Il sobrio addio a San Draghi sulla stampa italiana

Domani è l’ultimo giorno di Mario Draghi alla Bce. Giovedì ha già tenuto l’ultimo board e l’ultima conferenza stampa. Nel mondo non si sa, ma nelle redazioni italiane lascia un vuoto incolmabile: “Passa alla storia per aver salvato l’euro facendo leva sulla sola deterrenza di tre parole” (Sole 24 Ore); “Solo un genio poteva trasformare una battuta da telefilm (whatever it takes, ndr) in una frase che avrebbe fatto la storia” (Fabio Panetta citato dal CorSera); “Il segno del suo stile è sempre stata la capacità di decidere da solo (…) Scelta di tempo, fiuto politico e predominio intellettuale sono state le sue armi” (CorSera); “Alla Bce ha coltivato una solitudine ascetica e un po’ diffidente, addolcita dall’abilità diplomatica e da un’imbattibile ironia romana” (Repubblica); “Dicono di lui che abbia la battuta pronta, sia ironico e scherzoso” (Sole); “Verrà ricordato per il funambolismo con cui ha sempre fatto politica senza mai sporcarsi le mani” (La Stampa); “La presidenza della Repubblica, nel caso dell’italiano più importante nel mondo, sarebbe il dovuto (sic) coronamento di una carriera dedicata alle istituzioni” (Repubblica). Per sapere da un media italiano che – non certo solo per sua colpa – ha fallito nel raggiungere il target di inflazione, nel dare un assetto sensato all’unione bancaria o che la sua mitica “cassetta degli attrezzi”, ormai vuota, non servirà di fronte alla prossima mareggiata sui mercati bisognerà aspettare di poter incolpare Christine Lagarde, comunque “notoriamente geniale nella comunicazione” (Repubblica).

Report chi? A Matteo basta il cuore di Maria (e l’Umbria)

 

“Report? Io ho visto Checco Zalone”.

Matteo Salvini a proposito dell’inchiesta televisiva sul Russiagate

 

Ricordate quando, tanto tempo fa, si parlava di giustizia a orologeria a proposito delle indagini della magistratura su Silvio Berlusconi? Quando nell’ultimo episodio della serie Sky “1994” si rievoca l’avviso di garanzia per corruzione recapitato all’uomo di Arcore al summit Onu di Napoli, e lo scandalo atomico che ne seguì, sembra davvero di assistere a una fiction, o meglio a un fantasy. Eppure, quella Italia che s’interrogava sgomenta sulla reputazione del presidente del Consiglio (e dei suoi sottoposti) è esistita veramente, così come le polemiche furiose contro il Pool di Milano accusato di cospirare contro l’imputato eccellente con l’intento di costringerlo alle dimissioni. Be’, dimenticatevi di tutto perché 25 anni dopo, il leader di un altro partito di maggioranza (sempre di destra), può bellamente strafottersene dell’inchiesta della magistratura milanese sui traffici del suo amico Gianluca Savoini a Mosca. Nonché farsi beffe dello scoop giornalistico di “Report” dove, tra le altre rivelazioni sui rapporti rubli-Lega, abbiamo visto un irsuto oligarca di Dio dichiarare serenamente di aver investito un miliardo di euro, o giù di lì, a favore del sovranismo europeo e dei suoi frontmen. Dice Salvini che proprio a quell’ora si stava godendo un film di Checco Zalone, con una indifferente naturalezza che ha reso patetica la protesta dei suoi gregari in Commissione di vigilanza Rai, tutti lì a stracciarsi le vesti per presunte violazioni della par condicio alla vigilia del voto umbro. Anch’essi reperti del passato incapaci di comprendere che nell’era dei partiti personali, l’immunità del capo è garantita dalla massa che lo acclama. Egli infatti non ha bisogno di cani da guardia (subito infatti richiamati), e se qualche sprovveduto giornalista insiste a disturbarlo con le solite domande inopportune su rubli e petrolio, gli basterà baciare il rosario e appellarsi al “cuore immacolato di Maria” per metterlo in fuga tra gli ululati della folla. Uno così non può certo preoccuparsi per la nuova puntata di “Report” in onda domani, anche perché in quelle stesse ore, egli conta di essere impegnato a festeggiare la vittoria elettorale in Umbria, e dunque chissenefrega. Come disse una volta Donald Trump, autorità indiscussa in materia: potrei sparare a uno per strada e non perderei un voto.

