“I miei eroi sono sempre stati tossici”: il trionfo del graphic novel parlato

Qualche anno fa, lo scrittore Ed Brubaker e il disegnatore Sean Phillips hanno creato un nuovo genere, anzi, un nuovo stile, che potremmo definire “fumetto parlato”. Sembra che non succeda quasi nulla, anche se in realtà la storia si dipana con un ritmo che trascina il lettore da una pagina all’altra senza lasciarlo staccare. Ma non è l’azione tradizionale a colpi di vignette spettacolari, non sono neppure le immagini a dare il ritmo, sono le parole, lunghe didascalie, dialoghi infiniti, ma agili, perfettamente fusi con l’impianto grafico che funziona come un metronomo, permette allo scrittore di tenerci in trappola. Ed Brubaker e Sean Phillips hanno portato questo schema nel mondo dei supereroi, ma soprattutto lo hanno raffinato con la loro serie Criminal, etichetta che copre una serie di volumi quasi indipendenti dai toni noir. Ora pubblicano un vero graphic novel sorprendente da molti punti di vista. I miei eroi sono sempre stati tossici è un fumetto sulla droga, in cui due ragazzi in una clinica di recupero discutono il fascino di scrittori, cantanti e artisti che trasformavano il degrado fisico in una trascendenza dei limiti. Ma lentamente si capisce che giustificare la droga è soltanto un caso particolare di una regola generale: Ellie, la protagonista, ha un’ottima argomentazione per legittimare qualunque scelta all’apparenza censurabile, qualunque tradimento, qualunque indicibile scambio. Ed Brubaker ci dimostra che le parole sono pericolose almeno quanto le droghe che illudono i due protagonisti, Ellie e Skip, di poter sfuggire grazie a qualche pastiglia a una realtà che nelle ultime pagine presenterà un conto più salato di ogni previsione. Come inevitabile in una storia di droga, tutto quello che pensavamo di sapere sui due protagonisti si rivelerà una illusione.

 

Canova il sentimentale: che “Bellezza”

“Vi vuol altro che rubbare qua e là da pezzi antichi e raccozzarli assieme senza giudizio, per darsi valore di grande artista. Conviene studiare dì e notte su’ greci esemplari, investirsi del loro stile, mandarselo in mente, farsene uno proprio coll’aver sempre sott’occhio la bella natura con leggervi le stesse massime”. Scrive così all’amico Quatrème de Quinciy nel 1806 lo scultore Antonio Canova (1757-1822), assai svigorito dalle critiche che riceveva da alcuni studiosi nordeuropei suoi contemporanei – di cui nessuno ricorda il nome a dire il vero (Carl Ludwig Fernow e Wilhelm August von Schlegel, ndr) – di “snaturare il classico” o ancora peggio di “sentimentalizzarlo”, senza rispettare lo stilema dell’imitazione del sublime, preconizzato da Winckelmann.

Quelle parole di Canova – che se fossimo seduti dal parrucchiere, in attesa del nostro turno e in agio di indulgere a pettegolezzi, potremmo anche congetturare si riferiscano al giovane danese Bertel Thorvaldsen (sulla loro rivalità è incentrata la mostra Canova Thorvaldsen, che apre oggi alle Gallerie d’Italia a Milano) – andrebbero affisse alle pareti della mostra a Palazzo Braschi Canova. Eterna Bellezza (a cura di Giuseppe Pavanello). Poiché spiegano come e quanto lavorava lo scultore di Possagno: prima stendeva il progetto su carta, e realizzava minuziosamente precisi modelli preparatori in argilla; da questa giungeva poi una matrice in gesso da cui veniva tradotta – spesso dai collaboratori al suo servizio – l’opera in marmo, a cui Canova dava “l’ultima mano”. Lo dimostrano i molti progetti, studi e cartoni preparatori finemente tracciati a matita e qui esposti.

