Dopo i curdi, Assad: Erdogan Sultano del Medio Oriente

Ci sono molti aspetti interessanti nella questione turco-siriana. L’attacco turco, con interventi aerei laddove volano solo le mosche sui cadaveri, interventi di carri armati e artiglierie e circa 11.000 soldati sul campo, è stato guidato dalle formazioni del cosiddetto Libero Esercito Siriano. Una sigla di convenienza che copre i militari disertori siriani ancora in armi e l’armata di milizie pagate dalla Turchia.

Si tratta di quei combattenti “moderati” un tempo definiti patrioti, di mercenari, di facinorosi, estremisti islamici e tagliagole finora protetti, armati, addestrati e finanziati dagli americani e dai turchi oltre ai vari emirati e stati arabi. Il collante tra le forze armate turche e questi “liberi combattenti” è l’avversione per il regime siriano e per una qualsiasi autonomia curda. L’operazione turca, cinicamente chiamata “Sorgente di pace”, ufficialmente tende a stabilire una “fascia di sicurezza” al confine tra Turchia e Siria da Manbij fino al confine con l’Iraq. Si vorrebbero così eliminare gli ultimi presidi del famigerato Isis e i cosiddetti “terroristi” dell’Ypg, le milizie curde che i turchi ritengono uno dei bracci armati del Pkk, il” partito dei lavoratori del Kurdistan” riconosciuto come organizzazione terroristica anche da Usa, Ue, Iran e Nato. In questo territorio, i curdi, aiutati dagli americani, avevano eliminato l’Isis e avevano ricevuto dagli americani, e non solo, solenni promesse di poter costituire un’entità autonoma curda nel quadro della prevista spartizione della Siria. Se ciò fosse avvenuto, si sarebbe trattato della seconda autonomia curda nell’area dopo quella del limitrofo Kurdistan iracheno. Anzi, sarebbe stato molto di più e già i curdi siriani parlavano di Stato indipendente da inserire in una “confederazione curda”. Questa possibilità, ancorché onirica nel quadro dell’intero scacchiere geopolitico mediorientale, non può essere accettata da nessuno degli stati confinanti. L’Iraq dovrebbe affrontare la secessione del Kurdistan iracheno mentre l’Iran e la Turchia dovrebbero affrontare la richiesta di separazione o quantomeno di autonomia curda sui propri territori. Tuttavia, tale rischio è più teorico che pratico. In Medio Oriente nessuno vuole uno Stato curdo, in nessuna forma. E nel mondo i curdi, così come tutti i “popoli senza Stato”, non contano niente. Le organizzazioni internazionali dove si discute di monete, finanza e sicurezza sono gli Stati. Lo stesso principio di autodeterminazione sancito dalla carta delle Nazioni Unite ha limitazioni di applicabilità che variano a seconda della volontà degli Stati membri. Fino a quando questo sistema non cambia, tali popoli non hanno un riconoscimento giuridico internazionale, devono sottostare ai regimi degli stati in cui sono dislocati e sono costretti a ricorrere alla ribellione anche armata per diventare autonomi. Lo stesso Kosovo, dove la ribellione sollecitata e aiutata con una vera e propria guerra tra Stati (membri della Nato e Serbia) ha portato alla dichiarazione unilaterale d’indipendenza, non ha ancora il riconoscimento dell’Onu. Ma il suo esempio ha alimentato tutte le altre rivendicazioni regionali con gravi ripercussioni politiche e sociali in molti Stati. Nel caso dei curdi, nemmeno loro sono convinti della formazione di un proprio Stato in cui riunire i curdi iraniani, iracheni, turchi e siriani. Lo stesso Ocalan, leader storico del Pkk, ha modificato il proprio modello politico optando per il “municipalismo libertario” teorizzato dallo statunitense Murray Bookchin e basato sulla democrazia diretta esercitata da assemblee popolari in villaggi, paesi, quartieri e città federate. Per i turchi e per altri, questo modello è ovviamente perfino più pericoloso della secessione formale. Inoltre, nei secoli di dipendenza da altri Stati, i curdi hanno adottato il “senso dello Stato” dei Paesi in cui si trovano; si sono adattati ai costumi e alle leggi locali e si sono integrati socialmente al punto che proprio in Turchia la maggioranza dei curdi si sente “turca”; i matrimoni misti, le relazioni interpersonali e di vicinato con i turchi sono ottimi e soltanto un regime di polizia che individua i pericoli per lo Stato secondo l’etnia o la religione tiene accesa la fiamma dell’odio. I curdi hanno però mantenuto forte la struttura familiare e di clan con relativi legami di fratellanza, ma anche con conflitti e faide: questa frammentazione interna ostacola qualsiasi progetto di unificazione politica. Infine, per essere sempre stati sottomessi a potenze imperiali e regimi autoritari, essi non hanno alcuna cognizione democratica: esattamente come non ce l’hanno i loro dominatori.

