Gli italiani Nesti e Giovando e la campagna d’Africa

La guerra delle licenze per il gioco d’azzardo, in Kenya, è cominciata con una fake news: “Il vicepresidente Ruto ha quote nascoste dentro BetIn”, si leggeva mesi fa sulla stampa locale. I documenti ufficiali forniti dalla società al Fatto Quotidiano smentiscono questa versione. BetIn, infatti, risulta principalmente italiana. Gamcod Ltd, proprietaria del marchio, per il 10% è di Leandro e Domenico Giovando, mentre il 90% è di una società delle Mauritius, Samson Capital Investments Limited, il cui socio di maggioranza è un imprenditore, anche lui italiano, residente a Londra: Stefano Nesti. Un decano, come Giovando, dell’industria dell’azzardo. Il loro fiuto per gli affari li ha portati tra i primi in Africa: i due, infatti, operano insieme anche in Nigeria con il marchio Bet9ja.

Sanno entrambi che se si vogliono mettere al sicuro gli introiti è prudente che le società di gioco abbiano forzieri nascosti offshore e sistemi societari complessi, a discapito della trasparenza. L’azzardo è un gioco rischioso: bisogna adattarsi a mercati e Paesi con regole ed equilibri politici che possono cambiare in un baleno, come dimostra il caso del Kenya. Qui BetIn contava però già sulla reputazione dei Giovando, famiglia molto in vista nel Paese, e contava su due partner kenyoti (uno dei quali sposato con la nipote di Museveni, il presidente dell’Uganda – anche se per i legali di Giovando non è una figura politicamente influente). Non è stato sufficiente.

La partnership tra Nesti e Giovando esiste dal 2012, quando Nesti deve ricostruire una società, Goldbet, che ha rilevato da Paolo Tavarelli, nome all’epoca ancora poco noto, ma ormai ricorrente nelle inchieste sulle scommesse illegali in odore di mafia. Quando Tavarelli lascia Goldbet con il fardello di parecchi debiti per aprire una società concorrente, PlanetWin/Sks365, Nesti inizia la sua “guerra giudiziaria” con l’ex amministratore delegato: i due, dichiarano gli avvocati di Nesti e Giovando al Fatto, “non avranno mai più alcun rapporto”. Nesti tra il 2004 e il 2006 è stato socio e manager del rischio anche di Paradisebet, società dei Martiradonna, famiglia che s’incontra spesso nelle inchieste su mafia e scommesse.

A novembre 2018 la Dda di Bari scrive che tra Nesti e i Martiradonna si apre una causa legale nel momento in cui l’imprenditore prova a comprarsi l’intera società. I due – spiegano gli avvocati di Nesti – non hanno più avuto rapporti, per quanto i Martiradonna abbiano cercato di infilarsi anche nei mercati africani dove operano Nesti e Giovando. In Kenya, riporta la procura antimafia di Bari, i Martiradonna avrebbero cercato una sponda, senza mai concludere l’affare, con John Kamara, imprenditore nel settore blockchain e nel gioco online tra i più famosi del continente.

In Nigeria, invece, secondo i riscontri dell’indagine Galassia (novembre 2018), contano sull’attuale portavoce della Camera dei rappresentanti, Femi Gbajabiamila e sul fratello Lanre, capo del National Lottery Board, il regolatore del gioco in Nigeria. L’email pubblica del parlamentare risulta tutt’oggi legata a due siti di scommesse, ora non più raggiungibili: quickbet247.info e kwikbet247.info. Quest’ultimo compare anche nelle carte delle Dda italiane: sarebbe un marchio aperto nel 2016 dal politico nigeriano con gli emissari dei Martiradonna e il supporto del fratello Lanre, l’uomo che concede le licenze in Nigeria.

Gambling, kenya: nuovo paradiso dell’azzardo per morti di fame

Lo scommettitore seriale, oggi, non frequenta più i casinò. A fiches e tavoli verdi si è sostituito il gioco online. Due click, anche da cellulare, e la puntata è fatta. L’Africa è la nuova terra promessa dei Paperoni del settore. Sponsorship per il ricco calcio inglese, campagne pubblicitarie imponenti, testimonial famosi e una capillare diffusione di internet e smartphone: Nairobi, per le aziende dell’azzardo, è come Londra.

Il settore si mangia ogni anno due miliardi di dollari buttati in giocate dalla popolazione: qui, dati della Banca mondiale, il 36,1% vive sotto la soglia di povertà. Dopo Malta e Regno Unito, il Kenya è stato per almeno gli ultimi cinque anni il luogo dove investire, anche e soprattutto per noi italiani. Un mercato ancora vergine, con pochi competitor, dove gli smartphone sono diventati un bene di consumo anche negli strati più bassi della popolazione. Da qualche mese, però, l’incantesimo si è rotto. E ottenere la licenza è diventato, da giugno, una guerra.

