No, Silvio,non faccia così, non si arrabbi, le fa male. Ma certo che non ce l’aveva con lei, Sallusti era distratto, ieri si sarà fatto trasportare dalla foga del momento, gli è venuto su un rigurgito manettaro d’antan, ma lei lo sa: non è cattivo. Sì, è vero, lei aveva dato la linea chiaramente e persino da Assisi, dove la considerano giustamente il più degno erede di San Francesco: “Sono d’accordo con la Consulta sull’ergastolo ostativo: sentenza nella giusta direzione”. Ma certo, lei ha ragione: questa cosa di non far uscire gli ergastolani mafiosi è un’aberrazione, una cosa incivile, tutti hanno diritto ad avere speranza. Come? Anche i Graviano, senza dubbio. Ma sì, certo, quel titolone del Giornale – “VINCE LA MAFIA” – sembra un po’ una stonatura su un suo quotidiano. Come dice? Ma no, l’editoriale del direttore sul fatto che ora i boss in carcere smetteranno di collaborare non è una coltellata alla schiena, Alessandro le vuole sempre bene, non pensa che a lei: ieri sarà stato sovrappensiero, non avrà fatto 2+2… Cosa? Ma no, quando parla di “guerra allo Stato a suon di attentati, omicidi e stragi” non si riferisce certo a quelle inchieste che la coinvolgono, è una cosa così, un modo di dire. Per favore, Silvio, mettiamoci una pietra sopra e Sallusti si farà perdonare: magari domani fa “PERDE LA MAFIA” e non se ne parla più.
L’addio di Draghi e il futuro dell’eurozona
L’ultimo Consiglio della Bce per Mario Draghi è arrivato: insediatosi nel 2011 – l’ha guidata negli anni più difficili per l’euro –, da molti è considerato il salvatore dell’eurozona. Suo il Piano di Rifinanziamento a lungo termine, i tassi negativi, lo sblocco del Fondo salva-Stati e il Quantitative easing. Il suo “Whatever it takes” del 2012 è diventato un cavallo di battaglia per l’istituto di Francoforte. Al suo posto, Christine Lagarde. Ieri, a chi gli chiedeva del suo futuro, ha risposto: “Chiedetelo a mia moglie”. E ha detto che nell’economia dell’eurozona “i rischi restano al ribasso”, riferendosi alle questioni geopolitiche, ai dazi e ai mercati emergenti.
Opinione/1 Ha salvato l’euro superando i trattati e sfidando i falchi
“La Bce è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà sufficiente” (Londra, 26.06.2012). “Qualsiasi unione monetaria che abbia successo ha una capacità di bilancio centrale. Nella forma di un bilancio o di un sistema di assicurazione” (Francoforte, 24.10.2019).
Nulla, meglio di queste due citazioni, può aiutare a definire gli 8 anni di Mario Draghi alla Bce, protagonista riluttante della saga dell’euro. Protagonista, perché in due occasioni è stato l’intervento della Bce a evitare il collasso della moneta unica; e riluttante perché in maniera sempre più esplicita, ha chiarito che la politica monetaria ha raggiunto i suoi limiti e che solo un cambiamento radicale nella politica di bilancio dei Paesi dell’eurozona può mettere la crisi definitivamente alle nostre spalle.
Al suo arrivo, nel novembre 2011, trova l’eurozona nel mezzo della tormenta. In Italia si prepara l’arrivo di Monti. L’austerità affossa le economie periferiche, l’eurozona entra di nuovo in recessione (unica grande economia con questo “privilegio”), e sui mercati si scommette sull’exit dei membri più deboli (tra cui Italia e Spagna). Il primo atto di Draghi è l’annullamento dell’improvvido aumento dei tassi deciso dal suo predecessore a luglio per paura di un’inflazione che esiste solo nei sogni dei rigoristi. Anzi, gli otto anni di mandato di Draghi costituiscono una lunga lotta non del tutto coronata da successo contro la tendenza dell’eurozona a entrare in deflazione.
La vera svolta, il marchio di fabbrica di Draghi, è il whatever it takes del luglio successivo. La speculazione contro Spagna e Italia è a livelli parossistici, e l’inefficacia delle politiche di austerità le dona ancora più forza. A Londra, Draghi sottolinea che la Bce non consentirà di far fallire un Paese dell’eurozona. Di fatto si dichiara pronto ad acquistare ogni ammontare di titoli pubblici che i mercati non desiderano, rendendo vana l’azione degli speculatori. Gli spread di Spagna e Italia crollano. Quando tutto questo è formalizzato in un programma (Omt) votato dal Consiglio, nel settembre successivo, la Bce diventa insomma, sia pure in modo un po’ contorto un prestatore di ultima istanza per i governi. È una svolta epocale, perché mette fine a un’anomalia tutta europea, l’impossibilità per la Banca centrale di assicurare i governi contro il rischio di fallimento. Draghi, pur rispettando la lettera dei trattati, si mostra pronto a violarne la sostanza per salvare l’euro.