L’azione militare della Turchia, quindi, è rivolta contro i curdi e di certo ne vuole negare qualsiasi velleità politica anche se sostenuta dai potenti, come gli Usa, e dai falsi idealisti che gridano al tradimento di un popolo senza patria. Ma non si tratta solo di questo. Erdogan aveva già avuto il via libera dagli americani, dai russi, dalla Nato e dall’Iran per la creazione di una fascia di sicurezza al confine siriano: tutti, compresi i curdi, sapevano che questo avrebbe comportato il loro sfollamento. Ma il grande obiettivo di Erdogan è l’acquisizione del primato politico-militare in Medio Oriente non tanto agendo come vassallo e sceriffo degli americani, ma come entità politica autonoma. E infatti solo la dimostrazione, almeno formale, di autonomia rispetto alle grandi potenze può conferirgli la credibilità necessaria a gestire l’egemonia in tutta l’Asia minore. La Siria di Bashar al Assad era da tempo nel mirino dei turchi che per primi hanno fomentato la rivolta in Siria, hanno riconosciuto i ribelli come unici e legittimi rappresentanti della Siria e hanno internazionalizzato il conflitto. Il paese ridotto a brandelli sembrava una preda che da sola si sarebbe ficcata nella rete dei cacciatori di frodo. Usa, Europa, Nato, Israele, Turchia, Iran, Iraq, Giordania, Libano e altri Paesi arabi e mediorientali avevano già fatto i propri calcoli per spartirsi le spoglie del regime di Assad con la “cantonizzazione” o “balcanizzazione” della Siria. L’intervento della Russia, che pure ha più volte definito “spendibile” il traballante Assad, ha sparigliato le carte sul campo, permettendo al regime di sopravvivere e anzi di riassumere il controllo di gran parte del proprio territorio. La Turchia si è vista improvvisamente sfuggire l’occasione di appropriarsi di parte della Siria e assumere un ruolo egemone nell’area ed ha reagito di conseguenza. L’ha fatto in termini militari non tanto e non solo perché fosse necessario un atto di forza, ma per assecondare i generali che lui stesso aveva messo alla porta nella politica e nella credibilità operativa con il presunto colpo di stato del 2016 che gli ha dato modo di effettuare una mastodontica purga negli apparati militari e in altre strutture civili. La conquista della cosiddetta fascia di sicurezza è dunque l’obiettivo minimo, iniziale, dell’espansione turca. Quello che consente ad Erdogan di ricattare tutti e di pretendere ancora più di prima l’uscita di scena di Assad. Quest’ultimo, paradossalmente si vede rivalutato nel ruolo di “protettore” di uno Stato laico, multietnico e indipendente, nonché amico dei curdi. La partita non è perciò conclusa e meno che mai può chiudersi con la dichiarazione di un inesistente cessate il fuoco, con l’esodo dei curdi, la fuga dei tagliagole dell’Isis e l’occupazione militare di 30 mila chilometri quadrati di deserto petrolifero siriano. Sono invece questi gli elementi per l’inizio di un conflitto armato tra Turchia e Siria e di una crisi mediorientale ancora più grave e diffusa di quella attuale. Erdogan si prepara a questo e sa di non poter essere fermato da nessuno. In particolare sa benissimo che noi europei staremo solo a guardare e piagnucolare.

Cambridge Analytica e il lato oscuro dei social

Sarebbe una ingenuità credere che Mark Zuckerberg non sapesse che gli avrebbero chiesto quand’è che è venuto a conoscenza di Cambridge Analytica, come ha fatto Alexandria Ocasio Cortez. Ingenuità credere che l’incertezza del fondatore di Facebook davanti alla commissione servizi finanziari della Camera americana fosse dovuta al fatto che non conoscesse la risposta. Certo, il fuoco di fila della 30enne star dei democratici americani e la decisione con cui ha incalzato il numero uno del più famoso social network del mondo l’hanno incoronata ieri come vincitrice di un duello mediatico che, però, nel merito resta senza vincitori.

L’audizione del fondatore di Facebook dura un paio d’ore, verte soprattutto su Libra, sul suo progetto per i pagamenti del futuro, ammette pure che è complesso e rischioso. I toni cambiano con la Ocasio-Cortez: scandisce rapida e con decisione le sue domande che si scostano dalla criptovaluta per rivoltare Facebook. Gli chiede di Cambridge Analytica e dello scandalo dei dati sottratti agli utenti per fini elettorali. “Mister Zuckerberg, lei sapeva di Cambridge Analytica?” chiede la “congresswoman” pregandolo di specificare mese e anno in cui ne sia venuto al corrente. Zuckerberg risponde che non ricorda “il momento esatto, forse marzo 2018” quando i giornali ne hanno iniziato a parlare. Lei incalza, chiede se lo sapesse qualcun altro, se se ne fosse discusso magari nel 2015, quando erano usciti i primi report del Guardian. Zuckerberg appare confuso: prima dice di non saperlo, poi di aver saputo ma di non sapere cosa stesse facendo. Le risposte non sono nulla di nuovo.

La parte successiva diventa invece più attuale: la deputata chiede cosa accadrebbe se volesse pagare per scegliere come target i codici postali dove vivono prevalentemente afroamericani per pubblicizzare una data elettorale sbagliata. Punto su cui Zuckerberg, forse non con lo stesso livello di decisione, risponde: “Se qualcuno, incluso un politico, sta dicendo cose che possono causare … violenza o un danno fisico imminente, o la soppressione di elettori o censimenti, rimuoviamo quel contenuto”. Insomma, fornire una data sbagliata per le elezioni è una tattica di soppressione degli elettori abbastanza chiara su cui si può intervenire. A questo punto, la Cortez alza il tiro portando la discussione nell’acqua torbida del confine tra libertà di espressione e censura: “Se qualcuno volesse diffondere pubblicità rivolte ai repubblicani nelle primarie dicendo che avevano votato per il Green New Deal”? Sa già la risposta, Zuckerberg l’ha data nelle scorse settimane sostenendo che non può controllare la veridicità di tutte le dichiarazioni dei politici. Risponde che probabilmente potrebbero.

