.

Simpatica.

Durante un Sanremo, come forma di protezione, me l’hanno tenuta lontana.

Perché?

Soffrivo la ribalta, ogni volta mi agitavo, e lei apposta veniva nei camerini e magari mi smontava: “Questo vestito non è messo bene”.

Una delizia.

(scoppia a ridere) A una Canzonissima non si presenta alle prove, il regista incazzato decide di non dedicarle neanche un primo piano durante la diretta; finita la sua esibizione, per protesta, inizia a passare davanti alla telecamera, più e più volte e urla. Peccato che sul palco c’ero io, e dietro lo schermo venti milioni di spettatori.

L’aquila si agitava…

Tremavo! Ero timida e ansiosa; a un Sanremo, per tranquillizzarmi, il mio maestro tentò un’ardua strada: “Pensa ai ragazzi morti in Vietnam”. Scoppiai a piangere.

Soluzione?

Un’iniezione del medico.

Di cosa?

Mai saputo; però non ero l’unica agitata.

Chi altro?

Una sera ho trovato Domenico Modugno mentre dava delle testate al muro, quando mi ha vista si è giustificato: “È anche per queste emozioni se siamo qui”.

Nel 1967 era presente alla morte di Tenco.

Per me, allora, dovevano stoppare il Festival.

Impossibile.

Appena capii cosa era accaduto, iniziai a preparare i bagagli; una volta nella hall mi spiegarono che Claudio Villa e la commissione avevano deciso di proseguire.

Lei lo vinse.

Alla fine dell’esibizione ero sotto choc, altre lacrime, e non riuscivo a urlare quanto tutto fosse mostruoso; chi era intorno a me non capiva.

Quelli sono anni di contestazione: l’hanno mai fischiata?

Solo una sera a Torino: volavano pomodori e uova, io per fortuna solo sfiorata, altri non sono riusciti a salire sul palco; un’altra volta a momenti menavo.

Chi?

Dei manifestanti! Per la prima volta mia nonna arriva a Milano: la vado a prendere in auto e le davo sempre del “voi”. Poco dopo finiamo in mezzo al bordello, dei ragazzi ci circondano e prendono a mazzate la macchina, per loro lussuosa.

Marca?

Mercedes; allora scendo, mi si chiude il collo dalla rabbia, e grido di tutto; alla fine siamo passate, ma il giorno dopo ho annullato il concerto per assenza di voce (cambia tono). Una volta ho inseguito dei ladri con in mano la refurtiva di casa.

Spasimanti: Alberto Sordi.

Lì forse ho sbagliato.

A non cedere?

Temevo di rappresentare solo un trofeo: un amico comune ci aveva già provato, senza risultato.

Corteggiata a lungo.

Da Alberto? Abbastanza, poi l’ultima sera capisco che è “La” sera e mi agito, bevo troppo, tanto da sentirmi male e correre nel giardino per rimettere; torno in stanza e arriva la sua telefonata: “Ci vediamo?”, mi dice. “Va bene, vengo da te”.

E lì…

Neanche entro che mi salta addosso, prova a togliermi il vestito ma era una guaina: “Aspetta, vado in camera, mi spoglio e torno da te”. E invece poi ci ho ripensato; mesi dopo squilla il telefono, era Alberto: “Che te sei persa”, e giù una delle sue risate.

Stessa sorte per Walter Chiari.

Genio assoluto: i sei mesi di tournée con lui sono stati magnifici, ogni sera improvvisava, non ho mai più incontrato nessuno di quel livello.

E…

Mi diceva “dobbiamo andare a letto insieme” con la stessa enfasi di quando ordinava la cena: per lui era normale, scontato, ma non ci sono stata; un pomeriggio arriva sua madre, allarmata: “Resisti, fa sempre così, l’amicizia è più importante”.

Altro continente: il Sudamerica con la Lollobrigida.

Diva come nessun’altra: per raggiungere il Cile ci volevano più di 32 ore; io distrutta, temevo l’aereo quindi bevevo per stordirmi, e sono arrivata a buttarmi a terra pur di dormire. Lei no. La ricordo impegnata per due ore con la manicure, e una volta atterrati scese la scaletta perfettamente truccata, parrucca in ordine, vestito e tacchi intonati; non solo: saranno stati 40 e passa gradi eppure indossava una pelliccia di visone. A differenza sua io ero ancora distrutta.