Pregare Gesù significa riconoscere i propri (e non gli altrui) peccati

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: ‘O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo’. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: ‘O Dio, abbi pietà di me peccatore’. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato” (Luca 18,9-14).

Due espressioni della Parola di Dio, di questa trentesima domenica del tempo ordinario, vanno tenute presenti: La preghiera del povero attraversa le nubi,(…) non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità (Sir 35,21-22) e la supplica evangelica del pubblicano O Dio, abbi pietà di me peccatore. La Liturgia nuovamente insiste sul tema della preghiera e ricorda che se è chiaro che il movimento del pregare nasce naturalmente dal cuore dell’uomo ed è vivo in tutte le forme religiose, non è scontato chi pregare, come pregare e che cosa chiedere. Ecco perché Gesù, con autorità e ripetutamente, lo insegna ai suoi. Si tratta di legare bene insieme la preghiera, le regole con i bisogni della vita e Dio. Il povero di cui parla il Siracide non è solo l’indigente, la vedova, l’orfano e lo straniero, ma è anche Paolo che, con abbandono fiducioso, va incontro al martirio come verso la sua vittoria più autentica e finale. Allo stesso modo, l’umile pubblicano orante della parabola sa di non avere meriti su cui contare davanti a Dio, non è contento della sua vita, anzi vorrebbe cambiarla, ma intanto è certo di vivere nella gratuità del perdono divino. Il fariseo e il pubblicano ci insegnano, appunto, uno stile di preghiera a partire dalla coscienza che hanno di sé e dalle loro esperienze concrete di vita. Il fariseo, stando in piedi, da autosufficiente, sviluppa un’orazione tutta incentrata su se stesso, prega tra sé, e si ritiene migliore di coloro dei quali denuncia i peccati, accusandoli di non essere veri praticanti come lui. Dio è chiamato in causa a sanzionare degnamente l’autosufficienza del bene compiuto, ma è assente qualsiasi sentimento di gratitudine e di creaturale e umile dipendenza da Lui. Il pubblicano, invece, si ferma a distanza perché ritiene di essere indegno di stare davanti o vicino a Dio. Ha gli occhi rivolti a terra come colui che ha bassa considerazione di sè, battendosi il petto come chi ha coscienza di essere colpevole e, quindi indegno della relazione orante che sta per vivere. Chiede pietà per la sua condizione di peccatore. La Scrittura narra la verità anche attraverso la descrizione degli atteggiamenti esteriori, delle parole e di quanto esprime la nostra corporeità. Questo ci aiuta a cogliere la profonda diversità dei due personaggi descritti da Gesù. La presunzione porta il fariseo a esibire la sua correttezza con la pretesa di non essere come gli altri uomini… e neppure come il pubblicano; osa confrontare la sua bontà con quella di Dio e gli è estranea la consapevolezza di vivere per grazia. Diversamente, il pubblicano guarda con coraggio la propria verità, si riconosce peccatore e, sapendo di non potersi vantare di nulla e nulla poter esigere, confida che mediante la preghiera Dio lo possa trasformare. E la pietà misericordiosa di Dio lo rimanda perdonato. Al termine della narrazione, Gesù loda e propone questo secondo modello di preghiera pur senza disprezzare le opere del fariseo e non elogiando nemmeno la vita da pubblicano. Il Signore Risorto ci rivela che Dio fa grazia col suo perdono. L’autentica preghiera evangelica non solo chiede, ma trasforma l’orante perché tiene strettamente unita la vita del cristiano con l’esperienza personale della debolezza amorosa di Dio che è grazia.

*Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche

Ma cosa c’entrano i bus in fiamme con un omicidio?

La droga, un colpo di pistola, la morte di un ragazzo. Su questo si è scatenato, di nuovo, un inferno mediatico su Roma. Cronisti e commentatori prendono prima una “toppa” (lo scippo finito tragicamente), poi fanno il proprio mestiere su un orrendo fatto di cronaca. Ma per Roma c’è sempre un di più di critica generale, di ingigantimento dei problemi, quasi di criminalizzazione tout court. Ovunque avviene anche di peggio, quotidianamente. Ma, se avviene nella Capitale, è come se qui il consumo di droga, le pistolettate e le uccisioni abbiano raggiunto livelli parossistici. Fra i primi a essere mobilitati da Repubblica, particolarmente allarmata e allarmante, è stato Nicola Lagioia. Lo scrittore delle periferie e della violenza metropolitana (ultimo titolo: La ferocia) deve riconoscere che a Roma “non ci sono più morti e feriti di prima, non c’è più eroina e cocaina e fumo rispetto alle altre città italiane, alle metropoli d’Europa e del Nordamerica”. Il problema, però, ci sarebbe e come: da 15 anni a Roma si vive male. E “il malessere produce aggressività, l’aggressività produce violenza”. Violenza che però, a quanto pare, in quest’area metropolitana da quattro milioni di abitanti, non raggiunge, grazie al cielo, i livelli di città anche meno affollate e meno inevitabilmente disordinate. La coca? Anche qui Lagioia ammette: “Credo che la cocaina che si può trovare in un mercato enorme come quello della Capitale sia, pro capite, la stessa che si può acquistare a Milano, a Torino dove organizzo il Salone del libro, a Berlino. La cocaina la compri facilmente dappertutto e costa relativamente poco, anche 50 euro”.