“Non vede un potenziale problema qui con una completa mancanza di controllo dei fatti sugli annunci politici”? incalza la Cortez. “Be’ – risponde Zuckerberg – penso che mentire sia un male, e penso che pubblicare un annuncio con una bugia sarebbe un male. È diverso dal fatto che… nella nostra posizione, la cosa giusta da fare per impedire agli elettori o alle persone in un’elezione sia far vedere che hai mentito”. Per poi aggiungere: “Nella maggior parte dei casi, in una democrazia, credo che le persone dovrebbero essere in grado di verificare da sole ciò che i politici, che poi possono o non possono votare, stanno dicendo e poi giudicare”.

Adiós Francisco Franco: Madrid sotterra la dittatura

Il dittatore spagnolo Francisco Franco – 44 anni dopo la morte e 16 mesi dopo l’inizio delle pratiche per l’esumazione – è stato separato dalle sue vittime sepolte con lui e per suo volere nella Valle de los Caidos e si è riunito con la lapide che porta il suo nome nel cimitero pubblico di Mingorrubio a Madrid. Accanto a lui, nello spazio donato alla famiglia Franco negli anni 60 dall’allora sindaco della capitale, Carlos Arias Navarro, vicino alla tenuta El Pardo, giacciono sua moglie Carmen Polo, due ministri del suo governo, un cugino e un altro dittatore, il domenicano Rafael Trujillo; per volontà del popolo spagnolo, secondo una legge dello Stato democratico e della giustizia, “mettendo fine a un affronto morale” nelle parole del premier in carica Pedro Sánchez, che a pochi giorni dal voto del 10 novembre ha potuto dire di aver mantenuto la promessa.

In una cerimonia storica – benché intima per volere del governo – seguita da 500 media accreditati da 17 paesi, tutti esclusi però dalle attività di esumazione e inumazione – non sono mancati i simbolismi insidiati dai 22 familiari del caudillo, tra cui un Francis Franco e Alfonso di Borbone (marito della nipote del dittatore), ironia della sorte, che hanno portato a spalla il feretro riesumato del nonno fuori dalla Basilica benedettina. A coprire la bara, non già la bandiera pre-costituzionale come nel desiderio di Francis l’erede mancato e vietata dalla ministra della Giustizia Dolores Delgado a presiedere l’estrazione del corpo sotto la lapide di 150 chili, come “notaia del Regno”, ma un’altra non meno significativa con la croce di San Fernando simbolo del franchismo, accanto a una corona di alloro con le 5 rose della falange. Il tutto suggellato dal grido “Viva Franco, viva Spagna” all’ingresso della bara nell’auto che ha portato i resti del generalissimo all’elicottero verso il Pardo. E lì ad attenderlo tra la folla di nostalgici con cartelli che andavano da “Grazie Franco” a “Stato dittatoriale” all’indirizzo del governo, anche il golpista Antonio Tejero giunto a omaggiare le spoglie del dittatore prima della cerimonia officiata da suo figlio prete. Eppure, in un comunicato i Franco hanno urlato alla “profanazione” della tomba del nonno da parte “dallo Stato con l’avallo delle più alte cariche ecclesiastiche”, e ai loro diritti calpestati. A fare eco alla famiglia gli eurodeputati del partito di ultradestra Vox che durante l’annuncio al Parlamento europeo della traslazione del feretro del Caudillo hanno urlato “profanatori”. Fatto è che martedì la Valle de los Caidos di San Lorenzo del Escorial riaprirà al pubblico dall’alto della sua croce cristiana di 150 metri – la più alta del mondo – tra cui non ci saranno più nostalgici in visita alla tomba del dittatore. E forse, anche l’autobus Escorial-Valle de los Caidos dovrà cambiare insegna. Nel monumento costruito da 20 mila schiavi di guerra – per la maggior parte repubblicani – che lì giacciono senza lapide in una delle più grandi fosse comuni d’Europa, ora resta un solo altro corpo con il nome, quello del fondatore della falange, José Antonio Primo de Rivera, figlio del dittatore Miguel. Ma questa è un’altra storia, che, insieme a quella delle migliaia di repubblicani lì sotterrati e i cui corpi solo in parte sono stati identificati, dovrà essere oggetto di un’altra decisione di Stato. Così come quella sul futuro dell’ormai ex mausoleo, per il quale c’è chi – come lo storico del franchismo Gutmaro Lopez Bravo – immagina una riconversione in museo della Memoria, o di narrazione, come da progetto dell’antropologo Francisco Ferrandiz. Ma non manca chi propone di abbandonarlo alla natura circostante, fino a che un giorno, dimentichi del significato, si possa riconvertire in uno spazio altro con un concorso internazionale. Ipotesi non peregrina, dato il grave stato di deterioramento della Valle, dalla croce che rischia di cadere alla Basilica: per restaurarlo non basterebbero una decina di milioni di euro secondo gli esperti. Denaro che neppure un ipotetico governo di destra avrebbe voglia di investire in un luogo certo ora meno simbolico.

