“Follow Dario”, trovi il potere. Il dem che studia da premier

“Ti prego non lo fare”. Si racconta che quando Dario Franceschini annunciò a Enrico Letta che avrebbe appoggiato Matteo Renzi al congresso Pd del 2013, la reazione dell’allora premier fu questa. “Follow Dario” si potrebbe dire parafrasando il noto detto “Follow the money”. Dove va il ministro della Cultura, va il potere. “Non posso essere il numero 1? L’importante è stare nella stanza dei bottoni e comandare il più possibile”. Chi lo conosce bene, racconta che il capo delegazione dem al governo (ovvero, il vicepremier ombra) ragioni sostanzialmente così. Oggi, dunque, l’obiettivo numero 1 è condizionare l’azione di governo il più possibile.

Per questo, Dario si è organizzato al meglio. Voleva uno staff tecnico a Palazzo Chigi, da affiancare a quello di Giuseppe Conte. L’operazione non è andata in porto. Ma ha avuto comunque l’ufficio: due stanze, in cui fare vertici. E, soprattutto, si è organizzato con lo staff al ministero. Due le caselle centrali in questo schema: Paolo Aquilanti e Daria Perrotta. Il primo ha l’incarico di consigliere per i Rapporti con il Parlamento; in passato è stato capo dei Rapporti con il Parlamento con Maria Elena Boschi e Segretario generale di Palazzo Chigi con Renzi. Fu lui che s’inventò il “canguro”, ovvero l’emendamento diabolico che permise di eliminare in Senato in un colpo gli emendamenti alla Riforma costituzionale di Renzi e Boschi. La Perrotta, viceversa, era stata capo segreteria della Boschi a Palazzo Chigi, è rimasta con Giorgetti come capo della segreteria del Consiglio dei Ministri. Ora, il suo incarico è consigliere per gli Affari economici. A loro va aggiunta Annalisa Cipollone, capo dell’ufficio legislativo al Mibact. È stata il Capo dipartimento per il coordinamento amministrativo della Boschi a Palazzo Chigi. Sono loro quelli che hanno l’incarico di gestire la macchina del governo per conto di Franceschini.

Cavalli di Troia di Renzi per rovesciare Giuseppe Conte e portare il ministro della Cultura a diventare premier? Lo scenario è suggestivo e pure nell’ordine delle possibilità, ma anche di difficile realizzazione. Perché Franceschini sa che i Cinque Stelle non potrebbero mai reggere un premier del Pd e sa anche che è meglio non consegnarsi a Matteo. E perché Sergio Mattarella è perplesso sull’eventualità di un altro governo in questa legislatura. Quindi, sempre nella logica che è meglio gestire il noto che precipitare nell’ignoto, la scelta di questi tre profili serve a Franceschini anche per mantenere un rapporto privilegiato con Renzi.

“Mediare”, “tallonare”, “proteggere”: è questo il metodo che sta utilizzando nei confronti di Conte. Mentre fa l’ufficiale di collegamento con Nicola Zingaretti, che si preoccupa di tenere informato su ogni movimento: meglio evitare che si senta escluso, pure se dentro al Pd è Franceschini a essere considerato il vero segretario (nel senso di quello che decide). Per l’Umbria, i contatti con Walter Verini li ha tenuti lui. Ed è sua la regia dell’operazione che ha portato alla candidatura di Bianconi. Nota: venerdì era da quelle parti, ma a Narni non si è fatto vedere. Meglio stare un passo indietro, anche per non urtare la sensibilità altrui.

Ancora, è Franceschini a tenere i rapporti con Luigi Di Maio. “Molto meglio di quanto mi aspettavo”, pare vada ripetendo. D’altra parte è la filosofia di Mattarella, con cui Franceschini ha un rapporto diretto e di antica fiducia: il ministro degli Esteri va “educato” e “fatto crescere”. In questo percorso, aiuta anche Ugo Zampetti, oggi segretario generale del Quirinale, già segretario generale della Camera quando Franceschini era capogruppo del Pd, ma anche quando Di Maio era vice presidente di Montecitorio.

Non rompere mai, piuttosto accordarsi con il nemico, è un altro dei mantra di Dario. Dalle origini. Nel ‘99 sfidò Castagnetti per la segreteria del Ppi. Ne uscì sconfitto, ma una settimana dopo entrò in segreteria, come responsabile per la comunicazione.

Lo scatto c’è ma si vede pochissimo: Zinga si giustifica, Di Maio lo nasconde

Prima di partire per Narni, l’altro ieri, dal quartier generale del Nazareno non facevano altro che ripetere “non c’è nulla di cui vergognarsi”. Sono al governo insieme, in Umbria sostengono lo stesso candidato, progettano perfino di allearsi alle prossime regionali: che sarà mai una foto? E invece, a ventiquatt’ore di distanza, lo scatto della prima volta insieme di Luigi Di Maio, Nicola Zingaretti, Giuseppe Conte e Roberto Speranza è quasi sparito dai radar. O meglio, non si è mai avvistato. Le tv hanno ripreso l’evento di Narni, i giornali hanno pubblicato l’immagine, ma sui social – quelli che vanno dritti alla pancia dell’elettorato -il fotogramma è semiclandestino. Nicola Zingaretti, va detto, ha mantenuto fede alle riflessioni della vigilia: e siccome lui non si vergogna, la foto su Facebook l’ha messa. Preceduta però da una scusa non richiesta: “Sono qui per un motivo molto semplice: amo l’Umbria, l’Italia ama l’Umbria, il mondo ama l’Umbria. A chi mi chiede perché siete uniti, io dico: non poteva essere diversamente, qui c’è una sfida”. Nessuno gliel’aveva chiesto, ma tant’è: ci ha messo la faccia e pure la foto.