Kenya, Nigeria e Sudafrica registrano il maggior numero di scommettitori in Africa. Il profilo dello scommettitore medio è tracciato da diversi studi statistici, tra cui quelli di PricewaterhouseCoopers: nel 70% dei casi sono under 35 e, solitamente, disoccupati. Molti i minori, nonostante la legge vieti loro le puntate: “Nella maggior parte dei casi giocano con un telefono, con la complicità degli adulti, o all’interno dei cyber caffè”, spiega al Fatto Quotidiano Jennifer Kaberi, del National Coordinator for Children Agenda forum.

Ma dove trovano i soldi? “Alcuni svolgono le mansioni più disparate come il lavaggio auto, o lavori domestici. Qualcuno invece ruba, o utilizza i risparmi che servirebbero per le tasse scolastiche”. Il gioco inizia quindi a emergere come vera e propria piaga sociale.

La guerra alle società di gaming straniere (e italiane)

Sugli ultimi beneficiari del settore delle scommesse si vocifera da sempre sui media kenyoti. L’attuale capo di Stato Uhuru Kenyatta, attraverso il suo ministro dell’Interno, Fred Okengo Matiang’i, ha fatto del contrasto all’azzardo la sua campagna politica. Matiang’i ha deciso di sospendere 27 licenze, per riassegnarle a gruppi nuovi, più piccoli.

L’attuale regolamentazione ha messo in ginocchio i vecchi titolari delle licenze, perché è cambiata la base imponibile sulla quale le aziende dell’azzardo pagano le tasse: invece del netto della vincita, come accadeva prima, ora è l’intero importo giocato, più la vincita. Modifica retroattiva, che riguarda l’intera storia fiscale in Kenya di un’azienda del settore. Il risultato è stato un conto di diverse centinaia di milioni di euro, cifra irricevibile in particolare per tre società – SportPesa, BetIn e BetWay – che pesavano da sole per l’80% del mercato.

La guerra alle scommesse fa in realtà parte di uno scenario più ampio: lo scontro tra Kenyatta e il suo vice, William Ruto, il quale vorrebbe succedergli alle presidenziali del 2022. Gli effetti sono stati immediati: 17 dirigenti stranieri di società di betting e gaming non possono più rientrare nel Paese. È accaduto anche a due cittadini kenyoti di origini italiane: Leandro e Domenico Giovando, padre e figlio. Proprietari di Gamcode, società che in Kenya opera con il marchio BetIn, e che adesso sono bloccati a Londra.

Eppure Nico Giovando in Kenya ci è nato. La famiglia è nota per essere proprietaria del residence extralusso Almanara, sulla spiaggia bianca di Diani, dove, tra i tanti, ha trascorso le vacanze il famoso allenatore José Mourinho. “La dirigenza ha avuto diversi incontri con gli organi governativi allo scopo di rinnovare la propria licenza, ma senza successo,” si legge in una nota diffusa a fine settembre da BetIn. “Si è reso impossibile salvaguardare tutte le posizioni lavorative”. A rimetterci il posto sono stati 200 lavoratori, rimasti a casa. Secondo gli avvocati che rappresentano la società, il governo sarà costretto a tornare sui suoi passi: gli effetti sulle casse pubbliche si sentiranno, con il ridursi delle giocate.

Stessa sorte è toccata anche alla rivale storica di BetIn, SportPesa: l’azienda ha annunciato che finché non verrà ristabilito un “ambiente non ostile” in Kenya, tutte le attività rimarranno bloccate. Sembrava impossibile che il colosso potesse cadere: l’azienda sponsorizza il team di Formula 1 Racing Point e anche l’Everton, nella prestigiosa Premier League inglese. Nata nel 2014 grazie a un’alleanza tra investitori bulgari e imprenditori locali, è stata anch’essa più che chiacchierata. Il Guardian, a luglio 2019, le ha dedicato un pezzo, insistendo in particolare sulla totale assenza di trasparenza nei bilanci e sui legami della parte bulgara della proprietà con dei politici a Sofia.

Secondo quanto scoperto dai giornalisti inglesi di Finance Uncovered, l’anno scorso SportPesa avrebbe fatturato più di un miliardo di euro. Numeri da capogiro che fanno rima con un’espansione globale, Italia compresa.

Nel nostro Paese l’azienda è sbarcata già nel 2017, quando ha assunto il controllo, tramite Rcs Gaming, di Gazzabet, il portale di scommesse de La Gazzetta dello Sport. Una partnership che continua tutt’oggi perché SportPesa detiene il 75% delle quote, mentre il gruppo dell’imprenditore Urbano Cairo resta come socio di minoranza.

Dall’Italia all’Africa:
il caso M-Pesa

Dall’Italia all’Africa c’è un passaggio che da più fronti viene ritenuto fondamentale per la crescita del settore delle scommesse. Si tratta del caso di M-Pesa, il servizio di trasferimento denaro nato proprio in Kenya nel 2007.

A gestirlo è l’azienda Safaricom, associata al colosso telefonico Vodafone, già coinvolta in passato in alcuni scandali per aver ceduto i dati dei propri utenti al governo. Per usarlo basta un cellulare che viene trasformato in una sorta di portafoglio con codici autogenerati, con cui gli utenti possono effettuare pagamenti, inviare denaro e riceverlo. Compresi i soldi che si vincono scommettendo.

