“Mamma, il viaggio è andato male, sto soffocando”. L’ultimo sms di Pham

Pham Trà My, 26 anni, vietnamita, potrebbe essere fra le vittime del “Tir della morte”; la ragazza è irreperibile, ha dato sue notizie alla famiglia mandando un messaggio con il telefono. Martedì sera la giovane donna ha scritto: “Mi dispiace mamma. Il mio viaggio all’estero non è andato bene. Ti amo così tanto! Sto morendo perché non posso respirare”. Poi ne scrive un altro, dando le sue generalità, come ad agevolare la sua identificazione. La tempistica coincide con la tragedia scoperta mercoledì a trenta chilometri da Londra. Secondo la Bbc, la famiglia di Pham ha dovuto pagare 30.000 sterline ai trafficanti per il suo viaggio nel Regno Unito. Il Guardian a supporto di queste notizie rilancia: la famiglia di Pham ha dovuto ipotecare la propria casa per trovare la somma. Altre due famiglie vietnamite hanno parenti dispersi, un ragazzo di 26 anni e una donna di 19. Sono tutte vietnamite, dunque, le vittime del vagone frigo del Tir? L’ambasciata della Cina a Londra ha confermato di non essere ancora in grado di confermare ufficialmente la nazionalità di tutti i corpi. Gli arresti salgono a tre: dopo Mo Robinson, 25 anni, l’autista nord irlandese, la polizia ha fermato una coppia, residente a Warrington, nel Cheshire. L’accusa nei loro confronti è omicidio colposo. Per quel che riguarda i tragitti del Tir, i dati Gps del rimorchio refrigerato mostrano che ha fatto due viaggi tra il Regno Unito e l’Europa tra il 16 e il 22 ottobre, il giorno in cui i corpi sono stati trovati in una zona industriale dell’Essex. Il 15 ottobre il camion era è stato noleggiato da una società irlandese, la Global Trailer Rental Europe, con sede a Monaghan, a un’altra società al confine con l’Irlanda. Era la prima volta che la seconda impresa firmava un accordo di leasing per il Tir. Il mezzo pesante ha viaggiato dal porto di Dublino a Holyhead nel Galles del Nord durante la notte del 16 ottobre, prima di attraversare l’Europa continentale quella sera stessa. Fra le tappe in Francia, c’è anche Dunkerque, che si trova a 40 minuti da Calais ed è una località dove si radunano i migranti verso il Regno Unito e dunque anche i trafficanti di persone. Infine, il Tir si dirige verso il porto belga dal quale risalperà per il Regno Unito. Mercoledì a mezzanotte e 30, il camion con la cella frigorifera arriva al terminal inglese; all’1:05 lascia l’area; all’1:40 viene scoperto il suo carico di morte nell’area di Waterglade industrial park.

L’immigrazione illegale miniera d’oro delle Triadi

Trentuno uomini e otto donne le vittime trovate dentro il Tir in Essex, vittime della tratta di esseri umani gestita dalla potentissima mafia cinese.

L’Europa è la meta dei trafficanti di carne umana con base nella Repubblica popolare. Una mafia fortissima, per gli investigatori italiani la più potente tra le organizzazioni che si occupano di immigrazione illegale, ma anche la più difficile da individuare.

Le difficoltà a indagare su questa rete sono enormi, a cominciare dalla lingua: il cinese è composto da un insieme di più di cento dialetti e varianti. Per continuare con la caratteristica principale delle comunità cinesi insediate sul territorio europeo, che è quella di gruppi chiusi, impermeabili alle influenze esterne, e dominati da una inviolabile omertà.

Nei vari rapporti della Dia (Direzione investigativa antimafia) e della Dna (Procura nazionale antimafia), si legge che alla base del potere dei clan mafiosi cinesi c’è l’immigrazione illegale. Un business sul quale le organizzazioni lucrano due volte: sul viaggio (che comprende l’arrivo nel luogo di destinazione e la fornitura di passaporti falsi e permessi di lavoro), e sull’impiego dei clandestini nella lunga catena del tessile, della ristorazione e della prostituzione. Ed è proprio sul traffico dei passaporti, falsi o “riciclati”, che si sono concentrate una serie di inchieste fatte in Italia.

Destò scalpore, attacchi e proteste da parte delle autorità cinesi, il capitolo del libro Gomorra che Roberto Saviano dedicò al traffico di carne umana made in China. Quella scena del porto di Napoli e di decine di corpi “che uscivano dai container, uomini e donne. Morti. Erano i cinesi che non muoiono mai”, costò irrisioni e attacchi alla scrittore napoletano. Eppure, qualche anno dopo, fu un pentito di camorra del clan Mazzarella, Alfonso, cugino del boss Franco, non a caso chiamato a dogana, a svelare il mistero. Il clan aveva il monopolio del business del rimpatrio delle salme (o delle ceneri) dei cinesi morti in Italia, 1.000 euro per ogni cadavere scomparso, perché per i vertici dell’organizzazione mafiosa cinese i documenti del morto erano oro. “Venivano utilizzati per qualcun altro”, fa mettere a verbale il pentito.