Beirut, rivoluzione disco. “Balleremo in piazza contro i ladri al governo”

Tutto è iniziato nel più libanese dei modi. In un Paese in cui non funziona più niente, e persino gli aerei rischiano di precipitare, perché il governo, incapace di organizzare lo smaltimento dei rifiuti, li ha riversati in una discarica accanto all’aeroporto, e ora, al decollo, stormi di gabbiani possono finire nei motori, la scintilla è stata la tassa su Whatsapp. Sei dollari al mese. Non l’acqua che è contaminata, l’elettricità che è razionata. Gli ospedali con liste d’attesa di oltre un anno. Whatsapp. Quando è troppo, è troppo. E così, dal 17 ottobre, sono tutti in piazza. Fedeli allo spirito del Libano: un Paese che molti ancora associano alla guerra, e al terrorismo, eternamente in bilico su un nuovo scontro con Israele, ma che per gli arabi, invece, è il Paese della creatività e della libertà – il paese in cui la notte non significa coprifuoco, ma concerti, cinema, teatri: insieme a 1,5 milioni di profughi siriani, il Libano ospita le più sofisticate gallerie d’arte del Medio Oriente. E quindi la rivoluzione, qui, è sostanzialmente un rave sconfinato. Quasi 2 milioni di libanesi, su un totale di 4,5 (al netto dei profughi), riempiono Riad el-Solh, la piazza principale di una Beirut per il resto deserta, con scuole, uffici, negozi chiusi.

Ma l’esercito presidia la città con il minimo indispensabile degli uomini. Si limita a guardare, per ora. In attesa di istruzioni da un governo che non ha ancora deciso come reagire. Mentre libanesi di ogni età e professione, intanto, montano tende e cucine da campo. Non programmano assalti alla Bastiglia. Hanno intenzione semplicemente di stare qui a ballare a oltranza – invece del servizio d’ordine, hanno una schiera di abbracciatori: perché è il momento di stare tutti insieme, spiegano. “Andremo a casa quando anche il governo andrà a casa”, mi dice uno dei dj che guida le danze. E finita la preghiera del muezzin, riattacca con Rihanna. All’alba, sono tutti armati di secchio e ramazza a spazzare le strade. Anche perché la scintilla vera, in realtà, non è stata la nuova tassa su Whatsapp. Quella ha richiamato la stampa internazionale. Ma per i libanesi, la scintilla più che metaforica è stata letterale. La settimana prima oltre cento roghi da siccità e vento avevano devastato i boschi intorno a Beirut. E i pompieri non avevano niente per spegnerli: i 3 Canadair, costati 13,9 milioni di dollari, e pagati con una colletta tra cittadini, erano fuori uso per mancanza di manutenzione. Ai libanesi, come sempre, è toccato arrangiarsi. Con vecchie coperte, estintori da casa. Pompe da giardino. “E a quel punto, abbiamo capito che ci organizziamo meglio da soli. Che non abbiamo bisogno di questi ladri”, mi dicono davanti a Plan B, una tipografia di libri di fotografia che è il ritrovo degli artisti impegnati.

Perché non è certo un segreto: la politica, qui, è spartizione di potere e affari. L’economia del Libano è controllata da una ventina di famiglie, tra cui quella del primo ministro Saad Hariri, che ha un patrimonio personale di 1,3 miliardi di dollari: e mentre sospendeva lo stipendio ai giornalisti di Futura, la tv di sua proprietà, regalava 16 milioni di dollari all’amante svedese. Se chiedi ai libanesi cosa vogliono, qual è l’obiettivo, dopo le dimissioni del governo e del presidente e di chiunque abbia un ruolo pubblico, ti dicono: “E poi vogliamo indietro quello che hanno nei conti all’estero”.

Non è una rivoluzione politica, ma sociale. Perché non vogliono solo un nuovo governo. Vogliono una nuova mentalità. Sono stanchi del sistema comunitario, o meglio, settario, per cui tutto, qui, è suddiviso in quote tra 18 confessioni religiose. E oltre cento partiti. Un sistema istituito nel 1989, e che ha consentito al Libano di chiudere 15 anni di guerra civile. “E che però ha creato uno stato, ma non un governo”, mi dice Amjad Ramadan, 28 anni, avvocato, mentre distribuisce merendine. Comprate di tasca sua: perché anche i poveri possano stare a Riad el-Solh. “Il governo appalta tutto a privati. E se protesti, ti rispondono che il problema è che non ci sono risorse. Ma non è vero. Le risorse ci sono ma sono distribuite male”. Lo 0,3% della popolazione possiede il 48% della ricchezza. “Non vogliamo che vadano a casa. Ma in carcere”. Sono i temi, di nuovo, di piazza Tahrir. E della società del 99%. I libanesi non sono organizzati, né vogliono organizzarsi. Ma chi ha iniziato?, chiedo. Di chi è stata l’idea di venire qui? E mi rispondono solo: Al-shaab. Il popolo. Vogliono un governo tecnico e elezioni anticipate, ma per il resto, ognuno ha la sua priorità: dal taglio delle tasse a quello dei gas serra, e delle tariffe di internet: che ora sono di 40 dollari al mese, su un salario medio di 750. “Abbiamo un piano segreto – mi dice una ragazza – così segreto che non lo abbiamo ancora detto neppure a noi stessi”. Poi seria, aggiunge: “Ma soprattutto, non abbiamo niente da perdere”. Non siamo qui per Whatsapp, dice. Siamo qui perché in tanti siamo alla fame. Viene dalla periferia. E la sua famiglia vive di sussidi e carità. Molti hanno al collo un badge con la bandiera del Libano. Come a dire: apparteniamo al Paese. “Comunque finisca, abbiamo già vinto”, mi dice un ragazzo che invece è appena smontato da una Ducati. “Perché l’interesse pubblico non è una somma di interessi privati. Non c’è Libano possibile se non hai, prima di tutto, i libanesi”.