E le armi? “Credo girino più armi nelle banlieue di Parigi o nell’East London. La droga, le armi, la violenza, non è lì il centro. Il centro della questione è il malessere diffuso, l’aggressività diffusa”. Dunque un malessere e una aggressività che però non producono e non sono prodotti da più coca, più armi e più omicidi. Epperò il problema, per Lagioia, c’è. “Roma è una città carica di violenza”. Acquistare o vendere cocaina, qui, “sembra dare un senso a una città che non ha un senso, non ha una direzione, una carica…”. E qui viene fuori lo scrittore, forse proprio lo scrittore di noir, magari trasferitosi a Roma da una quindicina d’anni: la Capitale “negli ultimi quindici anni, è la vera eccezione culturale. È una città spolpata, con un turismo usa e getta, senza cultura d’impresa. Sembra nutrirsi di sé, praticare l’autocannibalismo”. Ecco, questo “può essere affascinante per uno scrittore” (magari uno della corrente dei cannibali) “ma viverci da cittadino è un dolore”. E poi, signora mia, “le case continuano a costare molto e le opportunità diminuiscono. Il centro è riservato a pochi ricchi, qualche turista e ai politici… Quando sono arrivato a Monti, tanti anni fa, una casa si affittava a 800 euro il mese, ora per quella cifra non ti danno neppure una stanza”. Quindi: non solo malessere, aggressività e mancanza di “senso”, ma anche problematiche tipiche di città ad alta intensità turistica, come Venezia o Firenze. Certo, Roma ha “una socialità unica, una facilità alla conoscenza”, riconosce quasi a denti stretti lo scrittore-ragazzo passato dalla periferia di Bari alla periferia di Roma, ancora per un momento in stridente contraddizione con il denunciato malessere che produrrebbe aggressività, che a sua volta produrrebbe una violenza non adeguatamente censita dalle statistiche, ma “domani Roma tutta potrebbe somigliare a Torre Maura, il bus che non arriva, o cassonetti debordanti, i caloriferi dei condomini comunali che non si accendono”. Potevano mancare i bus che bruciano, la monnezza che nessuno raccoglie e la vetustà dei caloriferi comunali, nell’analisi di una storiaccia di spaccio finita tragicamente all’Appio Claudio?

L’Onu si è screditata e ha finito i soldi

La notizia ha fatto il giro del mondo, ma senza emozionare nessuno. Le Nazioni Unite, ovvero il leggendario quartier generale della grandiosa organizzazione di pace sognata e disegnata da Roosevelt, e commissionata, per esaltare l’evento, al celebre architetto francese Le Corbusier sul bordo dell’East River, a Manhattan, d’ora in poi chiuderà alle cinque della sera, saranno spente le luci della famosa Delegates Lounge dove si è svolta gran parte della diplomazia e dello spionaggio nel mondo, saranno fermati ascensori e scale mobili e gli interpreti, nella torre di Babele del mondo, saranno in servizio solo fra le 10 e le 13 e fra le 15 e le 18 di ogni giorno.