Tutt’altra aria dalle parti di Luigi Di Maio: per Instagram Narni non è mai esistita, su Facebook c’è un annuncio (“Ci vediamo alle 11 a Narni con Vincenzo Bianconi!”, scrive alle 9.27 come se fosse un tete a tete) e poi una diretta video presentata così: “A Narni per illustrarvi i dettagli della manovra del Governo. Collegatevi!”. Il video si apre con l’immagine del podio vuoto, la telecamera scorrendo inquadra sul palco due soggetti non meglio identificati (vi sveliamo un segreto: sono Zingaretti e Speranza), poi Di Maio arriva, parla per 11 minuti e la diretta finisce lì, basta e avanza. Perfino a sera, ai giornalisti che gli chiedevano un bilancio di quella storica giornata, lui rispondeva omertoso come non mai: “Sono contento di essere stato insieme a Conte a Narni”.

Ecco. E Conte? Ai suoi ha confidato di essere “tranquillo” e di non temere scossoni su palazzo Chigi. Ma sulla foto segue la linea Di Maio: niente Instagram, mette la diretta Facebook del suo intervento che, se non altro, si conclude con le strette di mano con i tre colleghi di governo. L’unico assai generoso nella pubblicazione delle immagini è Roberto Speranza, il ministro in quota LeU. La mette su tutti i suoi canali social e accompagna la foto con un messaggio perfino emozionato: “Uniti per costruire un Paese più giusto. In cui nessuno resti indietro”.

È evidente che dall’evento di Narni c’è chi ha un po’ da guadagnare e chi parecchio da perdere. “Sappiamo com’è composta la nostra base social – ragionano gli spin doctor 5 Stelle – sarebbe stato inutile condividere quella foto, ci avrebbero riempito di insulti”. Non solo perché la scelta del governo giallorosa non è ancora stata digerita, ma soprattutto perché le perplessità sull’accordo in Umbria, anziché diminuire, con l’avvicinarsi del voto sono aumentate. La scelta di salire tutti sullo stesso palco è stata più che altro una necessità: le previsioni che arrivano dall’Umbria non sono buone e bisognava mobilitare il più possibile i portatori di voti del territorio per sperare in un recupero sul finale. Ma meglio che rimanga circoscritto lì: “La nostra base non è ancora pronta, è una cosa un po’ nuova per noi: fino ad agosto eravamo insieme alla Lega, un anno e mezzo fa non era nemmeno ipotizzabile governare con un altro partito. Facciamo fatica a diffondere pubblicamente una immagine che dimostri plasticamente che siamo alleati col Pd”.

Ecco perché la foto non si vede. Avevano ragione quelli del Pd: non c’è nulla di cui vergognarsi. Però magari, la prossima volta, telefonatevi.

“Un colpo se perdono, ma quella fotografia è un segnale di unità”

Due giorni fa, la foto tutti insieme – Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti – in chiusura della campagna elettorale per le Regionali umbre. Oggi fianco a fianco sulla scheda, il simbolo del M5S e quello del Pd a sostegno del candidato civico Vincenzio Bianconi. Un’alleanza necessaria a contrastare Donatella Tesei e l’avanzata di Lega, Forza Italia e FdI nelle Regioni. Se quella foto avrà spostato consensi lo sapremo a urne chiuse, intanto però il messaggio politico non è da sottovalutare: “Per la prima volta segnala unità di intenti, non è poco”. Parola di Gianfranco Pasquino, Professore Emerito di Scienza Politica all’Università di Bologna.

Professore, Pd e M5S hanno provato a mandare un messaggio di unità con la foto di due giorni fa. Funzionerà?

Di certo è apprezzabile, dimostra la volontà di non perdere l’Umbria. Non tanto per l’importanza della Regione in sé, quanto perché sarebbe un segnale molto negativo sia per il governo che per i partiti che compongono la maggioranza. Mi pare che però abbiano maturato la consapevolezza di dover stare insieme.

L’alleanza era necessaria?

Non c’era altro modo. Zingaretti lo ha capito subito e ha operato in questo senso. Se andasse bene, gli andrebbe dato atto di questo successo. Il Movimento 5 Stelle era parecchio riluttante, ma ha accettato perché ha compreso che le cose sarebbero andate di certo molto male. Nel caso l’esperimento riuscisse, potrebbero riproporlo altrove.

Quella foto serve a fare da contraltare al centrodestra, ricompattatosi a Roma?

Che il centrodestra sia unito alla Regionali non è una novità. Semmai la novità è che Salvini, nonostante l’alto gradimento, ha capito che per vincere ha comunque bisogno di Berlusconi e Meloni.