In una inchiesta della Procura di Milano, invece, si traccia il quadro del “riciclaggio” dei passaporti. Avveniva durante l’Expo, quando per ottenere un visto come visitatore, occorreva un passaporto e una carta di credito. Documenti regolari che l’organizzazione rastrellava per poi venderli (prezzo dai 5 ai 7.000 euro) a immigrati che volevano raggiungere in modo illegale l’Italia. Una volta utilizzato, il passaporto veniva rispedito in Cina al legittimo intestatario, la carta di credito strappata, e il cinese “irregolare” avviato al lavoro in uno dei laboratori tessili clandestini o in un ristorante.

Per l’alloggio provvedevano i terminali milanesi dell’organizzazione, mettendo a disposizione un “dapò”, minuscoli appartamenti di due vani dove venivano stipati fino a 20 persone. Ma questa è la parte “privilegiata” dell’immigrazione clandestina cinese in Italia e in Europa.

Chi lascia le regioni povere dello Zhejiang e del Fujian, si affida a estenuanti viaggi della speranza attraverso Asia, Russia, Paesi dell’Est europeo. Sono uomini e donne costretti a pagare prezzi altissimi (intorno ai 15 mila euro) che impegnano loro stessi e i familiari rimasti in Cina, per viaggiare stipati in camion e container. Il loro destino è di finire nelle cucine di uno dei tanti ristoranti cinesi disseminati nelle nostre città, nei laboratori del falso nel Napoletano e nelle fabbriche tessili del Macrolotto di Prato. Schiavi che vivono letteralmente incatenati alle macchine, il laboratorio è la loro vita, lì dormono e mangiano, quella è la loro casa. Spesso la loro tomba, come accadde a Prato nel 2013, dove sette cittadini cinesi morirono carbonizzati in una fabbrica in fiamme.

Nessuna ribellione, neppure delle ragazze ridotte a schiave sessuali nei tanti “centri massaggi”, l’omertà è forte e tanta la paura dei “draghi”.

La mafia cinese che ormai ha messo radici profonde in Europa e in Italia.

Una mafia in continua evoluzione, sottolinea l’Antimafia nei suoi rapporti, presente nel campo dell’immigrazione clandestina e dello sfruttamento della manodopera, leader nell’industria del falso e con un suo spazio nel traffico di droghe sintetiche, lo shaboo, un metanfetaminico potentissimo.

Trump ribalta l’indagine: Mueller sotto tiro

L’’inchiesta sul Russiagate riparte al contrario. Dopo che il procuratore speciale Robert Mueller indagò per 20 mesi su collusioni tra la campagna 2016 di Donald Trump ed emissari del Cremlino, ora il segretario alla Giustizia William Barr ha trasformato l’inchiesta amministrativa sulle origini del Russiagate, in corso da maggio, in un procedimento penale: il Russiagate sarebbe – è la tesi dell’Amministrazione, cioè di Trump – una macchinazione dei democratici, e in primis di Obama, per screditarlo e per intralciarne l’elezione. A darne notizia per primo è stato il magazine Politico. Il procuratore John Durham, che conduce l’indagine, ha ora maggiori poteri: può emettere mandati di comparizione, anche attraverso un Grand Giurì, e ottenere documenti e testimonianze. Dirigenti ed ex dirigenti di Fbi e Dipartimento di Giustizia che condussero l’inchiesta sul Russiagate rischiano di finire sotto processo, se dovesse emergere che violarono la legge.

Mueller non giunse a mettere sotto accusa il magnate nel frattempo eletto presidente, ma non lo scagionò neppure. Non è per ora chiaro fin dove possa arrivare Durham, né quali capi d’imputazione possa formulare. Ma il clima s’è incattivito; e la Casa Bianca ha disdetto gli abbonamenti a New York Times e Washington Post, “veicoli di fake news”. La mossa dell’Amministrazione, che può essere un tentativo di sviare l’attenzione dalla procedura d’impeachment avviata dai democratici alla Camera contro Trump, nella scia dell’Ukrainagate, ha immediatamente suscitato la reazione dell’opposizione. In una nota, i presidenti delle commissioni Intelligence e Giustizia della Camera, che conducono l’istruttoria sull’impeachment, esprimono “profonde preoccupazioni che il Dipartimento della Giustizia sotto la guida di Barr abbia perso l’indipendenza e sia divenuto uno strumento di vendetta del presidente”. Trump, in realtà, dice ai giornalisti di non saperne nulla, ma appare molto improbabile che Barr abbia agito senza l’avallo del presidente.

Sull’impeachment, le rivelazioni si succedono. Secondo il New York Times, la Casa Bianca bloccò non solo gli aiuti militari all’Ucraina ma anche facilitazioni commerciali, per rafforzare la richiesta di Trump al presidente ucraino Volodymyr Zelenski di aprire un’inchiesta sul figlio di Joe Biden, Hunter, in affari con una società energetica ucraina. A fine agosto, il negoziatore Usa sul commercio internazionale Robert Lighthizer ritirò la proposta di ripristinare alcuni privilegi commerciali concessi all’Ucraina, dopo che John Bolton, allora consigliere per la Sicurezza nazionale, l’avvertì che Trump si sarebbe opposto a ogni mossa a favore di Kiev. Lo stesso Bolton, nel frattempo dimessosi – o dimesso – dal suo incarico, ha avuto contatti, tramite suoi legali, con le commissioni della Camera che istruiscono la pratica di impeachment: si negozia una sua testimonianza, dopo quella dell’ambasciatore Usa ad interim a Kiev, Bill Taylor, cui Bolton avrebbe espresso disagio per la telefonata ‘incriminata’ di Trump a Zelensky.