Trasferitosi nel 1779 a Roma – della cui bellezza si nutrì – ed elevandola a sua laboratorio a cielo aperto, la maniera irripetibile e riconoscibile di Canova fu portare sulla terra il cielo. Addensò i sentimenti universali alla stoica bellezza greca, rendendola così riconoscibile e propria, ma anche eterna come eterna è la sua magnetica Danzatrice (posizionata in un’ultima sala a lei dedicata su una pedana rotante) con le braccia ad anfora e l’espressione compiaciuta; lo stesso panneggio diafano lo ritroviamo nella pacifica Ebe, anch’essa perfettamente colta in movimento; e ancora la prostrazione della Maddalena penitente in ginocchio; la sfuggevolezza estatica di Testa di genio funebre (molti, i busti esposti); e infine la complicità elettiva di Amore e Psiche stanti e il dinamismo placido di Paride o di Endimione dormiente.

Il coltello di Nesbo stavolta fa male all’amata di Harry Hole

E alla dodicesima Harry Hole cadde quasi per sempre. E dove in quel quasi è racchiuso il peso di oltre seicento pagine, al solito ritmo feroce di Jo Nesbo, l’inventore di uno dei personaggi più amati e venduti della letteratura criminale. Harry Hole, appunto. Il lungagnone norvegese, biondo e con una cicatrice sul viso che fa impazzire le donne, stavolta rischia di cedere definitivamente alla distruzione alcolica. Il suo genio indagatore deve fare i conti con il dolore più grande, quello che investe la sua amata Rakel, e che peraltro lo ha cacciato di casa. Il coltello (traduzione di Eva Kampmann) è la dodicesima inchiesta del detective di Oslo, che usa la pancia e l’acume allo stesso tempo per risolvere casi complicati, in cui l’apparenza non solo inganna, ma devia e depista alle soglie del complotto.

Il microscopio interiore di Hole che coglie contraddizioni e sviste dei poliziotti normali è costretto ad affrontare una prova di immane dolore, dunque. L’amata Rakel è stata assassinata e lui scandaglia tutti i profili dei possibili colpevoli. A partire dallo stupratore e omicida seriale, Svein Finne, ormai settantenne. La ricerca di Hole, ormai rassegnato all’inferno personale, procede senza però incastrare nessuno e a certo punto si pone la madre di tutte le domande: il sospettato numero uno è proprio lui. La sera dell’omicidio di Rakel, Harry è andato a casa dell’amata ma non ricorda più nulla. Per non parlare degli abiti sporchi di sangue. Attorno a lui, in questa nuova inchiesta, il consueto e ristretto cerchio di amici e colleghi, in cui ricompare un altro personaggio del suo passato: la bella Kaja Solness, pure lei ex poliziotta mollata da Hole proprio per Rakel. L’interrogativo si snoda estenuante sino alla fine: chi ha ucciso Rakel?

 

È la Bibbia a scatenare “La guerra dei poveri”

“Le parole sono pietre”, scriveva Carlo Levi. Drammaticamente vero. E dolorosamente attuale. Per scagliarle contro l’ingiustizia, però, bisogna averle in tasca. Saper leggere, cioè, e disporre di libri. Nella propria lingua, possibilmente. Cosa praticamente impossibile fino a un paio di secoli fa. E tutt’altro che facile ancora oggi, al di fuori delle esclusive e sempre più blindate fortezze del benessere.

Non è un caso, allora, che la miccia della Guerra dei poveri, narrata con lingua nuda e cruda – lapidaria verrebbe da dire – da Éric Vuillard si accenda, a metà Quattrocento, quando, da Magonza, “una colata bollente” si riversa sul resto d’Europa, “infilandosi tra le colline delle città, tra le lettere dei nomi, nelle grondaie, nei meandri dei pensieri; e ogni lettera, ogni frammento di idea, ogni segno di punteggiatura si era ritrovato catturato in un frammento di metallo”. Messe una dopo l’altra, parole, righe e pagine diventano libro. Non un libro qualsiasi: la Bibbia.

È il 1455. Gutenberg è di certo consapevole della portata rivoluzionaria dell’invenzione della stampa a caratteri mobili. Forse, però, non sa di aver avviato il conto alla rovescia che farà esplodere la bomba preparata, un paio di secoli prima, dalla traduzione della Bibbia in inglese, curata da John Wycliffe. L’idea che Dio e popolo parlino la stessa lingua è uno tsunami. Una traduzione dopo l’altra, travolgerà l’Europa. Del resto, “chiedere gentilmente a Dio di parlare la nostra lingua non significa insultarlo”.