Un leitmotiv del lessico politico paragona ogni Regione in bilico all’Ohio, Stato americano in cui spesso si decidono le sorti dei presidenti.

Le elezioni umbre hanno senz’altro un valore più che regionale, ma sono casi molto diversi. Intanto perché in Ohio si elegge davvero il presidente americano e qui si decidono le sorti di un governatore, e poi perché in quello Stato democratici e repubblicani sono sempre stati in bilico, l’Umbria viene da cinquant’anni di storia di sinistra. Una sconfitta del centrosinistra sarebbe il segnale di un cambiamento sociale che non si può ignorare.

Vedere sulla scheda i simboli del Pd e del M5S uno di fianco all’altro farà un certo effetto ai loro elettori.

Credo che non sarà un effetto più di tanto straniante. È un progetto interessante che potrebbe essere il futuro di questo Paese, per quanto il nostro sistema partitico sia ormai talmente destrutturato da poter cambiare rapidamente. Ma ho una certa fiducia che i rispettivi elettori di 5 Stelle e Pd capiscano che serviva una coalizione, allo stesso modo in cui è servita a Roma per tenere lontano Salvini dal governo.

In caso di vittoria del centrodestra, Conte rischierebbe? Renzi non è andato a Narni e sembra spingere per un cambio nell’esecutivo.

Non penso si arriverà a tanto, e spero di no. Sarebbe una pessima idea per chiunque destabilizzare il governo dall’interno. Certo, in quel caso Salvini griderà che c’è una maggioranza alternativa, ma la realtà è che 700 mila elettori non possono ribaltare il voto delle Politiche di un anno fa.

Però rispetto a quando è nato il governo Conte 2 c’è un partito in più in maggioranza.

Io ero d’accordo con l’esperimento Pd-M5S, ma in effetti le manovre dei renziani mi hanno fatto venire qualche dubbio. La scelta era salvare i suoi parlamentari, che sarebbero andati a casa con nuove elezioni, o favorire la Lega. Diciamo che considero ancora la prima ancora l’opzione preferibile, ma dopo la nascita di Italia Viva ho molte più riserve.

L’Umbria va al voto: il vero test è per la coalizione giallorosa

È il primo test locale per l’asse Pd-5Stelle, ma è anche il primo dei tre fortini rossi – assieme a Emilia Romagna e Toscana – che da qui a un anno potrebbero cedere all’avanzata leghista. Oggi si vota in Umbria per scegliere il presidente della Regione: da una parte Donatella Tesei, senatrice leghista sostenuta anche da FI e FdI, dall’altra Vincenzo Bianconi, espressione dell’anomala coalizione centrosinistra-5 Stelle. Nel mezzo, comunque decisivo per l’esito del testa a testa, il civico Claudio Ricci.

Per legge i sondaggi sono fermi a 15 giorni fa, quando la Tesei era data avanti da quasi tutti gli istituti con una forbice tra i cinque e i dieci punti. Nulla che non sia ribaltabile tra margine di errore, voto degli indecisi e ultime settimane di campagna elettorale, che rendono comunque in bilico la presidenza della Regione. Per provare il colpaccio i leader della coalizione di governo – Renzi escluso – si sono ritrovati due giorni fa a Narni, in provincia di Terni, per sostenere Bianconi e consegnare all’opinione pubblica la prima foto di Conte, Zingaretti e Di Maio insieme in piazza.

Abbastanza per strappare consensi? Secondo Michela Morizzo, vicepresidente di Tecné, l’obiettivo era chiaro: “L’Umbria è una Regione storicamente di sinistra, in cui però c’è appena stato uno scandalo che ha coinvolto la giunta Marini. Anche per questo, si è creata una larga fetta di indecisi, costituita per lo più da elettori di sinistra delusi”. A loro è rivolta quella foto: “È un segnale importante di unità, poi bisognerà vedere se davvero convincerà gli indecisi”. Molto cauto, al riguardo, è Marco Valbruzzi dell’Istituto Cattaneo: “Non credo che quella foto avrà effetti positivi, anzi. Tra gli elettori di 5 Stelle e Pd ci sono molte persone che ancora mal digeriscono l’accordo. È stata una foto opportunity importante più per il dibattito pubblico e per le cronache politiche che per gli umbri”.

Concetto simile a quello espresso da Antonio Noto (Noto Sondaggi), secondo cui il consenso “ha bisogno di sedimentarsi” e difficilmente “può cambiare due giorni prima del voto solo perché si è portato i big a un evento”. In coerenza con quanto sostenuto da Morizzo, allora, la foto di Narni può ambire a riportare a casa qualche indeciso, più che a strappare elettori alla destra. A livello di immagine, però, c’è un altro effetto, come sottolinea il direttore scientifico di Swg, Enzo Risso: “Serviva dare un’alternativa alla manifestazione di piazza San Giovanni del centrodestra unito. Si dà l’idea di due fronti contrapposti che sembrano superare il tripolarismo che abbiamo avuto fino alle elezioni del 2018”. Anche alla luce di questo, il voto umbro sarà letto in chiave nazionale: “A differenza delle Comunali, le Regionali sono assimilabili alle politiche perché spesso il candidato non è molto conosciuto. In Abruzzo e in Basilicata, per dirne due, abbiamo visto che il centrodestra ha vinto pur non avendo candidati particolarmente forti”.