Diventate amiche?

Solo di notte.

Che vuol dire?

Il giorno non considerava nessuno, poi a tarda sera bussava alla mia porta, entrava e raccontava in lacrime dei problemi personali, in particolare con il figlio; il giorno successivo mi trattava con fastidio.

Quindi?

Alla terza sera non le ho aperto, dentro di me le ho dedicato un bel “vaffanculo” e mi sono messa a dormire.

Beve ancora per volare?

I sei anni in Europa mi hanno abituata: non lo amo, ma volo.

Eletta con Forza Italia.

La politica è un ambiente difficile, molto peggio del mondo dello spettacolo.

Addirittura.

Partecipai a delle missioni in Africa per conto della commissione Sviluppo: al mio ritorno spiegai ai colleghi la situazione, e loro: “Abbiamo già tanti problemi in Italia”.

Primo incontro con Berlusconi.

Anni Ottanta mi convoca ad Arcore. Accetto. E mi presento in bicicletta, tanto abitavo e abito a 500 metri di distanza; entro nella villa, lui cordiale e affascinante, mi mostra le varie bellezze compreso il teatro con il pianoforte piazzato sul palco.

Ha cantato?

Non io, lui! E per mezz’ora il suo repertorio francese.

Ancora viaggi: Madison Square Garden a New York.

Ventimila spettatori; terminata l’esibizione si presentano i tre organizzatori: i signori Galate, Genovese e Gambino.

Cognomi “importanti”…

Appunto. Comunque entusiasti, e alla fine dello show un loro parente si presenta e mi consegna un pacchetto, per lui prezioso: “È per voi, lo dovete aprire in Italia con tutta la famiglia: è una cosa nuova che da voi non ci sta”. Era carta igienica. “Sembra fragile, ma potete utilizzarla tranquillamente”.

Il suo ultimo Sanremo non è stato felicissimo.

Direi pessimo: prima di salire sul palco, Paolo Bonolis e Roberto Benigni mi hanno insultata anche con allusioni sessuali; se me ne fossi accorta non avrei cantato.

Si sono scusati?

Benigni sì, ha chiesto perdono: “Ho sentito le risate e mi è scappata la mano”; Bonolis mai pervenuto.

Alla fine, chi è lei?

Una donna nata in tempi duri, che ha lottato e avuto la fortuna di soddisfare molte delle sue curiosità. Non tutte. Solo molte.

“Smonta e porta via”: quei “piccoli muri” prima della caduta

Il Muro di Berlino cade il 9 novembre di trent’anni fa, ma in realtà, pezzo per pezzo, stava venendo giù da molti mesi. Prima di quel famoso giorno di novembre, tanti “muretti” si sono sbriciolati per preparare la strada a quell’evento culminante. Abbiamo ripercorso le principali tappe che hanno portato a quel giorno, ai tanti “muretti” caduti prima del Muro di Berlino.

 

19 agosto: il picnic Paneuropeo

Il 19 agosto per circa tre ore c’è un varco nella cortina di ferro, è la prima volta dalla costruzione del Muro nel 1961. Accade in aperta campagna tra Austria e Ungheria, tra le località di Sopron e Sankt Margarethen, dove al confine viene organizzata una manifestazione di apertura simbolica e limitata nel tempo: il picnic paneuropeo appunto. L’evento è organizzato dal Forum ungherese democratico e dall’Unione paneuropea, con il tacito consenso del governo ungherese. Un piccolo assaggio per testare il terreno sulle reazione sovietiche. I tedeschi orientali sono invitati a partecipare con volantini che riportano la scritta: “Smonta e porta via”. Sono circa 600- 700 i cittadini della Ddr che usano quell’occasione per fuggire in direzione dell’Austria. Qualche mese prima, a fine giugno, a pochi chilometri da lì, il ministro degli Esteri ungherese Gyula Horn e il suo omologo austriaco Alois Mock avevano tagliato simbolicamente la recinzione di fronte al confine. “Saremo sempre grati all’Ungheria per il contributo che ha dato all’unità della Germania”, ha ricordato quest’anno Angela Merkel.

