Sciopero, Di Maio: “Sempre di venerdì”

È stato un venerdì nero per lo sciopero generale in tutta Italia proclamato dai sindacati confederali. Disagi nella scuola e nella giustizia per la mobilitazione degli avvocati. Ferme tutte le categorie pubbliche e private nel trasporto aereo e ferroviario. Ma è Roma che ha avuto gli strascichi peggiori, trasformandosi in una protesta aperta contro l’amministrazione Raggi e spostando l’attenzione dai motivi della mobilitazione alle tensioni tra le due forze alleate di governo.

Nella Capitale alla mobilitazione generale delle partecipate, si somma lo sciopero generale indetto da alcune sigle di base nei trasporti che fa sentire i suoi effetti sin dal mattino: metro C chiusa, ferrovia Roma Lido chiusa (e poi riaperta), metro A attiva con lievi riduzioni di corse, alcuni bus soppressi. In Ama, la municipalizzata dei rifiuti, è guerra di cifre tra i sindacati da una parte e l’aziende del Comune dall’altra: il 75% di adesioni allo sciopero riferito dai primi diventa il 38% stando ai dati ufficiali della società. La Cgil conferma i suoi dati e ne snocciola degli altri: ad incrociare le braccia in Roma Metropolitane (la società nata per programmare e appaltare le opere di mobilità di cui recentemente il Campidoglio ha decretato la liquidazione) “sono stati il 90% dei lavoratori. Gli asili comunali sono in gran parte chiusi. I centri informativi turistici sono tutti chiusi”. Aperti invece i musei civici, tranne Villa di Massenzio.

A infiammare la protesta a Roma è un tweet della sindaca. “Una minoranza di sindacalisti prova a tenere in ostaggio una città di 3 milioni di abitanti: di lavoratori, di madri e padri che ogni giorno accompagnano i propri figli a scuola, di studenti e pendolari. La maggioranza dei cittadini è stanca di scioperi ingiustificati”, scrive la Raggi che nei giorni scorsi aveva chiesto, invano, la revoca dello sciopero. Parole che hanno gettato benzina sul fuoco della protesta, dopo che il messaggio viene letto in piazza tra urla e fischi contro la prima cittadini.

A distanza, via etere, il leader M5s Luigi Di Maio ai microfoni di Un giorno da pecora su Rai Radio1 rincara la dose. “Sostengo tutte le manifestazioni per il diritto del lavoro, da ministro avevo proposto il salario minimo e il decreto dignità, quindi sono insospettabile. Ma è mai possibile che tutti gli scioperi si facciano di venerdì? La storia che alcuni sindacati fanno sempre sciopero il venerdì per fare il weekend, mi sembra ormai una questione indecente”. E aggiunge: “Così non si crea un torto alla politica, ma ai cittadini che devono tornare al lavoro”. Una forte accusa che spinge il segretario del Pd Nicola Zingaretti a rispondere con un tweet: “Capisco chi ha scioperato a Roma per chiedere un miglioramento della qualità dei servizi della città. Non bisogna mai aver paura delle richieste che arrivano dai sindacati, dai lavoratori e dai cittadini”.

Intanto a Milano, dove non si sono registrati disseverzi, l’unico blocco della metropolitana c’è stato alle ore 15, quando qualcuno ha spruzzato dello spray al peperoncino nella stazione della metropolitana di Cimiano, sulla Linea verde.

Fondi della cooperazione a chi fa armi: scontro 5S-Pd

L a norma della discordia tra giallorosa è composta da poche righe. Eppure sono bastate per provocare uno scontro frontale tra ministeri tale da bloccare il decreto Fiscale, e con esso le misure che devono apportare svariati miliardi alla manovra. I litiganti sono il ministero degli Affari esteri e quello dell’Economia, Luigi Di Maio contro Roberto Gualtieri, anche se al momento la sfida è tra i rispettivi staff. E il nodo è un comma – fortemente voluto dal Tesoro pare su indicazione della Difesa – che autorizza anche le imprese militari italiane a partecipare alle iniziative di cooperazione allo sviluppo con progetti di tipo civile. Apre scenari interessanti per il settore, alle prese con un futuro brusco calo di sovvenzioni pubbliche.

La norma è il comma 2 dell’articolo 54 del decreto (“Misure a favore della competitività delle imprese italiane”). Nella relazione tecnica si spiega che serve “per eliminare uno svantaggio competitivo per il sistema produttivo nazionale”. Oggi le imprese che operano nell’ambito delle tecnologie avanzate e quindi producono sistemi civili, duali e militari, devono iscriversi all’apposito registro del ministero della Difesa previsto dalla legge 185 del 1990 per il controllo dei trasferimenti di armamenti. In sostanza, è la condizione necessaria per poter esportare armi all’estero. E infatti sono iscritte tutte le imprese dell’industria militare da Leonardo (ex Finmeccnica) a Beretta, Avio, Elettronica e così via discorrendo. Per il solo fatto di essere nel registro, queste imprese non possono accedere a finanziamenti che riguardano progetti di cooperazione allo sviluppo, cioè quelli che, per usare una sintesi estrema, di regola sostengono Paesi emergenti e Ong. La norma del decreto fiscale elimina questo automatismo e specifica che, se il progetto è civile, l’azienda può partecipare ai bandi. Ma il paletto è meno rigido di quel che sembra: nel settore militare buona parte dei progetti e della ricerca finisce in ambito civile e viceversa. Elicotteri e sistemi tecnologici non nascono per forza con una specifica connotazione bellica. I sistemi sono appunto “duali”. E i Paesi in via di sviluppo sono spesso anche grandi importatori d’armi. E questo spiega il primo motivo dello scontro.

