“Ti prego non lo fare”. Si racconta che quando Dario Franceschini annunciò a Enrico Letta che avrebbe appoggiato Matteo Renzi al congresso Pd del 2013, la reazione dell’allora premier fu questa. “Follow Dario” si potrebbe dire parafrasando il noto detto “Follow the money”. Dove va il ministro della Cultura, va il potere. “Non posso essere il numero 1? L’importante è stare nella stanza dei bottoni e comandare il più possibile”. Chi lo conosce bene, racconta che il capo delegazione dem al governo (ovvero, il vicepremier ombra) ragioni sostanzialmente così. Oggi, dunque, l’obiettivo numero 1 è condizionare l’azione di governo il più possibile.
Per questo, Dario si è organizzato al meglio. Voleva uno staff tecnico a Palazzo Chigi, da affiancare a quello di Giuseppe Conte. L’operazione non è andata in porto. Ma ha avuto comunque l’ufficio: due stanze, in cui fare vertici. E, soprattutto, si è organizzato con lo staff al ministero. Due le caselle centrali in questo schema: Paolo Aquilanti e Daria Perrotta. Il primo ha l’incarico di consigliere per i Rapporti con il Parlamento; in passato è stato capo dei Rapporti con il Parlamento con Maria Elena Boschi e Segretario generale di Palazzo Chigi con Renzi. Fu lui che s’inventò il “canguro”, ovvero l’emendamento diabolico che permise di eliminare in Senato in un colpo gli emendamenti alla Riforma costituzionale di Renzi e Boschi. La Perrotta, viceversa, era stata capo segreteria della Boschi a Palazzo Chigi, è rimasta con Giorgetti come capo della segreteria del Consiglio dei Ministri. Ora, il suo incarico è consigliere per gli Affari economici. A loro va aggiunta Annalisa Cipollone, capo dell’ufficio legislativo al Mibact. È stata il Capo dipartimento per il coordinamento amministrativo della Boschi a Palazzo Chigi. Sono loro quelli che hanno l’incarico di gestire la macchina del governo per conto di Franceschini.
Cavalli di Troia di Renzi per rovesciare Giuseppe Conte e portare il ministro della Cultura a diventare premier? Lo scenario è suggestivo e pure nell’ordine delle possibilità, ma anche di difficile realizzazione. Perché Franceschini sa che i Cinque Stelle non potrebbero mai reggere un premier del Pd e sa anche che è meglio non consegnarsi a Matteo. E perché Sergio Mattarella è perplesso sull’eventualità di un altro governo in questa legislatura. Quindi, sempre nella logica che è meglio gestire il noto che precipitare nell’ignoto, la scelta di questi tre profili serve a Franceschini anche per mantenere un rapporto privilegiato con Renzi.
“Mediare”, “tallonare”, “proteggere”: è questo il metodo che sta utilizzando nei confronti di Conte. Mentre fa l’ufficiale di collegamento con Nicola Zingaretti, che si preoccupa di tenere informato su ogni movimento: meglio evitare che si senta escluso, pure se dentro al Pd è Franceschini a essere considerato il vero segretario (nel senso di quello che decide). Per l’Umbria, i contatti con Walter Verini li ha tenuti lui. Ed è sua la regia dell’operazione che ha portato alla candidatura di Bianconi. Nota: venerdì era da quelle parti, ma a Narni non si è fatto vedere. Meglio stare un passo indietro, anche per non urtare la sensibilità altrui.
Ancora, è Franceschini a tenere i rapporti con Luigi Di Maio. “Molto meglio di quanto mi aspettavo”, pare vada ripetendo. D’altra parte è la filosofia di Mattarella, con cui Franceschini ha un rapporto diretto e di antica fiducia: il ministro degli Esteri va “educato” e “fatto crescere”. In questo percorso, aiuta anche Ugo Zampetti, oggi segretario generale del Quirinale, già segretario generale della Camera quando Franceschini era capogruppo del Pd, ma anche quando Di Maio era vice presidente di Montecitorio.
Non rompere mai, piuttosto accordarsi con il nemico, è un altro dei mantra di Dario. Dalle origini. Nel ‘99 sfidò Castagnetti per la segreteria del Ppi. Ne uscì sconfitto, ma una settimana dopo entrò in segreteria, come responsabile per la comunicazione.