A luglio scorso, però, con il Betting Control and Licensing Board kenyota che ha chiesto a Safaricom di sospendere il servizio alle società di scommesse è arrivato il colpo di scena.

C’è da scommettere, è il caso di dirlo, che non sarà l’ultimo.

 

Gabrielli: “Non è Gotham City” Il capogruppo leghista lo attacca

Per 14 mesi Matteo Salvini e Franco Gabrielli hanno convissuto al Viminale, uno ministro e l’altro capo della Polizia, senza apparenti scontri. Ieri, però, per la prima volta dopo l’esperienza gialloverde, la Lega ha mandato il capogruppo al Senato, Massimiliano Romeo, all’attacco del capo della Polizia che a margine di un’iniziativa pubblica aveva ridimensionato l’allarme criminalità nella Capitale. “Che Roma abbia i suoi problemi credo nessuno non lo riconosca, ma rappresentarla come Gotham City…”, ha detto Gabrielli, sottolineando che i presunti responsabili dell’omicidio di Luca Sacchi “sono stati subito individuati e sono stati definiti i contorni di una vicenda che con una città alla deriva e in mano al crimine ha poco a che fare”. E ancora: “Gli accertamenti che l’autorità giudiziaria disvelerà, quando riterrà opportuno, non ci raccontano la storia di due poveri ragazzi scippati. Lo dico tenendo sempre ben presente, non vorrei essere equivocato, che stiamo parlando della morte di un ragazzo di 24 anni”, aggiungendo considerazioni sull’efferatezza del delitto”, le “bande giovanili fuori da logiche criminali più strutturate”, il ruolo delle “agenzie educative”, l’azione “sinergica, senza gelosie” e il ruolo della madre che ha denunciato il figlio. “Commenti fuori luogo”, ha sentenziato Romeo, fedelissimo di Salvini.

Il pasticcere armato e il fan di Gomorra amante dei tatuaggi

Uno è un “ragazzo d’oro” trasformatosi in un killer, che è andato a lavorare in pasticceria anche all’indomani del delitto. L’altro è un “soggetto difficile”, con precedenti di polizia per droga, probabilmente colui che ha organizzato la rapina in cui è rimasto ucciso il 24enne Luca Sacchi. Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, 21 anni entrambi, due storie parallele ma differenti, nella periferia romana di Casal Monastero, quartiere sorto negli anni 90 appena fuori dal Grande Raccordo Anulare, fra le direttrici Nomentana e Tiburtina. Zona “residenziale” limitrofa alla più antica borgata di San Basilio, che i due fermati di ieri da tempo frequentavano, nota per essere una delle principali piazze di spaccio tra le oltre 100 censite nella Capitale.

“Mai ci saremmo mai immaginati una cosa del genere”, commentano gli amici dei genitori, che vanno e vengono da una delle villette a schiera dove Valerio abita insieme al padre Gianni (autista Ncc) e alla madre Giovanna (casalinga), alla sorella Beatrice e ad una ragazza di 19 anni da cui, appena 5 mesi fa, aveva avuto un bambino. “Ma i due non stanno più insieme”, raccontano ora gli amici. Gli altri due fratelli maggiori, Simone e Andrea, vivono da tempo altrove. “Valerio è un ragazzo serio, sempre puntuale al lavoro, conosciamo i genitori e i fratelli da 20 anni: tutte brave persone. Siamo impietriti”, racconta la titolare della pasticceria “La Sabina”, dove il ragazzo aveva iniziato a lavorare da circa un anno prima come cuoco nel ristorante affianco e poi come aiuto pasticciere. “È venuto a lavorare anche giovedì (il giorno dopo l’omicidio, ndr) – racconta la donna – poi ha detto che non si sentiva bene ed è andato via. Siamo scioccati”.

Per le forze di polizia Valerio era quasi uno sconosciuto, unica macchia la denuncia per percosse della ex fidanzata. Insomma, un normale 21enne di periferia. Cosa è stato a trasformarlo in un killer? Negli ultimi tempi la sua vita era cambiata radicalmente. “Si è messo con questa ragazza e lei è rimasta subito incinta”, racconta una vicina di casa. “Gianna ha accolto in casa lei e il bimbo, ma ultimamente c’erano problemi. Ogni tanto si sentiva litigare, arrivavano urla. Forse c’erano problemi economici”. Valerio, probabilmente, aveva bisogno di soldi. Simone, il fratello più grande che da poco si è sposato, aveva provato ad aiutarlo, gli aveva trovato il lavoro nella pasticceria di fronte. Ma, ipotizza chi lo conosceva, Valerio doveva “arrotondare”. Perché a 21 anni, con un bimbo piccolo, i soldi non bastano mai. E così dev’essere finito in un tunnel senza uscita. Il ragazzo stava diventando anche violento: la sua ex compagna era arrivato a denunciarlo per percosse, le aveva rotto un timpano con uno schiaffo e lei lo aveva lasciato. Problemi che nemmeno la grande forza di mamma Giovanna è riuscita ad affrontare. Lei che la sera successiva alla sparatoria è andata, insieme al figlio Andrea, a denunciare Valerio. “Mi sa che ha fatto una cazzata”, avrebbe detto ai poliziotti, sbigottiti, del commissariato San Basilio. Un amico di Valerio l’aveva detto al fratello: “Ha sparato lui”. “Questo è un quartiere tranquillo – racconta Francesco, un coetaneo di Valerio – ma San Basilio è lì, dietro il Raccordo. Qui non c’è niente, la sera chiude tutto, ci vieni solo a dormire. E allora uno prende il motorino e va dall’altra parte”.