Il tesoro non ha avvisato della norma l’ufficio legislativo del ministero degli Esteri. Che ha chiesto spiegazioni al Tesoro. In viale XX Settembre non l’hanno presa bene e hanno minacciato di bloccare tutto se il comma – spinto, dicono fonti 5Stelle, dal ministero della Difesa guidato dal dem Lorenzo Guerini – non fosse passato. Ma lo staff di Di Maio si è impuntato: non può passare. E così da due giorni il decreto è fermo. Probabile che alla fine sarà il Tesoro a cedere, anche perché Palazzo Chigi ha deciso di mediare.

Il secondo motivo dello scontro riguarda l’entità dei finanziamenti. Quelli per la cooperazione allo sviluppo gestiti dal ministero di Di Maio valgono decine di milioni di euro, ma questa norma – sospettano alla Farnesina – aprirà le porte anche ai progetti per la cooperazione avviati da altre istituzioni para-pubbliche, come la Cassa Depositi e Prestiti.

Perché però farlo ora? Il motivo è semplice: l’industria della Difesa ha appena perso l’accesso alla gigantesca torta dei finanziamenti pubblici all’aerospazio stanziati dal ministero dello Sviluppo. Sono quelli decisi dalla legge 808 del 1995. Una torta miliardaria, per il 70 per cento destinata a progetti militari e per il restante a quelli civili. Nei mesi scorsi il Mise, allora guidato da Di Maio (governo gialloverde) ha pubblicato il nuovo bando, destinando però tutte i fondi, poco meno di un miliardo, al settore civile. Questo significa che alle industrie del militare mancheranno almeno 700 milioni di euro. Solo dal 2004 al 2018 le risorse erogate dalla legge 808 sono valse quasi 2 miliardi ai big dell’aerospazio. In teoria sono finanziamenti che vanno restituiti grazie alle vendite dei modelli prodotti con quei fondi. In realtà – ha certificato la Corte dei Conti in un’indagine pubblicata a inizio anno – quasi nessuno ha restituito quelle somme (a oggi siamo a 350 milioni, il 17% del totale), anche perché nessun ministero ha vigilato né ha mai davvero messo in mora le imprese inadempienti. A questo si aggiungono i recenti divieti di esportare armi (per commesse future) a Paesi in guerra, a partire dalla Turchia.

Senza quei soldi, però, l’industria della Difesa avrà un bel problema. Così sono iniziate le pressioni. E al Tesoro è nata la norma, che ai 5Stelle proprio non va giù.

Sembrava solo un tweet di Renzi e invece era una sottosegretaria

Pesarese, 43 anni, eletta nel 2013 grazie al Porcellum, avvocato, dunque, per volontà di Renzi, Responsabile Giustizia del Pd, indi vicecapogruppo Pd alla Camera, dove è rieletta nel 2018 (e ti credo: era capolista nel collegio proporzionale Marche Nord), Alessia Morani è sottosegretaria allo Sviluppo Economico.

La filologia di Twitter rivela tutto: nel 2012, sotto primarie poi vinte da Bersani, Morani era bersaniana (“Sui contenuti Bersani non si batte… non si batte proprio!”, punteggiatura originale), anche perché Bersani l’aveva candidata. Da deputata portò in dote, per la gioia dei notisti politici, il vistoso tatuaggio sul collo del piede e una presentazione a metà tra Nilde Iotti e fashion blogger: “Deputata PD, avvocato, tifosa del Milan… tranquilli non ho altri difetti”).

Al tempo era ferocemente antirenziana (“#nervosettoilcandidatogiovanenuovo”), fino al rifiuto acustico: “Renzi in diretta adesso su Radio Subasio #gentechenonnepuòpiùdisentirlovunque”. Poi, con le dimissioni di Bersani, la conversione a groupie di Matteo: “Pensatela come vi pare ma @matteorenzi è un fuoriclasse assoluto”, “Con te @matteorenzi sempre. Anzi, sempre di più. La verità arriva… Andiamo avanti a testa alta, senza paura”.

“Chiedetemi di Giustizia”, incitava chi ne contestasse le uscite nei talk show, occupati con pugnace determinazione e destrezza comunicativa renzianamente intesa. Un suo intervento a Ballarò nel 2014 merita la citazione: “Abbiamo passato un anno incredibile e lo dice una parlamentare arrivata per la prima volta a marzo che quest’anno ne ha viste di tutti i colori perché abbiamo passato un anno tremendo, soprattutto lo hanno passato gli italiani, perché purtroppo quelli che stanno pagando tutto quello di cui ho parlato prima sono gli italiani, non è qualcun altro, abbiamo passato un anno incredibile, io credo che questo anno incredibile bisogna metterci un punto e il Partito Democratico di Renzi vuole mettere un punto a questa prassi di incertezza, di confusione, di sfiducia… Il timing che abbiamo dato, serrato, che qualcuno lo vive in maniera se volete anche sbagliata pensando che questo nostro pressing sulla maggioranza possa essere un pressing che voglia metterla in difficoltà è tutto il contrario”.

Da cultrice del merito, stigmatizzava i curriculum dei grillini: “Non è un ufficio del lavoro, il Parlamento, evidentemente chi è a reddito zero non è che nella vita precedente abbia combinato granché!”, proprio come Berlusconi. Del resto, il sito Openpolis riporta che il suo reddito passò dai 47.608 del 2013 agli 80.891 del 2014.