Improvvisamente, le parole fondamentali della Parola, raggiungono orecchie e cuori di tutti. Soprattutto degli ultimi che non vi avevano mai avuto accesso. Non diretto, almeno. Cosa non così ovvia come sembra. Pensiamo, ad esempio, che la prima versione italiana della Bibbia è datata 1471, ma la prima messa in italiano arriverà solo cinquecento anni dopo. La celebrerà Paolo VI, il 7 marzo 1965, in una parrocchia di Roma. Perché – si chiedono i diseredati – il Dio dei poveri è così stranamente dalla parte dei ricchi? E perché esorta a rinunciare a tutto per bocca di quelli che hanno preso tutto? In fondo, “se Dio avesse condannato certi uomini a essere servi della gleba e altri a vivere liberi, li avrebbe certamente indicati”.

Tra Verità e Potere è guerra senza esclusione di colpi. “Non sono i contadini a sollevarsi, è Dio!”, avrebbe esclamato Lutero. Ma non era Dio – chiosa Vuillard – “a meno che non si vogliano chiamare Dio la fame, la malattia, l’umiliazione, gli stracci”. Sappiamo come finirono quelle battaglie. La guerra dei poveri, però, non è finita. E sta tornando con accenti apocalittici. Forse l’umanità si è liberata di nasi mozzati, occhi cavati, corpi bruciati, legati alla ruota e torturati con le tenaglie. Ma siamo sicuri che si sia liberata anche di lavoro ingrato, censi, decime, manomorta, affitto, taglia, viatico e ius primae noctis? “Gli esasperati sono così – spiega Vuillard – un bel giorno sgorgano dalla testa dei popoli come i fantasmi sbucano dai muri”. “Ai contadini il fieno! – conclude – agli operai il carbone! Agli sterratori la polvere! Ai vagabondi le toppe! E a noi le parole!”. Che sono pietre, appunto. Preziose, talvolta. Molto.

 

“Se ti potessi dire”, l’ultimo brano “definitivo” del Blasco nazionale

Esce oggi in radio e negli store digitali il nuovo singolo (testo e musica di Vasco e arrangiamenti di Celso Valli), dal titolo Se ti potessi dire. Quattro minuti e mezzo con un incipit incentrato su un riff di chitarra acustica e una sorta di “confessione a microfoni aperti” del blasco nazionale.

Il tema affrontato è il male di vivere, a cavallo tra depressione e caducità, senza peli sulla lingua e con una sincerità disarmante. È la cifra stilistica per la quale in migliaia si riconoscono in Vasco, cantautore della quotidianità di alti e bassi e, a volte, di vera e propria disperazione, ma sempre col sorriso dell’ironia e del sarcasmo.

“Quante volte camminando sul filo sono arrivato vicino all’inferno della mente, quell’inferno esiste veramente” chiosa Vasco, “quante volte ho pianto per capire, sono stato sul punto di lasciarmi andare” e ancora, “se potessi raccontarti per davvero le abitudini di cui non vado fiero”. Eppure il finale spiazza, con un tono compiaciuto: “Le rifarei esattamente così, stessi errori, stesse delusioni”. Tra echi di Get Back dei Beatles e Confusione di Battisti – del resto Vasco è l’autore più simile per genialità compositiva a Lucio –, Se ti potessi dire ci regala un finale epico, degno di One degli U2, con un testo che è una dichiarazione di stile di vita e anche – finalmente – di accettazione di se stessi: “Vivere per amare, per sognare, con passione, per rischiare; vivere solamente, vivere continuamente, vivere senza ricordo e senza rimpianto”.

Il rocker di Zocca ha solo commentato “Pesa come un album” per stigmatizzare il valore della nuova canzone nel suo repertorio: “Il miracolo si è avverato ancora una volta, ma non sarà facile scriverne un’altra così”, aggiunge sul suo profilo Instagram. E, a scanso di equivoci, questa volta Vasco è perentorio sulla frase sibillina “canzone definitiva”, annunciata dopo il lancio del suo ultimo libro Non stop: “Non è sicuramente l’ultima ma ‘definitiva’ lo è per il peso delle parole, dure e crude” scrive sul comunicato. In molti tireranno un sospiro di sollievo.