La realtà è un uccello: il Pos, le banche e Giorgio Gaber

La realtà, com’è noto, si nasconde dove può. A volte, è il caso del Corriere della Sera di ieri, in un colonnino: “Pos, le banche frenano sul taglio dei costi”. Chissà come l’ha presa Giuseppe Conte: “Prima di sanzionare gli esercenti che non accettano pagamenti digitali – aveva detto – occorre abbassare le commissioni e quindi stipulare prima accordi con le banche. Io personalmente ho parlato con gli esponenti dei principali gruppi bancari e ho avuto assicurazioni da parte loro”. E invece adesso “frenano”. La realtà, dicevamo, è una faccenda complicata, “è un uccello che non ha memoria”, cantava Gaber. Le banche, per dire, una volta erano quegli istituti che facevano soldi essenzialmente prestando denaro, oggi mica tanto: nei bilanci del 2017 quelle italiane – tra economia asfittica e nuove regole di gestione dei prestiti che trattano il credito come una sorta di maledizione (vedere alla voce “sofferenze”) – facevano più soldi con le commissioni e il trading che con mutui e simili. Secondo Intermonte Sim, per dire, i soli ricavi da commissioni sui servizi di pagamenti sono oltre il 10% degli introiti del nostro sistema finanziario. Come scrive il CorSera: “Azzerare le commissioni è impossibile, tagliarle complesso”. Visto che la realtà è complessa? In ipotesi uno potrebbe partire con l’ottima intenzione di combattere l’evasione finendo invece per trasferire qualche miliardo da clienti e commercianti al sistema bancario. La realtà è un uccello, cantava Gaber. Padulo, in qualche caso.

Almanacchi nuovi e governo, come ai tempi di Leopardi

Venditore: Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?

Italiano: Almanacchi per il governo nuovo?

Vend. Sì signore.

Ital. Credete che sarà felice questo governo nuovo?

Vend. Oh illustrissimo sì, certo.

Ital. Come quest’anno passato?

Vend. Più più assai.

Ital. Come quelli di là?

Vend. Più più, illustrissimo.

Ital. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’amministrazione nuova fosse come quella di questo ultimo anno?

Vend. Signor no, non mi piacerebbe. Grave sciagura incomberebbe su di noi.

Ital. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?

Vend. Saranno quarant’anni, illustrissimo.

Ital. A quale di cotesti quarant’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?

Vend. Io? non saprei. Ma certo non a uno degli ultimi venti.

Ital. Di questi ultimi venti non vi ricordate nulla in particolare, che vi paresse felice?

Vend. Non in verità, illustrissimo.

Ital. E pure l’Italia è una cosa bella. Non è vero?

Vend. Cotesto si sa.

Ital. Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?

Vend. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.

Ital. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?

Vend. Cotesto non vorrei per gli ultimi venti anni.

Ital. Oh che vita vorreste voi dunque?

Vend. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, ma con un governo felice.

Ital. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, negli ultimi venti e soprattutto nell’ultimo, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Col governo nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?

Vend. Speriamo.

Ital. Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.

Vend. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi. Se vuole c’è anche quello con la previsione sui tempi della giustizia, sulle aliquote Iva, sui migranti, sulle grandi opere e su tanto altro ancora, ma questo costa sessanta soldi.

Ital. E cosa prevede in merito.

Vend. Che tutto si risolv…, no, chiedo scusa illustrissimo, volevo dire che tutto miglior…, no, chiedo ancora scusa illustrissimo, per non sbagliare mi avvalgo della facoltà di non rispondere.

Ital. Speriamo che qualcosa cambi. Ecco trenta soldi, gli altri trenta soldi preferisco tenerli, in futuro potrebbero essermi utili. A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca (diceva Messer Andreocto).

Vend. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi, governi nuovi (o forse vecchi, però paion nuovi).

Silenzio sul Cile, ma in Venezuela si voleva il golpe

“Ho accesso a cose… che sono veramente terribili: stanno accadendo cose terribili”: così il presidente Usa Donald Trump in una intervista esclusiva al New York Times (quando ancora ci parlava). “L’Alto commissario Onu per i Diritti Umani, Michelle Bachelet, ha chiesto un’inchiesta indipendente sul presunto uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza per reprimere le proteste antigovernative: lo riporta il New York Times”.

L’ex presidente del Cile ha citato notizie di 20 persone uccise e 350 detenute questa settimana. “Sono estremamente preoccupata per il fatto che la situazione possa rapidamente sfuggire al controllo con conseguenze catastrofiche”.

Si potrebbe pensare che il Paese citato da Trump e Bachelet (e da noi oscurato) sia il Cile, visto quanto sta accadendo in questi giorni. Al 23 ottobre le agenzie internazionali davano la cifra di 18 morti nella feroce repressione dell’esercito. Invece riguardano il Venezuela, dove lo scorso gennaio il presidente dell’Assemblea si autoproclamò presidente con il sostegno sfrenato della “comunità internazionale” che richiedeva a gran voce la cacciata del presidente legittimo, Nicolas Maduro, l’invio di contingenti internazionali e un isolamento politico di Caracas per provocare il cambio di regime.

