L’addio di Carminati al 41-bis. E Buzzi chiede: liberatemi

Massimo Carminata fuori dal regime di carcere duro riservato ai boss mafiosi: il “Nero” dice addio al 41-bis. C’era una volta Mafia Capitale, infatti. Dopo la sentenza della Cassazione rimangono le vicende dei protagonisti del Mondo di mezzo, non più mafia, ma due associazioni a delinquere distinte anche se in affari tra loro. E ieri è arrivato l’ok dal ministero di Grazia e Giustizia dopo gli scontati e obbligati pareri positivi della Dda di Roma e della Superprocura antimafia: resterà dietro le sbarre ma in regime ordinario l’ex Nar (i Nuclei armati rivoluzionari dell’estrema destra eversiva), 61 anni, padrone incontrastato di Roma nord, già vicino alla Banda della Magliana, rispettato dal sottobosco criminale e non solo di tutta la Capitale, dalla Tuscolana dei Senese a Ostia, coinvolto in diversi misteri d’Italia, ma sempre rimasto in piedi fino al colpo inferto dalla procura guidata da Giuseppe Pignatone e dal Ros dei carabinieri con la retata del 2 dicembre 2014.

 

Al carcere duro a Parma: dicembre ’14-luglio ’17

Il “Cecato”, chiamato anche così a causa dell’occhio perso per un proiettile sparatogli in faccia dalla polizia nel 1981 vicino al confine svizzero, è appunto detenuto dallo storico arresto avvenuto a Sacrofano, al 41-bis esattamente dal 25 dicembre 2014 (fu trasferito dal carcere di Tolmezzo a Parma, lo stesso che ospitava sempre murato vivo al 41-bis il capo dei capi di Cosa nostra Totò Riina) fino al 24 luglio 2017: infatti, dopo la sentenza di primo grado – il tribunale decise non essere mafia come la Cassazione farà successivamente – Carminati lasciò già una prima volta il carcere duro. E si ritrovò nella casa circondariale di Oristano in Alta sicurezza.

 

Alta sicurezza a Oristano, ora d’aria col boss Senese

In Sardegna incontrò, come spiegò lo stesso Carminati al suo legale Giosuè Bruno Naso, un vecchio amico, il capo della camorra a Roma: “Qui sto bene, benissimo. Sto bene di spirito e di corpo: mi sono anche abbronzato. Tutti cattivi eh, cattivissimi. Addirittura ho potuto rivedere Michele Senese. Ci siamo salutati”. Era il 4 agosto 2017.

 

Ripristino della misura ultrarestrittiva nel 2018

Più di un anno dopo, l’11 settembre 2018 la Corte d’appello lo condanna per il 416-bis, associazione a delinquere di stampo mafioso. E Carminati ritorna al 41-bis, questa volta nel supercarcere di Sassari. In primo grado Carminati è stato condannato a 20 anni senza “mafia”, in appello con la “mafia” a 14 anni e 6 mesi. Ha già scontato cinque anni, resterà dentro anche se non più al 41-bis, deciderà il Dap la nuova destinazione. Il ricalcolo della pena sarà stabilito col ritorno in Corte d’appello, si saprà quando fra una sessantina di giorni, dopo il deposito delle motivazioni della Cassazione.

 

E l’ex ras delle cooperative prova a ritornare libero

Lo stesso discorso vale per Salvatore Buzzi, 63 anni, capo storico delle cooperative sociali romane, assassino riabilitato e laureato in carcere nei primi anni Ottanta, al vertice della seconda associazione a delinquere in affari con il sodalizio di Carminati. Il legale Alessandro Diddi ha già presentato istanza di scarcerazione: “Il mio assistito, Salvatore Buzzi, va fatto uscire di galera, gli va immediatamente revocata la misura cautelare in carcere”. Deciderà la Corte d’appello, potrà seguire il ricorso in Riesame, e Buzzi in linea del tutto teorica potrebbe rimanere fuori almeno fino al ricalcolo della pena se non sarà ravvisato pericolo di fuga o reiterazione del reato. Anche Buzzi ha già scontato cinque anni di carcere, in primo grado senza “mafia” fu condannato a 19 anni e in appello con la “mafia” a 18 anni e otto mesi.

Italia stupefacente, chilometro per chilometro

La mappa chilometro per chilometro, area per area, regione per regione dello spaccio, del consumo e della lotta giudiziaria ai traffici milionari di sostanze stupefacenti in Italia va letta nelle pieghe della relazione annuale della Direzione centrale per i servizi antidroga del ministero dell’Interno. Che assegna al porto di Livorno – per citare solo una dei dati che saltano all’occhio – la medaglia d’oro del maggiore quantitativo di cocaina sequestrato l’anno scorso: 531 kg. Un dato in controtendenza rispetto a un recente passato che assegnava al porto calabrese di Gioia Tauro una media annua di un migliaio di kg di sequestri di polvere bianca con un picco di quasi 2.000 kg nel 2017. L’anno scorso i sequestri di “neve” a Gioia Tauro si sono ridotti a circa 217 kg, meno dei 297 kg scovati nel porto di Genova, l’ideale medaglia d’argento di questa competizione. Le aree portuali del versante occidentale, si legge nel rapporto, sono state quelle maggiormente utilizzate per introdurre la sostanza nel territorio nazionale. Ma il dato generale della cocaina è in ribasso: 3.626 kg rispetto ai 4.017 del 2017. Ed è in ribasso anche l’incidenza dei sequestri in mare, sceso dal 91% al 78 del complessivo. Mentre è aumentata la percentuale della coca intercettata alle frontiere aeree: 227 kg rispetto ai 180 dell’anno precedente, il 15,2% del complessivo rispetto al 6,9%.

Gli inquirenti lo sanno: la droga sequestrata è in genere inferiore a quella che finisce sul mercato. E la sostanza consegnata ai gestori delle piazze di spaccio raddoppia, triplica, grazie ad operazioni di taglio e rimescolamento con altre polveri più o meno innocue.