“Sarà un test per la maggioranza, più che un giudizio sull’operato del governo Conte”, dice invece Risso. E in effetti le cose sono ben distinte, soprattutto se si considera che l’asse potrebbe essere riproposto in altre Regioni. Secondo Valbruzzi, i voti per le singole Regioni non sono infatti elezioni isolate: “Si vota senza dubbio per il partito e il candidato, ma spesso si crea un effetto cascata da una Regione all’altra, una sorta di contagio per cui se per esempio la Lega dovesse trionfare in Umbria potrebbe trarne beneficio anche in Emilia. Viceversa, ovviamente, Pd e 5 Stelle potrebbero riproporsi con successo”.

Se però, come detto, è possibile dare letture nazionali del voto, va ricordata la specificità dell’Umbria: “Si vota un anno prima della scadenza della legislatura – ricorda Morizzo –. L’effetto dello scandalo sanitario locale potrebbe avere un’influenza che non c’entra nulla con il consenso al governo”.

L’ora del cretino

Siccome la mamma dei cretini è sempre gravida, pare che i “malpancisti” 5Stelle stiano aspettando con ansia una bella sconfitta oggi in Umbria per chiedere domani a Casaleggio (che non si sa cosa c’entri) un’assemblea in cui “ridiscutere tutto”. Per “malpancisti” s’intendono ex ministri e (specialmente) ministre che a settembre hanno scoperto improvvisamente insanabili dissensi da Di Maio per il più nobile degli ideali: hanno perso la poltrona. Da allora non fanno che rilasciare dichiarazioni e interviste, ma soprattutto a insufflare maldicenze all’orecchio dei retroscenisti dei giornaloni sempre a caccia di “rivolte”, “scissioni”, esodi di massa. Mai un’autocritica o una proposta di linee politiche o di leader alternativi. Si limitano a frignare, rosicare, fare le faccette malmostose, secernere bile, seminare zizzania. Cosa vogliano – a parte il recupero delle cadreghe – non lo sa nessuno, tantomeno loro.

Il fatto che i 5Stelle, precipitati al 17% alle Europee e poi più giù per l’alleanza con la Lega e tornati sopra al 20% col governo giallorosa, non li riguarda. Il fatto che un anno fa fossero lì a parlare di condoni, spread alle stelle, procedure di infrazione, porti chiusi (per finta) e ruberie leghiste, mentre ora hanno ottenuto il taglio dei parlamentari, le manette e altri dissuasori anti-evasione, salvato il reddito di cittadinanza e la blocca-prescrizione che Salvini voleva cancellare, non li tange. Il fatto di essere protagonisti di un governo senza impresentabili, guidato da un premier serio come Conte che ha ricompattato il movimento dopo anni di duelli fra Di Maio, Fico, Di Battista&C., e ha riportato Grillo in prima linea, non li smuove. L’idea di avere alleati che li rispettano anziché umiliarli pubblicamente e fregarli sottobanco come il Cazzaro Verde, non li rallegra, anzi li irrita. Accusano Di Maio di comandare da solo proprio quando ha smesso di farlo, mentre quando lo faceva gli leccavano i piedi dalle loro poltrone. Ora che ha gestito una crisi potenzialmente mortale coinvolgendo tutti, dagli altri big ai gruppi parlamentari agli iscritti, e ottenendo il massimo possibile, ne chiedono la testa, come se avessero pronto un Cavour o un Churchill da mettere al suo posto. Pare che non abbiano digerito l’alleanza civica in Umbria e non vogliano replicarla nelle altre regioni al voto: oh bella, pensano di vincere da soli, dopo aver perso in 10 anni di vita tutte le Regionali? E come sperano di far rieleggere sindache forti come Raggi e Appendino, senza dialogare col Pd su governatori forti (e presentabili) come Bonaccini in Emilia ed Emiliano in Puglia? Il problema dei “malpancisti” non è la pancia. È la testa.

“Santa Subito”, vittima dello stalking quando ancora non era un reato

Cronaca di una morte annunciata. Senza retorica, così si è consumato il destino di Santa Scorese, accoltellata sotto casa dal suo stalker nel marzo 1991: aveva 23 anni e una vita alimentata da vitalità contagiosa e fede profonda. In Italia lo stalking (col tragico esito in omicidio) è diventato reato solo 18 anni dopo, con tutte le colpe retroattive del caso. Con il rispetto e la partecipazione attiva dei famigliari, ma anche delle regole del documentario narrativo, Alessandro Piva ha realizzato Santa Subito, il secondo titolo italiano in Selezione ufficiale alla Festa del Cinema di Roma. Dedicato esplicitamente “a chi deve sopravvivere”, il documentario vive del ricordo di chi conosceva la ragazza barese ma anche del “thriller” che accompagna il suo assassinio, causato da uno psicopatico che da tre anni la perseguitava. “Ma allora queste persecuzioni erano denunciate senza una definizione legale, rimanendo inascoltate” accusa Piva, accompagnato alla Festa dalla sorella della vittima, Rosa Maria – impegnata nella divulgazione della letale ingiustizia subita da Santa – e dai suoi genitori, il cui dolore è ancora palpabile. Documentario necessario e che presto sarà diffuso da associazioni, enti e scuole, è una vera e propria “matrioska” di riflessioni, poiché non solo denuncia le tuttora persistenti inefficienze delle istituzioni in materia di violenza sulle donne (si conta un femminicidio ogni 72 ore in Italia) ma affresca una società culturale meridionale fatta di pudori e dignità, pervasa da quel senso sacro della vita quale chiave di lettura della gestione di un dolore così inaccettabile come quello degli Scorese.