Il secondo atto è il lancio del programma di acquisto massiccio di titoli (Qe) nel marzo 2015. La data è importante. Gli Usa e il Regno Unito avevano lanciato i loro Qe nel 2012, e la Bce mette in cantiere il suo quando la Fed americana ne annuncia la fine. Nei tre anni di distanza sta tutta la difficoltà del lavoro di Draghi, che lentamente, ma inesorabilmente, vince le resistenze del Consiglio e mette in minoranza i falchi tedeschi e finlandesi, mostrando doti politiche fuori dal comune. Il Qe tiene bassi i tassi dei Paesi periferici, dando loro un po’ di spazio, e in alcuni (come il nostro) contribuisce ad allentare le condizioni creditizie. Ciononostante, l’enorme iniezione di liquidità non può, e molti tra cui chi scrive, lo hanno sottolineato fin dall’inizio, rimettere l’economia sui binari di una crescita decente. L’inflazione rimane troppo bassa, e la spesa privata anemica quasi ovunque. È a questo punto che Draghi inizia a richiamare i governi e a invocare politiche di bilancio espansive. Questo è un aspetto dell’eredità di Draghi rimasto ingiustamente in ombra. La crisi ha terremotato le vecchie certezze degli economisti. La politica di bilancio, espulsa dalla cassetta degli attrezzi per 30 anni, ha fatto il suo ritorno; ovunque, tranne che in Europa, dove le élite sono rimaste abbarbicate ai vecchi dogmi. Tra le figure chiave della recita europea Draghi è stato il più pronto a rivedere i suoi schemi. Di questo occorrerà dargli atto quando a bocce ferme si valuterà il suo operato.
Francesco Saraceno
Opinione/2 Berlino ha sabotato la sua azione e continuerà a farlo
Mario Draghi sarà ricordato come un grande banchiere centrale. Certo, qualche macchiolina ce l’ha, come quando nel 2012 affermò che “il modello sociale europeo è andato”, o nella troppa accondiscendenza, sua e di Christine Lagarde che dirigeva il Fondo Monetario Internazionale, ai falchi nord-europei nella trattativa col governo Tsipras nel 2015. Ma certamente con la sua presidenza – dal novembre 2011, al culmine della crisi europea – l’azione della Bce si fece più determinata.
La sua prima mossa fu di mettere a disposizione delle banche più di mille miliardi di liquidità. Quelle italiane e spagnole vi ricorsero per sostenere i titoli di Stato dei propri Paesi da cui gli investitori esteri stavano fuggendo. Ma questo non bastò e nel luglio 2012, Draghi minacciò il “big bazooka”, l’intervento diretto della Bce a sostegno dei titoli pubblici dei Paesi sotto attacco. Ma, salvato l’euro, nel 2013 si affacciò lo spettro della deflazione. Draghi fu ben consapevole che la politica monetaria da sola era impotente. Il cavallo non beve: la liquidità creata non si trasforma in credito e spesa poiché famiglie e imprese sono in crisi, e solo lo Stato può rilanciare la domanda. Già in un importante discorso nel settembre 2014 Draghi sottolineò la necessità che alla politica monetaria si affiancasse la politica fiscale in quanto i “rischi di fare troppo poco – dunque che la disoccupazione diventi da ciclica a strutturale – oltrepassano quelli di fare troppo, cioè un’eccessiva pressione verso l’alto su salari e prezzi”. Denunciò l’assenza della politica fiscale europea, mentre negli Stati Uniti e in Giappone la politica monetaria “ha potuto agire come sostegno al finanziamento dei governi”, ponendoli al riparo dalla “perdita di fiducia che ha invece ridotto l’accesso ai mercati a molti governi dell’euro area”. Questa perorazione rimase inascoltata. Col Quantitative Easing, l’acquisto dal marzo 2015 di titoli pubblici (e non solo), Draghi cercò di sostenere il consolidamento fiscale dei Paesi a più alto debito, ottenendo anche che la liquidità si rivolgesse a investimenti finanziari extra-europei facendo svalutare l’euro e sostenere le esportazioni. Ma Draghi sa che questa non è la strada maestra. Quando lo scorso settembre annunciò un nuovo mini-QE, la reazione di Donald Trump fu immediata: reagiremo a una svalutazione competitiva con i dazi. In vista della scadenza del suo mandato Draghi è diventato dunque più “vocale” nel rivendicare la necessità di una politica fiscale attiva, assecondata da una politica monetaria al suo servizio. La temuta (dai tedeschi) fiscal dominance.