Qui entra in scena Paolo. Che come Valerio abita a Casal Monastero ma è molto più conosciuto a San Basilio. “Te pare che te vengo a di’ che fa’ e dove sta?”, ci dice, un po’ beffardo, il titolare del bar vicino alla chiesa della borgata. “È una tragedia che coinvolge due ragazzi, lasciateci in pace, vi prego”, dice al citofono, in lacrime, mamma Paola. È la zia, Patrizia, che da tempo cercava di proteggerlo, a modo suo: “Paolo, ma perché metti queste foto? Almeno proteggi il profilo”, gli scriveva, ingenuamente, su Facebook, dove si chiama “Paoletto” e sfoggiava tatuaggi raffiguranti armi da fuoco e postava foto in stile Scarface e Gomorra, cantanti neomelodici napoletani e frasi come “La pazzia tiene sana la mente”.

Secondo le prime indagini, è stato lui a coinvolgere Valerio. “Vieni, mi fai da autista, ti prendi qualche soldo”, gli avrebbe detto, dandogli “il ferro” in mano. Forse non aveva pensato alle conseguenze di affidare una pistola in mano a un “novellino”. Fatto sta che ora i due, da una rapina di qualche centinaio di euro, si trovano accusati di omicidio, anche se non hanno ancora ammesso alcuna responsabilità davanti agli inquirenti.

“Ho avuto modo di parlare con lui per pochi minuti questa notte – racconta il legale di Del Grosso –. Questa è una tragedia che colpisce tante persone, familiari, amici. Anche la famiglia di Valerio, composta da persone oneste. Anche il mio cliente, da quanto so, non ha precedenti penali gravi. Lavorava come pasticcere. Questa vicenda rappresenta un fulmine a ciel sereno”.

Alla Capitale il primato dei reati di droga, ma la città più pericolosa d’Italia è Milano

L’omicidio del 24enne Luca Sacchi avvenuto a Roma mercoledì scorso riapre un tema molto sentito: la percezione della pericolosità delle città italiane. Roma e Milano, chi vince? Diciamolo subito: Milano è la città più pericolosa d’Italia, anche perché è la città dove i reati vengono maggiormente denunciati con 228 mila denunce in un anno. L’argomento però non è affatto semplice e in molti casi si rischia di leggere in modo erroneo i numeri delle statistiche. È comunque dai numeri che bisogna partire. Quelli più aggiornati e completi stanno nell’indice della criminalità elaborato dal Sole 24 ore (pubblicato il 14 ottobre) sulla base dei dati del dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno rispetto al 2018. Delitti commessi e denunciati vengono tradotti in tassi calcolati su 100 mila abitanti.

Il calcolo è fatto sulle province, particolare rilevante visto che la provincia di Roma è molto più vasta di quella di Milano e dunque i dati relativi alla Capitale rappresentano meglio il comune rispetto a quelli di Milano. Una guida alla lettura che ci viene suggerita dal sociologo Marzio Barbagli, il quale ci aiuterà a dare un senso ai numeri. Milano, dunque, è la città più pericolosa d’Italia e Roma si piazza solo al sesto posto. Anche se questa “pericolosità” a Milano è distribuita maggiormente sulla provincia, mentre a Roma si concentra più sul territorio cittadino. Eppure nella Capitale, seguendo le cronache, almeno nell’ultimo periodo si uccide e si spara più spesso. Prima di Luca Sacchi, c’è stato il caso del proiettile vagante che ha colpito il nuotatore Manuel Bortuzzo. O l’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega. Insomma, ci sarebbe da preoccuparsi se non fosse che l’omicidio è in Italia un reato in continuo calo (-14% rispetto al 2017). “Oggi – spiega Barbagli – abbiamo il tasso più basso di omicidi degli ultimi cinque secoli: 0,7 su 100 mila abitanti. Nel 1991 gli omicidi furono 1.900”. Nella storia poi Milano ha avuto sempre più omicidi di Roma. Nel 1984 il tasso del capoluogo lombardo era di 2,8, con Roma a 1,3. Nel 2014 Milano è scesa a 1,1 e Roma a 0,9. Il record spetta a Catania con un tasso del 16,8 calcolato nel solo 1992.