Tra canne e noia, “Volare” con la meglio gioventù Trap

Cosa c’è dietro la trap, dietro le facce tatuate, dietro la droga, dietro la musica che fa ballare i ragazzini, che fa milioni di visualizzazioni su YouTube, che riempie i locali e muove un’industria fino all’altroieri considerata agonizzante?

La risposta – o almeno una delle risposte – prova a cercarla Volare, il documentario prodotto da Michele Santoro e dalla sua Zerostudio’s e realizzato da Ram Pace, Luca Santarelli e Cecilia Sala (sarà presentato stasera alle 19 ad “Alice nella città”, la rassegna della Festa del Cinema di Roma dedicata alle giovani generazioni).

Cosa si muove sotto ai trapper di successo, dietro Ghali, Sfera Ebbasta, la Dark Polo Gang, quelli che fanno “i numeri” sui social e nelle classifiche? Un esercito di ragazzi che provano a essere identici a loro: la stessa estetica, gli stessi tatuaggi, lo stesso esibizionismo. Sognano di farcela allo stesso modo.

L’ambizione può sembrare scontata, ma le storie che racconta Volare non lo sono affatto. Le biografie dei giovani uomini che si prestano alla telecamera per parlare di sé, del proprio vissuto e dei propri sogni sono ricchissime, piene di umanità e di violenza.

Molto diverse l’una dall’altra, ma con la stessa divorante aspirazione: la musica, la fama, il riconoscimento degli altri, i soldi.

Tra i protagonisti del documentario c’è Carlo Santus – in arte Jama Don – che si svela alla telecamera di fronte al paesaggio delle colline di Campagnano, a nord di Roma. La madre cresciuta in un campo rom, il padre violento. “Ci veniva a prendere a scuola e ci lasciava chiusi in macchina al caldo, mentre giocava con le macchinette. Ricordo la scena di lui che prende la mano di mamma, la sbatte contro il muro e le dà una martellata. Quel giorno ho reagito, sono salito su una sedia in cucina, ho preso un coltello e gli ho detto: ‘Quando avrò 10 anni ti farò a pezzi’”.

C’è Andreij detto Yolo, figlio di immigrati romeni arrivato a Pantigliate, nell’hinterland milanese, quando aveva 8 anni. Un tatuaggio blu sulla guancia destra e uno rosso su quella sinistra, racconta la scena del suo arresto per possesso di droga, il rimpianto per il dolore dato ai genitori, le gioie della libertà ritrovata, il nulla della sua vita in periferia, dove lo accende solo la musica. C’è Christian King di Livorno, vittima di bullismo quando era ragazzino, che ha trovato il suo personale riscatto e una fama effimera sui social network grazie a un video su YouTube in cui indossa vestiti da 50mila euro. E infine c’è Nicolò, nome d’arte Chfnik, che a differenza dei coetanei di Volare non è cresciuto nella marginalità, ma con una famiglia borghese e una bella casa sui Navigli. Ma pure lui – che ha lasciato un lavoro da chef – ha un solo desiderio: sfondare con la trap.

A prescindere dall’estrazione, il punto di vista di questi quattro ragazzi sul mondo è simile. Volare lo racconta con intelligenza, senza giudizi. Nei loro discorsi si inseguono gli stessi temi: la droga, l’ansia sociale (e social), la solitudine sociale, l’assenza di radici; il bisogno – più che di apparire – di essere visti, di essere riconosciuti.

Alle loro parole si alternano quelle dei “grandi”, due musicisti che si sono già affermati sulla scena trap nazionale, Ketama 126 e Side Baby: testimonianze senza filtro, a tratti allucinate.

In Rehab, una delle canzoni che l’hanno reso famoso, Ketama canta due versi che potrebbero essere considerati un manifesto della trap: “Parlo sempre di droga perché non facciamo altro. Non ho contenuti perché sono vuoto dentro”.

In una chiacchierata prima del suo concerto al Rock in Roma, questa estate, aveva provato a togliere qualsiasi peso a quelle parole: “Non vogliono dire niente, non hanno significato, mi piaceva solo come suonavano, le ho scritte di getto”. In questo vuoto c’è molta più politica di quanto possa sembrare. Ma è davvero difficile trovare un senso a queste storie. Si possono raccontare e basta.