La droga ribalta gli equilibri economici nazionali, sequestri e consumi generali si impennano nelle regioni povere. Il Sud e le isole sono il territorio del 70,42% dei sequestri complessivi, rispetto al 15,33 del ricco Nord ed al 14,25 del Centro Italia. Nel valore assoluto, spicca al primo posto la Sicilia, con 29.164 kg di sostanze stupefacenti sottratte al mercato illegale, seguita dalla Puglia (kg 18.431,32), dalla Campania (kg 10.491,25), dal Lazio (kg 9.784,16), dalla Lombardia (kg 6.411,53), dalla Calabria (kg 2.512,51), dalla Toscana (kg 2.161,32) e dalla Liguria (kg 1.837,50). La Campania dei clan camorristici ha registrato un incremento del 133% dei sequestri rispetto al 2017, e i traffici stanno aumentando consistentemente anche in Basilicata (+7.365, 60%). Quasi cancellato il Molise dalla mappa. Qui i sequestri sono diminuiti del 99%.

Ma se si frazionano le attività di prevenzione rispetto alle singole sostanze, si scopre un rinnovato interesse per il mercato dell’eroina. I sequestri sono aumentati del 60%, sfiorando la tonnellata. E l’utenza di riferimento di questa droga è il Nord, dove si concentrano il 76,10% dei sequestri complessivi, rispetto al 12,04% della macroarea Sud-Isole e all’11,86% del Centro Italia.

Il rapporto infine spiega così il dimezzamento dei sequestri di marijuana: “Più che una vera e propria inversione di tendenza nei flussi illeciti di questa droga verso il territorio nazionale, sembra piuttosto la risultante di una netta riduzione dell’entità dei carichi di stupefacente in rotta nell’Adriatico”, si legge nel documento. “Le analisi degli esperti e l’andamento dei sequestri dell’anno in corso (il 2019, ndr) potranno dire – conclude il direttore generale del Servizio Antidroga Giuseppe Cucchiara – se si tratti di fatto contingente oppure se ci si trovi di fronte a un’effettiva rimodulazione delle strategie operative dei trafficanti di questa particolare tipologia di stupefacente”.

C’è poi un dato che conferma Roma come centro di maggior diffusione della droga ma anche di maggior incidenza dell’antidroga. A legare i due “primati” sono i numeri e la comparazione con i dati di Milano. Rispetto a una popolazione superiore del 40%, nell’anno 2018 il quantitativo di cocaina sequestrata dalle polizie giudiziarie e dalle procure nella provincia romana è quasi sei volte maggiore a quella sequestrata nella provincia milanese: 572 kg contro 105 kg.

E anche per quel che riguarda le altre sostanze non c’è gara: Roma supera Milano con sequestri circa tre volte superiori di eroina (86 kg contro 30), di marijuana (1.930 kg contro 606), di piante di cannabis (5.887 contro 1800). In questa speciale classifica fa eccezione l’hashish, che più o meno rispetta le proporzioni degli abitanti, con sequestri a Roma e provincia di circa 3.617 kg rispetto ai 2.950 dell’analogo territorio milanese. Fa eccezione il sequestro delle droghe sintetiche in polvere, dove Milano vince per 15 kg a 7. Roma riconquista il primato tra le metropoli nel campo delle compresse: 13.033 dosi contro 2443. Il tutto si riverbera nel numero delle persone segnalate all’autorità giudiziaria: 5.034 denunce a Roma e provincia (di cui 153 alla Procura dei minorenni) contro i “soli” 2.688 (compresi 64 minorenni) a Milano e provincia: cifre quasi doppie, e molto oltre il rapporto del numero degli abitanti.

“Call center della coca e piazze di spaccio. Così combattiamo le bande criminali”

Luigi Silipo è il capo della Squadra mobile di Roma: con una cinquantina di suoi uomini e in un’azione coordinata con i carabinieri del Nucleo investigativo, in 24 ore ha fermato i due 21enni accusati dell’omicidio di Luca Sacchi, il 24enne ucciso davanti a un pub nel quartiere di Colli Albani a Roma. Sulle indagini in corso – ci sono ancora alcuni aspetti da chiarire come il reale ruolo della fidanzata di Luca o quello degli intermediari dei due fermati – tiene il massimo riserbo. Conosce però in profondità il mondo dello spaccio sul territorio romano dove dirige la Squadra mobile da quattro anni e mezzo, dopo tre anni a Torino e 19 in Calabria.

Il caso dell’omicidio di Luca Sacchi, come quello del vicebrigadiere Cerciello Rega, sono avvenuti in un contesto di microcriminalità?

Sì, il contesto è quello della microcriminalità predatoria da strada, in cui a volte ci si trova di fronte a pregiudicati violenti inseriti nel mondo dello smercio di sostanze stupefacenti.

San Basilio è una delle principali piazze di rifornimento della droga. Come è strutturata questa zona?

Qui troviamo gruppi ben organizzati: si agisce per isolati, ognuno con la presenza costante di vedette, utili a segnalare l’arrivo delle forze dell’ordine. In ogni isolato, come avviene anche in altre zone, c’è un capo che gestisce le attività.

Come si presentano le altre zone romane?

Disegnare una cartina geografica con dati certi è complicato. Il caso territoriale più evidente è Tor Bella Monaca, dove c’è un’attività dedita alla vendita di stupefacenti molto più ampia di San Basilio. Ogni giorno mettiamo in campo un’attività di contrasto, finalizzata a smantellare interi gruppi criminali. Come avvenuto nel 2016 per il clan dei Cordaro, famiglia siciliana stanziata a Tor Bella Monaca. I loro profitti ammontavano a circa 125 mila euro al mese. Alla fine, parecchi appartenenti al gruppo sono stati condannati per traffico di stupefacenti o anche per una serie di aggressioni aggravate dal metodo mafioso. Ma sono tante le zone di distribuzione della droga. Con l’ultima operazione, denominata “Lucifero”, abbiamo smantellato articolazioni criminali dedite alla vendita di stupefacenti che andavano dall’Infernetto ad Acilia. Questa operazione è nata da ambienti albanesi vicini a Fabrizio Piscitelli.