 

L’ovvio “vangelo” secondo Rau

Nelle pagine di cronaca La rivolta della dignità di Milo Rau racconterebbe la tragedia degli ultimi poveri cristi, i migranti, i nuovi schiavi, gli emarginati; nel servizio politico La rivolta della dignità riporterebbe le rivendicazioni di questo o quello, stigmatizzerebbe i diritti negati, reclamerebbe più umanità; nella sezione di economia, si storcerebbe un poco il naso di fronte alle motivazioni (populiste e generiche) della incipiente povertà – e il capitalismo e l’Ue dei burocrati e della finanza… –; negli spettacoli, infine, La rivolta della dignità troverebbe posto tra le stroncature, o forse no, perché l’arte è messa da parte e la pièce non è una pièce ma un progetto ibrido tra teatro, cinema, reality show, comizio tv e assemblea politica.

“Assemblea politica” è appunto il titolo della tappa del progetto presentata all’Argentina di Roma: le prime puntate (“Condanna. Passione. Crocifissione”) sono andate in scena a Matera, già set messianico di Pasolini e Gibson, mentre il prossimo appuntamento (“Prima missione”) è a Palermo. Per il suo Nuovo Vangelo, il regista svizzero ha rispedito in terra Cristo, un po’ come nel Grande inquisitore, solo che Rau è più romantico di Dostoevskij: infatti il pubblico riconosce perfettamente in Yvan Sagnet il nuovo Gesù, quantomeno il pubblico teatrale per sua natura perspicace.

Oltre al primattore, gli interpreti dell’ensemble cristiano (apostoli, maddalene, battisti…) sono quasi tutti migranti, rifugiati, richiedenti asilo, braccianti: la recita è limitata a pochi episodi evangelici, dopodiché la scena si trasforma in palco per comizi, con pulpito alla ribalta. D’altronde, solo da un pulpito si può annunciare il vangelo, e il vangelo secondo Rau non fa eccezione: non è meno presuntuoso di altri né nasconde la sua vocazione cattocomunista, sin dal volantino con il Cristo e la claque di pugni chiusi.

Del Nuovo Testamento ci sono qui la deposizione, la resurrezione e il battesimo di un ragazzo congolese – cui Sagnet passa idealmente il testimone –, che vuole girare un film cristologico nelle terre rubate dagli invasori occidentali; seguono – con moderatore il Ponzio Pilato di Marcello Fonte – gli interventi politici e tribunalizi, coi racconti e le denunce dei migranti/apostoli: chi scampato a Boko Haram e chi ai ghetti del Sud Italia, chi ridotto a schiavo, chi invisibile, chi riportato indietro dalla Svizzera, chi non può viaggiare, mentre il suo cacao sì, chi è caduto in rovina per colpa del caporalato e/o delle multinazionali, chi si appella a Madre Natura e chi alla rivolta, appunto.

Anche il pubblico ha una parte in commedia, circondato da striscioni (#siamolaspada; #jesusisback), illuminato dalle luci in sala, ripreso dalle telecamere e persino chiamato a intervenire e votare, sottoscrivendo un manifesto di sei punti che vanno dalla libertà di movimento al diritto al lavoro dignitoso. Una signora è contro, un signore astenuto: è il vicesindaco di Roma Luca Bergamo, che non condivide le occupazioni, nemmeno come extrema ratio. E amen. La messa è finita.

 

Paradiso a “Riccione” e lavori in corso per “Diabolik”

Sono iniziate da qualche settimana le riprese di Diabolik, la trasposizione – diretta dai Manetti bros. tra Bologna, Friuli Venezia Giulia e Val d’Aosta – del celebre fumetto delle sorelle Giussani, già portato sullo schermo da Mario Bava nel 1968. Questa volta il ricco cast comprende Luca Marinelli nel ruolo del protagonista, Miriam Leone in quello di Eva Kant e Valerio Mastandrea nei panni dell’ispettore Ginko, oltre a Serena Rossi, Alessandro Roja, Luca Di Giovanni, Vanessa Scalera, Antonino Iuorio, Claudia Gerini e Stefano Pesce. Sceneggiato da Marco e Antonio Manetti con Michelangelo La Neve, il film è prodotto da Mompacem e Rai Cinema, in associazione con Astorina.