Danti, “addio salone da parrucchiere” Ora è pronto a vivere solo di successi

Il suo cruccio? Dover passare la mano nel salone da parrucchiere che aveva aperto a vent’anni a Nova Milanese. “Ormai era troppo complicato. Magari tornavo da Los Angeles dopo una produzione internazionale, e mi trovavo qualche cliente che brontolava perché le avevano nascosto lo shampoo. O certe madri che mi riprendevano con lo smartphone dopo avermi costretto a sforbiciare i capelli dei bambini, anche quando li avevano cortissimi”. Così, da qualche mese, Danti (al secolo Daniele Lazzarin) non è più un rapper-coiffeur con un passato nei Two Fingerz (“il nostro primo disco vendette la bellezza di 842 copie”, sospira), ma il producer-autore-musicista-cantante che dopo aver firmato successi per Renga, Annalisa, Chiara Galiazzo o con Gabry Ponte e soprattutto i tormentoni multiplatino di Rovazzi, apre una nuova fase artistica sparando cartucce in rapida successione.

Nessun album in vista – per scelta – ma un singolo qualche settimana fa (Mettere a posto), un minicartoon autoironico con Fiorello e lo stesso Rovazzi (Se stai zitto fai un figurone), e giusto ieri la nuova bomba techno-pop con la partecipazione di Nina Zilli e J-Ax, Tu e D’io, che dietro il calembour paraculo con l’apostrofo agita l’acqua santa in un modo che trent’anni fa sarebbe valsa una scomunica. Canta infatti Nina: “Ave o Maria/Piena di ansia/Fare i miracoli/A volte non è abbastanza/E così sia cammino sull’acqua/E prendo il sole crocifissa sulla spiaggia” mentre J-Ax nota che “La tecnologia è il nuovo Dio/Io non sono salvo/Nel nome dell’iPad, iPhone e dello Spirito Samsung”. Danti si autoassolve: “Se è per questo io canto di ‘una vita sbagliata che mi fa bestemmiare’, ed è un omaggio a Dalla che veniva censurato, al cantautorato italiano che ha faticato per arrivare fin qui. E, in un ritornello spero contagioso, l’ascoltatore meno distratto troverà molteplici chiavi di lettura. Qui uso il linguaggio della Chiesa per dire che la ricerca del nostro vero io è dentro di noi, e nelle persone che amiamo”.

Danti gioca con i “sottomondi” e i metalinguaggi celati in profondità, dentro filastrocche contemporanee. “Non esiste più la divisione settaria tra musica d’autore e intrattenimento, tutto va rimescolato. In Senza Pensieri, l’ultima cosa fatta insieme a Rovazzi, ad ascoltare con attenzione si notano tante delle cose che non vanno nell’Italia di oggi. A proposito”, aggiunge ridendo, “Fabio è molto più rompicoglioni di me quando elaboriamo il linguaggio sottile”. L’altro compagno di merende di Danti è Fiorello, che dopo l’esperienza nell’Edicola lo ha rivoluto in Viva Rai Play: debutto in tv il 4 novembre, poi on demand dal 13. “Fiore è il traghettatore di un format con contenuti generalisti dal piccolo schermo a internet. Pensavo che fare televisione fosse più facile, con lui è come intraprendere un master. Farò il jolly, scenderò in campo quando servirà. Ma non voglio cedere di un passo nella musica. Lì il gioco finisce quando finisce la fame, e io ho fame come il primo giorno”.

Sally, Alice, Lia: le muse dei capolavori da cantautore

Sono troppe. Altro che il catalogo mozartiano di Leporello. È una folla sterminata, quella delle figure femminili immortalate nel canzoniere italiano. I trovatori pop da sempre le celebrano, vituperano, amano, odiano. Alcune nascono dalla loro fantasia, altre ne pescano dalla cronaca, dalla letteratura, dalle vicende private. Al libertino Mogol i testi sono spesso serviti per rimorchiare o farsi perdonare. Con Battisti a fargli da compare mettendo musiche sulla citazione di Francesca, Linda, Anna e le altre, e gli italiani coristi ignari per le sortite del poeta. Come con “29 settembre”, giorno del compleanno di sua moglie, Mogol fedifrago seduto in quel caffè che non pensava a lei. E l’innocenza? Sì, la cantina buia. Ma quel candore si corrompeva presto, e pure Vasco ci avrebbe messo il carico: Albachiara ispirato al flirt con la Parietti? No, alla tredicenne Giovanna, figlia del proprietario del bar di fronte alla tana dove il già adulto Rossi preparava esami. La ragazzina non apprezzò quel ritratto così intimo: Vasco cercò di farsi perdonare con Una canzone per te, senza perdere però il vizio di tracciare bozzetti dove ci vedi Jenny, Laura (la futura compagna), Gabri, Silvia, una Brava che era Barbara D’Urso, sua passione di gioventù, o una Delusa da pescare tra le neopuberali di Non è la Rai di Gianni Boncompagni, ma potrebbe non essere Ambra Angiolini. Quanto a Sally, nacque a Saint-Tropez sullo yacht del manager, Rovelli: un carosello di bellezze ronzava attorno ai playboy della Costa Azzurra, Vasco si innamorò di tutte senza possederne alcuna. Si consolò componendo la ballata-capolavoro, vai a capire certi giri mentali.