Ieri Draghi si è tolto molti sassolini denunciando la politica economica europea (parole che avremmo voluto sentire in questi anni dal centro-sinistra italiano): ha richiamato “i governi che hanno spazio di manovra di bilancio” (leggi Berlino) ad “agire in modo efficace e tempestivo”, il solo modo per uscire dalla politica di tassi di interesse negativi di cui si lamentano poiché nuocerebbe a banche e risparmiatori. Ha ricordato poi che un’unione monetaria completa richiede “una capacità di bilancio centrale” che svolga una funzione anti-ciclica, oltre a una assicurativa nel caso di choc che colpiscano solo alcuni Paesi membri. Qual è la probabilità che venga ascoltato? La Lagarde, che gli succederà, è sensibile a questi argomenti, come lo è il governo francese, ma sappiamo come quest’ultimo si sia sempre arreso di fronte all’opposizione tedesca. La Corte costituzionale tedesca ha da anni sancito il principio che ogni spesa che coinvolga il contribuente debba passare per il Bundestag, e più recentemente gli economisti tedeschi hanno ribadito la loro opposizione a politiche di “deficit spending”. L’élite di quel Paese ha sempre in mente un modello basato sulle esportazioni, la vacca sacra della politica tedesca, come fu definito già negli anni 50. A esso ogni tedesco si inchina. Il futuro europeo è piuttosto fosco.
Sergio Cesaratto
Ai report mancava un controllo essenziale
È impossibile verificare la sicurezza dei viadotti senza entrare nei cassoni. Il responso è arrivato nelle scorse settimane dai periti dei pm che, ponte dopo ponte, stanno esaminando lo stato di salute delle autostrade. Una in particolare suscita preoccupazione: la A12, Genova-Livorno. Tanto che uno dei tecnici durante l’ispezione ha dichiarato: “Non so se mi sentirei tranquillo a far passare qui i miei figli”.
La Procura ha avviato sopralluoghi utilizzando anche ingegneri-scalatori che si calano all’interno dei viadotti – i piloni infatti sono cavi – come è avvenuto per il Sori (a Levante di Genova). Ma il responso dei periti apre uno scenario più ampio sulla sicurezza di viadotti. Non solo: gli inquirenti genovesi (Walter Cotugno, Massimo Terrile e il procuratore Francesco Cozzi) si chiedono come sia stato possibile per Autostrade assicurare fino a oggi che i viadotti fossero sicuri se, come hanno riferito alcuni tecnici, dal 2013 non risultano ispezionate alcune parti interne.
Soprattutto i cassoni, cioè l’intercapedine che sta proprio sotto il manto stradale. La causa sarebbe anche la nuova normativa sulla sicurezza sul lavoro che ha reso più complesso l’accesso dei tecnici di Autostrade e Spea nella zone a rischio (ma le mancate ispezioni, in alcuni casi, risalirebbero a un periodo ben precedente).
Insomma, le certificazioni erano affidabili? E soprattutto Autostrade e Spea (la controllata che si occupava di sicurezza) erano consapevoli che i report di sicurezza non tenevano conto di un elemento essenziale?
In Procura si starebbe valutando se questo nuovo elemento possa portare oltre la colpa ipotizzando il dolo eventuale. In parole semplici: non si tratta del dolo propriamente detto, cioè l’espressa previsione dell’evento, ma dell’accettazione del rischio che potesse verificarsi.
Nulla è stato ancora contestato. Il discorso, però, potrebbe dare una svolta alle indagini. Anche quella principale sul crollo del Morandi che secondo Autostrade era sicuro.
E c’è poi, appunto, il secondo filone dell’inchiesta che riguarda strettamente report e cassoni che a settembre ha portato a misure cautelari o interdittive nei confronti di dieci dirigenti e tecnici di Autostrade e Spea. L’ordinanza conteneva intercettazioni come quelle di Gabriele Donferri Mitelli (già responsabile nazionale della manutenzione, indagato, ma non destinatario delle misure), nei giorni scorsi messo alla porta da Autostrade. Di fronte a un report dove molte strutture avevano riportato come voto di sicurezza 50 (alto, sono a rischio), Donferri sbottava: “Me li dovete toglie tutti… li riscrivete e fate Pescara a 40… perché il danno di immagine è un problema di governance”.