 

4 settembre: i Lunedì di San Nicola a Lipsia

Dai primi anni Ottanta, la chiesa evangelica di San Nicola a Lipsia diventa un luogo di ritrovo importante per i dissidenti. Ogni lunedì alle 17 ci si riunisce per pregare per la pace, in un momento dove la corsa agli armamenti è in piena espansione, la Ddr si trova sulla linea del possibile fronte e nel paese si discute dell’installazione di armi atomiche a medio raggio. Il 4 settembre per la prima volta, dopo la preghiera collettiva nella chiesa che fu di Bach, il raduno si sposta in strada sfidando le leggi che vietano raduni non autorizzati. 1200 persone partecipano alla dimostrazione allo slogan: “Noi rimaniamo qui!”. L’obiettivo non è fuggire dalla Ddr, ma renderla democratica. “Per un paese aperto con persone libere” recita uno striscione, “Per le riforme e la libertà di viaggiare. Contro le fughe di massa” dice un altro. Quel giorno a Lipsia è giornata di fiera e i media dell’ovest catturano le immagini della dimostrazione, che si ripeterà da allora ogni lunedì.

 

30 settembre: Praga, l’ambasciata tedesca

La sera del 30 settembre, nel parco dell’ambasciata tedesca di Praga, ci sono circa 4000 tedeschi orientali stipati sotto al balcone nell’attesa di sentire cosa ne sarà di loro: di lì a poco parlerà il ministro degli Esteri della Repubblica federale tedesca, Hans-Dietrich Genscher. I primi fuggiaschi sono arrivati a fine giugno, nella speranza di un visto per passare dalla Cecoslovacchia all’Austria. Poi alla spicciolata il numero è aumentato: un centinaio prima, poi mille, fino a che l’ambasciata chiude formalmente l’ingresso a metà luglio. Ma ormai è tardi, la voce si è sparsa e in molti continuano a fluire, scavalcando la recinzione del parco, che man mano viene occupato da una tendopoli sempre più fitta e melmosa per le piogge settembrine. Quella sera del 30 settembre l’attesa è massima, Genscher fa in tempo a pronunciare una mezza frase: “Siamo venuti per informarvi che oggi il vostro espatrio…”. Appena 12 parole prima che scoppi un boato di gioia. Le telecamere riprendono abbracci e lacrime, fischi e applausi. È chiaro a tutti in quel momento che viaggiare in Germania ovest non è più solo un sogno.

 

7-8 ottobre: a Berlino le cariche dalla polizia

Il 7 ottobre cade il 40° anniversario della Ddr. Alla parata della mattina a Berlino, oltre al Gotha del partito e del governo della Ddr, è presente anche Michail Gorbaciov, che con Erich Honecker discuterà delle riforme dell’Europa dell’Est. Nei pressi di Alexanderplatz nel pomeriggio si riuniscono un migliaio di giovani dimostranti al grido di “Gorbi! Gorbi!” e “Gorbi aiutaci”. Si ritrovano di fronte al Palazzo della Repubblica, mentre all’interno i vertici della Sed – il Partito comunista della Ddr – festeggiano come di consueto l’anniversario. Il Palast der Republik, poi raso al suolo negli anni duemila, è un luogo simbolico del potere della Ddr: vi si trovava la sede della Volkskammer, il Parlamento della Ddr, ma anche sale da concerto, ristoranti e sale da ballo. Il luogo non è scelto a caso dai dimostranti. “Volevamo essere lì dove allo Stato faceva davvero male”, ricorda Evelyn Zupke, all’epoca 26enne al Tagespiegel. La polizia interviene con i manganelli, diverse persone vengono fermate. Le tv dell’ovest riprendono tutto. Qualche ora dopo nella chiesa dei Getsemani a Prenzlauerberg si riuniscono un migliaio di persone per una veglia di protesta a sostegno di coloro che erano stati ingiustamente incarcerati. La polizia in tenuta antisommossa circonda la chiesa e i manifestanti. “Era una chiara minaccia”, racconta Renate Fischer, testimone oculare, al tempo poco più che vent’enne. La tensione è al massimo grado.