Il gineceo di Venditti? Non basterebbe la memoria di uno smartphone. Antonello cominciò a 14 anni lagnandosi con un’anziana Sora Rosa (calco della nonna) della sua solitudine di liceale bullizzato. Voleva allontanarsi da quella realtà opprimente, ma poi restò sempre lì, a ronzare tra liceo e collettivi. Lilly era l’amica perduta nel veleno dell’eroina, ma Sara col pancione a 18 anni induceva a sperare: ed era, questa, una compagna di scuola di Simona Izzo, grande amore e moglie di Antonello. Quando il loro matrimonio finì il Nostro scappò a Milano, rimuginando uno slogan di sopravvivenza, Ci vorrebbe un amico: ne trovò due, uno era il meccanico Romolo, l’altro Lucio Dalla, che indusse il collega a rientrare a Trastevere. Venditti bardo e terapeuta dei cuori altrui: tra Marta e Giulia, Eleonora e Cristina spiccano Piero e Cinzia. Antonello tornava in auto dal concerto di San Siro di Marley. “Piero” faceva l’autostop, disperandosi perché “Cinzia” lo aveva lasciato a metà viaggio pur essendo incinta.

Due anni dopo Venditti si imbatté nella coppia all’Olimpico, durante una partita della Roma. La canzone-appello aveva riunito i due innamorati.

De Gregori, si sa, è criptico. Ma Alice che guarda i gatti è proprio quella di Lewis Carroll, e il Cesare perduto nella pioggia è il vero Pavese, affranto per la fine della sua liaison con la ballerina Constance Dowling. Quando non sono libri, c’entrano i giornali. Non avremmo avuto La donna cannone se Francesco non avesse letto un trafiletto su un’artista circense scappata in cerca di una vita migliore. E Fabrizio De André non ci avrebbe incantati con La canzone di Marinella se non lo avesse colpito, su un quotidiano, la cruda notizia di Maria Boccuzzi, che frequentava i night e fu uccisa in riva a un fiume.

Donne finite male: come Maria Montesi, ritrovata senza vita nel ’53 sulla spiaggia di Capocotta, scoperchiando uno scandalo che travolse mezza Dc. Rino Gaetano la immortala in Nuntereggaepiù, ma c’è chi la riconosce anche dietro il velame di Gianna. Rino si dilettava con i messaggi cifrati: Aida non è una fanciulla, ma l’Italia stessa, e Berta non una filatrice, bensì il presidente della Lockheed, Robert Gross, che filava con Mario (Tanassi) e Gino (Gui) nel mazzettone per Antelope Cobbler.

Gino Paoli, invece, beffò tutti con Il cielo in una stanza. Amore assoluto? Macché, l’incanto era nato dopo un quarto d’ora con una prostituta.

Sì, troppi nomi, allusioni e dediche. Ecco nella nebbia la Vincenzina davanti alla fabbrica di Jannacci, e più oltre la Piccola Katy, che a 16 anni voleva andarsene di casa, e poi tornò ai concerti dei Pooh per cinquant’anni di seguito. Margherita e la Bella Senz’Anima di Cocciante sono solo suggestioni, e lo stesso l’Ophelia di Guccini, ridisegnata via Shakespeare e Rimbaud. Impossibile ignorare la dolce Agnese di Ivan Graziani, la Gloria evocata dall’onanista Tozzi o la Teresa di Endrigo (figura spregiudicata, per il ‘65, la Rai censurò opinando sul verso “non sono mica nato ieri”).

E quanti rischi per l’esordiente Baglioni nel cantare, prima delle magliette fine, le prodezze extraconiugali della Signora Lia: che in prima stesura si chiamava Lai, proprio come il tecnico dello studio. Per sua fortuna, Claudio se ne accorse in tempo.

La cultura non è contare citazioni

L’ingegno umano non si ferma davanti a nulla. Per esempio, presto i medici emetteranno diagnosi non sulla base di sintomi o analisi, bensì contando scrupolosamente, con apposita strumentazione, i peli sotto le ascelle del paziente. E ogni biologo marino potrà scoprire nel fondo degli oceani sconosciute specie ittiche misurando la velocità di caduta del mangime nell’acquario di casa (incrociata, si capisce, con coefficienti numerici di appositi prontuari). Fantasie? Per ora sì. Ma è più o meno quel che succede in un ambito dello scibile umano, le (maiuscole indispensabili) Procedure Di Valutazione Della Ricerca. Una fetta irragionevolmente alta del tempo di chi fa ricerca (medici e biologi, ma anche archeologi e matematici) va perduto nel misurare se stessi o altri in relazione a svariate competizioni per Qualcosa (che sia una cattedra, un premio, una carica accademica, un finanziamento) mediante indici numerici dedotti dalla mera superficie delle cose.

Per esempio contando quante volte il professor X viene citato, e non come viene citato, né perché mai lo sia: donde il vivace traffico delle citazioni di scambio. Sfuma nelle nebbie, poi, che cosa venga citato; se e quanto fosse essenziale citarlo, in base alla novità, importanza, dimostrabilità, solidità di quel che il prof. X ha scritto. Basta che venga citato perché crescano gli indici sulla cui base sarà valutato. Tale colossale sciocchezza, ammantandosi di scienza, ha perfino un nome: bibliometria. Traduzione: giudicare un lavoro scientifico senza leggerlo, più o meno come il leggendario mandarino cinese che giudicava i libri dall’odore che fanno, bruciando.