A oggi dunque non sono gli omicidi a darci il senso di pericolosità. Un “buon” reato può essere lo spaccio di droga? Secondo i dati del Sole 24 Ore, Roma conduce la classifica. “Ma quel dato – spiega Barbagli – rappresenta l’attività della polizia. Ed è più alto perché a Roma ci sono più forze dell’ordine. Non solo. Quel numero non mi dice affatto che c’è più traffico di droga a Roma rispetto a Milano”. Un ragionamento in linea peraltro con la consapevolezza da parte dell’autorità giudiziaria che Milano rappresenta oggi la maggior piazza di smercio della droga a livello europeo. Dunque, se omicidi e spaccio di droga non sono il vero termometro per misurare la pericolosità, allora quali reati? Certamente quelli di tipo “predatorio”, e dunque furti in appartamento, scippi e rapine. Qui Milano guida la classifica praticamente su quasi tutti i fronti. Stando all’ultimo Bilancio sociale presentato dalla Procura del capoluogo lombardo ogni mese sul territorio di Milano vengono presentate 1.000 denunce per furto in abitazione. Rispetto alla Capitale, a Milano ci sono molte più rapine, uno dei termometri principali della pericolosità. La città dell’Expo è seconda solo a Napoli, Roma sesta.

Spiega Barbagli: “Questi reati sono certamente un dato importante perché creano insicurezza nella popolazione, e del resto dopo l’omicidio è il reato che ha pene più alte”. Ecco allora il punto che rende Milano oggi certamente la città più pericolosa d’Italia. E se gli omicidi calano, “furti e rapine – spiega Barbagli –, soprattutto nel nord non sono mai scesi”. Dal 1984 a oggi, Milano ha avuto tassi di rapine sempre molto più alti di Roma.

“Gli amici cercavano hashish. Così hanno ammazzato Luca”

Volevano comprare dell’hashish, ma lo scambio con gli spacciatori si è trasformato in una rapina finita con la morte di Luca Sacchi, personal trainer di 24 anni, ucciso mercoledì sera davanti a un pub nel quartiere di Colli Albani, a Roma. Le indagini sono state rapide: in meno di 24 ore in due sono finiti in carcere per omicidio, rapina, detenzione e porto abusivo di armi. Sono Valerio Del Grosso e Paolo Pirino, entrambi di 21 anni, che vivono nel quartiere di Casal Monastero appena fuori dal Raccordo anulare. Piccoli precedenti di polizia. La svolta è arrivata grazie alla madre del primo, che mercoledì notte si è presentata al commissariato di polizia del quartiere San Basilio: “Mio figlio ha fatto una cazzata”. Oggi i due risponderanno alle domande del giudice della convalida.

I carabinieri del Nucleo Investigativo e la Squadra mobile di Roma sono riusciti a tracciare un primo quadro di quanto è accaduto la sera del 23 ottobre. All’inizio si pensava a una semplice rapina finita nel sangue. Ma tanti elementi hanno insospettito gli investigatori: la pistola che avevano con sé, ma anche la Smart (ora sequestrata) con la quale si muovevano i due fermati.

Così si è scoperto che dietro quella apparente c’è in realtà un’altra storia. Mercoledì sera, Luca Sacchi si trova con la fidanzata Anastasia Kylemnyk, una giovane ucraina di 25 anni, e altri due amici. Proprio lei – secondo gli investigatori – avrebbe avuto contatti con uno dei due accusati dell’omicidio. Per acquistare hashish. È scritto nel decreto dei pm di Roma che i due fermati “avrebbero dovuto consegnare dello stupefacente ad un gruppo di amici della vittima, ma in realtà erano intenzionati a rapinare i giovani dei soldi che sapevano detenere in uno zaino da donna senza consegnare la droga”. La pista dell’hashish – ricostruita agli investigatori dai due amici di Luca e Anastasia presenti quella sera – è stata invece negata dalla giovane ucraina: “Questioni di droga? – ha detto ieri intervistata dal Tg1 –. Noi eravamo lì per tenere d’occhio il fratellino che era al pub”. E gli esami tossicologici sul corpo di Luca Sacchi confermano che il ragazzo non aveva assunto droghe.

Lo scambio, però, non c’è mai stato. Dettagli di ciò che è avvenuto li racconta un altro testimone, un amico di Del Grosso presente prima dell’omicidio. Il giovane agli investigatori spiega che era stato “incaricato da Del Grosso di verificare se persone in zona Tuscolano avessero il denaro per comprare come convenuto ‘merce’ e di essersi recato (…) a bordo della vettura di questi, in via Latina incontrando” poi una terza persona. Secondo il ragazzo “una donna in quel contesto”, ossia la fidanzata di Luca, “aveva lasciato uno zaino che lui stesso aveva constatato contenere soldi divisi in due mazzette, da 20 e 50 euro”, almeno 200 euro.