Stefano Accorsi e Valeria Golino gireranno insieme a Trieste Sei tornato, adattamento del romanzo omonimo di Christopher Coake, diretto da Stefano Mordini, sceneggiato da Luca Infascelli e Francesca Marciano e prodotto da Picomedia per Warner Bros Italia. In scena l’inquietante vicenda di un uomo che, dopo aver perso sette anni prima suo figlio in un incidente domestico, incontra la nuova proprietaria della casa che lo informa di sentire tra le mura la costante “presenza” di un bambino che di notte chiama suo padre.

Si è recentemente conclusa la lavorazione di Sotto il sole di Riccione, una commedia sentimentale sceneggiata da Enrico Vanzina, diretta da Niccolò Celaia e Antonio Usbergo e prodotta da Lucky Red per Netflix, che racconta le vicende di un gruppo di teenager in vacanza sulla Riviera romagnola, alle prese con storie d’amore e d’amicizia. Tra gli interpreti, Isabella Ferrari, Andrea Roncato, Cristiano Caccamo, Lorenzo Zurzolo, Saul Nanni e Luca Ward, oltre a Tommaso Paradiso, l’ex leader della band Thegiornalisti, a cui si deve il brano musicale che dà il titolo al film.

 

Il corpo di Mandy e la nostra ipocrisia virale

La giovane newyorchese Pippa Bianco di stupefacente non ha solo le generalità, ma il cinema che fa. Sceneggiatrice e regista, il suo primo lungometraggio ha conquistato pubblico e critica al Sundance e a Cannes, oggi passa alla XIV Festa del Cinema di Roma e il 6 novembre arriverà, alle ore 21.15, su Sky Cinema Due: il supporto televisivo è forse il migliore per gustarlo appieno. Prodotto dall’influente e onnipresente A24 per HBO, si intitola Share, gonfia il corto omonimo che nel 2015 vinse sulla Croisette, e ha l’ardire di mettere la camera in una piaga contemporanea, sulla dorsale violenza-registrazione video-diffusione online.

A diventare virali sono le immagini confuse e parziali che inquadrano la sedicenne Mandy (Rhianne Barreto) priva di conoscenza, riversa pancia in giù e attorniata dai compagni di scuola che le abbassano i pantaloni: la ragazza si era risvegliata sul prato antistante la casa dei genitori senza ricordare nulla della sera precedente, ma forse l’ubriacatura non spiega tutto. Che le è successo? E quei lividi sopra la cinta?

Mandy non si raccapezza, non sa e probabilmente nemmeno vuole sapere, chiede all’unico ragazzo – il suo? – che ha riconosciuto nel video, e si sente rispondere che abuso non c’è stato, di più, che “avresti pensato fosse divertente”. I genitori vengono a sapere, Mandy depone alla polizia, le indagini partono e la gente, compagni e genitori del paesino tristemente raccolto intorno a un 7-Eleven, proverbialmente mormora. Mandy è vittima, in ogni caso lo diventa: fuori dalla squadra di basket, via dalla scuola, oggetto di cyber-bullismo, vorrebbe non andare avanti, ma tornare indietro. I genitori sono premurosi, però non capiscono, non la capiscono: “Per fortuna tu hai le prove”, se ne esce fuori la madre, e più non dimandare.

Pippa Bianco non dà le risposte, circumnaviga, suggerisce ed elude, trova gli indizi e cancella le prove: il body of evidence, il corpo del reato, è di Mandy, le responsabilità diffuse quanto l’incertezza, i sensi all’erta, le colpe in sordina. La regista filma a specchio, consustanzia la forma della medesima irresolutezza: sa, e noi con lei, di non sapere, e cucina a fuoco lento, la violenza è implosiva, ammorba e paralizza.

Non soddisfa il voyeurismo, Pippa, non sfama gli appetiti pruriginosi, ovvero la nostra ipocrita volontà di “vederci chiaro”: sono le tessere mancanti a fare il puzzle, la frammentarietà cognitiva, l’incertezza della pena, e ancor prima dei fatti, a entrare in condivisione. Siamo live, eppure siamo spacciati, condannati a noi stessi.