Ma la peste della superficialità valutazionistica, il più capillare mercato di fake news del pianeta, non si ferma qui. Infatti, nella stanza accanto a quella del prof. X troveremo, intento non a studiare ma a spaccare il capello degli indici di valutazione propri e altrui, il prof. Y, suo collega di Facoltà, di dipartimento o d’istituto. X e Y rivaleggiano in tutto, eppure sanno che il loro dipartimento (o Facoltà, o istituto) verrà valutato sulla base di indici che mettono insieme non solo X e Y ma anche lo stolto Z e il notorio cretino W: ma a tutti conviene che tali colleghi, pur universalmente ritenuti imbecilli, abbiano comunque indici numerici che, sommati a quelli dei colleghi che sono (o si ritengono) geniali, consenta all’istituto (o dipartimento, o Facoltà) di accedere a un qualche finanziamento, di quelli che i governi bandiscono etichettandoli invano con l’abusatissima parola “eccellenza”. E quanti fra i comuni mortali sanno che occhiute conventicole di studiosi, nominate da prestigiosi (?) ministri, si affannano non a produrre nuovi risultati nelle proprie discipline, bensì a classificare le riviste del settore in prima, seconda o terza fascia: ingegnoso artifizio, che serve a “giudicare” un articolo non sulla base di quel che vi è scritto (bisognerebbe leggerlo), ma sulla base della “fascia” di appartenenza della rivista in cui è stato pubblicato. E per diventare professore bisogna superare le forche caudine di un concorso in cui nulla vale quel che si è scritto, ma solo se un prefissato numero di articoli abbia superato o meno la “soglia” (puramente quantitativa) di lavori pubblicati in “fascia A”. Veglia su tali ipocrite aberrazioni una sontuosa (in senso etimologico, da sumptus, spesa) Agenzia di governo, intenta a costruire dal nulla i propri principi imperscrutabili.

Nessuno creda che quanto sopra sia anche minimamente esagerato: le cose, anzi, stanno ancor peggio. Ma nessuno creda nemmeno che tali perversioni siano proprie dell’Italia: il nostro Paese ci è arrivato anzi tardi e male, scopiazzando altri (come il Regno Unito) in nome di una retorica della Valutazione secondo cui essa segna l’alba di una nuova età, dopo i secoli bui in cui nessuno valutava né veniva valutato. Infatti, mai e poi mai Aristotele valutò qualcun altro in termini numerici (non aveva i parametri dell’Agenzia, poverino) : donde il suo ben noto insuccesso. Per non dire di Galileo, che non fu mai valutato secondo bibliometria, ergo sarà stato un mediocre. Verità di fede, per chi sia in preda alla febbre da Valutazione. Un morbo che, al pari di altre forme di burocratizzazione della vita universitaria come il continuo balletto di etichette fra Facoltà, Dipartimenti, Istituti, riduce il tempo per pensare, leggere o sperimentare idee, per far ricerca di prima mano, insomma, e senza essere posseduti dall’ossessione valutativa.

Ma se di fronte a tale indemoniata ossessione diciamo “il re è nudo”, corre l’obbligo di spiegare perché. E la risposta è questa: perché è più comodo valutare secondo numeri, parametri, impact factor, H-index e altre pittoresche sciocchezze piuttosto che perder tempo a leggere uno per uno i testi di X, Y, W e Z, prendendosi la responsabilità di giudicare che cosa c’è di buono (o meno buono), entrando nel merito per poter argomentare, comparativamente, se è meglio Y o X. Col rischio, certo, di sbagliare. Ma con le correnti Procedure Di Valutazione c’è l’assoluta certezza di sbagliare, e per giunta l’obbligo, che richiede una buona dose di cecità intellettuale, di credere, sul serio o per mero conformismo di casta, che giudicare senza leggere, in base a indici numerici e “soglie” immaginarie, costituisca la sola Verità certificata.

Le Procedure Di Valutazione correnti comportano due vantaggi e due svantaggi. Vantaggi: (1) non si perde tempo a leggere i lavori scientifici da valutare, tanto ci pensano i numerini; (2) si evita di assumere una responsabilità personale (soggettiva), perché i numerini sono “obiettivi”. Svantaggi: (1) per esser sicuri di esser citati, molti evitano le ricerche d’avanguardia, che comportano un alto rischio; trionfa così la ricerca mainstream, e con essa la morte dell’immaginazione scientifica e dell’innovazione; (2) la scienza, la probità scientifica, il senso critico vanno a farsi friggere, e si dedicano al frivolo esercizio della Valutazione energie e tempo che dovrebbero essere investiti in insegnamento e in ricerca.

Lo svizzero Richard R. Ernst, premio Nobel per la Chimica, ha scritto: “Lasciatemi esprimere un desiderio supremo, che coltivo da tempo: spedire tutte le procedure bibliometriche e i loro diligenti servitori nel più oscuro e onnivoro buco nero di tutto l’universo, onde liberare per sempre il mondo accademico da questa pestilenza. L’alternativa c’è: molto semplicemente, cominciare a leggere i lavori scientifici anziché valutarli solo contando le citazioni”. Per liberarci dall’ossessione valutativa avremo mai, in questa Penisola troppo spesso a rimorchio degli altri, un esorcista come questo?