Del Grosso e Pirino, invece di consegnare l’hashish, aggrediscono la ragazza colpendola da dietro con una mazza da baseball. Lei cade a terra e così Luca interviene per difenderla. Con una mossa di ju-jitsu, un’arte marziale, butta a terra Pirino. E a quel punto Del Grosso estrae la pistola – forse una calibro 38 di cui solo alcune parti sono state ritrovate – e spara. “Del Grosso – è scritto nel decreto di fermo – esplodeva contro Sacchi un colpo di arma da fuoco da distanza ravvicinata in direzione del capo”. Un altro testimone racconta la vicenda, ma per averla saputa da un amico: Anastasia, dice, è “la stessa ragazza che aveva fatto vedere i soldi mentre il ragazzo ferito faceva parte del gruppo di giovani che doveva comprare la droga”.

A indirizzare le indagini è stata la madre di Del Grosso. Giovanna, quattro figli e una casa a Casal Monastero, si è presentata al commissariato di San Basilio e ha riferito “di aver appreso da un amico” di suo figlio che “Valerio aveva sparato ad una persona”. È stata sentita dagli investigatori anche la nuova fidanzata di Del Grosso: è lei che agli agenti ha detto di averlo accompagnato in un residence a Tor Cervara. “Del Grosso, ndr) – ha raccontato la giovane – mi ha solamente detto che il suo intento era quello di spaventare e non di uccidere”. E ancora: “Mi riferiva che aveva sparato in testa ad una persona non specificandone le spiegazioni”.

Quando viene fermato Del Grosso si arrende e guida gli investigatori nei posti in cui aveva gettato borsa e portafogli, il tamburo dell’arma e la mazza. I due quindi ora sono in stato di fermo. Per i pm “sussistono specifici elementi che fanno ritenere fondato il pericolo di fuga. (…) Erano oramai consapevoli delle indagini a loro carico e godendo di non poche complicità potrebbero fuggire per sottrarsi alle conseguenze dell’omicidio”.

La trattativa per portare l’ex onorevole ballerina in tv a condurre su Rai1

Teresa De Santis vuole a Rai1 Nunzia De Girolamo, ma per ora la cosa si blocca. Secondo alcune fonti – ne scrive anche l’Adnkronos – nei giorni scorsi la direttrice della rete ammiraglia ha avviato una trattativa con l’ex parlamentare di Forza Italia per affidarle la co-conduzione di Linea Bianca, programma di montagna, gastronomia, natura e sport che sta per tornare il sabato su Rai1, condotto da Massimiliano Ossini. De Santis, però, in questa stagione voleva affiancargli la De Girolamo. L’ex ministra delle Politiche agricole nel governo Letta, infatti, sta vivendo una seconda vita dopo il Palazzo: ha partecipato a Ballando con le stelle (sempre Rai1), è spesso ospite di programmi tv ed è in pianta stabile come opinionista la domenica sera a Non è l’arena di Massimo Giletti su La7. Non solo video, anche giornali: nel 2018 sono apparsi suoi articoli su Libero e Il Tempo.

Niente di male: Nunzia in tv funziona, buca lo schermo e ha tutto il diritto di costruirsi una nuova vita professionale dopo la mancata elezione nel 2018 per Forza Italia. Qualche sospetto, però, lo desta il tentativo di De Santis. La direttrice di Rai1 è in una posizione assai debole. Nominata in quota Lega, con Salvini all’opposizione si ritrova alla guida della rete ammiraglia senza una forte copertura politica. In più gli ascolti non l’aiutano, visto che la rete è in costante calo. Insomma, la sua poltrona traballa parecchio e molti la vedono in uscita, anche perché la direzione di Rai1 fa molta gola al Pd. Naturale, dunque, che la “direttora” stia cercando sponde politiche per difendere, e blindare, la sua posizione. Sponde che stanno nel centrodestra, come Fi, ma soprattutto nel Pd, cui un tempo De Santis era vicina. Nunzia De Girolamo non solo è stata parlamentare forzista, ma suo marito è Francesco Boccia, piddino, ministro degli Affari regionali. Insomma, assoldare De Girolamo, senza voler togliere meriti alle doti di Nunzia, potrebbe essere un modo per De Santis di coprirsi a sinistra. “L’azienda smentisce che nei palinsesti presentati in cda il 23 ottobre sia prevista la conduzione di Nunzia De Girolamo a Linea Bianca”, fa sapere la Rai. Parole che però non smentiscono la trattativa tra De Santis e la moglie del ministro Boccia. Trattativa di cui, sembra, Fabrizio Salini non fosse a conoscenza.

Cucchi, giudice sotto accusa “È troppo vicina all’Arma”

Ameno di tre settimane dalla prima udienza del processo agli ufficiali dei carabinieri per il depistaggio sulla morte di Stefano Cucchi, gli avvocati di parte civile, in testa Fabio Anselmo per la famiglia della vittima, hanno scritto una lettera al presidente del Tribunale di Roma Francesco Monastero. Gli chiedono di valutare se non sussistano motivi di astensione proprio del giudice monocratico Federico Bona Galvagno che dovrà celebrare il processo a partire dal 12 novembre.