 

9 ottobre: ancora Lipsia, “no violenza”

Per molti è la dimostrazione che segna il vero momento della svolta, la decisiva vittoria della “rivoluzione pacifica” della Germania Est. Kein Gewalt!, nessuna violenza: questo il richiamo che rimbalza a ogni angolo nella manifestazione di Lipsia. Dopo le violenze dei giorni precedenti e le rappresaglie della polizia durante l’anniversario della Ddr, è una parola d’ordine più significativa che mai. Settantamila persone percorrono le strade della città quel lunedì. “Tutti sapevamo che una soluzione cinese, tipo quella di Pechino a piazza Tienanmen, era un’opzione possibile”, racconta Andreas Rotter, un testimone dell’epoca. Molti non partecipano temendo proprio quella “soluzione cinese”, come il cantante dei “Prinzen”, il gruppo pop dell’est, Sebastian Krumbiegel. Ma da Berlino tutto tace, non arrivano ordini e la manifestazione si svolge pacificamente. “C’era un’atmosfera fantastica. Abbiamo ballato, abbiamo camminato e ce l’abbiamo fatta”, ricorda Andreas. Le tv straniere non sono ammesse stavolta, ma qualcuno dai tetti riprende di nascosto quel fiume di persone che scandisce slogan, diventati poi famosi come “Noi siamo il popolo” (“Wir sind das Volk”).

Pham e la rotta vietnamita dei disperati

“Pham viveva nella cittadina di Nghen, nel distretto di Can Loc, il 3 ottobre ha lasciato la provincia rurale di Ha Tinh, nel nord del Vietnam, prima di recarsi nella capitale, Hanoi, per ottenere i suoi documenti e andare in Cina. Pham alcuni giorni fa è stata arrestata dalla polizia britannica che l’ha rimandata in Francia. Ora abbiamo sentito che potrebbe essere morta”.

A scrivere queste righe è il fratello di Pham Thi Tra My, una delle 39 vittime rinvenute nella cella frigorifera del Tir scoperto mercoledì sera a 30 chilometri da Londra. Il messaggio era stato pubblicato su un canale social che le famiglie vietnamite frequentano per tenersi in contatto con i parenti e avere loro notizie durante il viaggio verso l’Europa. I contorni della tragedia di Pham vengono delineati meglio anche dai genitori, ormai disperati nella consapevolezza che non la rivedranno più. “Ho perso sia mia figlia che i soldi” ha detto il padre di Pham alla Cnn; ai trafficanti di esseri umani aveva pagato 34 mila euro, sottolineando che gli intermediari gli dissero che non sapevano ancora con quali mezzi avrebbero fatto arrivare gli immigrati asiatici in Gran Bretagna. “Mi garantirono che avrebbero preso una rotta sicura”, ha aggiunto. La polizia non conferma nessuna identità, i documenti trovati sono pochi, dicono gli investigatori.

Pham potrebbe non essere l’unica vittima vietnamita; tutto fa pensare che un buon numero di persone morte dentro la cella frigorifera del Tir siano proprio di quella nazionalità. Questa pista è supportata da 20 denunce di famiglie che hanno segnalato la scomparsa dei propri cari. Fra queste, quella dei genitori di un ragazzo di 26 anni, di cui non si hanno notizie da più di una settimana. Si chiama Nguyen Dinh Luong e aveva detto ai genitori che si sarebbe unito a un gruppo che da Parigi avrebbe tentato di arrivare in Gran Bretagna. Un rappresentante della VietHome, un’organizzazione della comunità vietnamita nel Regno Unito, ha confermato di aver inviato alle autorità britanniche le foto di 20 persone; molti potrebbero essere partite da Nghe An, una delle zone più povere del Vietnam e un punto caldo per la tratta di esseri umani, secondo la ong Blue Dragon Children Foundation. L’ente di volontariato Ecpat conferma che ogni anno centinaia di vietnamiti vengono fatti entrare in modo illegale nel Regno Unito, e giunti a destinazione – spesso per ripagare il debito della famiglia – sono costretti a lavorare in regime di schiavitù in bar o piantagioni di cannabis. La polizia ritiene che l’inchiesta sia ancora in via di sviluppo; ieri c’è stato il quinto arresto e l’accusa di omicidio per l’autista del Tir. Fra le domande a cui rispondere, quella che riguarda i controlli dei mezzi pesanti al loro ingresso. Circa 3,6 milioni di camion e container sono arrivati nel 2018 attraverso 40 porti principali. Il ministero degli Interni – come ricorda la Bbc – afferma che le verifiche sono effettuate dalla Border Force, con rilevatori di anidride carbonica, sensori di movimento e cani addestrati. Il governo conferma che le perquisizioni sono affidate al “personale esperto che sceglie i container da cercare nel porto” ma non fornisce i numeri delle verifiche sul campo. Lucy Moreton della Immigration Services Union ammette alla Bbc che il numero di container che arriva ogni giorno ha reso impossibile perquisizioni a tappeto: “Non abbiamo la possibilità di controllare la stragrande maggioranza del trasporto merci che entrano nel Regno Unito”.