Guaidó nel frattempo non lo ricorda più nessuno, abbandonato dai militari sotto la sguardo stupito di Trump, non ha alcun seguito nel Paese, e il Venezuela il 18 ottobre scorso, ha addirittura ottenuto un seggio nel Consiglio Onu dei diritti umani (il che non vuol dire che le cose vadano bene e che Maduro sia esente da critiche).

Ma l’ipocrisia e il silenzio internazionale sul Cile spiega meglio di qualsiasi tesi ideologica gli equilibri internazionali. Trump, stavolta, non ha gridato, e non ha detto nulla di significativo neanche la Ue, né si sono udite le centinaia di dichiarazioni che hanno inondato agenzie, giornali e talk show in tv nei primi mesi dell’anno. Quando bisognava puntare il dito contro il “populista” Maduro e chi lo sosteneva qui in occidente, governo italiano compreso.

E invece il Cile mostra il volto spietato dell’America latina. Insieme all’ennesimo fallimento del liberismo targato Fondo Monetario Internazionale come si vedrà domenica prossima in Argentina con la quasi sicura sconfitta di Mauricio Macri.

Lo stesso Financial Times ha riconosciuto che il Cile, Paese che ha conosciuto una delle dittature più spietate del Novecento e che si affidò, insieme ai militari nelle piazze, ai Chicago Boys nella gestione dell’economia, è ben lontano dai risultati economici che il suo presidente Piñera vuole invece sbandierare.

L’Argentina in particolare esprime al meglio tutta l’ipocrisia e la malafede nell’osservare i fatti dell’America latina. Mentre si dipinge come catastrofica la gestione kircheriana, è stato proprio Macri, con le promesse di liberalizzazione e privatizzazione, a far impennare il debito pubblico a 337 miliardi di dollari, a far tornare lo spettro del default, a fare i conti con una povertà crescente. Era già accaduto con Menem e con la dollarizzazione del Paese.

I Paesi governati da ricette che, semplificando molto, si definiscono “populiste”, hanno problemi rilevanti. Basta guardare all’involuzione dell’Ecuador, ai problemi di Morales in Bolivia e alla stessa crisi venezuelana. Ma in questi casi, Ue e Usa pensano di intervenire invocando cambi di regime e, spesso, supportando qualche golpe locale. Quando sono le ricette del Fmi a creare disastri la stessa comunità si gira, ignara, dall’altra parte.

Caro Delrio, adesso cosa ne pensi di Renzi?

Caro Delrio, mi rivolgo a te perché, come ben sai, già agli albori dell’avventura renziana, coltivai la speranza che un “fratello maggiore” come te potesse consigliare e, alla bisogna, correggere Renzi, che, ai miei occhi, era artefice di un deragliamento del Pd, specie in rapporto all’esperienza dell’Ulivo, del quale invece il Pd avrebbe dovuto rappresentare il compimento. Attesa vana, la mia. Tuttavia, conoscendoti come persona intellettualmente onesta, mi piacerebbe interpellarti ora sull’approdo della parabola politica renziana. Credo anzi che chi ha condiviso a lungo quella esperienza abbia il preciso dovere di formulare un giudizio.

Con la recente Leopolda, Renzi è passato dagli ammiccamenti a un esplicito appello a FI. Prima la critica ai magistrati che si accanirebbero contro Berlusconi, poi l’apprezzamento per il nuovismo di FI opposto alla vecchiezza dei riti del Pd, a seguire l’accreditamento del Cavaliere come liberale, democratico, europeista (sic). Ne converrai: non è cosa da niente che chi è stato leader e premier del Pd oggi si candidi a occupare lo spazio politico che fu di FI. Sino a ieri suonava come una calunnia dei suoi denigratori. Al più, la provocazione della intelligenza brillante di Giuliano Ferrara, con la sua metafora del Royal Baby del Cavaliere, il delfino che non ha mai avuto. Forse è un chiarimento utile, che tuttavia non esonera da una riflessione. Esemplifico. Penso alla strumentalità, ora evidente, della brusca giravolta con la quale Renzi ha aperto al Conte 2, al chiaro fine di dilatare il proprio spazio politico potenziale, bollando la nuova maggioranza come smodatamente sbilanciata a sinistra. Penso ai suoi quotidiani distinguo, alla sistematica azione di logoramento di maggioranza e governo e, segnatamente, di Conte e Zingaretti. Al modo, come si è notato, di Ghino di Tacco. Penso alla logica manifestamente proporzionale che ispira i suoi comportamenti. Lui, che aveva sposato e persino esasperato il modello maggioritario, suggellato dalla riforma costituzionale. Penso alla disinvolta campagna tesa a reclutare parlamentari eletti altrove, una pratica nella quale eccelleva Mastella. Con casi francamente imbarazzanti. Tipo Gennaro Migliore già delfino di Bertinotti o Teresa Bellanova, un tempo sinistra Cgil, entrata nel governo ventiquattr’ore prima della scissione in quota di quel Pd che oggi bolla come un partito – cito letteralmente – ricettacolo di bande armate. Penso all’autodefinizione di Italia Viva come partito no-tax, stigma delle destre di tutto il mondo. Con l’elegante battuta della Boschi circa il Pd – cui deve la sua fulminea ascesa politica e prestigiosi incarichi ministeriali, nonché l’elezione in Parlamento nel collegio blindato di Bolzano – come il partito delle tasse. Penso alla retorica renziana di ieri circa le “cose di sinistra” realizzate dal suo governo o all’approdo, da lui patrocinato, dell’ingresso del Pd nella famiglia dei socialisti in Europa che oggi si propone di prosciugare. Potrei continuare. Chiudo, caro Delrio, con due osservazioni e una domanda. Le osservazioni: ho giudicato intempestiva e sterile la fuoriuscita di Bersani dal Pd, ma certo gli sviluppi a seguire mostrano a dir poco come egli avesse qualche ragione nel non sentirsi a proprio agio nel partito personale di Renzi; lo scarto, ora certificato, che ha condotto Renzi dal Pd ad aspirante erede dello spazio politico di FI ha il sapore di una conversione. Sia chiaro: le conversioni sono sempre possibili. Ma, quelle autentiche, sono rare, tormentate, personali. Non si producono simultaneamente su base collettiva. Difficile cioè non sentire odore di trasformismo tra i parlamentari di Italia Viva. È sbagliata l’idea di cancellare il vincolo di mandato e tuttavia, sul piano politico, specie chi era schieratissimo per la democrazia maggioritaria e di investitura, dovrebbe conferire grande rilievo etico-politico al mandato ricevuto dagli elettori. Come un vincolo non giuridico, ma di coerenza morale e politica.