Otto gli imputati, tra i quali il generale Alessandro Casarsa e i tenenti colonnello Francesco Cavallo e Luciano Soligo, accusati di aver commesso, tra il 2015 e il 2018, dei falsi e depistaggi pur di coprire quanto successo la notte del 15 ottobre 2009, quando Stefano, dopo l’arresto dei carabinieri, subì un pestaggio violentissimo. Una settimana dopo morì.

“Da un casuale accesso a fonti aperte – scrivono gli avvocati – è emerso che il giudice Bona Galvagno ha partecipato quale magistrato del tribunale di Terni a una serie di eventi (convegni, conferenze) tenutisi tra il 2016 e il 2018 che, sia per l’oggetto, sia per i partecipanti, tra gli altri appartenenti all’Arma, hanno attirato l’attenzione di chi scrive. In particolare”, prosegue l’istanza dei legali di parte civile, due incontri del 2018. Uno di maggio, a cui ha partecipato l’ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette e un altro di novembre a cui oltre a Del Sette ha partecipato il generale Leonello Saliva. Tutti dedicati all’Arma. Del Sette, evidenziano, infine, i legali “di recente è stato rinviato a giudizio presso questo Tribunale (caso Consip, ndr)” e quindi chiedono al presidente Monastero se non ritenga vi siano i presupposti per un’astensione del giudice Bona Galvagno “in relazione allo specifico tema del processo assegnato al magistrato (depistaggi dei carabinieri, ndr) e alle considerazioni svolte”.

Inoltre, “dato il clima di forte sospetto, la divulgazione di queste informazioni potrebbe far nascere speculazioni che finirebbero per influire sul clima sereno di giudizio” che deve esserci.

Se il presidente del tribunale dovesse pensarla diversamente dagli avvocati, i difensori delle parti civili valuteranno se presentare una richiesta di ricusazione del giudice Bona Galvagno. Il generale Del Sette, secondo quanto ci risulta, potrebbe anche essere chiamato a testimoniare dall’avvocato Anselmo, ma ancora la lista testi non c’è.

In udienza preliminare l’Arma dei carabinieri, sotto il comando del generale Nistri, si è costituita parte civile. Nell’atto, scritto dagli avvocati dello Stato Maurizio Greco e Massimo Iannuzzi si legge che le condotte dei carabinieri imputati hanno causato “un gravissimo intralcio all’azione della magistratura… hanno sortito l’effetto criminogeno di sviare l’accertamento” dei fatti.

Per la morte di Stefano Cucchi il mese prossimo è attesa la sentenza di primo grado del processo bis. Il pm Giovanni Musarò, per omicidio preterintenzionale, ha chiesto la condanna a 18 anni di carcere per i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro; per la stessa imputazione richiesta di assoluzione nei confronti di Francesco Tedesco, il carabiniere che, dopo 10 anni, ha raccontato del pestaggio dei suoi colleghi. Per lui c’è una richiesta di pena a 3 anni e 6 mesi per falso. Stessa imputazione, ma una richiesta di 8 anni di pena per il maresciallo Roberto Mandolini, ex comandante della stazione Appia.

De Falco riporta il M5S in tribunale

Il prossimo round è previsto per il 19 novembre. Quando il Tribunale di Roma esaminerà nel merito il ricorso di Gregorio De Falco contro il Movimento 5 Stelle che lo ha espulso per aver votato, in diverse circostanze, in difformità alla linea politica del gruppo. In sede cautelare il suo reclamo è stato respinto perché, a detta dei giudici, “il divieto di mandato imperativo (previsto dall’articolo 67 della Costituzione, ndr) non implica l’impossibilità, per l’associazione-partito politico alla quale un determinato parlamentare appartenga, di recidere il vincolo associativo qualora sia venuta meno l’affectio societatis”. Insomma si tratterebbe di due piani diversi: da un lato il vincolo associativo, dall’altro il libero esercizio delle funzioni parlamentari che restano garantite “dalla impossibilità, per l’associazione-partito, di incidere sull’appartenenza del parlamentare al Senato della Repubblica”.

E la sanzione da 150 mila euro prevista dallo Statuto del M5S? Per i giudici cautelari De Falco non ha nulla da temere, almeno per il momento. Perché “il pagamento della somma non risulta – allo stato – richiesta all’associato escluso: e, d’altra parte, il tempo trascorso dalla intervenuta adozione del provvedimento di esclusione fa ritenere che l’associazione abbia inteso rinunziare, ancorché implicitamente, ad applicare tale ulteriore sanzione”. Questo in sede cautelare: dal 19 novembre si entrerà nel dettaglio di tutte le questioni con un’udienza dedicata alla richiesta di ammissione dei testi.

Ma non è tutto. Perché De Falco, tramite il suo avvocato Lorenzo Borrè, aveva anche proposto un secondo ricorso sempre contro l’espulsione anche dal gruppo parlamentare pentastellato al Senato. Il Tribunale in questo caso ha stabilito che la questione è di competenza dell’organo di giustizia interna di Palazzo Madama per individuare il quale la difesa del senatore ha proposto un regolamento preventivo di giurisdizione che verrà discusso il prossimo 14 febbraio di fronte alla Corte di Cassazione.