Sotto referendum, al grido di battaglia della capo-quote-rosa Maria Elena Boschi (“I veri partigiani, quelli che hanno combattuto, votano Sì”), Morani denunciò che Anpi e Forza Nuova dividevano la stessa piazza per il No alla Costituzione fiorentina: argomento debole, come s’è visto, laddove il dato era che quella riforma faceva schifo pure ai fascisti. L’infilata di successi comunicativi di Morani in quel 2016 è vertiginosa; il picco, quando a Quinta colonna consigliò agli anziani di ipotecarsi casa per arrotondare la pensione.

Dall’opposizione, dove secondo Renzi gli elettori avevano voluto mandare il Pd votando altri partiti, Morani ha prodotto forti tweet di denuncia: famoso quello con selfie in primissimo piano con naso gocciolante: “Nonostante il raffreddore sono ancora in Commissione a discutere gli emendamenti al disegno di legge su corruzione e prescrizione”, col che si attirò gli auguri di pronta guarigione di metalmeccanici e pendolari che erano al lavoro dalle 5 del mattino e con l’occasione la ringraziavano per il Jobs Act.

Struggenti i video “in tandem” con Anna Ascani per denunciare i tagli ai fondi per le periferie stabiliti dal decreto milleproporoghe, incidentalmente votato dal Pd. In uno di questi capolavori da cinema sovietico, le due apparivano con la fonte di luce accuratamente alle spalle, sottoesposte in volto tipo Anonima Sequestri, in un interno giorno che doveva essere l’angolo cottura di una delle due. In un altro, più intimista, con fonte di luce da davanti (una chiara citazione da The Blair witch project), Morani sostituiva Ascani con Alessia Rotta e tale Franco Vazio (forse intercettato e scritturato al volo sulla soglia del Nazareno) per l’indimenticata battaglia: “Chi ha pagato la cena di Salvini alla sagra della porchetta di Ariccia?”.

Giorni fa ha inferto una stilettata al sovranismo: “Ma se i tortellini con il pollo snaturano la nostra identità, il vino analcolico mostrato qui da #Zaia che effetto ha? Sono curiosa di sapere cosa ne pensa #Salvini”. Poi, per non lasciare la destra alla destra, s’è detta contraria allo ius culturae, “con la convinzione di interpretare il ‘sentiment’ della maggioranza delle persone”.

Ignote le competenze economiche; ma forse lo sviluppo, cui è preposta, necessita di soft skills. Grande comunicatrice per osmosi o meglio trasudo renzista, sfornatrice di spassosi calembour (Salvini è “Capitan Attack” per il suo attaccamento alla poltrona, pensate che peperina), Morani non ha seguito Renzi (“Il Pd è casa mia”), ma ha postato un’autobiografia sul sito di Riparte il futuro (uno dei diabolici marchingegni di Renzi) che dice: “Le persone che hanno cambiato la mia vita. La mia prof.ssa di italiano e latino del liceo, Licia Cecchini – tra l’altro non credo di averglelo (sic, ndr) mai detto!”. Speriamo la prof la legga. Un anno fa scolpì granitica: “Leggo di appelli al #Pd finalizzati ad una alleanza con il #M5s. Con il risultato elettorale che abbiamo avuto gli elettori ci hanno detto chiaramente che non vogliono vederci di nuovo al governo. Per rispetto della democrazia gli appelli fateli ai vincitori #senzadime”. Dal che si deduce che se si avesse più rispetto della democrazia oggi non avremmo Alessia Morani al governo.

La satira ai tempi del Conte 2 Giuseppi si fa in 3, Renzi torna

Si stava molto meglio quando si stava molto peggio. Da quando Silvio non è più lui nemmeno la satira politica si è ripresa, sui giornali è pressoché scomparsa, in Tv resiste grazie a Maurizio Crozza e a pochi altri valorosi in lotta contro autocensure e dittatura del politicamente corretto, ma i fasti degli anni Novanta sono lontani. Qualche speranza di ripresa è arrivata nell’ultimo anno; c’è ancora molto da fare, ma un po’ di linfa i governi del cambiamento l’hanno portata. Vediamo quale.

GIUSEPPI. In testa nel gradimento degli elettori secondo i sondaggi, nettamente primo anche nel gradimento degli autori satirici, né potrebbe essere altrimenti. È lui la star una e bina, da nessuno a centomila senza passare dall’uno. La legislatura ha un debole per l’uomo in Lebole, ma anche in mutande, come ha dimostrato la nuova stagione di Fratelli di Crozza fin dal promo. Il Giuseppi di Crozza si aggira per il Papeete in slip ascellari tra l’ammirazione delle cubiste, Jude Law non è nessuno, ma provocando uno stranguglione in Salvini che forse di Conte ne vede due per colpa dei moijto. D’altronde sono davvero due i Giuseppe Conte d’Italia, un segno divino che in Italia calcio e politica sono ormai interscambiabili: questo il messaggio forte del “Conte bis” di Ubaldo Pantani (Quelli che il calcio) con lo schermo equamente diviso tra il presidente del Consiglio e l’allenatore dell’Inter, ognuno dei quali si stupisce di essere preso per l’altro. Poi c’è il Giuseppi di Dario Ballantini (Striscia la notizia), così simile all’originale che a volte anche l’originale si sbaglia, dubita di sé, come se il primo Conte non fosse mai morto. È l’incubo asimoviano dei mondi paralleli, dunque dei governi paralleli, dei Toninelli paralleli, delle Casellati parallele…

MATTEO SALVINI. Il Capitano resta una sicurezza, anzi, dopo i numeri di ferragosto le sue azioni satiriche sono in rialzo. Tutti continuano a rendergli omaggio, da Crozza a Pantani, da Gene Gnocchi (Dimartedì) a Bianca Berlinguer e Mauro Corona (#Cartabianca), la coppia erede dei Littizzettos, anche lui ha avuto su Striscia il suo perfetto sosia artificiale. C’è però un problema; l’originale è perennemente in video, per ore e ore, è pure compulsivo sui social dove posta la qualunque a qualunque ora. Non è facile per gli imitatori trovare una felpa, una divisa, un distintivo, un’immaginetta sacra o una confezione di Nutella che non sia già stata usata. In questo campo va segnalato l’irriducibile Gene Gnocchi, sempre prodigo di T-shrt fresche di slogan (“Salvini si è affidato al cuore immacolato di Maria che ora è ricoverata per un controllo in cardiologia”).