“Libano, anche Hezbollah teme questa rivolta popolare”

Per la prima volta nella storia della Repubblica confessionale libanese, è in corso da 10 giorni una rivolta senza distinzioni settarie. Molti analisti l’hanno già definita una vera e propria rivoluzione. E in effetti dal nord al sud del Paese dei Cedri, dai quartieri sunniti, sciiti e cristiani, sono centinaia di migliaia i cittadini unitisi nelle piazze per chiedere che “tutti, ma proprio tutti” i politici rassegnino le dimissioni: dal presidente della Repubblica, ai ministri, fino all’ultimo deputato del parlamento. La rabbia della gente contro la classe politica è tale da non risparmiare nemmeno quei , pochi per la verità, uomini politici che in passato avevano denunciato la corruzione.

È il caso di Misbah Ahdab, giá parlamentare sunnita della città di Tripoli, la seconda del Libano per numero di abitanti e importanza economica. Hadab durante il primo giorno di manifestazioni si era recato nella piazza principale di Tripoli per capire cosa stesse accadendo “quando una delle mie guardie del corpo, dopo essere stata sfiorata alla testa da un proiettile sparato da qualcuno nascosto tra la folla, ha risposto al fuoco per proteggermi”, racconta.

Perché è esplosa questa rabbia trasversale?

Perché la gente non ne può più della corruzione macroscopica, dall’aumento costante delle tasse e del prezzo dei beni primari a fronte di un deterioramento progressivo dei servizi di base e delle, già scarse, infrastrutture. Inoltre il tasso di disoccupazione ormai ha toccato il 40 per cento su una popolazione di 4 milioni e mezzo di abitanti e un milione e mezzo di rifugiati siriani. Ciò ha portato la classe media a diventare classe povera allargando a dismisura la forbice tra pochi ricchissimi e una massa sempre più grande di poveri. Persino a Beirut, la capitale, l’elettricità, ad esempio, non è garantita tutto il giorno. Se per i ricchi pagare la bolletta e il generatore per sopperire ai black out non è un problema, per la maggior parte dei libanesi invece è una spesa inaffrontabile”.

Sembra che nemmeno il discorso minaccioso contro i manifestanti tenuto in tv dal leader del partito sciita armato Hezbollah, Assan Nasrallah, abbia convinto i dimostranti a tornare a casa. Come mai?

Quando non si hanno né lavoro né soldi né il sostegno dello Stato per la scuola e la sanità, la gente sente di non aver più nulla da perdere e quindi non si fa spaventare più da nessuno. Tanto meno da chi fa promesse da anni senza mantenerle. È il caso anche di Hezbollah. Basti dire che persino nella valle della Bekaa, così come nelle città del Sud, entrambe zone roccaforte di Hezbollah perchè lì la maggioranza della popolazione è musulmana sciita, ben pochi hanno seguito l’ordine di Nasrallah di rientrare a casa.

Nasrallah, che è sostenuto dall’Iran, ha anche detto di appoggiare il governo presieduto dal suo eterno nemico Saad Hariri, il leader sunnita attuale presidente del Consiglio legato all’Arabia Saudita. Stiamo assistendo al tentativo della casta politica di compattarsi?

Sì, è così. Qua nessuno ha più nulla da perdere, anche i politici attuali.

Al punto che Hezbollah, accusato di aver fatto saltare in aria il padre di Hariri, il premier Rafik nell’attentato del 2005 che portò alla rivoluzione dei Cedri , ora sostiene il figlio di colui che avrebbe fatto uccidere?