Altro che tregua, i jihadisti rapiscono le donne dell’Ypj

Una giornata fin troppo tranquilla quella di ieri. Complice il venerdì, giornata di riposo nel mondo islamico, ma silenziosa rispetto al periodo. “La calma prima della tempesta?”, si chiede un signore ironizzando sul conflitto, mentre sgranocchia dei semi di girasole. Dopo gli ultimi colpi di scena nella politica internazionale, la popolazione in Rojava, nel nord-est della Siria, vive con una certa apprensione la nuova tregua negoziata tra la Russia e la Turchia. E la gente è incollata alla televisione, perennemente su Twitter, in cerca di novità o di dichiarazioni. L’umore è dei più neri. Centinaia di persone sono morte, e ogni giorno il bollettino di guerra si allunga. Gli attacchi non si fermano.

“Come facciamo a vivere così? Dopo tutto quello che abbiamo sacrificato nella lotta contro Daesh”, si chiede con rabbia Khabat Abbas, giornalista indipendente locale, riferendosi agli 11.000 morti contro lo Stato Islamico. “Ci hanno traditi tutti. La Russia non ci permetterà mai di continuare con l’autogoverno. Ma noi curdi non possiamo pensare di tornare a vivere sotto il regime, allo stesso tempo però abbiamo bisogno di protezione dalla Turchia, altrimenti con le forze aeree ci raderanno al suolo. Potrebbe essere un massacro”.

Per molti vedere le bandiere di Assad sventolare su Kobane, città simbolo della resistenza contro l’Isis per la comunità internazionale ma molto di più per i curdi, fa male al cuore. Kobane è stata il motore della rivoluzione del Rojava, cominciata nel luglio del 2012, quando la città ha cacciato il regime, prima in tutta l’area. E ha cominciato una nuova esperienza democratica basata sull’ecologia, l’uguaglianza, e comunitarismo. Proprio ieri sono arrivati i rinforzi dalle forze siriane, mentre i mezzi della polizia militare russa hanno cominciato le ricognizioni lungo tutto il confine. Sono solo un paio di blindati che da giovedì percorrono avanti indietro la strada cha va da Amude a Qamishli, uno delle città principali del Rojava. I soldati si sono fermati, in alcuni casi hanno fatto anche due passi mentre venivano “paparazzati” dai locali. Prima c’erano gli americani, ora i russi.

Non importa quale potenza negozi con la Turchia un cessate il fuoco e lo annunci al mondo. Sul terreno è tutta un’altra storia. Infatti, ancora ieri, la tregua non è stata rispettata dalle milizie turche che continuano ad attaccare villaggi e centri abitati. Un’intera famiglia è stata ferita dai bombardamenti. La Turchia prova a occupare il territorio al di fuori della cosiddetta “buffer zone”, tanto voluta da Ankara. lunga 110 chilometri e profonda 30, da cui si sono ritirate tutte le forze curde come prevedeva l’accordo. “Rispondiamo agli attacchi” dicono dal quartier generale delle Forze Democratiche Siriane (Syrian Democratic Forces, Sdf), questa è autodifesa”.

Continuano gli appelli alla comunità internazionale che sembra sorda a qualsiasi richiesta. Ankara non ha alcuna intenzione di fermare le sue milizie le quali usano metodi brutali, simili a quelli dello Stato Islamico. Non si fermano davanti a nulla. Fanno a pezzi i corpi di donne combattenti, saccheggiano le case, minacciano i civili. Il tutto davanti alle telecamere.

L’ultimo di questi film dell’orrore riguarda Cicek Kobane, una combattente dell’Ypj (Unità di Protezione delle Donne), fatta prigioniera sul fronte di Ain Issa. Ferita a una gamba durante gli scontri, Cicek viene ripresa mentre è portata in braccio da un miliziano che scherza: “Viva il Rojava” per poi insultarla chiamandola maiale. Si teme per la sua vita e soprattutto per la sua incolumità.

“Chiediamo alla comunità internazionale di intervenire velocemente per salvarla. Chiediamo alle donne di tutto il mondo, alle organizzazioni umanitarie di alzare la voce contro la brutalità dell’esercito occupante turco e i loro mercenari”, è il contenuto di una nota diramata dall’Ypj. I curdi sperano ancora nella comunità internazionale, oggi il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, incontrerà ad Ankara il collega turco, Cavusoglu.

Come nell’era Pinochet “Esecuzioni e retate: è il Cile degli anni 70”

Mentre Vincenzo Marra, regista italiano residente tra l’Italia e il Cile dove ha girato uno dei suoi film più noti, La Prima Luce, ci racconta la lunga genesi delle proteste in corso nel Paese sudamericano, sul suo portatile arrivano senza sosta video le cui scene riportano alla mente la brutale repressione dei militari durante la dittatura di Pinochet negli anni 70. Sono stati girati con lo smartphone dai suoi amici, cileni e italiani, rimasti nella Capitale. “Da questi video appare inequivocabile non solo la violenza sproporzionata con cui le forze dell’ordine reagiscono alle manifestazioni pacifiche della gente, ma anche il tentativo da parte del potere di approfittarne per fare piazza pulita del dissenso tout court”.