Fabrizio Piscitelli, noto come Diabolik, è stato ucciso nel Parco degli Acquedotti a Roma lo scorso agosto. Che ruolo hanno gli albanesi?

Su questo non posso dire nulla: le indagini sono in corso. Di certo, in generale, a Roma gli albanesi sono l’organizzazione più importante per la fornitura di cocaina.

Come si mantiene l’equilibrio tra i gruppi criminali delle diverse zone? Non c’è il rischio di una guerra tra bande?

Ognuno si tiene la propria piazza e l’equilibrio si mantiene non invadendo il mondo dell’altro. Certo, spesso ci sono situazioni di frizione per svariati motivi, per esempio se la droga fornita non è di buona qualità oppure se ci sono debiti non pagati. Alla base però ci sono i tanti interventi di polizia e carabinieri.

Quali scelte strategiche mettete in campo in tema di contrasto alla criminalità?

Su Roma l’obiettivo della Squadra mobile è aggredire le piazze in tutte le filiere, dal grande distributore, al singolo spacciatore, fino ad arrivare a chi acquista. Se l’arrestato collabora le indagini sono più immediate. Altrimenti si passa all’analisi dei contatti telefonici. In alcune piazze di spaccio, come in quelle gestite da extracomunitari, questo è molto complicato. Qui succede per esempio che utilizzino un cellulare di servizio che viene passato da uno spacciatore a un altro. Così viene fuori una sorta di call center della droga: chiunque può chiamare e trovare qualcuno disposto a vendere.

Come si può contrastare il fenomeno?

Bisogna partire dalle scuole e dalle famiglie. In questi contesti è importante far capire che quello della droga è un ambiente dissoluto dal punto di vista personale, ma anche perché ci si inserisce in mondo delinquenziale che alla fine ti risucchia. Il tossicodipendente viene sfruttato da questi soggetti, come è avvenuto per la giovane Desirée Mariottini finita in un ambiente di assoluto degrado. Quindi bisogna informare e rieducare.

Soldi e droga, Anastasia rischia di essere indagata

L’indagine per l’omicidio “è chiusa”. Ma adesso nel mirino degli investigatori finisce Anastasia Kylemnyk, la fidanzata 25enne di Luca Sacchi, il ragazzo ucciso mercoledì sera nel quartiere Colli Albani a Roma. Delitto per il quale sono finiti in carcere i 21enni romani Valerio Del Grosso e Paolo Pirino. “Un’indagine differente” che i carabinieri del Nucleo Investigativo di Roma sono pronti ad avviare per capire se la ragazza, di origini ucraine, volesse acquistare hashish dai due giovani di Casal Monastero per uso personale – o comunque circoscritto – o se per rivenderlo a sua volta. Per ora in Procura a Roma non ci sono fascicoli aperti, anche perché non è stato ancora quantificato né lo stupefacente, né i soldi “divisi due mazzette da 20 e 50 euro” contenuti nello zaino della giovane, denaro mai ritrovato e che gli investigatori non sono in grado di quantificare con precisione.

Insieme a quella di Anastasia, gli inquirenti metteranno presto al vaglio la posizione degli intermediari, Giovanni P., Valerio R. e Simone P., che avrebbero messo in contatto i due arrestati con la ragazza. Anche perché – sebbene per ora viene esclusa – dietro l’angolo potrebbe esserci un’accusa di favoreggiamento.

Come si evince dai verbali finiti nel fascicolo affidato alla pm Nadia Plastina, a delineare i minuti precedenti al delitto è stato un terzo intermediario, Valerio R.. “Lui stesso – si legge nella ricostruzione – era stato incaricato da Valerio Del Grosso (colui che ha sparato, uccidendo Sacchi, ndr) di verificare se persone in zona Tuscolana avessero il danaro per acquistare come convenuto ‘merce’”. Qui, Valerio e Simone incontrano Giovanni: “Una donna (Anastasia, ndr) in quel contesto aveva lasciato uno zaino che lui stesso aveva constatato contenere soldi divisi in due mazzette da 20 e da 50 euro. Accertata la presenza del danaro, la ragazza aveva ripreso lo zaino”. Al gruppo degli intermediari, a quel punto si unisce Del Grosso, che subito dopo si reca a prendere la droga. I tre presunti intermediari, secondo la loro versione, entrano al John Cabot Pub: poco dopo avviene la tentata rapina finita nel sangue.

Anastasia ha subito smentito la tesi della droga, venerdì con una dichiarazione al Tg1.

Gli inquirenti vogliono capire come mai la sua versione sia l’unica discordante, rispetto a quelle fornite dagli amici e dagli intermediari. Inoltre, è stato appurato dagli esami tossicologici che Luca, la vittima, non facesse uso di sostanze stupefacenti. Ma ci sono tante domande alle quali gli investigatori stanno cercando di dare delle risposte: quante altre volte il gruppo si era rifornito dagli stessi spacciatori? Chi, fra gli intermediari, sapeva della rapina? I due fermati da chi si rifornivano? E soprattutto: perchè Anastasia non ha fatto subito i nomi degli spacciatori e non ha raccontanto dell’hashish da comprare? Anche per questo motivo la ragazza sarà risentita nei prossimi giorni.

Intanto, ieri mattina, il gip ha convalidato il fermo di Del Grosso e Pirino, che restano in isolamento nel carcere di Rebibbia. Il primo è colui che ha sparato, il secondo è quello che ha sferrato un colpo con la mazza da baseball alle spalle di Anastasia, per poi essere steso da Sacchi.

I due si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, ma Pirino ha reso delle sommarie informazioni in cui, di fatto, accusa il sodale: “Io volevo solo fare una rapina, non volevo uccidere nessuno”, ha detto al gip, per poi aggiungere: “Non ero a conoscenza che Del Grosso aveva con sé una pistola, non gliel’ho data io”. “Il mio assistito ha chiesto scusa – ha detto ieri Alessandro Marcucci, legale di Del Grosso – Ha detto che non voleva far male a nessuno. Chiederemo un nuovo incontro con i pm”.