Non si ha l’impressione di un tale travaglio tra gli eletti (nel Pd e altrove) transitati in Italia Viva. Da ultimo una domanda, che giro a te, ma che esigerebbe una risposta anche da altri che hanno sostenuto a lungo Renzi, ma non hanno lasciato il Pd (la grande maggioranza, in verità): come valutare oggi quella stagione, alla luce del suo epilogo? Un epilogo che doverosamente impone un giudizio retrospettivo. Non si tratta di fare un processo ai singoli. È questione politica. L’onesta elaborazione di un giudizio è necessaria ai fini di un nuovo inizio del Pd. Esso non può che muovere da un responsabile esame critico di un pezzo tanto importante del corso politico del Pd. Se ancora si facessero congressi di partito, il confronto non potrebbe che muovere di lì. Omettendolo, si correrebbe il rischio di ritrovarsi alle prese con vecchi e nuovi problemi. Perché anche il Pd, come sostiene con ostinazione Cacciari, deve chiarire a se stesso e al Paese la propria identità e la propria missione dentro le nuove coordinate.

Mail box

 

Il “Fatto Quotidiano” è un vero cane da guardia del potere

Il mio giornale libero, indipendente, vero cane da guardia del potere, dalla parte della Costituzione e dei cittadini, finanziato e sovvenzionato solo dai lettori e dalla pubblicità. Sono orgoglioso di aver contribuito alla tua nascita.

Domenico Petilli

 

Le dichiarazioni dei redditi andrebbero pubblicate

Apprezzo la vostra battaglia per le manette agli evasori. Però a mio parere sarebbe sufficiente che le dichiarazioni dei redditi fossero pubbliche.

Ogni cittadino potrebbe confrontare la dichiarazione con il tenore di vita dei conoscenti e comportarsi di conseguenza. Cambiare negozio o farsi spiegare i trucchi. Al tempo stesso l’evasore sarebbe in imbarazzo sapendo che tutti sanno quanto dichiara. A mio parere la riservatezza non vale: se sono iscritto alla bocciofila voglio sapere chi ha pagato la quota associativa. Essere cittadini è essere iscritti a un club.

Enrico G. Riba

 

I due Matteo sono identici e per nulla affidabili

Come possiamo sopportare in silenzio tutte queste frottole da chi ci ha truffati e ci vuole imbrogliare ancora? L’identicità dell’iter politico dei due Matteo svela molto di più di quello che sappiamo. Non è possibile salire al potere con promesse valide e pretendere di governare dopo avere fatto il contrario, con l’approvazione o il silenzio di molta stampa e informazione televisiva, a cui va bene tanto la sinistra quanto la destra e i loro programmi bifronti, anche se lordati da fatti inconfutabili.

 

Diritto di replica

In riferimento all’articolo a firma Paolo Ziliani “Malagò e Miccichè al passo d’addio”, il giornalista afferma che l’elezione del presidente di Lega Serie A è “avvenuta nella più totale illegalità”.

Come si legge dai verbali dell’Assemblea, l’elezione di Gaetano Miccichè è avvenuta nel rispetto dello statuto: la votazione è stata fatta a scrutinio segreto e solo la volontà unanime dell’Assemblea, in cui ogni rappresentante ha espresso palesemente e individualmente il proprio voto al candidato, ha determinato l’elezione per acclamazione.

Il verbale è un atto pubblico redatto dal notaio Calafiori, inviato via Pec alle Società che hanno avuto a disposizione (oltre all’audio per verificarne la corretta verbalizzazione), 30 giorni, come previsto da statuto, per chiedere correzioni, cosa che non è mai avvenuta. Il parere pro veritate acquisito per valutare tutti gli aspetti dell’elezione conforta Lega Serie A sul fatto che il processo di votazione si sia svolto nella totale legittimità e nel rispetto delle regole.