Torna in mente l’ottimo Afterschool di Antonio Campos (2008), mentre Mandy attende che da un amico, dallo smartphone o da entrambi venga un succedaneo di verità, e torna in mente beffardo l’evangelico “beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”. Ma zero speranze zero: la condivisione non ci affrancherà, né la verità ci renderà liberi. Anzi.

 

Nel nome della MADRE. “Uomini che raccontano le donne, senza permesso”

Da poco in libreria “Lontano dagli occhi”, il nuovo romanzo di Paolo Di Paolo: la storia di tre donne, nella Roma degli anni 80, alle prese con la maternità. L’autore ne ha parlato per noi con Dacia Maraini.

In questo mio nuovo romanzo, ho scelto come protagoniste tre donne che stanno per diventare madri. Ti confesso che ho avuto parecchi dubbi, e l’ansia di non saper raccontare, da uomo, l’attesa, la gravidanza. Ma era una sfida interessante, no?

DACIA MARAINI: Strano questo tuo interesse per la maternità, in cui sei voluto entrare con tutti e due i piedi, come in una tinozza dove si pigia l’uva, umilmente ma con decisione. I tuoi personaggi – Luciana, Valentina, Cecilia – sono donne molto diverse ma unite da qualcosa che le fa diventare improvvisamente consapevoli e perdute nello stesso tempo, appagate e spaventate, e tu hai raccontato bene questi sentimenti contraddittori che le donne conoscono dal vivo. Ne parla per esempio in maniera esemplare una scrittrice americana che si chiama Adrienne Rich. Una femminista degli anni Settanta, ma che risulta attualissima. La maternità, più di tanti altri fenomeni naturali, è profondamente forgiata e influenzata dalla storia dei valori e dei sentimenti.

PDP: Più volte ti è capitato di ragionare su come, nella storia letteraria, gli scrittori uomini non abbiano “chiesto il permesso” di raccontare le donne. Hanno parlato per loro, molto a lungo…

DM: Alle donne, nella storia, è stata proibita la parola sacra, la parola prestigiosa. La Madonna, infatti, è muta. E alcuni degli scritti più belli delle mistiche sono ancora chiusi nei cassetti dei conventi. Sante sì, ma mai dotate di parola. Le parole sono pietre, come diceva Carlo Levi, e le donne non dovevano avere pietre fra le mani, chissà contro chi le avrebbero gettate. Ricordiamo anche che gli studi superiori sono stati proibiti alle donne per secoli. Famoso il caso di Gaetana Agnesi, talmente brava in matematica che l’università di Bologna le offrì una cattedra. Lei cominciò a insegnare, ma aveva intorno tutti studenti e colleghi maschi. A un certo punto si dimise: scrisse che si sentiva come un fenomeno da baraccone, che venivano a toccarla per vedere se veramente era una donna. Ha piantato tutto in asso e ha aperto una scuola per i figli dei contadini. È chiaro che questi tabù hanno creato nelle donne un senso di inferiorità e un senso di inadeguatezza difficile da vincere. Molte donne sono le prime nemiche di sé stesse.

PDP: Che differenza senti, quando scrivi, nel lavorare sulle psicologie maschili e femminili?

DM: Il penultimo romanzo che ho scritto si chiama La bambina e il sognatore. Per la prima volta ho deciso di raccontare la storia di un giovane maestro, mi sono concentrata su un protagonista maschile. All’inizio avevo paura di sbagliare, ma poi mi ci sono trovata benissimo. Quando ho descritto il momento in cui lui si fa la barba e si taglia colorando la schiuma bianca di rosso, ho sentito il bruciore sulla guancia e ho capito che veramente uomini e donne sono uguali sul piano dei sentimenti e dei sensi. Le differenze, che certamente ci sono, appartengono tutte alla storia e alla cultura.

PDP: Nel tuo libro Corpo felice parli a lungo del bambino che anni fa avevi in grembo e che purtroppo non è mai nato. Scrivere quel libro è stato un modo di pacificarsi con quel dolore? Che madre saresti stata?