Matera: soldi, nomine e show. Sotto la cultura volano sassi

Doveva essere un anno glorioso per Matera e, invece, rischia di concludersi tra polemiche e malumori. Poco rimane del giubilo per la designazione nel 2014 a Capitale europea della cultura 2019. E quei danni alle tegole e ai comignoli di alcuni edifici storici per “colpa” dei freerunner non autorizzati durante l’evento Red Bull Art of Motion qualche settimana fa, non sono che un’amara “ciliegina” sulla torta. A tre mesi dalla fine dell’evento, il bilancio su quanto fatto si fa sempre più spigoloso. Al centro delle polemiche, anzitutto l’uso dei 60 milioni di finanziamenti pubblici, di cui oltre 30 provenienti dal governo centrale. Il contributo della Commissione europea, a confronto, è poca cosa: da Bruxelles sono arrivati 1 milione e 500 mila euro per il premio intitolato a Melina Mercouri, ex ministra greca a cui si deve la nascita dell’iniziativa. Tuttavia, in agosto, di liquidità ne circolava ben poca. Tanto da mettere in ginocchio una trentina di piccole e medie imprese coinvolte. Qualcuna con crediti da parte della Fondazione Matera Basilicata 2019 anche di 70 mila euro. “Imprenditori e professionisti denunciano ritardi nei pagamenti. Si rischia di mandare in tilt tutto il tessuto imprenditoriale”, denuncia il presidente del Consorzio dell’artigianato e della piccola e media impresa Leo Montemurro: “Quella che doveva essere un’occasione – dice – rischia d’essere un fallimento”. C’è chi si è dovuto rivolgere a un legale per essere pagato. La Fondazione – ente pubblico costituito nel 2014 da istituzioni locali e regionali – spiega l’inconveniente con “i ritardi dei trasferimenti delle risorse pubbliche”.

Ma già per la questione delle nomine apicali c’erano stati malumori. A gestire l’iniziativa fin da subito sono stati alcuni volti noti della politica lucana, legati soprattutto all’area del centrosinistra. Le critiche si sono inasprite con la nomina nel 2018, a presidente della Fondazione, di Salvatore Adduce: ex sindaco di Matera, nonché presidente dell’Anci Basilicata. A osteggiarla, perché ritenuta illegittima rispetto allo statuto della Fondazione, sono stati Lega e FdI. Il caso, finito all’Anac per presunta “inconferibilità”, è stato poi archiviato. Anche la carica di vicepresidente è stata affidata a un volto noto in Basilicata: Angelo Tortorelli, infatti, è ex presidente della Camera di Commercio di Matera e attuale presidente dell’Azienda speciale sviluppo economico e territoriale (Asset) della Basilicata e del Consiglio comunale di Matera. Neanche il direttore generale, Paolo Verri, uno dei manager culturali più stimati d’Italia, è stato risparmiato dalle polemiche, perché fino al 2017 ricopriva il doppio incarico di commissario nell’agenzia pugliese Pugliapromozione. Tra i dipendenti, poi, figurano anche due coniugi: Serafino Paternoster e Mariateresa Cascino, lui coordinatore dell’ufficio stampa e lei impiegata nel marketing. Per il direttore della Fondazione, però, non vi sono rapporti familiari all’interno dell’ente, perché Paternoster “non è dipendente della Fondazione, ma dell’ufficio stampa della Regione, che è socio fondatore della Fondazione”.

Sotto i riflettori sono finiti pure i compensi degli 84 collaboratori. Il presidente di Confesercenti Matera, Francesco Lisurici, ha contestato i 250 mila euro spesi mensilmente per il personale. “Considerando i risultati mediocri e che molti degli addetti ai lavori lamentano di essere volontari – dice – chiedo di poter conoscere meglio l’impiego di tali risorse”. Ben “32 milioni di euro – fa sapere la Fondazione – sono stati destinati al programma culturale, con 70 mila pass venduti e 700 eventi su 1000 realizzati. Il costo del personale ammonta al 13% del totale delle spese”. Non va dimenticato, però, che sono stati coinvolti nell’accoglienza e nella pubblicizzazione degli eventi 1400 volontari. Ci sono poi associazioni che lamentano poca trasparenza nella selezione delle iniziative. Anche i due progetti pilastro, Open Design School, un punto permanente di sperimentazione e innovazione interdisciplinare, e I-DEA, un archivio del patrimonio artistico, hanno destato perplessità per via dei numeri esigui di pass venduti. I profili web dell’organizzazione sono stati a più riprese affollati di commenti negativi, mentre in città i malumori crescono. Per esempio sul problema trasporti. La rete Fs collega il versante tirrenico fino a Ferrandina. Nei primi mesi del 2019, prima che entrasse in funzione la linea di autobus, molti turisti sarebbero rimasti appiedati se non fosse stato per la disponibilità dei materani automuniti. L’unica rete che arriva a Matera è quella delle Ferrovie appulo-lucane proveniente da Bari. Gli ammodernamenti sbandierati come traguardi dell’ultima ora, come la statale 96 terminata da poco, per la maggior parte sono progetti che risalgono agli anni ’90. La città, però, da allora è molto cambiata, tanto che il turismo quest’anno si è quasi duplicato rispetto allo scorso. Si ipotizza che, entro dicembre, i visitatori raggiungeranno quota 1 milione. La maggior parte arriva con autobus privati che, per giunta, sostano in pieno centro, nonostante le centinaia di migliaia di euro investiti per realizzare il parcheggio nei pressi della stazione di La Martella oramai inutilizzato.

Di spese controverse ve ne sono anche altre. Pio Abiusi è uno dei quei cittadini che si è rivolto alla Guardia di Finanza: “Le rotatorie fatte in città sono costate molto più del normale e anche per il terminal parcheggio di Serra Rifusa sono stati impiegati milioni per una spianata di cemento abbandonata”. Un po’ di disillusione c’è anche tra i giovani rientrati in cerca di fortuna. Gli unici sbocchi occupazionali sono emersi sempre e solo dai settori alberghiero e della ristorazione. Di Matera “Open future”, come recita lo slogan, si teme resti ben poco. Il rischio è che concluso il 2019 di questa gallina dalle uova d’oro non resti granché. Tra palchi, turisti mordi e fuggi, freerunner e set cinematografici – dal nuovo film di James Bond con Daniel Craig alla fiction di Rai1 Imma Tataranni – Sostituto procuratore – più che il sogno di un anno glorioso, la città corre il pericolo di diventare un grande baraccone.