MATTEO RENZI. Diventare l’agone della bilancia per ora è solo un’aspirazione, ma il grande ritorno dello statista di Rignano in chiave satirica è cosa fatta, grazie al fuorionda “esclusivo” lanciato da Striscia in cui il Bomba spernacchiava Zingaretti e Salvini. Era lui o non era lui? Certo, non era lui, ma non era nemmeno una caricatura classica: al corpo di un imitatore è stato sovrapposto un viso realizzato al computer. Si chiamano deep fake e questo Renzi più vero del vero si è scoperto testimonial della nuova frontiera della manipolazione mediatica. Forse, non a caso: telespettatori, state sereni.

SILVIO BERLUSCONI. Gli sono rimasti solo i fedelissimi, in tutti i campi. Dudù e la Pascale nella vita. Luciana Littizzetto nella satira, che evidentemente sa cos’è la gratitudine. Lucianina si è addirittura sdoppiata per interpretare Gelmi e Berni, ovvero Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini, “le badanti di Berlu nel lettone di Putin”. Va bene, va bene, ma più che satira sembra la fiera del vintage.

NEW ENTRY. Il Conte bis è partito in sordina, forse troppo adagiato sugli allori del primo. Ci sono comunque due promesse, entrambe di standing internazionale, a cui Crozza&C. guardano con interesse. Il vulcanico ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, dal Sudafrica con furore; e il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, quello che fa le manovre accompagnandosi alla chitarra. Quasi meglio di Toquinho, anche se non ancora all’altezza di Giovanni Tria.

SEMPREVERDI. Sono quelli che non mollano, né potrebbero mollare. Soggetti inimitabili, quindi imitabili per tutte le stagioni; vuoi nel campo del folklore, vedi Antonio Razzi (cavallo di battaglia anche di Saverio Raimondo), vuoi nel campo delle alleanze di paranza, vedi Vincenzo De Luca. Ma il caso più straordinario resta quello di Vittorio Feltri, l’uomo che si fece caricatura. Ogni settimana Crozza non resiste e si trasforma in lui, ma la settimana dopo Feltri la spara ancora più grossa, e sorpassa la sua imitazione in curva. Non si vedeva un duello tanto appassionante dai tempi di Schumacher e Senna.

NICOLA ZINGARETTI. Era partito bene, buon senso, paralogismi e anacoluti, un mix in grado di intontire gli spettatori ma motivare il manipolo di satirici superstiti, Crozza aveva anche brevettato i tre dell’Avemaria con Calenda e Pisapia. Poi però, come era successo prima del Conte 1 e prima del Conte 2, si è fatto scavalcare da Renzi. Forse ci ha preso gusto.

LUIGI DI MAIO. Nel Conte bis, Gigino vivacchia triste nel suo cono d’ombra, in netto declino rispetto a quando era inseparabile dal compagno di baruffe e di ripicche Matteo. È la sindrome di Stanlio: rimanere senza Ollio. Da vicepremier, si ritrova fanalino di coda anche nella satira. Lui stesso deve essersene reso conto, infatti ha provato a litigare prima con Zinga e poi con Conte, ma con il Capitano era un altro film. La classe non è acqua, e nemmeno moijto.

I generali contrari all’Air Force Renzi: spariti 13 milioni

Fu una scelta molto mirata quella di Matteo Renzi: tra le centinaia e centinaia di aerei sul mercato, andò a prenderne uno per la Flotta di Stato che solo per il noleggio costava 26 volte più di quanto sarebbe stato necessario sborsare per comprarlo. E perdipiù era pure un bidone.

La decisione di prendere proprio quel jet dalla compagnia araba Etihad a quel prezzo e tramite l’intermediazione di Alitalia fu così estrema e bislacca che i generali dell’Aeronautica che la dovevano sottoscrivere la vissero come una sorta di imposizione da trangugiare, un ordine proveniente dall’alto da eseguire anche se ritenuto sbagliato. Una volta caduto Renzi, il nuovo ministro 5 Stelle dei Trasporti, Danilo Toninelli, dette incarico al manager aeronautico Gaetano Intrieri che faceva parte della Struttura tecnica del Ministero, di capire come era stato possibile che lo Stato italiano, attraverso il Ministero della Difesa e le sue varie articolazioni, avesse accettato un contratto del genere. Intrieri si incontrò con i tre generali che avevano dovuto assistere loro malgrado alla faccenda e in quelle riunioni ebbe una conferma ulteriore che l’affare dell’aereo di Renzi presentava aspetti inquietanti.

I tre generali sono: Alberto Rosso, ora capo di Stato maggiore dell’Aeronautica e ai tempi dell’affare dell’Air Force Renzi capo di Gabinetto del ministero della Difesa; il generale Francesco Langella, allora capo della Direzione armamenti aeronautici e per l’aeronavigabilità (Armaereo); il generale Pasquale Preziosa, ora in pensione e a quel tempo capo di Stato maggiore dell’Aeronautica. I colloqui dei generali con il consulente di Toninelli si svolsero al ministero dei Trasporti e in due occasioni alla Casa dell’Aviatore in viale dell’Università a Roma.