DM: Sì, credo che bisogna sempre fare i conti con i nodi che sono rimasti nel nostro inconscio. Prima o poi bisogna sbrogliarli. Il solo modo che conosco per sciogliere un nodo è scriverne. In quanto alla madre che sarei stata, poiché non amo la possessività e la pretesa di intervenire nella vita degli altri, credo che l’avrei educato alla autonomia e alla libertà, con tutti i rischi che questo comporta.

PDP: Raccontando le tre gravidanze mi sono sforzato di mettere in luce sia gli aspetti positivi sia la fatica, le paure, le difficoltà. Nel discorso pubblico tutto questo è ancora piuttosto trascurato.

DM: Nel tuo romanzo sei riuscito a rendere bene i diversi sentimenti che suscita la maternità. Prova che se si fa lavorare onestamente e generosamente l’immaginazione, si può capire e interpretare l’altro sesso. Sul piano sociale, certo, qualcosa è cambiato, ma poco. Basta guardare alle leggi che accompagnano la maternità e il parto. Il mondo del lavoro è ancora fatto a misura di uomo e spesso le donne si trovano svantaggiate. Pensa agli asili nido, per esempio: sono importantissimi per una donna che lavora, dovrebbero essere presenti in tutte le aziende e dovrebbero essere gratuiti.

PDP: Mi piace molto l’idea che si possa educare un uomo a essere “femminista”, capace di sentire e vivere l’eguaglianza con l’altro sesso. Vai molto nelle scuole, pensi che i ragazzi nati negli anni 2000 possano superare certi schemi?

DM: Io, come tu sai, non credo alla guerra fra i sessi. Donne non si nasce, come diceva giustamente Simone de Beauvoir, lo si diventa. È difficile parlare dei ragazzi di oggi in generale. Quelli più sensibili e attenti, quelli che leggono, si informano, cercano di capire, quelli che sono propensi a identificarsi con l’altro da sé, superano facilmente certe vecchie divisioni dei ruoli. Altri, i più deboli, i più ignoranti, quelli che identificano la propria virilità col comando e il possesso, è chiaro che non sono disponibili ai cambiamenti e tendono a vedere le donne come nemiche: più sono autonome e più le sentono pericolose.

Non ci sarà Halloween Brexit: “Votiamo il 12 dicembre”

Niente più Halloween Brexit, l’obiettivo sono ora le elezioni sotto Natale. Boris Johnson rompe gli indugi – dopo essere riuscito a strappare lunedì una maggioranza a Westminster solo sul primo passo del suo accordo di divorzio dall’Ue, ma non il via libera a un iter sprint per chiudere la partita entro il 31 ottobre come aveva promesso – e rilancia la carta del voto politico anticipato: annunciando per lunedì una nuova mozione del governo Tory in Parlamento per cercare di ottenere lo scioglimento della Camera dei Comuni il 6 novembre e la convocazione delle urne il 12 dicembre.

La battaglia parte in salita, poiché la mozione per passare richiederà il quorum dei due terzi. E le prime reazioni dei partiti di opposizione sono invece improntate a confermare l’ostruzionismo. Ma Johnson vuole mettere in imbarazzo i rivali descrivendoli come notabili asserragliati nel palazzo, impauriti dall’affrontare il giudizio “del popolo”.

BoJo ha spiegato di essere pronto a concedere più tempo, come chiede l’opposizione, per dibattere “l’eccellente deal” da lui raggiunto con Bruxelles in extremis, ma solo a patto che i deputati dicano finalmente sì alle elezioni per rompere lo stallo. Altrimenti la minaccia dell’esecutivo è quello di continuare a mettere in calendario la mozione per il voto “giorno dopo giorno”. E magari, chissà, di presentare persino un’auto-sfiducia per la quale basterebbe la maggioranza semplice. La proposta, del resto, arriverà in aula dopo che l’Ue avrà deciso – nel weekend – sulla durata dell’estensione dell’uscita del Regno dall’Ue oltre il 31 ottobre, sgomberando il campo dall’incubo no deal invocato dai suoi avversari.

Johnson ha invitato in primis l’opposizione laburista – il cui leader Corbyn aveva più volte detto d’esser pronto ad accettare la sfida del voto una volta la proroga fosse stata ottenuta e il rischio hard Brexit non fosse più sul tavolo – a dire sì alle urne.