Facile spiegare perché la notizia non ha scosso il mondo, benché l’Onu sia la sola istituzione del mondo che potrebbe salvare i curdi, fermare Erdogan, imporre un minimo di doveri e di sorveglianza nei lager libici, riportare alla ragione la vicenda Russia-Ucraina. Ho citato solo recentissime crisi, ma è dai tempi dei massacri nella ex Jugoslavia che l’Onu dà segni di un’assenza stordita. Questo è il momento di ricordare quanto l’Onu abbia screditato se stessa restando assente durante crisi e stragi africane, nell’embargo imposto a Cuba, o nell’accettare e mantenere in vigore per anni una mozione islamica votata a grande maggioranza dall’Assemblea generale, che dichiarava “razzismo” il sionismo. Inevitabile ricordare i danni (l’elenco è molto più lungo) che la “Casa del mondo” (definizione di Eleanor Roosevelt, allora membro della delegazione americana alle Nazioni Unite), ha fatto a se stessa. Ma è indispensabile ricordare la grandiosità dei suoi interventi, che comincia dalla liberazione del Congo e dalla morte dell’indimenticato segretario generale Dag Hammarskjöld, prosegue con la instancabile attività dell’Unicef (l’organizzazione Onu per l’infanzia) che attraverso molti pericoli e molte perdite umane ha vaccinato milioni di bambini del mondo. E con quella di una straordinaria, efficientissima organizzazione di forniture industriali che metteva le imprese della parte ricca del mondo in grado di trattare (mediatore l’Onu) in zone del mondo altrimenti irraggiungibili che sono state trainate in questo modo dentro il progresso per chi aveva accesso alle nuove macchine, e nella espansione per i fornitori, che ricevevano dall’Onu la mappa per nuovi mercati. Ma tutto ciò non spiega l’evidente avviarsi alla fine, per esaurimento, delle Nazioni Unite, che ricorda da vicino (un’analogia triste) la fine della Società delle Nazioni (1939). Questa volta c’è un agente distruttivo grande, diffuso, potente, il sovranismo, che non tollera mediazioni e non accetta revisioni dei propri progetti, per quanto assurdi. Il sovranismo è un pericoloso animale politico che tende a eliminare, con violenti colpi di coda e senza alcun desiderio di motivare, chiunque si opponga ai suoi progetti e ai suoi capricci. O ai suoi improvvisi cambiamenti si strada. In questo momento, nella storia del mondo, il campione del sovranismo sono gli Stati Uniti. La prima fiammata non è da attribuire a Donald Trump e alla sua evidente voglia di giocare da solo (in questo modo non deve misurare la sua statura con quella di altri personaggi e altre politiche, e decide che – se dichiarata “americana” – una cosa è buona, onorevole per forza. La prima fiammata di sovranismo avviene con l’apparizione di Ronald Reagan. Il cambiamento da un’America all’altra è netto e forte, ma sembra meno esplosivo della svolta di Trump solo perché la Guerra fredda mantiene la non discutibile egemonia americana (persino per coloro che non amano il cambio di passo di Reagan) e perché Reagan possiede in misura straordinaria la dote della soft communication persino se sta annunciando cose che, dette da altri, suonerebbero inaccettabili. Una delle prime decisioni di Reagan, infatti, è di sospendere i contributi americani alle Nazioni Unite. Non saranno pagati gli arretrati, non saranno versate le somme dovute (che sono i 22 per cento di tutti i contributi del mondo). Da sovranista Reagan non tollera, come Trump, che qualcuno possa mettere bocca negli affari americani o giudicare (non come opinione, ma come possibile intervento, anche solo burocratico) ed è il primo presidente americano a respingere nel territorio dell’inutile, e anzi del dannoso, il grande sogno del presidente Roosevelt, che aveva sempre espresso il desiderio di volere in terra americana la grande macchina di cooperazione e di pace che le Nazioni Unite avrebbero dovuto essere. Dopo Reagan, e nonostante i due presidenti democratici Carter e Clinton, il versamento dei fondi americani (dunque il motore dell’Onu) non sono più stati regolari. E senza alcuna restituzione degli arretrati. Negli anni 80, Ted Turner, fortunato fondatore della Cnn, ha versato personalmente la quota Usa “per non vergognarsi di essere americano”. Ma sapeva, come ha cominciato a sapere il mondo, che il sovranismo, cieco e inconsapevole della Storia, stava vincendo.

Da Twitter a Twitch: così si è evoluta la specie (social)

In origine era Twitter: i suoi 140 caratteri sembravano destinati ad attrarre utenti e investimenti pubblicitari. Fondato nel 2006, lo strumento di microblogging ha prima inventato l’hashtag (#) e ha poi presto abbandonato le masse per diventare luogo di nicchia di utenti adulti e interessati all’attualità (con un calo di utili che due giorni fa l’ha fatto crollare a Wall Street). Poi è arrivato Facebook, sulla cresta dell’onda per anni. Aveva tutto: scrittura illimitata, video, fotografie, amicizie, creatività. Oggi è ancora il social con più utenti, almeno due miliardi nel mondo, è stato una rivoluzione, ha raccolto grandi e piccini ed è riuscito a tenere testa e a pareggiare con Youtube, i suoi tutorial e le sue gag.