In ogni incontro i militari ostentarono distacco nei confronti dell’aereo renziano. In una delle riunioni il generale Rosso informò che lo Stato italiano aveva già pagato 50 milioni di euro per l’aereo di Renzi anche se Etihad in altri colloqui aveva ammesso di averne incassati solo 37. Non è stato ancora chiarito dove siano finiti i 13 milioni mancanti. Forse nelle casse di Alitalia che partecipava all’operazione insieme a Etihad, anche se i Commissari della compagnia non hanno mai fornito notizie al riguardo. Un’eloquente traccia della distanza dei vertici militari dall’affare del jet di Renzi è presente nelle premesse al contratto che sono parti integranti di esso. In due paragrafi viene esplicitato e ribadito in maniera chiara e inusuale che tutta l’operazione era stata condotta dalla presidenza del Consiglio.

In questa sede stavano conducendo l’affare il consigliere militare di Renzi, generale Carlo Magrassi, e il sottosegretario alla Presidenza, Claudio De Vincenti. Nei due paragrafi di premessa del contratto c’è scritto: “1) La Presidenza del Consiglio dei ministri (PCM) ha comunicato al ministero della Difesa (che gestisce la c.d. ‘Flotta di Stato’) della necessità di nuove articolate esigenze funzionali legate all’efficientamento del servizio di trasporto aereo istituzionale per le più alte cariche dello Stato, e di nuovi requisiti tecnico-configurativi del servizio stesso necessari nell’attuale quadro geopolitico internazionale. 2) La stessa PCM ha, altresì, individuato tale capacità tra i velivoli della classe quadrimotori turbofan a lungo raggio e l’esigenza di dover ricorrere alla secretazione dell’impresa in applicazione all’articolo 17 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, attesa la necessità della salvaguardia, sicurezza e segretezza degli interessi essenziali dello Stato”.

In quelle poche righe si specificava, in pratica, che l’esigenza di accrescere la flotta di Stato con un nuovo aereo era stata manifestata dalla presidenza del Consiglio e che la stessa presidenza aveva autonomamente provveduto a individuare l’aereo necessario su cui aveva apposto il segreto di Stato. Nell’affare dell’Air Force renziano chi tirava le fila e beneficiava dell’operazione oltre a Renzi erano le due compagnie aeree private e a quel tempo socie: Alitalia da una parte e dall’altra Etihad, l’azienda di proprietà dell’Emiro di Abu Dhabi entrata con il 49 per cento nel capitale di Alitalia grazie proprio all’intervento di Renzi.

Le caratteristiche comunicate da palazzo Chigi ai vertici militari erano esattamente quelle del jet che con molta probabilità era già stato scelto, oltretutto senza alcuna gara internazionale, ma con una semplice trattativa privata: l’Airbus A340-500, numero di matricola 748 equipaggiato con 4 motori Rolls Royce Trent 553A2-61 in uso alla compagnia emiratina Etihad.

Quell’aereo apparteneva a una classe di velivoli particolarmente sfortunata che conta solo 39 esemplari, messa fuori produzione dopo appena un decennio perché decisamente scarsa. I vertici dell’aeronautica militare erano certamente a conoscenza dei difetti dell’aereo prescelto e forse anche per questo motivo si tennero prudentemente alla larga dall’operazione. Negli Airbus come quello di Renzi il rapporto tra fusoliera e motore era così squilibrato da costringere le compagnie che li avevano adottati a ridurre il numero di passeggeri o a ridurre il numero di sedili. Etihad aveva immesso in flotta 4 aerei di quel tipo nel 2006 e decise di disfarsene appena dieci anni dopo mandandoli a morire nell’aeroporto spagnolo di Teruel. L’Airbus finito nella flotta di Stato italiana per volere di Renzi a un prezzo da amatori giace moribondo a Fiumicino.

“Spero che vinca Bianconi, in fondo è di centrodestra”

È trafelato, Brunello Cucinelli: entro il 25 novembre deve presentare le collezioni dell’inverno 2020 e sono giornate frenetiche. Ma domenica in Umbria si vota per elezioni storiche dopo cinquant’anni di governi rossi e lui di politica parla sempre volentieri. Soprattutto dopo che Pd e M5S gli avevano chiesto di candidarsi: “Sì, me lo ha chiesto Luigi Di Maio – ammette – ne sono stato onorato, ma io faccio un altro lavoro”.

Adesso sostiene Vincenzo Bianconi. Che candidato è?

Conosco la famiglia Bianconi da quarant’anni e sono persone perbene: Vincenzo è un equilibratore, un moderato. Per questo lo voterò.

Un candidato di centrodestra, insomma.

Sì, lo è sempre stato, già da quando era ragazzo. Probabilmente, per scardinare il sistema di potere della sinistra ci voleva uno dell’altra fazione. Quando mi hanno detto che il candidato di Pd e M5S sarebbe stato lui, ho pensato: ‘È una bella scelta’. Non ha niente a che fare con il vecchio centrosinistra.

Quello degli scandali sulla Sanità che hanno travolto la vecchia giunta.

Qui in Umbria la sinistra governava da cinquant’anni e, come diceva Solone, quando stai così a lungo al potere il rischio di diventare un tiranno è molto alto. Io sono da sempre sostenitore della tesi secondo cui non si può stare al governo per più di due mandati.

Ma in Umbria sono emersi scandali legati ai concorsi truccati, corruzione allo stato puro.

Sì, ma non c’è denaro, solo favori: è un malcostume grave, ma comunque senza denaro. Ripeto: è normale se si governa così a lungo.

Se Bianconi dovesse vincere, lei farà l’assessore?

No, io faccio un altro mestiere. A me la bella politica piace, ma la faccio in un altro modo, impegnandomi per l’Umbria e collaborando con il governo, qualunque esso sia.