Come spiegare altrimenti le retate notturne dei militari nelle case delle zone popolari dove vivono i cittadini meno abbienti e, probabilmente, sostenitori della rivolta contro la diseguaglianza sociale ? Nel primo video che Marra ci mostra, si vedono soldati armati fino ai denti che si avvicinano di soppiatto a una abitazione per poi farvi irruzione.

Nascosti dietro le tende, i vicini filmano e commentano spaventati a bassa voce. Non riesce invece a trattenere un grido di terrore un altro improvvisato filmmaker che, sempre da dietro la finestra, a tarda notte, registra quanto segue: un furgone militare passa a velocità sostenuta quando dal portellone posteriore viene lanciato un corpo che rotola per terra. L’uomo sembra malconcio, ma vivo. Il furgone inchioda dopo pochi metri, scende un soldato con una mitraglietta in mano e, senza nemmeno guardarsi intorno, la scarica sull’uomo accasciato sul selciato che resta immobile. “L’hanno ammazzato”, grida terrorizzato l’autore delle riprese artigianali ma nitide.

“In Cile le forze dell’ordine godono ancora di molti privilegi. È inevitabile che non vogliano perderli, ma per arrivare a questo livello di violenza significa che hanno l’avallo del presidente Piñera e delle altre sei o sette famiglie che posseggono tutti gli asset del Paese e dominano anche il mondo dell’informazione mainstream che infatti manda in onda solo servizi sulle razzie di pochi nei supermercati, bollando la protesta come un’iniziativa di delinquenti e comunisti”, spiega Marra i cui ex suoceri, nonché nonni del suo unico figlio, abitano a Santiago. Il regista e sceneggiatore, a proposito dei parenti cileni, sottolinea che anche loro sono solidali con i manifestanti, pur non avendo mai votato a sinistra, perché la vita del ceto medio è andata degradandosi sempre di più a causa della politica decisamente liberista dei governi e la conseguente diminuzione del welfare. “Il nonno di mio figlio è costretto a spendere tutta la sua pensione per curarsi privatamente dato che gli ospedali pubblici offrono solo servizi d’urgenza. Conosco almeno due persone che si sono lasciate morire di cancro non avendo un’assicurazione privata né i soldi per le cure. Le scuole pubbliche non offrono alcun futuro agli studenti, che pertanto sono costretti a indebitarsi con le banche per studiare negli istituti privati e intanto i beni primari costano sempre di più, mentre i salari e le pensioni sono bloccati da anni”. Siamo di fronte a una sorta di ‘americanizzazione’ della politica economica del Cile, ma a rendere la situazione delle classi meno abbienti più difficile rispetto a quella statunitense è l’assenza di mobilità sociale. “La macroeconomia cilena è in costante crescita da anni, ma la distribuzione della ricchezza è andata diminuendo. Rimane nelle tasche dei pochi magnati che controllano come dei feudatari le ingenti risorse naturali del Cile, a partire dalle miniere di rame. Per questo motivo ora la gente non crede più nelle istituzioni e non è disposta a dare credito al presidente Piñera, membro di questa cricca che strangola da decenni la classe media”.

Marra ci mostra sulla mappa di Santiago piazza Italia, che rappresenta anche geograficamente la spaccatura e polarizzazione della società cilena : “Da una parte ci sono i quartieri popolari, dall’altra quelli ricchi. Di qua si manifesta, di là si godono i proventi del furto capillare dei soldi pubblici e dei beni nazionali che apparterrebbero a tutti i cittadini. Va però detto che stanno crescendo i residenti dei quartieri benestanti solidali con i manifestanti. Ciò che sta avvenendo è la risposta alla domanda che ho fatto per anni ai miei amici cileni: come potete campare in questo modo, con polizia, carabinieri e militari sempre pronti a reprimervi e la mancanza di denaro persino per pagare il pedaggio dell’autostrada per andare al lavoro quando si è così fortunati da trovarlo? Tra i poveri, è importante ricordarlo, ci sono anche gli insegnanti. Per questo l’aumento del prezzo del biglietto ha scatenato la piazza. Questa misura, tardivamente ritirata dal presidente, è il simbolo dell’umiliazione e discriminazione che la maggior parte della gente subisce da tanto tempo”, conclude Marra. E ora è diventato anche il simbolo del ritorno della violenza dei militari.

La vecchia Rai

 

“La formazione di una coscienza civile, da sempre riconosciuta nella tradizione della televisione pubblica, può essere garantita soltanto dalla Rai”

(da Ricostruiamo la politica di Francesco Occhetta – Edizioni San Paolo, 2019 – pag. 104)

 

La Rai è tornata (temporaneamente) in utile. Nel primo semestre 2019, il carrozzone di Stato ha chiuso i conti con un leggero margine pari a +3,3 milioni di euro. Ed è senz’altro una notizia positiva, tanto più che nello stesso periodo dell’anno scorso l’azienda ne aveva persi 5.