Fino a che non è arrivato Instagram: strategicamente acquistato per un miliardo di dollari nel 2012 dall’azienda di Zuckerberg, ha fatto in modo che l’inesorabile emorragia di adolescenti e giovanissimi dalla piattaforma più in voga andasse a riversarsi sempre nella propria casa e nelle proprie casse. Sempre strategicamente, ci è riuscito anche con Whatsapp quando altre app di messaggistica stavano prendendo piede tra i “suoi” consumatori del futuro. Ora, c’è l’ultima sfida di cui Facebook dovrebbe riuscire a contenere i rivoli. Alcune analisi parlano di una stasi nell’engagement di Instagram e di un’altra fuga, stavolta verso TikTok. Anch’essa, ancora una volta, trainata in prima battuta da i giovanissimi (come su Twitch, comprato da Amazon, dove nel 2018 un miliardo di spettatori, il 43 per cento in più del 2017, hanno guardato in streaming altri ragazzi giocare ai videogame) lascia indietro le generazioni più adulte e consapevoli. Forse un po’ meno influenzabili. Si vedrà così, ancora una volta, se la consapevolezza contrasta con il business.

Tutti pazzi per TikTok, l’app cinese che sostituirà le altre

TikTok: l’icona sullo smartphone somiglia a una “T” ma anche a una nota. L’ambiguità è voluta. I video di 15 secondi che si susseguono senza un criterio evidente, infatti, si dividono in due categoria: quelli in cui teenager più o meno cresciuti cantano in playback improvvisando passi di danza e quelli in cui mostrano scarpe e problemi. E noi, che ci siamo iscritti a questa piattaforma per scoprire un social network tutto nuovo, ne usciamo con la consapevolezza che è solo la nemesi di tutto ciò che ha conquistato i teen negli ultimi tre anni, da Youtube a Instagram. Nelle ultime settimane la risonanza mediatica è forte, complici anche vip e personaggi famosi che hanno capito dove si sta spostando l’attenzione: sono sbarcati Fiorello, Rovazzi, Michelle Hunziker, Bobo Vieri e anche le sorelle Ferragni. Gli utenti italiani a fine 2018 erano circa tre milioni. Ora, secondo le stime, sono arrivati alemeno a quattro.

Chi è su TikTok. In trenta minuti a scorrere i video, tra effetti speciali e jingle, ci si imbatte nella quasi totalità delle tipologie presenti sulla piattaforma: ragazzini che mimano e cantano, ragazzini che tirano penne in una tazza chiedendo di avere più Like, ragazzini che fanno il giro della morte in piedi sull’altalena, ragazzini che si pettinano o si truccano, che raccontano i loro problemi di cuore e scolastici, Will Smith (quello vero) che apparecchia divertenti siparietti, chef Barbieri che taglia una zucchina cantando, un fast tutorial su come creare una t-shirt stampata fai-da-te, una biondina che fa beatboxing, un’altra che spiega quanto ha pagato i vestiti che indossa, venti secondi su come creare una verruca finta per Halloween, un ragazzo che cammina avanti e indietro senza maglia e con addominali in bella vista, una signora che ricopre una torta di glassa, esibizioni di hip hop (queste, va detto, anche di altissimo livello) e tanto advertising: bracciali, vestiti, scarpe, accessori. Questi giovanissimi – ma lo sono sempre meno – cantano e ballano per metterli in mostra. Meglio che rimanere fermi davanti all’obiettivo come su Instagram? Forse no, perché in questo caso l’esibizione e la creatività fungono più facilmente da ‘copertura’ per pubblicità occulta e product placement.

Il business.Mettere la creatività degli utenti al servizio dei brand sembra infatti essere l’obiettivo di questa “piattaforma per video brevi” come ama ripetere l’azienda cinese Beijing ByteDance Technology Co Ltd (nota come Bytedance) che detiene TikTok e l’ha portata in Europa con l’acquisizione di Musical.ly e di tutti i suoi diritti musicali. I media mondiali hanno già raccontato a lungo delle criticità: la piattaforma sostiene di puntare a coinvolgere una fascia d’eta che va dai 18 ai 25 anni, di fatto intercetta i minorenni e, spesso, anche under 13. Negli Stati Uniti è stata sanzionata per violazione del Children’s Online Privacy Protecion Act con una multa di 5,7 milioni di dollari per non aver vigilato sul rispetto delle condizioni d’uso. La app si porta dietro poi tutti i sospetti legati all’essere sia un social network, sia cinese: i problemi di privacy, la targetizzazione, il riconoscimento facciale e l’arricchimento dei database di Pechino. Finora le rassicurazioni sono state le seguenti: estrema attenzione alla privacy, intelligenza artificiale utilizzata soprattutto per far arrivare agli utenti i video che potrebbero piacergli di più, riconoscimento facciale per sviluppare più filtri ed effetti.