Se non si sostengono a vicenda, questa volta finiranno per perdere definitivamente il potere. Anche Hezbollah è indebolito. Per questo i due leader hanno superato l’enorme rivalitá che li rendeva nemici.

Bisogna dunque aspettarsi attentati o persino una guerra civile?

La guerra civile no, perché, ripeto, la cittadinanza non è divisa. Attentati invece, purtroppo, potrebbero essercene per costringere la gente a smettere di protestare. Difficile comunque fare previsioni. perché lo Stato è sull’orlo della bancarotta, nonostante i tanti miliardi prestati nel tempo dall’Europa.

Russiagate, i Dem avranno la versione integrale

Non era mai successo con il Russiagate. Invece, adesso, con l’istruttoria sull’impeachment, anche Donald Trump (nella foto) comincia a sentire puzza di bruciato: l’inchiesta lanciata dai democratici si sta rivelando una minaccia reale per la sua presidenza e gli strumenti in possesso della Casa Bianca e dei repubblicani per fermarla sono limitati. Avranno la possibilità di respingere l’attacco finale, qualora si dovesse arrivare al voto in Senato, a meno che l’indagine non faccia emergere comportamenti indifendibili del magnate presidente. E già siamo a buon punto. Venerdì, i democratici hanno segnato due altri punti, sul fronte giudiziario. Un giudice federale ha infatti stabilito che il Dipartimento della Giustizia deve consegnare alla Camera entro il 30 ottobre la versione integrale del rapporto sul Russiagate del procuratore speciale Robert Mueller, senza omissis; i deputati potranno così capire davvero se Trump ha o meno intralciato l’inchiesta. E un altro giudice ha ritenuto legittima la procedura d’impeachment, anche senza un voto formale della Camera per aprirla. Elementi di irritazione in più per lo showman, che non riesce a impedire ai suoi collaboratori, specie a quelli che non sono più in servizio, di presentarsi a deporre di fronte alla Commissioni Giustizia e Intelligence della Camera. Nel weekend toccava a Philip Reeker, assistente del segretario di Stato per gli affari europei, un estimatore di Marie Yovanovitch, l’ambasciatrice in Ucraina richiamata, oltre che a Charles Kupperman e Timothy Morrison. E, da lunedì, saranno sentiti Russ Vought, direttore ad interim per il bilancio, Michael Duffey, funzionario del bilancio, e T. Ulrich Brechbuhl, legale del Dipartimento di Stato. Molti di questi s’erano inizialmente rifiutati di deporre, ma è stato loro ingiunto di farlo.

“Ombudsman”, confessionale dei poliziotti russi disperati

“Il 91% di sfiducia nella polizia non è fallimento, è semplicemente merda”. Imprecano contro lo Stato la cui sicurezza tutelano.

“Per la vecchia generazione il Paese è v zope, fottuto” scrive Sviatoslav Volkov. “Sprecateli per i dipendenti vivi questi soldi, ladri!” imprecano quando la Difesa presenta l’ultimo robot militare. “Oggi offendi qualcuno e domani sei sotto terra”. Anche: “Stelle alla memoria per i morti da eroi. A questa vita non eravamo pronti”. Valery, Aleksandr e Yuri sono i nomi, Semin, Nikitin, Kardash i loro cognomi e sono solo tre di migliaia di poliziotti che scrivono a flusso continuo sul canale dove si confessano a vari fusi orari della Federazione.

Se Vlodimir Vorontsev, ex poliziotto del ministero dell’Interno, ha deciso di fondare il canale “Ombudsman” su Telegram nel 2017 è perché per lui era chiaro da tempo che la disperazione serpeggiava tra le divise blu.

Oggi almeno 39 mila membri delle forze dell’ordine condividono dolori e soprusi, perché lungo una china disperata e mortale stanno scivolando molti poliziotti russi. Ci sono messaggi di supporto o di pura disperazione di profili veri e finti, che devono tacere nella vita reale. Una paga bassissima, un livello di vita disperato, sovraccarico di turni di lavoro ma soprattutto nepotismo: sono i vettori che modellano la traiettoria dei poliziotti verso la disperazione e poi verso la tomba.