In caso di elezione, cosa dovrebbe fare Bianconi con le aziende di famiglia per evitare conflitti di interessi?

Passarle al fratello o al papà. Se verrà eletto deve dedicarsi al 100% alla politica perché essere governatore ti impegna 24 ore al giorno per 365 giorni l’anno. Non c’è conflitto d’interessi, conosco la famiglia e garantisco per loro.

L’ha incontrato negli ultimi giorni: cosa vi siete detti?

Non mi sono permesso di dare consigli, ma gli ho solo detto una cosa: ‘Mi raccomando, sii garbato, gentile, educato e sappi ascoltare’. In questo momento l’Italia e l’Umbria hanno bisogno di un governo che trasmetta tranquillità ai cittadini rispetto al passato.

Ovvero?

Il clima è cambiato nell’ultimo mese e mezzo rispetto al governo scorso: non ne potevamo più di una atmosfera di odio e violenza. Adesso la comunicazione è cambiata, più istituzionale, e l’Europa e gli altri Paesi ci vedono con un occhio diverso. Migliore.

Parla di Matteo Salvini?

Non voglio dare giudizi però noto solo questo: rispetto al governo gialloverde, adesso l’atmosfera è cambiata in senso positivo.

Per i sondaggi vince Tesei, la candidata di centrodestra.

È la favorita, sì. Non la conosco, ma anche lei mi sembra una persona perbene: quando l’ho incontrata le ho detto che vorrei solo che chi ci governa non sia arrogante.

Ne ha parlato anche con il premier Conte che è venuto nella sua azienda giovedì?

Sì, io e Giuseppe siamo in grande sintonia: abbiamo parlato di dignità del lavoro, sostenibilità umana e del recupero dei borghi italiani. Poi, ovviamente, di terremoto: sono tre anni che le nostre imprese si stanno dando da fare, ma abbiamo bisogno che i lavori vengano completati. Lui ha fatto un bellissimo discorso parlando della nostra impresa come una “storia fiabesca”. I dipendenti erano emozionati. Io gli ho fatto i complimenti per il cambio di approccio suo e dei ragazzi del Movimento 5 Stelle.

A proposito, ha incontrato anche Luigi Di Maio che le aveva chiesto di candidarsi?

In realtà quello l’ho scoperto da voi del Fatto Quotidiano (ride, ndr), poi me lo ha chiesto anche lui. Luigi è venuto nella mia azienda e mi ha fatto una bella impressione: è un ragazzo giovane ma umile. Mi ha detto: ‘Sono giovane, che consigli mi daresti?’.

E lei?

Io gli ho risposto: ‘Hai gli anni di mio figlio (33, ndr), provate a trovare un nuovo modo di esprimervi: più pacato, sereno, buono’. Mi sembra che mi abbiano ascoltato.

Ma i malpancisti del M5S scriveranno a Casaleggio

La foto di gruppo, la passeggiata in centro, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte che scherza con un bimbo. Nell’ultimo atto in Umbria i giallorossi sorridono, ma un passo oltre le urne c’è già la fila per presentare il conto di una sconfitta ai due leader che ci hanno provato, Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti. Subito, già lunedì. La sintesi la fa un big grillino, asciutto: “Se il M5S dovesse andare male sono già pronti a saltare alla gola di Di Maio”.

Perché il primo dato che guarderanno i 5Stelle sarà il risultato della loro lista. “Questa volta non potremo dire che correvamo contro tutti”, ringhiano un paio di parlamentari. Ergo, peserà anche l’eventuale distanza dal Pd, perché l’accusa già pronta per il capo è quella di aver permesso ai dem di vampirizzare il M5S, con un’alleanza che ha disorientato gli attivisti umbri: quasi inerti in campagna elettorale, raccontano, “perché non sapevano cosa dire alla gente, in una Regione dove per anni avevano combattuto il Pd e denunciato il caos nella sanità”. Ma l’Umbria è solo un’altra miccia, perché il disagio nel Movimento viene da lontano, e lo si tocca con mano nei gruppi parlamentari, che in maggioranza non rispondono più a Di Maio. Il tema sono la rotta e l’assetto del M5S. Ed è per questo che è già pronta una lettera firmata da diversi parlamentari per Davide Casaleggio, in cui chiederanno la convocazione di un’assemblea del Movimento per ridiscutere tutto. E il primo obiettivo è creare una segreteria politica e magari organi aggiuntivi, con cui il capo politico debba discutere e decidere. Qualcosa di diverso, spiegano varie fonti, dal “team del futuro” con 12 eletti ripartiti per temi che Di Maio conta di far eleggere dagli iscritti entro dicembre, assieme a referenti regionali.

Nel Pd la situazione appare meno esplosiva, ma comunque critica. Sotto accusa, la linea troppo accondiscendente del segretario nei confronti di M5S. Era proprio così necessaria la foto umbra di ieri, con Zingaretti in prima linea? Nel partito in molti lo considerano un errore. L’iniziativa l’ha voluta Di Maio. C’era bisogno di assecondarlo? Dal quartier generale del segretario difendono la scelta: davanti a un centrodestra che si presenta unito, era un passo necessario. Lunedì non cadrà il governo, né accadrà nulla di definitivo, assicurano. Ma Zingaretti ne uscirà indebolito. Certo, dipende dalle percentuali e dai pesi. Matteo Orfini ha chiesto il congresso e Graziano Delrio potrebbe avanzare perplessità sulla gestione di questa fase, mentre le diverse frange di Base Riformista (quella di Luca Lotti e quella di Lorenzo Guerini che guarda solo a Dario Franceschini) batteranno cassa. A metà novembre è già prevista un’iniziativa a Bologna. All’orizzonte, un congresso dopo le Regionali in primavera. Zingaretti avrà bisogno di rilegittimarsi. Nel frattempo, potrebbe essere successa qualsdiasi cosa. L’Umbria potrebbe persino essere il piano inclinato che porta Franceschini a Palazzo Chigi, causa indebolimento dei 5Stelle e deterioramento dei rapporti tra Di Maio e Conte. Il capo delegazione dem al governo gestisce praticamente tutto in prima persona: è lui che ha tenuto per buona parte anche i rapporti con Walter Verini, commissario nella Regione. Ma bisognerà vedere se Sergio Mattarella accetta un altro cambio in corso di legislatura.