I timori dei competitor La corsa di questa app chiaramente preoccupa i suoi diretti competitor. Negli ultimi giorni si è parlato di un rallentamento dell’engagement su Instagram (gli stessi influencer iniziano a pubblicizzare i loro video su TikTok) e in una conversazione privata con i suoi dipendenti, registrata e girata a The Verge, Mark Zuckerberg ha ammesso che il fenomeno non può essere ignorato : “TikTok – aveva detto – è il primo prodotto per internet creato da uno di questi giganti del tech cinese che sta facendo davvero bene in tutto il mondo. Sta iniziando ad andare bene anche negli Stati Uniti, specialmente tra i più giovani, e sta crescendo molto rapidamente in India. Penso che in termini di scalabilità abbia ormai sorpassato Instagram in India. È un fenomeno molto interessante”. Intanto, mentre prova a sperimentare altre piattaforme simili in mercati dove magari TikTok non è ancora arrivato, Mr. Facebook preme per potenziare le stories di Instagram e la loro raggiungibilità casuale o riunita in hashtag attraverso la funzione “esplora”. Tentativo che per la maggior parte degli analisti sembra essere destinato a fallire perché TikTok avrebbe tutt’altra filosofia, raccontata qualche mese fa dal New Yorker: “Non stavo dando attenzioni a TikTok perché volessi rimanere aggiornato sulle news o perché stessi cercando conforto o irritazione guardando le foto dei miei amici in vacanza. Stavo dando attenzioni a TikTok perché mi stava dando quello che catturava la mia attenzione, e lo sapeva fare perché era stato progettato per fare capriole algoritmiche capaci di far passare mezz’ora prima che mi ricordassi di fare altro”.

T-shirt sessiste: l’errore di Carrefour

L’indignazione è stata istantanea e ha preso subito le vesti di un tweet, scritto dalla parlamentare Monica Cirinnà. Entrata per caso ieri mattina in un Carrefour romano, si è imbattuta in una maglietta azzurra che ritrae due scene affiancate: una, in cui un uomo e una donna stilizzati litigano. L’altra, in cui la donna precipita, spinta dall’uomo, accompagnata dalla scritta Problem solved.

Chiaro, dunque, che sia scoppiato un putiferio e che il supermercato sia stato tirato subito in ballo. “L’azienda sposa questo messaggio? Chiariscano o dovrò buttare la tessera”, ha scritto la senatrice, a cui hanno fatto seguito, a catena, altre esponenti del Pd: da Valeria Valente, presidente della Commissione di inchiesta sul femminicidio (“Basta con questi attacchi sessisti, tanto più subdoli perché mascherati da macabra ironia”) ad Alessia Morani, fino a Valeria Fedeli, secondo cui “in un paese dove ogni 72 due ore una donna viene uccisa, la mercificazione di una tragedia di queste dimensioni è un fatto intollerabile”. La stessa Fedeli è stata l’unica ad aver chiesto non solo ritiro dai negozi Carrefour, ma anche lo stop alla produzione delle magliette. L’azienda, però, non è quella citata da Fedeli, ma la Spreadshirt, che vende online sul sito omonimo in 18 Paesi europei, negli Stati Uniti, in Canada e in Australia. Quella maglietta incriminata viene distribuita, insomma, a mezzo mondo (è ovviamente, anche su Amazon), insieme ad altre con disegni e scritte di ogni genere: c’è persino una serie dedicata a Greta Thunberg. Fa parte, in particolare, della serie problem solved: dove si mette in scena, quasi sempre, l’incomprensione tra uomo e donna (ma più spesso è la donna che urla) e si suggerisce una soluzione: in genere sciare, pescare, suonare. Oppure, anche, buttare la donna di sotto, mentre per la donna l’opzione è solo un calcio che stende (ma c’è anche per l’uomo).