L’ultimo si chiama Marat Absaleev, 32 anni. Venti giorni fa, insieme con due membri del suo reggimento a Kazan, è andato al poligono: i suoi colleghi miravano alla sagoma, lui alla sua testa. Un colpo solo e salvarlo è stato impossibile. Un’altra morte d’ottobre. A inizio mese il tenente colonnello del ministero delle Emergenze russo Oleg Zhukov, 40 anni, ha cominciato a camminare verso la foresta di Odintsovo, periferia della Capitale per scegliere lo stesso destino di Marat, ma prima di uccidersi ha registrato un video: della sua scelta estrema erano responsabili i suoi superiori, lo avevano incastrato per accusarlo di una frode da lui mai commessa.

Quattro mesi prima dei due suicidi, a nord ovest di Mosca, lungo la strada Baikal, l’investigatore Nikolay Korokov, seduto nel suo ufficio, è stato ritrovato morto accanto alla sua pistola e una zapiska, l’ultima lettera. I media hanno riportato brevemente la notizia con una delle sue ultime foto scattate, dove Nikolay sorride tra i palloncini rosa di una festa in famiglia, quella che non riusciva più a mantenere per la paga troppo bassa: 35 mila rubli al mese, circa 500 euro. Solo sulla chat Ombudsman si poteva leggere il contenuto del biglietto: puntava l’indice contro i suoi superiori, lo avevano fiaccato, con un proiettile chiudeva i conti.

Come puntini sulla mappa, queste morti unite ad altre, hanno mostrato il disegno finale di un sistema malato, replicato negli ambienti malsani degli uffici di sicurezza della Federazione. Più di 50 poliziotti russi si sono suicidati nel 2018, secondo i calcoli di Vorontsev, ovvero circa il 10% del totale, 446.

Secondo altre fonti sarebbero invece 200 dal 2018 ad oggi, ma non ci possono essere conferme ufficiali perché le autorità nascondono le cifre, ma soprattutto le prove: “Fanno di tutto per addossare le cause di questi suicidi alla famiglia e non alle condizioni di lavoro, i poliziotti lavorano troppo, operano in condizioni severissime, senza ferie, senza giorni liberi” ma soprattutto, continua Voronsev, “vengono bullizzati e minacciati dai superiori”.

Erano uomini in divisa, sono lapidi in pietra. Solo in Bashkiria sono stati registrati 10 casi di suicidio. Il poliziotto Yulai Kalilov il 3 novembre dell’anno scorso ha lavorato fino a notte fonda per riprendere servizio all’alba e poi è sparito. Preoccupata per la sua assenza la moglie si è rivolta ai colleghi del marito, che invece di aiutarla, la spingevano a confessare una lite mai avvenuta. Se chiedeva acqua le offrivano alcol. Solo quando ha lasciato la sede della polizia ha ritrovato all’entrata Yulai. Il suo corpo pendeva impiccato accanto a un biglietto che diceva: “La mia morte è colpa mia”.

Mail Box

 

Ho appeso in camera i poster delle prime due feste del Fatto

Cari amici della redazione del Fatto Quotidiano, vi sfido a trovare un altro ragazzo che vi segue sin dal primo giorno (all’epoca avevo 16 anni) e che ha tra i poster appesi in camera quelli delle prime due feste del Fatto in Versilia. Tanti auguri!

Andrea Angelini

 

Abbonata della prima ora vi leggo con la mia gatta Cleo

Da abbonata della prima ora e tuttora accanita lettrice e abbonata online, vi faccio i miei più affettuosi complimenti per aver realizzato un giornale che, a distanza di 10 anni, continua a spiccare nel desolante panorama giornalistico nostrano. Con me vi saluta la gatta Cleo, occasionale compagna di lettura del quotidiano.

Tiziana Gubbiotti

 

Evasione, rischiamo di finire come l’asino di Buridano

Nella disputa tra Marco Travaglio, Marco Ponti e altri circa il “cane che si morde la coda” tra evasione-elusione fiscale e inefficienza-sprechi nella spesa pubblica, hanno evidentemente ragione entrambi. Come in ogni spirale perversa (a cominciare dalla nascita primigenia tra l’uovo e la gallina), si tratta di individuare un capo che potrebbe essere l’uno (manette agli evasori) o l’altro (no al Tav e altre opere inutili). Il rischio è che, come per l’asinello di Buridano, l’incertezza di dove cominciare porti a deperire tanto le casse dello Stato quanto le tasche dei contribuenti onesti.