Ma da dove si ricava questo utile semestrale? In primo luogo, dal recupero dell’evasione sull’abbonamento pari a 50 milioni e 144 mila euro, relativi agli anni fra il 2004 e il 2014. E anche qui, non può che compiacersene chi sollecita da sempre l’inserimento del canone nella bolletta elettrica, per abolire o almeno ridurre l’invadenza della pubblicità. Altri 3 milioni derivano dai cosiddetti “canoni speciali”, corrisposti da ministeri, uffici, alberghi e bar che evidentemente prima non li versavano. Un nuovo introito di 7,1 milioni proviene dalle licenze per alcuni brevetti, di cui l’azienda pubblica è titolare, collegati al nuovo standard del segnale televisivo per il digitale terrestre. E infine, un ulteriore contributo di 19,2 milioni arriverà dallo Stato per consentire alla Rai di rispettare gli obblighi imposti dal Contratto di servizio, come se già non bastasse il gettito del canone: e magari diventasse un “canone sociale”, cioè rapportato al reddito o ai consumi elettrici.

Fin qui, tutto bene. O no? Non proprio, in primo luogo perché alcune voci di questi introiti sono destinate in futuro a ridursi o a venir meno, influendo negativamente sui risultati della gestione. E soprattutto, perché manca una visione strategica che possa consentire all’ente pubblico di ritrovare un equilibrio stabile fra costi e ricavi. È pur vero che il ministero dello Sviluppo economico ha ritenuto “compatibile” con il Contratto di servizio il Piano industriale 2019-2021 predisposto dall’amministratore delegato Fabrizio Salini, approvando una riorganizzazione dell’azienda che punta a raggiungere l’utile fra due anni. Ma da qui a dire che “comincia una nuova era per la Rai”, come ha dichiarato in toni trionfalistici lo stesso Salini, ce ne corre.

Il nuovo Piano industriale prevede una “razionalizzazione dell’organico dirigenziale” che verosimilmente si tradurrà in un ridimensionamento più o meno doloroso. Poi, contempla una serie di “ottimizzazioni” che di solito nel gergo manageriale equivalgono a “tagli” drastici e radicali. Ma, al di là dei conti, quello che occorre è un progetto culturale e civile in grado di assicurare alla Rai un’identità, un ruolo, una legittimità: vale a dire una riforma “coraggiosa”, come auspica il presidente della Camera Roberto Fico, imperniata su una governance libera dalla partitocrazia.

Sappiamo bene che, oltre a informare, il servizio pubblico deve anche intrattenere e magari educare, nel senso divulgativo del termine, a cominciare dal linguaggio. Ma l’informazione resta comunque il core business di una radiotelevisione pubblica, la sua stessa ragione d’essere, la sua funzione istituzionale. È proprio questo, invece, il “male oscuro” che insidia – oggi più che mai – lo stato di salute della Rai, la sua indipendenza e la sua autonomia, mentre l’impronta sovranista continua a mortificare quotidianamente il pluralismo. E nel frattempo la guida dell’azienda rimane affidata a una presidenza di parte, piuttosto che di garanzia, inficiata da una doppia votazione parlamentare tanto controversa quanto sospetta, su cui la nuova maggioranza deve esigere ora una verifica definitiva.

In memoria del partigiano Giovana

“Sono trascorsi venticinque anni dai giorni miei in Algeria e gli appunti scritti allora non mi pare aggiungano alcunché alla pellicola tersa e lineare di figure, paesaggi, scene di sbalzo che mi scorre alla mente senza dissolvenze. Non è misteriosa questa vividezza di ricordi; mi ritrovai, dodici anni più tardi e mille chilometri più in là, in una dimensione conosciuta e fortemente interiorizzata della mia esistenza: la guerriglia dei partigiani, la ‘guerra dei poveri’”. Così Mario Giovana (Nizza, 1925 – Cuneo, 2009), storico e giornalista, partigiano ed esponente di rilievo della sinistra (da Giustizia e Libertà al Psi, allo Psiup), scriveva agli inizi degli anni Ottanta.

Rievocava quando, nel settembre del 1957, fu inviato in Algeria dal Partito socialista italiano per una “missione informativa e tecnica” presso il Fronte di liberazione nazionale, e si ritrovò a rischiare la vita, anche da istruttore militare dei guerriglieri, per la causa del popolo algerino nella guerra d’indipendenza contro i francesi.

Erano gli anni in cui si consumavano gli ultimi fuochi del volontariato internazionalista in nome della libertà dei popoli, cominciato nel primo Risorgimento e che avrebbe trovato il culmine nella Guerra civile spagnola e nella Resistenza; quel filo rosso che si può rintracciare adesso tra chi si batte con i curdi. Giovana aveva combattuto i nazifascisti nelle formazioni di Giustizia e Libertà. Le battaglie con l’Fln e i contadini, i fellah di Ahmed Ben Bella, furono la continuazione ideale dell’altra “guerra dei poveri”.