Lo stesso vice commissario, tra l’altro con delega alle attività giuridiche per la Lega, il presidente del collegio dei revisori e il Giudice sportivo, presenti per verificare il corretto svolgimento dell’Assemblea, e che a detta del giornalista “sventarono la manovra” imponendo la votazione a scrutinio segreto, non si opposero alla successiva votazione palese, e nulla ebbero da eccepire sulla validità della stessa.

Il resto dell’articolo riguarda supposizioni e ricostruzioni giornalistiche nel merito delle quali non entriamo.

Ricordiamo che il Genoa, presieduto da Preziosi le cui dichiarazioni a un sito sono da voi citate, era presente in Assemblea e ha espresso gradimento palese per l’elezione.

Insieme agli altri presidenti ha approvato l’idea di non aprire l’urna perché superata dal voto spontaneo e palese di tutti, e qualche giorno dopo ha approvato il verbale senza nulla eccepire, come ha approvato tutti gli altri verbali della presidenza Miccichè.

Ufficio Stampa Lega Serie A

 

Mi spiace ribadirlo, ma l’elezione di Miccichè a presidente di Lega è avvenuta, e lo ripeto, nella più totale illegalità. Poiché i suoi giganteschi conflitti d’interessi non lo rendevano eleggibile (è nel Cda della RCS di Urbano Cairo, è presidente di Banca Imi che cura il titolo della Juventus per la quale ha magnificato il bond da 175 milioni ecc.), Malagò cambia lo statuto nottetempo con una modifica ad personam che ne consente la nomina purché a voto unanime. Nonostante l’art. 9, comma 8, dello Statuto stabilisca che “tutte le votazioni che riguardano persone devono tenersi a scrutinio segreto”, a fine dibattito il presidente della Juventus Andrea Agnelli, col sostegno di Malagò, propone che Miccichè venga eletto per acclamazione. “Non si può fare”, si oppongono i garanti Mastrandrea e Simonelli, “è contro le regole”.

Vengono così distribuite le 20 schede e si procede al voto segreto. Ma al momento dello scrutinio, temendo il pericolo-franchi tiratori (una sola scheda bianca metterebbe fuori gioco Miccichè) il vicepresidente della Roma Baldissoni ripropone la nomina del candidato per voto palese: la parola d’ordine è: “Le schede non devono essere aperte”.

I garanti hanno appena spiegato che la prassi è vietata, ma la claque appoggia Baldissoni, e Malagò dichiara Miccichè nuovo presidente e dispone che le schede non vengano scrutinate, ma chiuse in un plico, sigillate e blindate in cassaforte.

Tutto nella più aperta illegalità. Ed è davvero vergognoso che oggi non lo si voglia nemmeno ammettere.

Paolo Ziliani

Voto agli anziani. Il divario generazionale è netto, ma limitare il suffragio è pericoloso

Gentile Silvia Truzzi, ho letto le sue considerazioni sul voto agli anziani pubblicate sul Fatto mercoledì. Ora, definire l’anziano è semplice ricorrendo alla data di nascita, ma se si utilizza un altro parametro quale ad esempio la confidenza nei confronti dell’informatizzazione, banalmente la facilità di utilizzo di un Pc o di un tablet, la prospettiva cambia. Un over 65, in generale, ha una notevole difficoltà e spessissimo il suo approccio con i dispositivi sopracitati si limita all’utilizzo della posta elettronica, mentre la navigazione in Internet costituisce un impegno abbastanza elevato. Basta osservare un ventenne o un quarantenne come smanetta un telefonino e invitare un over 65 a ripetere quelle operazioni per avere una conferma dell’abisso generazionale. Oggi gli eventi si susseguono con una velocità elevata che è resa ancor più tale dalla velocità di propagazione della notizia dell’evento stesso. Non si può allora escludere che l’over 65, avendo una velocità costituzionale di percezione dell’evento molto più lenta della velocità con cui gli eventi cambiano, possa patire una diminuzione della sua capacità di elaborazione e analisi dell’evento. Diminuzione inconscia, ma reale. In sostanza, la sua capacità eventuale di analisi ed elaborazione dell’evento potrebbe risultare tardiva e quindi o inutile o, addirittura, controproducente. Non a caso l’anziano è spesso conservatore, prudentissimo e reso famoso dal detto “ai miei tempi”. Da qui potrebbe discendere la richiesta di esclusione, magari parziale o pesata, dal diritto di voto degli anziani. Ovviamente anche il sedicenne lo vedo maluccio.
Marcello Scalzo

Gentile Marcello, abbiamo dovuto tagliare per motivi di spazio la sua lunga e articolata riflessione. Quanto al succo – vietare il voto agli anziani – potrei facilmente risponderle che conosco molti diversamente giovani (tra cui mia madre) che grazie a tablet e smartphone (la cui tecnologia è particolarmente intuitiva) hanno una seconda giovinezza tecnologica. Ma ovviamente in quanto a competenza informatica difficilmente un anziano può competere con un adolescente. Oppure potrei ribattere che gli anziani sono tra i pochi lettori affezionati dei giornali. Ma il punto non è ancora questo: trovo assurdo pensare di limitare il suffragio, soprattutto in un momento di scarsa affluenza. Il rischio è che il Parlamento e le istituzioni locali vengano eletti da una percentuale sempre più marginale della popolazione. Il che non può essere un bene.
Silvia Truzzi