“È la fonte del Fatto Quotidiano”. Siae lo licenzia, Anac lo scarica

Tra gennaio e settembre 2019 ben 706 dipendenti coperti dall’anonimato – i whistleblowers – hanno denunciato delle irregolarità all’Autorità anti corruzione: 41 sono state trasmesse alle Procura della Repubblica e tre alla Corte dei Conti. Questa è la storia paradossale di uno di loro. È stato licenziato dal direttore generale della Siae. I paradossi sono tanti. E non devono indurre a credere che non esista tutela. Ma le maglie, in casi come questo, sono troppo larghe.

Il primo paradosso: le segnalazioni inviate dal dipendente Siae, per l’Anac, sono attendibili. Al punto che l’Autorità, all’epoca guidata da Raffaele Cantone, trasmette gli atti sia alla Procura di Roma, sia alla Corte dei Conti del Lazio. Dopo la denuncia all’Anac, il direttore generale della Siae, Gaetano Blandini, decide di licenziarlo. Non perché abbia denunciato, sottolinea Blandini. Ma per altri quattro motivi: secondo la Siae il whistleblower ha spifferato al Fatto Quotidiano la notizia della denuncia all’Anac; ha registrato i colleghi a loro insaputa; è più volte arrivato in ritardo al lavoro; ha scritto una email scorretta allo stesso Blandini.

Il whistleblower a questo punto si rivolge all’Anac, chiedendo protezione, perché ritiene che il licenziamento sia una ritorsione. Ma l’Anac gli dà torto: la legge protegge i whistleblower da un licenziamento collegato alla denuncia. Non protegge chi decide di parlare con i giornalisti. E quindi: il licenziamento disposto dalla Siae non è “ritorsivo”. Ha ragione Siae e torto il dipendente. Al quale non resta che rivolgersi al giudice del lavoro per chiedere di essere reintegrato. Ma dov’è la prova che il whistleblower abbia parlato con il Fatto Quotidiano? Non esiste. Riepiloghiamo la vicenda.

“Il 17 marzo 2019 – si legge negli atti dell’Anac – un dipendente Siae, attraverso la piattaforma lamenta presunti illeciti, irregolarità, sprechi, favoritismi e mala gestio nella Siae”. Tra questi, l’annullamento di una diffida a pagare i diritti d’autore, circa 500 euro, destinata al Pd di Aprilia per una Festa dell’Unità del 2013. Il dipendente allega la registrazione con un suo superiore che gli dice: “Mandare una diffida al Pd, oggi, da un punto di vista, come dire, della giustizia… sarebbe più che giusto! Ma ho la sensazione che se faccio partire questa diffida, facciamo una di quelle cazzate… che ci s’inculano”. È solo un frammento della corposa segnalazione inviata all’Anac.

Il 28 e 29 marzo il Fatto pubblica due puntate sulla vicenda. Il 24 aprile l’Anac invia un fascicolo alla Procura di Roma e alla Corte dei Conti per la Regione Lazio. Ma nel frattempo il dipendente viene licenziato. Con 4 contestazioni. La prima è del febbraio 2019: ha inviato due mail al direttore generale – una segnalava una presunta mala gestio da parte dell’ufficio crediti della direzione generale – che la Siae ha ritenuto pretestuose e dal tono arrogante. La seconda è del 19 marzo: è arrivato in ritardo al lavoro quattro volte tra febbraio e marzo 2019 “senza darne comunicazione al direttore o alla sua segreteria”. La terza è del 29 marzo: “Ha comunicato o messo in condizione il giornalista del Fatto Quotidiano, Antonio Massari, di prendere cognizione dei contenuti della denuncia inviata all’Anac, divulgando notizie e documenti oggetto di segreto aziendale…”. Occhio alla data: il 29 marzo è appena stato pubblicato l’articolo e la Siae è già convinta che il whistleblower sia lui. La quarta è dell’8 aprile: ha utilizzato “strumenti di registrazione sonora durante l’orario di lavoro, senza averne titolo, all’insaputa di colleghi e superiori”. C’è da capire come avrebbe dovuto documentare alcuni dialoghi, se non registrandoli per consegnarli all’Anac.

Il whistleblower si rivolge all’Anac ritenendo che il licenziamento sia una ritorsione per la sua denuncia. Blandini fa notare all’Anac che due delle quattro contestazioni – quella delle mail e dei ritardi – sono antecedenti alla denuncia. Quindi non può esserci ritorsione. Il licenziamento, però, arriva comunque dopo la denuncia. E le altre due contestazioni riguardano la pubblicazione dell’articolo e le registrazioni, entrambe strettamente connesse alla denuncia inviata all’Anac. Blandini però sottolinea che queste ultime contestazioni si basano su “fatti e circostanze oggettive” estranee alla denuncia. Quali? “Il responsabile dell’ufficio comunicazione della Siae aveva avuto numerosi colloqui con il giornalista del Fatto Quotidiano, Antonio Massari”, scrive Siae. E aggiunge: “Quest’ultimo ha sempre confermato, senza farne il nome, che la fonte delle notizie apparse sul giornale fosse un dipendente della Siae”. L’Anac deve aver preso per buona l’affermazione. E sentenzia: “Il licenziamento non è ritorsivo perché non è avvenuto a motivo della segnalazione, ma a causa del fatto che questa, e il suo relativo contenuto, sono stati resi noti al giornalista del Fatto con la conseguente divulgazione di notizie e documenti oggetto di segreto aziendale”. La legge protegge i whistleblower per la segnalazione dell’illecito all’Anac, e non ad altri soggetti. Giornalisti inclusi. Ma dov’è la prova? Non c’è. E soprattutto: la Siae, quando sostiene che il Fatto abbia dichiarato che la fonte era un suo dipendente, sostiene il falso. Ad ammetterlo, con grande correttezza, è proprio il suo direttore generale, che giorni dopo scrive all’Anac: “Sento l’obbligo di precisare che Massari non confermava che la fonte delle notizie apparse sul giornale fosse un dipendente Siae. Nella realtà dei fatti, egli ‘non smentiva’ di aver ricevuto tali informazioni da un dipendente Siae”. Ed è vero: né conferme, né smentite per non rendere identificabili le fonti. Ma allora: se non vi è prova che la fonte sia il dipendente, come ammette la stessa Siae, dov’è la prova che il licenziamento non sia ritorsivo? Nel documento prodotto dall’Anac, che giustifica il licenziamento, non si rinviene. Le fonti potevano essere tante. Il dipendente smentisce – peraltro sospetta, sbagliando, che i documenti possano essere stati divulgati al Fatto dalla Procura – ma la sua parola, alla fine, sembra valer meno di quella della Siae, nonostante la sua segnalazione sia risultata attendibile. Paradossale, no?