Nel decennale della scomparsa, avvenuta il 27 ottobre 2009, il Centro culturale Mario Giovana di Monbasiglio (Cuneo) e l’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo gli dedicano oggi una giornata di studi dal titolo “Mario Giovana: un politico fuori dal coro; uno storico non accademico”. Era davvero “fuori dal coro”. E lo restò nella militanza, prima in Gl, poi con i socialisti indipendenti di Valdo Magnani e Aldo Cucchi (sui quali uscirà un suo scritto inedito), quindi nel Psi e nel Partito socialista di unità proletaria.

Non fu un intellettuale da accademie. Lo testimoniano la missione algerina e quelle compiute in Spagna per portare armi agli antifascisti, fino al tentativo di far espatriare lo storico Enrique Tierno Galvan, che sarebbe diventato il sindaco socialista di Madrid dopo la fine del franchismo.

Angelo Del Boca, lo storico del colonialismo italiano, che con Giovana, amico di una vita, scrisse diversi saggi, quando morì volle ricordarlo come “un uomo e uno studioso libero, capace di avere di colpo l’intuizione giusta, che scrisse pagine fondamentali sul rapporto fra la lotta di Liberazione e il mondo contadino”.

Raccontò la Resistenza delle bande fatte da giovani, che, senza essere politicizzati, si batterono però fino alla morte per una società più giusta, e polemizzò con chi, come Leo Valiani, a quei ragazzi aveva guardato con disprezzo. Ricostruì le vicende di Gl nel saggio Giustizia e Libertà in Italia. Storia di una cospirazione antifascista 1929-1937 (Bollati e Boringhieri), e denunciò il pericolo del neofascismo in I figli del sole (Feltrinelli), scritto assieme a Del Boca. Non esitò a indagare sui crimini del comunismo sovietico; ne Il caso De Marchi, del 1992, narrò la vita di un comunista di Fossano, collaboratore di Antonio Gramsci e dell’Ordine Nuovo, scomparso nelle “purghe” di Stalin del 1937.

Giovana è stato ciò che la sinistra di oggi non è più da molto tempo: coerente, lontano da ogni ribalta mediatica, sempre con i “dannati della terra” (i “forzati della fame” di Frantz Fanon) di ogni Paese.

Chi sbaglia su Mafia Capitale ed ergastolo

La rapida successione, in due giorni consecutivi, della sentenza della Cassazione che ha drasticamente ridimensionato il processo “Mafia Capitale” e, subito dopo, della pronuncia con la quale la Corte costituzionale ha cancellato l’ergastolo ostativo, ha creato grande confusione nell’opinione pubblica, anche grazie alla solita informazione nostrana sulla materia, prevalentemente sensazionalistica e superficialmente condizionata dalla logica dello schieramento tifoso. Per cui ciascuno si sente in dovere di sventolare la propria bandierina, “garantista” o “antimafia”. Come se i due concetti fossero antitetici, come se un’incisiva lotta alla mafia debba per forza comprimere i diritti di garanzia e chi ha a cuore la cultura delle garanzie debba stare sulla sponda opposta, a prescindere.

Invece bisogna saper distinguere. Mai come in questa occasione. E bisogna poter dire, senza timore di essere accusati di riduzionismo della gravità del fenomeno mafia a Roma, che il processo Mafia Capitale ha avuto un’impostazione sbagliata, perciò giustamente sanzionata dalla Cassazione. Perché vanno salvaguardate le categorie descritte dal legislatore nel 1982 e sapientemente scolpite nel dettaglio nei decenni successivi da una consolidata giurisprudenza, sempre della Cassazione, che ne ha salvato l’efficacia a fronte degli attacchi – quelli sì sospetti – al 416 bis e al concorso esterno, preziosissimo per sanzionare la contiguità mafiosa di una classe dirigente rivelatasi essa stessa criminale.

Insomma, per dirla in modo brutale: se tutto è mafia, niente è mafia, questo è il messaggio netto con il quale la Cassazione ha sconfessato l’impianto giuridico della Procura di Roma. Perché, se dilati in modo esorbitante l’ambito di applicabilità dell’articolo 416 bis, se qualifichi come mafiosa una non meno pericolosa associazione criminale finalizzata alla corruzione sistemica, fraintendi la funzione del 416 bis, ne annacqui la portata e ne riduci l’efficacia. Esattamente come è accaduto per il 41 bis, nato come regime differenziato per i mafiosi e diventato carcere duro da infliggere ai detenuti più pericolosi: col risultato che è diventato poco efficace per i boss e troppo accanito verso gli altri detenuti. Con l’ulteriore effetto negativo che lo “schiaffo” alla Procura di Roma viene strumentalmente utilizzato per ridare fiato alle critiche radicali al 416 bis, alle tesi riduzionistiche della mafia “solo siciliana” e così via. Quindi, un doppio errore della Procura di Roma che così rischia di determinare un grave arretramento del fronte antimafia, laddove quell’azzardo ha prodotto per qualche anno un’apparente avanzata e luminose prospettive per chi l’ha ideato e sostenuto, ma oggi subisce una pesante sconfitta, con un effetto boomerang per tutto il fronte che durerà probabilmente a lungo.