Uno humour nero, non particolarmente divertente, forse considerato innocuo. Certo, la cosa cambia se la maglietta finisce, anche se per sbaglio, in un supermercato italiano e solo nella versione in cui è lei ad essere “fatta fuori”. L’errore dunque c’è e Carrefour l’ha capito, tanto che si è scusata e si è affrettata a spiegare al Fatto che “erano stati ordinati quattro soggetti che non includevano quel tema, ma per errore il produttore ha mandato anche il soggetto non richiesto (pare insieme alla versione col maschio ko, comunque censurata da Carrefour, ndr), forse confondendosi, visto che il codice era uguale”. Insomma, le due magliette trovate a Roma appartenevano a un lotto che non avrebbe dovuto essere commercializzato, tanto che, a seguito di una segnalazione, Carrefour – che ci tiene a ricordare l’impegno quotidiano nella violenza contro le donne – aveva già provveduto a ritirare le magliette. Non c’è motivo, insomma, per strappare la tessera (del Carrefour, almeno), mentre invece è giusto usare le vicenda per condividere una riflessione, come quella scritta sul caso da un utente Twitter: “Oggi tutto è in mano al marketing. Eppure oggi non si può ignorare che vendite e comunicazioni di successo non possono più prescindere dall’attenzione a questioni di genere e da lotta a bullismo e razzismo”.

Reddito, la “fase-2” si inceppa sulle convocazioni e sui patti

Numeri di telefono che mancano, nomi sbagliati e caos nei centri per l’impiego: il bilancio di ottobre del Reddito di cittadinanza non è dei migliori, soprattutto se lo si osserva regione per regione. Ad oggi, infatti, a firmare il patto per il lavoro è stato solo un decimo dei beneficiari obbligati a farlo. Il messaggino con la convocazione ai Centri per l’impiego è finora arrivato a circa 255 mila beneficiari, di questi, 104 mila si sono già presentati all’appuntamento e poco meno di 76 mila hanno già firmato il patto per il lavoro. Per gli accordi presi in estate con il governo, entro il 15 dicembre le Regioni devono aver chiamato e messo in moto 710 mila persone, ovvero i percettori ammessi al sussidio tra aprile e luglio e che rispondano ai requisiti che pongono la ricerca di un’occupazione come condizione per percepirlo. Da inizio settembre, data di avvio, a oggi è stato contattato il 36 per cento di loro e meno dell’11 per cento ha sottoscritto l’impegno ad attivarsi.

La rilevazione condotta dal Fatto è aggiornata all’inizio di questa settimana e – anche se non hanno risposto tutti i 21 assessorati al Lavoro – le percentuali sono attendibili. Le Regioni assenti, alcune molto piccole e altre indietro rispetto alla tabella di marcia, non dovrebbero avere numeri tali da modificare di tanto le proporzioni. La fase due del reddito di cittadinanza continua a mostrarsi macchinosa, ma sta iniziando a ingranare nonostante sia lontana dall’ambizioso crono-programma indicato sulla legge: ogni assistito “avviabile” al lavoro dovrebbe essere invitato ai centri per l’impiego “entro trenta giorni dal riconoscimento del reddito di cittadinanza”. I dati Inps aggiornati all’8 ottobre dicono che le domande accolte riguardano 2,2 milioni di persone. Obbligato a cercare lavoro è grossomodo un terzo, quindi applicando la norma alla lettera, entro l’8 novembre i convocati presso i centri dovrebbero essere già 735 mila. Sarà già tanto raggiungere i 710 mila a metà dicembre.

La situazione è a varie velocità. La Sicilia è già riuscita a contattare quasi 107 mila persone e, su 31.098 colloqui previsti in questo primo mese e mezzo, si sono presentati in 25.475. La Campania, che fino a pochi giorni fa aveva deciso di rinunciare ai 471 navigator, ha mandato sms a meno di 61 mila persone su 178 mila e ha già fatto firmare il patto a meno di un percettore obbligato su dieci. Caso particolare in Puglia: i messaggi sono partiti dieci giorni fa e coprono solo poche centinaia di persone su 51 mila. A Bari e nei dintorni sono soprattutto i navigator dell’Anpal Servizi a occuparsi della questione – mentre altrove il ruolo centrale è del personale regionale – e i nuovi assunti hanno da poco ricevuto le password dei sistemi. Anche il Molise, vista la carenza di organico soprattutto a Campobasso e Termoli, è in affanno. La Basilicata è a metà dell’opera con i messaggi.