Mifsud, perché Conte si dice tranquillo

Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è sorpreso dalle “rivelazioni” di Fox News relative al caso Mifsud, diffuse in questi giorni anche dai giornali italiani, ma per nulla preoccupato.

Secondo l’emittente televisiva, infatti, durante una delle due visite effettuate a Roma, il 15 agosto e il 27 settembre, per incontrare i vertici dell’intelligence italiana, il ministro della Giustizia, William Barr e il procuratore John Durham – inviati da Trump per cercare di smontare il rapporto Mueller, al centro del Russiagate – avrebbero raccolto nuove prove per la loro contro-inchiesta. Secondo diverse ricostruzioni, Barr potrebbe mettere nero su bianco l’aiuto fornito agli Usa dai Servizi italiani, garantito anche dallo stesso Conte nei colloqui della scorsa estate.

Prima di riferire al Copasir, però, Conte si è fatto ribadire per iscritto dai tre capi dei Servizi – Gennaro Vecchione, del Dis, Luciano Carta, dell’Aise e Mario Parente, dell’Aisi – che negli archivi non figura nessuna informazione sugli agenti dell’Fbi in Italia nel 2016 (vale a dire, ai tempi delle rivelazioni di Mifsud sulle email di Hillary Clinton hackerate dai russi). Conte è dunque certo che la nostra Intelligence non abbia potuto passare nulla ai due visitatori americani. La lettura di Palazzo Chigi di quanto diffuso da Fox News è duplice: da un lato, l’Amministrazione Trump potrebbe tentare di tenere alto il livello di attenzione sul caso a scopo elettorale. Oppure, Barr e il suo vice, nelle loro visite in Italia, hanno davvero ottenuto informazioni utili alla loro indagine, ma non dai nostri Servizi, bensì da agenti americani in Italia che hanno a loro volta svolto indagini sui colleghi presenti sul suolo italiano ai tempi della campagna elettorale Trump-Clinton. Nessuno può escludere un ruolo di agenti italiani, in quel periodo, ma se quel ruolo fosse reale vorrebbe dire che è sfuggito a ogni registrazione o annotazione. Quel che gli 007 nostrani hanno garantito al premier è che negli archivi dei Servizi non c’è traccia di attività del genere.

Conte si dice dunque tranquillo perché sa che la sua versione – che ricalca pedissequamente quella fornitagli da Vecchione, Parente e Carta, presenti il primo a entrambi i colloqui con Barr e gli altri due al secondo (sempre in assenza del premier) – non può essere smentita a meno di notizie che a quel punto a Palazzo Chigi verrebbero bollate come una bugia.

L’operazione di Fox News punta invece a dare sostanza a un’ipotesi diversa, quella di un Conte che avrebbe dato una mano agli alleati statunitensi in un’impresa davvero molto controversa. Trump, infatti, vorrebbe dimostrare che la rivelazione da parte di Mifsud dell’hackeraggio subito da Hillary Clinton in realtà fosse una “trappola” contro lo stesso Trump per avvalorarne i legami con i russi, come poi si evincerà dal rapporto Mueller. Gli italiani avrebbero supportato nel 2016 (governo Renzi) la manovra e ora avrebbero, secondo queste indiscrezioni, garantito un supporto agli Usa nel disvelare la manovra stessa. Tutte illazioni finora smentite decisamente dal governo che, prima del Copasir, si è garantito una assicurazione scritta di quanto avvenuto.

Cancellata la norma per i big della Difesa: tensione nel governo

Come sempre capita in questi casi, non è stato nessuno: quella norma, evidentemente, si sarà scritta da sola e sempre da sola è finita in una bozza del decreto Fiscale. Ci riferiamo a quel piccolo comma, il secondo dell’articolo 54 per la precisione, inserito nel testo fino a venerdì pomeriggio, che consentiva alle industrie della difesa di partecipare ai bandi di gara per i fondi per la cooperazione internazionale del ministero degli Esteri. Quella disposizione, rivelata ieri dal Fatto, è sparita dal decreto firmato da Sergio Mattarella nel pomeriggio e poi pubblicato in Gazzetta Ufficiale.

“Lì dentro c’era una norma allucinante – si è vantato ieri Luigi Di Maio, che ha fatto muro sulla proposta – che permetteva alle industrie della difesa di accedere ai fondi per la cooperazione allo sviluppo in Africa”. Il ministero della Difesa guidato dal dem Lorenzo Guerini, principale sospettato per quel comma malandrino, ha fatto sapere ieri di non aver “mai avanzato una proposta per l’inserimento della norma”. Nessun altro ne ha rivendicato la paternità.

E allora? La gestione del testo, “approvato salvo intese” in Consiglio dei ministri, è stata del Dipartimento affari giuridici e legislativi (Dagl) di Palazzo Chigi, che ha coordinato quello dell’Economia, il quale fisicamente ha gestito il testo: difficile, come vedremo, che il “livello politico” – sottosegretari e ministri, almeno – non fosse informato dell’inserimento di una previsione del genere.