Analogo rischio è insito nella decisione della Corte Costituzionale che, annullando l’ergastolo ostativo per i delitti di mafia, pecca di astrattezza e di fraintendimento delle caratteristiche del fenomeno criminale su cui impatta. Occorrerà leggere la motivazione della decisione prima di tirare definitive conclusioni. Ma è chiaro che i giudici della Consulta sembrano avere “dimenticato” una caratteristica essenziale dell’ergastolo ostativo. E cioè che non si applica a ergastolani “qualsiasi”: l’istituto nasce – anche qui, però, esteso ad altre categorie, come il 41-bis – per essere applicato solo agli ergastolani di mafia, la cui appartenenza a organizzazioni come Cosa Nostra giustifica un regime “differenziato”. Parliamo di condannati definitivi perché killer o mandanti di omicidi o stragi di mafia che hanno stretto un “patto criminale di sangue” a vita.

Come spiegò Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone, da Cosa Nostra non si può mai uscire, se non in due modi: da morto o da collaboratore di giustizia. Non esiste altra via. Ecco perché rimettere in libertà (con i “permessi premio”) certi ergastolani significa restituirli alla mafia, anche se gli interessati non volessero. Ecco perché la sentenza sembra rivelare una scarsa conoscenza del fenomeno, perdonabile ai giudici europei della Corte di Strasburgo, ma difficilmente perdonabile a giudici costituzionali italiani.

Almeno in Italia la lezione di Falcone e Borsellino dovrebbe essere stata di insegnamento a tutti, specie quando ricordavano quanto fossero indispensabili, in tutti gli attori istituzionali, la conoscenza del fenomeno mafioso nella sua essenza e in tutte le sue sfaccettature e, nella magistratura, la massima professionalità e responsabilità, nella consapevolezza che gli errori di impostazione, gli approcci superficiali, le scelte precipitose e le fughe in avanti rischiano di compromettere il lavoro di decenni ed essere pagati da tutti a caro prezzo. Le vicende di “Mafia Capitale” e dell’ergastolo ostativo ne sono una dimostrazione.

Mail box

 

Non ho fatto il giornalista, ma che invidia per il Fatto!

Sono un vostro abbonato da ancor prima che uscisse il primo numero. Rammento che, cinquant’anni or sono, il preside delle superiori mi suggerì di fare il giornalista. Percorsi un’altra strada, ma ora invidio le vostre firme. Tanti auguri e a risentirci per il ventennale.

Albert Solutus

 

I vostri editoriali sono sempre spunto di riflessione

Direttore buongiorno! Lo confesso, alcuni suoi articoli di quest’estate non li ho condivisi (pur rispettando il suo parere), soprattutto per quel che riguarda alcune posizioni sull’attuale maggioranza di governo. Questo però non ha importanza. Quello che leggo da parte sua dà sempre spunti di riflessione e in un momento difficile e delicato come questo è fondamentale non perdere la capacità di guardare le cose a 360 gradi. L’editoriale dal titolo “Viva le manette” è bellissimo. Ci tenevo a scriverglielo: quando un cittadino (o una cittadina) comune legge che la propria sete di giustizia è condivisa, la battaglia da combattere diventa senz’altro meno gravosa e acquista senso anche per le nuove generazioni, per cui (pur non essendo mamma) mi sento responsabile. Quindi grazie. Viva l’Italia onesta. E soprattutto tanti auguri.

Raffaella Curci

 

Gli “ultimi” presenteranno presto il conto al mondo

Mi pare che, in tutto il globo, l’universo mondo della gente meno fortunata, meno avvantaggiata, più povera, più sfruttata si stia svegliando dal torpore. Le rivolte del Cile degli ultimi giorni, della Catalogna, dei gilet gialli, dei curdi, dei giovani di Hong Kong, dei turchi anti Erdogan, degli egiziani anti Al Sisi, dei venezuelani contro la crisi infinita, e altre che covano sotto la cenere in attesa di manifestarsi, si saldano idealmente e sono il sintomo che i cittadini, i giovani, i disoccupati, gli svantaggiati adesso si stanno svegliando, stanno rivendicando la libertà in alcuni casi e “pane e rose”, per dirla con Ken Loach, in altri. Gli uomini al potere forse non si rendono conto che finché le proteste resteranno nell’ambito delle centinaia di migliaia possono ancora – a stento – tentare di controllarle, ad esempio con i “mossos d’esquadra”, gli “omon”, i “pasdaran”, i “guardiani della rivoluzione”, gli agenti “antisommossa” e altri tipici guardiani, in attesa che la buriana sia passata. Ma quando i governanti si ritroveranno davanti a milioni di persone infuriate, disperate, stanche di vessazioni e di prese in giro, la “fuga a Varennes alla Luigi XVI” durante la Rivoluzione Francese non gli basterà. E allora sarà peggio per tutti noi, che non abbiamo preferito la condivisione alla contrapposizione di chi ha troppo e di chi non ha.