Restala variabile Italia Viva. Matteo Renzi non è stato invitato sul palco di Narni. Però Di Maio aveva chiamato Teresa Bellanova, che ha declinato, sia per sé, che per altri esponenti del partito. Una presa di distanza. Da lunedì, Renzi non perderà occasione di bombardare il governo, ma giocherà molto di rimessa. Previsti arrivi locali subito dopo il voto. E poi, c’è da mettere a punto una strategia. Due dichiarazioni di ieri fanno capire quanto Iv sia pronta a giocare solo per sé. E su richiesta, pure per la Lega. “Italia Viva concorrerà alle prossime Regionali del Veneto, ma non ha ancora valutato possibili alleanze”. Mentre il capogruppo del Carroccio alla Camera, Riccardo Molinari, la mette così: “Vedo in Italia Viva una voce critica che può contenere le derive di questa maggioranza”.

Di Maio, Zinga e Conte: ecco “la foto di Narni” per tentare l’impresa

Gli invisibili si fanno incontro, come gattini in cerca della mamma, l’uno dietro l’altro. Il più piccolo, Roberto Speranza, arriva per primo. Mezz’ora d’anticipo. Il più grande, Giuseppe Conte, per ultimo. Mezz’ora e più di ritardo. In mezzo loro due, Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio, amici e un po’ nemici. Sorridenti ma tesi, disponibili ma rigidi.

Invisibili fino a stamane. Tutti e quattro insieme mai. Poi a Narni, nell’ultimo giorno possibile della campagna elettorale più disperata nella terra divenuta infedele. Narni, dieci passi ai confini col Lazio, Cattedrale sconsacrata di San Domenico: foto di gruppo dei maggiorenti di questa coalizione così singolare, dei leader che non si parlano, dei partiti che non si stimano. Foto di gruppo degli azionisti di maggioranza col premier.

Sarà la foto di Narni. Si spera meno infelice di quella che agitò l’Ulivo ai tempi di Di Pietro e Nichi Vendola, quando Pier Luigi Bersani guidava il partito democratico. Fu a Vasto allora, ma era un altro mondo.

E siamo qui. L’Umbria non è stata solo la roccaforte rossa, il tenimento eterno dei comunisti, la fabbrica dell’affiliazione, della cooptazione, anche della selezione positiva. Oggi è terra perduta. Si perde, si perde. Salvini ha mangiato già tutta l’erba, e il verde delle colline farà pendant col simbolo leghista. “Sembra quasi che stiamo sui coglioni alla gente”, dice Stefano Bigaroni, presidente di Umbria Digitale.

Sembra che la sconfitta sia certa e che in gioco ci sia solo da valutare il distacco che l’afona candidata del centrodestra, la senatrice Donatella Tesei, darà al temerario condottiero di questo centro sinistra sui generis, Vincenzo Bianconi. “È un bravo ragazzo e un ottimo candidato”, dice di lui Giuseppe Conte, nel tentativo di stargli alla larga ma con educazione e garbo. Cinquestelle e Pd hanno altra alternativa che stare insieme? “Questa è l’alternativa” dirà Roberto Speranza. “Più che alternativa è la terza via”, correggerà Di Maio, in una rievocazione blairiana inaspettata e in un assioma inedito: “Oggi le partite Iva sono la nuova classe operaia”. “È impensabile non essere uniti”, spiega Nicola Zingaretti. L’alleanza umbra si rivedrà in Emilia-Romagna e ovunque sarà possibile. “Vi aspetta una legnata, segretario”, chiedo. E lui: “Andando invece da soli cosa sarebbe successo?”.

Narni è una pecetta per una battaglia quasi persa, per l’Umbria che è giunta al voto troppo presto, per i militanti pentastellati ancora frastornati, per quelli del Pd umiliati e disorientati, per questa situazione goffa per cui qui, oggi, si fotografa l’esistenza in vita di una coalizione che in verità da più di un mese governa l’Italia.

Come se fossero dei fuggitivi immersi nella boscaglia, i capi hanno deciso di farsi riconoscere, di farsi vedere in volto, salutare e anche sorridere. Una foto, poi due, poi tre. Flash, flash, flash.

In quattro oggi, eppure sarebbero dovuti essere in cinque. Ma come al solito Matteo Renzi conferma la sua attività di perenne, instancabile disturbatore. Chi mai avrebbe avuto dubbi? Renzi porterà guai e Conte che può fare?

Parlare dell’Iva che non aumenta, dei superticket sanitari aboliti, delle misure a favore dei lavoratori. I soldi son pochi, e si dà ciò che si può. Un po’ è meglio di niente. Ma questo poco che c’è basterà? Qui l’altro problema del premier. È parso più affiatato con Zingaretti (“Ecco Nicola!”) che con Di Maio, col quale il saluto e un sorrisetto sono bastati ad evitare l’abbraccio, il segno di un’intimità perduta, di una confidenza revocata. “Io ho visto Conte più leader, più empatico. La gente cercava più lui che gli altri, e lui si destreggia alla grande con le strette di mano, i selfie. Ha visto con i poliziotti del servizio d’ordine? Una rassegna di sorrisi e pacche sulle spalle. Il popolo questo cerca”. È il sindaco di Narni, il cerimoniere improvvisato ma perfetto che commenta l’esito della giornata. “Siamo partiti troppo tardi, una settimana ancora…”. La speranza che Bianconi faccia faville è un sogno.