Valentino Ballabio

 

Troppa pubblicità in Rai, meglio guardare altro

La Rai è tornata “temporaneamente” in utile, scrive Giovanni Valentini. Vero, giusto e sarà sempre più in utile visto che il solo ruolo della Rai è la pubblicità! Sempre e solo pubblicità! A tutte le ore, annunciata o nemmeno annunciata! La Rai non è altro che una azienda di pubblicità! Vergogna massima. Ci avevano promesso anche un canale senza pubblicità! Mai realizzato! Incassano una enormità di denaro per pagare i contratti milionari ai vari Fazio. Siano costretti a guardare La7.

Romano Lenzi

 

Conte e Gualtieri sono l’asse portante del governo

L’asse portante del Conte 2 è costituito dal premier e dal ministro dell’Economia. Il primo chiamato a dare chiarimenti al Copasir, dopo due ore e mezza circa, ha spiegato che il suo comportamento e quello dei servizi segreti italiani sono stati corretti e istituzionali nei contatti avuti con i servizi americani. A Gualtieri è toccato il compito di chiarire all’Ue quali siano gli intenti della manovra economica italiana per il 2020, con al centro la riduzione del debito pubblico. Quanto ancora al premier Conte, deve considerarsi senz’altro legittima la sua richiesta a Matteo Salvini di chiarire il suo rapporto con il suo amico Savoini nel Russiagate italiano. Ma Salvini sembra sordo, o non vuole sentire, e si limita a rispondere a Conte con i soliti insulti.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

Anche in Spagna per la casa è una guerra tra poveri

Victoria de Castro, 94 anni, lascia la sua casa di Portugalete, comune basco, qualche giorno per aiutare la sorella malata. Quando torna trova la sua casa occupata da “gitanos”. La polizia, allertata, giunge sul posto ma trova, a far scudo all’ingresso dell’abitazione, uno stuolo di bambini, compreso un neonato. Segue una denuncia con prima udienza fissata a fine novembre. Victoria piange. Si dispera. I gitanos neppure la fanno entrare per prendere qualche vestito. Lei chiede ospitalità al vicinato che, stanco di queste ripetute dinamiche, mette sotto assedio la casa. Gridando agli occupanti, oltre agli insulti, di uscire e lasciare libera l’abitazione di Victoria. La polizia interviene nuovamente, ma stavolta per scortare fuori gli occupanti evitando che venissero linciati da una folla discretamente inferocita. Una folla solidale che chiede rispetto per regole e anziani. Contro le strumentalizzazioni dei minori. E l’ipocrisia del “troppo politicamente corretto”.

Cristian Carbognani

 

Facciamo eleggere il preside agli stessi insegnanti

Sulla questione degli organi collegiali nella scuola va caldeggiata una proposta in netta controtendenza, ossia l’elezione del preside. I Collegi dei docenti, sempre più esautorati e mortificati, ridotti a una funzione passiva di ratifica di delibere già decise altrove, cioè nei circoli ristretti degli “staff dirigenziali” (veri organismi oligarchici e verticistici) dovrebbero essere presieduti da docenti eletti con un incarico revocabile e a tempo determinato, come d’altronde già si verifica negli atenei universitari con i presidi di facoltà elettivi. Credo che oggi sia giunto il momento più opportuno per dare vita a una campagna a sostegno del preside elettivo. L’ordinamento legislativo vigente, che si incentra sulla “autonomia scolastica”, dovrebbe finalmente tradursi in un’effettiva possibilità di autodeterminazione del corpo docente e in una reale capacità di autogoverno della comunità scolastica. In tal senso, la figura del “preside elettivo” si inserirebbe in maniera coerente in questo tipo di ipotesi, nella misura in cui permetterebbe di concentrare l’attuale figura del dirigente su mansioni inerenti agli aspetti amministrativi, con un impiego degli stessi dirigenti su più istituzioni scolastiche con enormi risparmi di spesa.

Lucio Garofalo

 

I NOSTRI ERRORI

L’articolo di ieri “Il pasticcere armato e il fan di Gomorra amante dei tatuaggi” è stato erroneamente attribuito a Vincenzo Iurillo. Il suo autore è invece Vincenzo Bisbiglia. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i lettori.

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