Enrico Costantini

 

Corte costituzionale, non esiste il mafioso “neutrale”

Non condivido la sentenza della Corte costituzionale. Che reputa applicabili i benefici di pena anche ai mafiosi, purché abbiano reciso ogni legame con la mafia, anche senza aver reso dichiarazioni utili a indebolirla. Non esiste il mafioso “neutrale” – presupposto dalla sentenza della Consulta – che non stia né con la cosca, né con lo Stato. Solo la collaborazione con la magistratura dà certezza alla dissociazione. Ed è logico così, perché un mafioso “muto” ha solo sospeso la sua militanza. Ma nell’intimo è pronto a riprenderla non appena sia nelle condizioni di farlo con un permesso. A coloro che parlano di rieducazione a prescindere dalla dissociazione, chiedo: basta la buona condotta o la frequenza a un corso di ceramica per dire cessato il pericolo sociale di un boss? Confesso che è una lacerazione profonda questa sentenza, perché dà la sensazione che la “trattativa Stato-mafia” si sia conclusa. Ma non a favore della legalità, il patto sociale che difende gli inermi.

Massimo Marnetto

 

I partiti di centrodestra soffrono di vuoti di memoria

Mi riesce davvero incomprensibile come la Lega di Salvini e Forza Italia di Berlusconi continuino a scagliarsi contro il governo Conte II presentandosi come i salvatori della nazione! Perché dimenticano o fingono di dimenticare che proprio loro ci hanno regalato il governo Monti? È vero che la Lega si è in seguito dissociata dalla politica di quel governo, ma è anche vero che è stata la causa della sua creazione. Anche esponenti di Fratelli d’Italia (che allora non esisteva) erano presenti nel partito che ha portato lo spread a 600 punti! Che lezioni possono dare certi personaggi? Matteo Salvini, che si erge a risolutore di ogni problema, è uno dei politici di più lungo corso; nella sua carriera al Parlamento europeo quanti interventi ci sono a suo nome?

Claudio Bernardis

La Casta Ci scrive l’ex senatore Bonatesta: “Non sono un parassita”. E noi rispondiamo

 

Egregio Direttore, sono “il parassita” (a detta dell’ex bibitaro Luigi Di Maio, Sua, dei vari Giletti, Giordano, Telese, Fazio ed altri moralizzatori ancora con… il culo degli altri), sono Michele Bonatesta – dicevo – orgoglioso di essere stato Senatore della Repubblica Italiana quando parlamentari si diventava per merito e scelta del popolo e non per “marchetta” del padrino politico di oggi, con l’auto stipendio non per servire il Paese ma per fare gli interessi del padrino di cui sopra. Se volesse ulteriori informazioni sul sottoscritto scoprendo perché mi sento orgoglioso di essere stato Senatore, scriva su Google Michele Bonatesta e legga quel che viene fuori, senza bisogno di ulteriori notizie autoreferenziali da parte mia. Dunque… tra qualche giorno si potrebbero avere le prime sentenze sulla rapina istituzionale dei vitalizi degli ex Parlamentari e vedo che già Lei (ed altri) state scaldando i motori per rimettere in moto la crociata moralizzatrice contro i presunti privilegi degli ex Parlamentari. Due domande: cosa è che fa sentire la CASTA dei giornalisti (alla quale anche io appartengo ) in grado di sindacare la legittimità dei comportamenti di chi non ha fatto nulla se non adeguarsi alle norme vigenti? La seconda domanda: perché parlate solo dei vitalizi degli ex Parlamentari e non fate nessuna crociata moralizzatrice chiedendo che i parlamentari in carica paghino LE TASSE come tutti gli altri cittadini normali? Davvero Lei, direttore senza macchia e senza paura, non sa che circa due terzi degli emolumenti dei parlamentari sono… esentasse? Mi riferisco alle somme incassate “per spese da sostenere”, ovviamente senza obbligo di rendicontazione. Se i parlamentari pagassero (come il resto degli Italiani) LE TASSE su tutti gli emolumenti percepiti, quanto incasserebbe di più lo Stato? Se gli assistenti parlamentari fossero retribuiti con contratto registrato, quante TASSE in più percepirebbe lo Stato con l’emersione dell’attuale… NERO? Che ne dice di questa nuova crociata moralizzatrice? PAGARE TUTTI PER PAGARE TUTTI MENO: non è questo lo slogan di ora del Governo interessato solo a “sgrassare” i pensionati? E allora… via. Segua… seguite il consiglio di un parassita che tale non si sente avendo lavorato tutta la vita ed essere arrivato “alle pensioni” con le mani pulite e senza l’ombra di una sola chiacchiera addosso. Via alla “crociata mediatica” per fare pagare TUTTE le tasse a TUTTI i parlamentari in carica, come gli italiani normali. O… non può? O… non potete? La stampa non ha padrini politici dai quali prendere ordini. O mi sbaglio?

Ex Senatore Michele Bonatesta

 

Gentile ex senatore (e, apprendo con sgomento, anche giornalista), nel pubblicare la sua lettera testuale (in segno di rispetto più per lei che per i lettori), ho seguito il suo consiglio e ho digitato il suo nome su Google. Non ne è uscito nulla di rimarchevole, a parte una sua meritoria richiesta ai giudici di incriminare Vasco Rossi per porto abusivo di una maglietta col disegno di una foglia di marijuana. Per parte mia, ignorando finora la sua esistenza, non credo di averla mai definita “parassita”. E pensi un po’: condivido addirittura la sua richiesta di tassare tutti gli emolumenti dei parlamentari (con effetto retroattivo, compresi dunque i suoi arretrati). Se però continua a scrivere “l’auto stipendio” con l’apostrofo, la avverto che potrei cambiare idea.

Marco Travaglio