Al Centro, le Marche sono in difficoltà: solo 18 persone hanno firmato il patto, mentre 522 su 655 non si sono presentate al colloquio. Non troppo meglio è messa l’Umbria, con 127 sottoscrizioni a fronte di oltre 6mila residenti da impegnare. L’Emilia Romagna e la Toscana hanno superato il 50 per cento quantomeno se si considerano gli sms. Il Lazio è di poco indietro, ma sta viaggiando al ritmo di 400 colloqui al giorno. Al Nord, il Piemonte è molto avanti, avendo coperto più di due terzi della platea. La Lombardia ha fatto firmare 5.690 beneficiari, ma bisogna tenere presente un particolare importante: in questa Regione il 15 per cento dei percettori stava già partecipando a politiche attive locali nel progetto “Dote unica lavoro”. Un discorso analogo si può fare in diverse altre Regioni che già stavano coinvolgendo in percorsi di inserimento quelli che poi sono entrati a far parte della platea del reddito di cittadinanza. In Liguria, per fare un esempio, sono in 3mila. Insomma, tra i 710 mila c’è pure una fetta non nuova ai centri per l’impiego. Resta il nodo di quelli che devono affacciarsi per la prima volta. E qui continuano i problemi di reperibilità: sui moduli di richiesta del reddito di cittadinanza appare solo il contatto di chi li ha firmati, non anche degli altri componenti della famiglia. In altri casi, addirittura, è riportato solo il recapito del centro di assistenza fiscale o del patronato che ha seguito la pratica. In molte zone è stato affidato ai navigator il compito di recuperare numeri di telefono e indirizzi mail di tutti.

La differenza tra il numero di convocati e le presenze ai colloqui dipende anche da questo fattore. Inoltre, tra i nominativi segnalati dall’Anpal alle Regioni figurano diversi che in realtà sono esonerati, poiché disabili o donne in maternità. Questo genera un’ulteriore scrematura prima di arrivare alle firme dei patti per il lavoro. È possibile che vi siano anche dei furbi, ma con gli elementi in possesso al momento non si possono quantificare. In ogni caso, anche quando si saranno attivati tutti, sarà difficile trovare posti di lavoro: le posizioni aperte inserite dalle aziende sul sistema sono solo ottomila in tutta Italia.

Scarcerato di nuovo il “boss dei boss” della ’ndrangheta

Scarcerato due volte nel giro di due mesi per fine pena. Negli anni Ottanta e Novanta, Domenico Paviglianiti, 58 anni, era considerato un “boss dei boss” della ’ndrangheta reggina. Pluriomicida, ergastolano, catturato in Spagna nel 1996 e due anni dopo estradato: è protagonista di un intricato rimpallo giuridico su quanto gli resta della pena da scontare. Secondo il gip Domenico Truppa il conto di Paviglianiti con il carcere è esaurito e per questo dal 18 ottobre è stata disposta la liberazione. La seconda dopo quella decretata ad agosto, durata in quel caso meno di 48 ore. Per la procura di Bologna, infatti, la pena terminerà nel 2027 e per questo due mesi fa era stato subito ordinato un nuovo arresto; con la seconda liberazione è partito il nuovo ricorso in Cassazione.

Tutto nasce dal fatto che in Spagna, all’epoca dell’estradizione, il carcere a vita non era contemplato. Caduto l’ergastolo, i 168 anni di somma aritmetica di condanna per il boss sono stati commutati in 30 anni. Lo ha deciso in agosto un gip di Bologna, autorità giudiziaria competente perché proprio dalla Corte di appello emiliana era stata emessa l’ultima sentenza passata in giudicato. A questo punto, secondo i difensori, a febbraio 2019, dopo 23 anni, tra indulto, liberazione anticipata, era già scontata tutta la pena. Su questa base è stata ottenuta la prima liberazione. Per i pm non si è però tenuto conto che una condanna a 17 anni per associazione mafiosa, nel 2005, si riferisce a fatti avvenuti dopo l’estradizione dalla Spagna, spostando dunque il fine pena in avanti di 8 anni. Di differente avviso il secondo gip, che ha considerato la sentenza del 2005 già valutata nei conteggi precedenti. Ma secondo la procura di Bologna questa valutazione è errata: è necessario rideterminare la pena residua. Inibire questa facoltà, secondo il ricorso in Cassazione dei pm Lucia Russo e Michele Martorelli “costituisce scelta sorprendente” e in conflitto “con i principi e le norme in tema di esecuzione delle pene detentive”.