No delle banche: incentivi alle carte pagati dallo Stato

Non saranno le banche a ridurre le commissioni sui pagamenti elettronici, ma lo Stato a ridurre i costi per i commercianti. Quelli che oggi pagano in media l’1,5% sulle transazioni con le carte di credito e lo 0,95% sui bancomat. Per mettere un freno all’uso cospicuo che si fa in Italia del contante non si agirà più sulla leva degli eccessivi balzelli imposti dalle banche che – secondo Confesercenti – tra canone, spese di installazione e aggiornamenti, vanno da una media di 55 euro al mese per chi striscia carte fino a 2.000 euro ai 143 euro pagati da chi ha volumi mensili superiori a 5.000 euro al mese. Nell’ultimo bozza del decreto Fiscale è stato raggiunto un difficile compromesso tra il governo giallorosa e la lobby bancaria, inserendo un credito d’imposta del 30% sulle commissioni che sarà riconosciuto alle attività con ricavi e compensi entro i 400 mila euro. Il beneficio partirà dalle spese sostenute dal 1° luglio 2020, quando – a 7 anni dall’introduzione – entreranno in vigore anche le multe per chi non accetta il Pos (30 euro più il 4% del valore della transazione rifiutata). Per come è combinato, lo sconto non darà un grande beneficio: vale 53,9 milioni di euro. “Significa poche decine di euro l’anno per commerciante, dal momento che la relazione tecnica del decreto fiscale stima in 3,1 milioni la platea di potenziali beneficiari”, ha commentato la presidente di Confesercenti, Patrizia De Luise.

Non molto per chi cerca di stanare gli evasori spingendo sui pagamenti elettronici, il cui ammontare a fine 2018 è arrivato a 32,2 miliardi di euro. Ma per ora è l’unica misura emersa da un complicato tavolo con il mondo bancario, cercando di rimanere dentro il recinto delle regole europee. Dopo diversi incontri, l’Abi (la Confindustria delle banche) – che già deve fare i conti con margini sempre più ridotti su mutui e prestiti vista la politica dei tassi negativi della Bce – ha spiegato ai tecnici del ministero dell’Economia che imporre uno sconto a tutti sulle commissioni dei Pos potrebbe costituire una barriera contro l’ingresso di eventuali nuovi intermediari internazionali. Insomma un cartello autorizzato dallo Stato. Un pericolo che l’Ue conosce benissimo. Nel 2015, per fissare le commissioni interbancarie allo 0,2% per transazione quando si utilizza il bancomat e allo 0,3% per le carte di credito – vale a dire quelle che tutte le banche in Europa si pagano tra di loro – ha impiegato 8 anni strappando un accordo tra le parti che scade a fine 2020.

Insomma, è un equilibrio complicato da raggiungere, anche perché gli attori che si spartiscono le commissioni sui Pos sono molti: le banche che emettono le carte e che sostengono gli investimenti in sicurezza a cui va poco più della metà delle commissioni, e chi gestisce i servizi tecnologici (come Nexi o Sia), Bancomat spa (la società che gestisce i Pos) e i circuiti internazionali di pagamento, da Visa a Mastercard che si dividono il resto. Nei giorni scorsi, Carlo Messina, ad di Intesa Sanpaolo, ha fatto da apripista sulla revisione dei termini delle piccole transazioni cashless fra i 10 e i 20 euro che rappresentano il 25% delle operazioni senza contanti.

Ma il primo gruppo bancario italiano è quello che, nel confronto con Unicredit e Bnl, ha il maggior numero di Pos e i costi di commissione più alti. Secondo le condizioni economiche imposte nel prospetto informativo, senza considerare gli ampi margini discrezionali che la banca può negoziare, un esercente paga 45 euro al mese per il canone del Pos, 200 euro per il costo di installazione e le commissioni oscillano tra l’1,8% per i bancomat e il 3,5% per le carte di credito. Con Unicredit si spendono in media 100 euro per il Pos e le commissioni vanno dal 2,25% per i pagamenti con il bancomat al 3,55% per quelle di credito. Bln chiede 100 euro per il noleggio mensile del Pos, 2,5% di commissione per il Bancomat e fino al 3% per le carte di credito. Eppure in un Paese liquido, in cui con i contanti si pagano l’86% degli acquisti, qualcosa è già cambiato grazie alle tante soluzioni Fintech, alcune totalmente made in Italy: da Postepay a Satispay, da Tinaba a Yap che hanno raggiunto il 7% del mercato. La carta vincente è la concorrenza. “Basta scaricare l’app su smartphone o pc e senza bisogno di Pos si eseguono le transazioni. Non ci sono commissioni. I commercianti non pagano nulla fino a 10 euro; dopo il costo è di 20 centesimi fissi”, spiega Alberto Dalmasso di Satispay.