Lo scontro nel governo, insomma, è più profondo e politicamente rilevante di una semplice “manina” innescata dalla lobby di turno: “Il decreto è chiuso, tutto a posto – minimizza nel pomeriggio Giuseppe Conte – Poi per qualsiasi cosa ci fosse da sistemare, adesso c’è la conversione: abbiamo tutto il modo di fare le verifiche necessarie”. Verifiche che non sarebbero necessarie, però, visto che la norma senza padri è stata espunta.

Il fatto è che quella disposizione non è affatto senza padri ed è anzi stata preparata da una lunga interlocuzione tra le aziende del settore (colossi come Leonardo o Ge Avio) con rappresentanti di questo e del precedente governo: la ratio, sosteneva la relazione tecnica al decreto, era “eliminare uno svantaggio competitivo per il sistema produttivo nazionale”.

I fondi per la cooperazione allo sviluppo – quelli che finiscono realmente all’estero – ammontano a circa tre miliardi l’anno, una parte dei quali vengono assegnati tramite gare per specifici progetti. A questi vanno aggiunti i fondi investiti da enti para-pubblici tipo Cassa depositi e prestiti. Qual è il problema? Le aziende della difesa – che per la legge 185 del 1990 devono iscriversi in un registro per poter esportare armi – non possono poi partecipare (proprio in virtù di quella iscrizione) a progetti di cooperazione allo sviluppo. Lo squilibrio è dovuto al fatto che le aziende straniere del settore difesa, che non sono iscritte ad alcunché, possono invece tranquillamente concorrere ai nostri bandi.

La questione non sono solo o tanto i soldi che Leonardo e le altre potrebbero incassare, quanto i rapporti internazionali che cooperazioni di questo genere consentono di instaurare coi governi stranieri: una cosa tira l’altra, si parte con la cooperazione e si finisce per prendere qualche appalto per vendere armi, di cui – purtroppo – i paesi in via di sviluppo sono grossi acquirenti.

Questo disegno, che sembrava pacificamente accettato ai massimi livelli politici del governo, è stato invece denunciato da Di Maio, che lo ha fatto saltare sorprendendo e irritando – dicono fonti di governo – non solo il premier Conte, ma anche diversi esponenti dei 5 Stelle. Basti dire che della cosa si iniziò a parlare quando alla Difesa c’era, a nome del Movimento, Elisabetta Trenta.

Lasciare che le aziende della difesa potessero aggiudicarsi qualche progetto di cooperazione era, peraltro, una sorta di risarcimento rispetto a una scelta fatta proprio da Di Maio quand’era al Mise: destinare l’intera torta da poco meno di un miliardo dei finanziamenti allo sviluppo dell’aerospazio – finora per il 70% finiti agli usi militari – al solo settore civile. In soldi fa qualche centinaio di milioni in meno: una bella mazzata per le imprese di minori dimensioni, ma niente che possa preoccupare i colossi del settore. Gli investimenti pubblici in sistemi d’arma e ricerca militare, per non fare che un esempio, sono uno dei capitoli più rilevanti del fondo pluriennale da 46 miliardi istituito nel 2017: circa 9 miliardi tra droni (Piaggio), la nave nave Ussp (Fincantieri), gli elicotteri NH90 (Leonardo), eccetera, eccetera.

Al momento la lobby della difesa pare essersi rassegnata al ritiro della norma, anche se non è escluso – come dice Conte – che si facciano “verifiche” durante l’iter parlamentare: tanto più che la partita vera per il settore riguarda semmai la conferma dei 7,2 miliardi di investimenti aggiuntivi – oltre 2,2 miliardi interessano a Iveco – sbloccati dai ministeri di Sviluppo e Difesa a giugno.

Peppe il Rosso ha spiccato il volo dopo aver detto: “Preferirei di no”

Giuseppe Provenzano è uno dei pochi uomini ad aver scoperto il potere subito dopo averlo rifiutato, e proprio grazie a quel rifiuto. La sua ascesa si compie alla vigilia delle elezioni del 4 marzo 2018, che stanno per passare alla storia come quelle del tracollo del Partito democratico. Provenzano avrebbe un posticino nelle liste del Pd nella sua Sicilia, nel collegio plurinominale di Agrigento-Caltanissetta (lui è originario di Milena, comune nisseno).

È piazzato in seconda posizione, potrebbe anche essere eletto. Ma sopra di lui legge il nome (noto) di Daniela Cardinale: la figlia dell’ex ministro Totò.

Sull’isola quel cognome significa alcune cose chiare: Democrazia cristiana, preferenze, opportunismo politico e spericolati cambi di casacca (nella carriera di Salvatore Cardinale sono state collezionate, a spanne, le tessere di Dc, Ccd, Udeur, Margherita, Pd, Sicilia futura). La candidatura della figlia non si spiega per altre ragioni se non per “merito dinastico”.

Peppe Provenzano potrebbe starsene zitto e giocarsi la lotteria che conduce a Montecitorio: col senno di poi, avrebbe perso (la Cardinale sarà l’unica eletta del collegio). Invece parla, e cita Bartleby lo scrivano, il protagonista del racconto di Melville. Come lui, si impunta: “Preferirei di no”.

Lo fa al Nazareno, la notte del 27 gennaio 2018. Prende il microfono e lo tiene solo un minuto, quello che basta: “Non credevo più che nel Sud ci si dovesse impegnare per abolire l’ereditarietà delle cariche pubbliche, un principio sancito secoli fa. Nella mia provincia (Caltanissetta, ndr) 21 circoli su 22 si sono pronunciati contro la candidatura della capolista (Cardinale, ndr). Abbiamo detto che se non si fosse superato questo residuo feudale, avremmo riconsegnato le tessere del Pd. Io non restituisco la tessera, perché sono impegnato in questa campagna elettorale contro la destra. Ma non posso mettere la faccia su questo. Non solo io, ma l’intero Partito democratico, rischiamo di perderla. Ringrazio il segretario, ma rinuncio”.

Quella notte, dopo aver pronunciato queste parole, Provenzano non aveva in mano più nulla. Meno di due anni dopo è ministro del Sud e della Coesione territoriale nel secondo governo Conte. Cos’è successo nel frattempo?