Eppure l’ombra sua si dice che insegua da qualche giorno la favorita, coperta da Salvini, senza alcuna voce e alcun ruolo e anzi col problema che il comune da lei amministrato (Montefalco) è appena andato in pre-dissesto.

Può governare bene chi ha mostrato di non saper far di conto?

Una domanda ora inutile. Domani si vota e le fiches sono tutte sul centrodestra. Sessantadue per cento dell’Umbria già conquistata, le città più grandi, le roccaforti gloriose sono cadute.

La foto di Narni può a poco. “Questo è un esperimento interessante che ha però i suoi tempi”.

Amen.

Il Riformatorio

Sopraffatti dalla cronaca, abbiamo trascurato l’evento destinato a terremotare l’editoria e la politica: il ritorno in edicola, minacciato per il 29 ottobre, del Riformista. L’ingloriosa testata, a suo tempo lanciata dal lobbista Claudio Velardi, passata agli Angelucci, diretta da Polito El Drito e ovviamente fallita nel 2012, risorge con un nuovo editore, Alfredo Romeo, e un nuovo direttore. Anzi, due: Piero Sansonetti e Deborah Bergamini. Romeo non è omonimo dell’imprenditore salvato dalla prescrizione ai tempi di Tangentopoli e di nuovo indagato per traffico d’influenze con babbo Renzi nell’inchiesta Consip: è proprio lui. Sansonetti non è omonimo dell’ex inviato dell’Unità (suo il leggendario titolone sulla morte di lady Diana: “Scusaci, principessa”), ex direttore di Liberazione (chiuso), de Gli Altri (mai trovati), di Calabria Ora (fallito), de Il Garantista (fallito) e de Il Dubbio (che l’ha cacciato): è sempre lui. E la Bergamini non è omonima dell’ex portavoce di B., dunque direttore del Marketing strategico Rai e poi deputata di FI da tre legislature: è sempre lei. Il nuovo giornale sarà improntato a un’anglosassone separazione tra giornalismo e politica. Infatti, oltre a un direttore (su due) deputato e un editore imputato, vanta come editorialisti la Maiolo, Cicchitto, Bertinotti, Paolo Guzzanti e la Boschi. Che scriverà “a titolo gratuito” (e ci mancherebbe pure che la pagassero).

I titoli dei numeri zero promettono bene: “Fisco, arriva il decreto Travaglio: manette” e “Ergastolo addio: l’Europa civilizza l’Italia”. La linea si annuncia frizzante e soprattutto sintonizzata coi tempi: “Noi – promette Samsonite – vogliamo l’abolizione del carcere”. Infatti il partito di riferimento è Forza Italia Viva (paghi due, prendi uno). Purtroppo i 60 mila detenuti non han potuto assistere alla presentazione, ma alcuni hanno inviato telegrammi di benvenuto e prenotato la prima copia da appendere in cella accanto al calendario del camionista. I lettori dunque non mancheranno. Non solo nei migliori penitenziari, ma anche nella società civile. Ieri, per dire, nei bar di Roma era tutta una protesta contro l’arresto dei due sospetti killer di Luca Sacchi: “Ha sentito, signora mia? Hanno arrestato due presunti innocenti, dove andremo a finire”. “Non me lo dica, guardi, sono indignata: ma quando si decidono ad abolire il carcere?”. “Non vorrei sbagliarmi, ma ho sentito che esce un giornale apposta”. “Ma volesse il cielo, era ora!”. Quando, 17 anni fa, nacque il primo Riformista, l’avevamo ribattezzato scherzosamente “Riformatorio”. Ma, in Italia, guai a fare battute: perché prima o poi si avverano.

Dalla carta al film e ritorno: gli orsi siciliani sono tra noi

“Nel tempo dei tempi le bestie erano buone e gli uomini empi. Leonzio, re degli Orsi, era grande, forte e coraggioso”. Il romanzo del film di Lorenzo Mattotti “La famosa invasione degli orsi in Sicilia” – tratto a sua volta dal libro di Dino Buzzati e in uscita nella sale italiane il 7 novembre dopo il debutto francese – restituisce con le immagini della pellicola l’incanto dell’Era del Miele, il tempo in cui orsi e uomini seppero vivere insieme rispettosi gli uni degli altri perché “Gli uomini non sono tutti nemici, ce ne sono di buoni e di cattivi”. Parola di Teofilo, anziano saggio del popolo degli orsi. Tratti floridi e colori rassicuranti ripercorrono la storia di una convivenza occasionata da un rapimento – quello dell’orsetto Tonio, figlio di Leonzio – e suggellata dalla sconfitta del perfido Granduca di Sicilia. Leonzio è un buon re che non ha bisogno della corona, il Granduca odia la natura tutta, Salnitro il ciambellano è elegante e ambizioso mentre Almerina è la ballerina coraggiosa che non si risparmia per aiutare Tonio e il mago De Ambrosis. Caccia al salmone, paura, lotta – palle di neve contro pallottole – armonia, tradimento, corruzione di costumi e ancora pace, dopo la sfida finale. Poi gli orsi gettano via “oro, fucili, vestiti” e tornano sulle montagne, a casa, “là dove sgorgano le sorgenti e la vita è più semplice”.