Il segretario a cui Peppe “il Rosso” ha detto di no si chiamava ancora Matteo Renzi. Stava esercitando (in modo piuttosto arbitrario) le ultime stille del suo potere sul Pd: le liste elettorali. In quella stagione morente – per convinzione o per astuzia – Provenzano ha saputo leggere un’enorme opportunità. Il Pd si avviava al disastro dopo anni di moderatismo e spregiudicatezze: a sinistra si erano spalancate praterie.

Provenzano non ha fatto fatica a piazzarsi lì, al posto giusto e al momento giusto. Ha criticato in modo lucido e spietato le debolezze del partito di Matteo: “Le liste sono state compilate in maniera padronale. Renzi ha fatto quello che voleva, ma non è colpa solo sua, è mancata un’intera classe dirigente. Rispetto delle minoranze, regole interne, statuto: è saltato tutto. Sulla parità di genere, cos’è successo? Una vergogna”. E ancora: “I giovani ci speravano nella ‘rottamazione’, ma i renziani al potere per l’Italia erano e sono l’establishment e non smettono di esserlo: élite in negativo e non in positivo. Hanno fatto polemica sul curriculum di Di Maio, ma scusate qual era il loro curriculum, quale il curriculum di Luca Lotti, dei famigliari, dei trasformisti che ha raccattato nelle liste elettorali?”.

Nel cambio di stagione al Nazareno, Nicola Zingaretti ha puntato sulle potenzialità di questo 37enne: il suo era il profilo ideale.

Provenzano ha il volto pulito ed è giovane, ma è pure imbevuto di cultura politica: parla e scrive come se avesse studiato alle Frattocchie e imparato a memoria i testi sacri del comunismo italiano.

È legato ad Andrea Orlando e alla sua corrente, ma è riuscito a farsi percepire come una persona fuori dagli schemi conosciuti (e incancreniti) del partito.

Ha l’aria quasi pop, ma pure una formazione solida: si è laureato e dottorato in Economia all’Università di Siena (si è iscritto nel luglio 2001, nei giorni della morte di Carlo Giuliani a Genova, e ha passato la prova scritta l’11 settembre 2001) ed è vicedirettore della Svimez, l’associazione che studia ed elabora proposte per lo sviluppo del Mezzogiorno.

Ha firmato articoli su giornali e riviste (L’Unità, Repubblica, Huffington Post, Limes), ha pubblicato un saggio sulla sopravvivenza dei post comunisti (La sinistra e la scintilla) e un romanzo dalla scrittura estetizzante e dalle evocazioni sensuali (“Stravaganti voglie di amori perduti”).

Peppe il Rosso è rosso da testa a piedi. Il caschetto sobrio e ben curato, la barba in ordine, pure la montatura degli occhiali. È rossa la sua passione politica, sin da ragazzino, sono rosse le sue parole su lavoro, disuguaglianze e ingiustizie. Era il colore di cui aveva bisogno il Pd per chiudere definitivamente l’anemica stagione renziana e dare un segno di rinnovamento e discontinuità, così Zingaretti l’ha nominato responsabile del Lavoro.

Era il rosso di cui aveva bisogno Giuseppe Conte per accendere le timide tinte giallorosa del suo secondo governo, così gli è stato dato il ministero del Sud. Ed è proprio questa la vera incognita della vita “adulta” di Provenzano: ora deve dimostrare di non essere solo una figurina, o una passata di vernice vermiglio per coprire le macchie degli altri.

Con Renzi anche la miracolata e la figlia d’arte

Una è una miracolata del 4 marzo, l’altra – che evidentemente ai miracoli crede poco – si era preventivamente assicurata un posto, candidandosi altrove. Giuseppina Occhionero e Marietta Tidei sono le ultime due new entry di Italia Viva, il partito fondato da Matteo Renzi all’indomani della nascita del governo giallorosa.

Donne, quarantenni, oltre alla provenienza – la prima arriva da Leu, la seconda dal Pd – le divide la verve con cui hanno affrontato le elezioni politiche del 2018. Occhionero infatti quando ha saputo di avere un seggio a Montecitorio era a casa, in pigiama. È stata eletta con i “resti”, ovvero ripescata con i voti rimasti nel flipper impazzito del Rosatellum. Era candidata in Molise con Liberi e Uguali, la formazione nata dall’unione tra Sel e gli ex Pd confluiti in Articolo 1 in dissenso dalla gestione renziana.

Ecco, ora, l’avvocato di Termoli – appassionata di ginnastica calistenica – decide di entrare proprio nel partito da cui in teoria doveva essere più distante: “È un progetto coerente con la mia idea di fare politica – dice al contrario lei – con i miei valori, che punta sulle donne e che permette di dare centralità anche al territorio che rappresento, troppo spesso dimenticato”. E adesso lascerà il posto a fianco a Pier Luigi Bersani per trasferirsi nei banchi dell’emiciclo vicini a Maria Elena Boschi e soci.

Siede in tutt’altra aula, invece, Marietta Tidei. Già parlamentare dem nella scorsa legislatura, alla vigilia delle elezioni del 2018 aveva intuito la mala parata: il calo di consensi dei democratici non le avrebbe certo assicurato un posto, nemmeno a lei che è la figlia di un potentissimo esponente del Pd, l’ex sindaco di Civitavecchia Pietro Tidei, un tempo dirigente dell’ufficio legale di quell’Enel che proprio nella cittadina tirrenica ha uno dei suoi impianti più importanti.

Dunque Marietta, un anno fa, ha deciso di candidarsi ad un posto più sicuro, la regione Lazio di Nicola Zingaretti. Le è andata bene, ma adesso ha cambiato idea e se ne va con Renzi: “La mia decisione è stata sofferta, ma sono convinta e animata da un entusiasmo che non vivevo da tanto tempo”, racconta, assicurando che in ogni caso manterrà “totale lealtà” alla Giunta guidata dall’attuale segretario del Pd. Forse, sotto sotto, ai miracoli un po’ ci crede pure lei.