Monte Portofino: il Parco nazionale non s’ha da fare
Naufragato ancora prima di salpare. Il Parco Nazionale del Monte di Portofino rischia di non vedere nemmeno la luce e milioni di euro rischiano di restare inutilizzati.
Già, perché dopo due anni di melina sta per scadere il termine imposto dal ministero dell’Ambiente. Mentre i comuni non si mettono d’accordo e la Regione, dicono i critici, cincischia preoccupata dalle critiche del mondo dell’edilizia e della lobby dei cacciatori che vale decine di migliaia di voti. E la prossima primavera si vota con la riconferma di Giovanni Toti che comincia a essere in forse.
“La Finanziaria 2017 ha inserito il Matese e il Monte di Portofino tra i parchi nazionali”, racconta Antonio Leverone, portavoce del Coordinamento per il Parco Nazionale. Una modifica che in Liguria gli ambientalisti, e non solo loro, attendevano da anni: finora infatti questo promontorio tra i più famosi del mondo è un parco regionale. “I soldi sono pochi, con un bilancio che non raggiunge nemmeno gli 800 mila euro e con risorse risicate: c’è un solo guardia-parco, ma spesso non può nemmeno uscire a controllare il territorio perché la legge prevede che le pattuglie siano composte da almeno due persone”, spiega Ermete Bogetti, presidente di Italia Nostra Genova. Insomma, entrare tra i parchi nazionali garantirebbe più visibilità, maggiori tutele. E tanti soldi in più. Quanti? “Finora – assicura Leverone – con le lungaggini si è perso un milione l’anno, ma potrebbero diventare molti di più. Basti pensare che il vicino Parco Nazionale delle Cinque Terre incassa oltre venti milioni l’anno”.
Il punto è che il ministero aveva posto una condizione: non voleva procedere contro la volontà della popolazione. Quindi aveva dato due anni di tempo a comuni e Regione per indicare i nuovi confini del Parco. Perché una cosa era chiara: il nuovo parco (quello attuale misura 1.055 ettari) non poteva essere più piccolo di quello delle Cinque Terre (circa 3.800 ettari).
Era stata presentata una proposta ambiziosa e innovativa: un parco che andasse dai confini del comune di Genova (Bogliasco) fino a Sestri Levante. Per un totale di quasi 15 mila ettari. Sarebbe stato unico nel suo genere, e non soltanto perché comprendeva il Monte di Portofino, quel promontorio di roccia vulcanica che si protende sul golfo di Genova. Da 610 metri di altezza al mare in un battito d’occhi. Si parlava di 22 comuni, alcuni alle porte dell’entroterra (in val Fontanabuona). Un esperimento unico perché includeva zone densamente urbanizzate.
Era il 2017, ma da allora quasi nulla è successo. “Oggi ci si trova a due mesi dalla scadenza dei termini (il 31 dicembre, ndr) con il rischio concretissimo di perdere un’occasione straordinaria”, è l’allarme di Leverone.
Che cosa è successo? Molti comuni, soprattutto quelli di centrodestra dove domina la Lega, non sembrano per niente d’accordo con l’idea di essere compresi nei confini del parco. E la Regione (centrodestra) ha fatto capire di non volere l’ampliamento: “Vogliamo che nasca il parco nazionale di Portofino. Ma con i confini attuali, con i tre comuni di Portofino, Santa Margherita e Camogli (quelli già compresi, ndr), perché, al momento, il territorio si è espresso in questa direzione”, ha chiarito Stefano Mai, assessore regionale ai parchi. Ma così, senza estendere i confini, sarebbe come dire “no” al Parco Nazionale. Bogetti teme che a far pesare la bilancia a favore dei contrari siano due fattori: “Primo, le preoccupazioni del mondo dell’edilizia. Perché tutti sanno che in quella zona gli appetiti immobiliari sono molto forti. Ci sono molti progetti per nuove costruzioni e decine di piscine, fino alle porte della zona protetta”. Parliamo di comuni come Chiavari, Rapallo e Recco. C’è però anche l’esercito dei cacciatori che arruola decine di migliaia di doppiette. E di voti.
Del resto mai è stato ribattezzato dai maligni ‘l’assessore alla caccia’ per l’attenzione che dimostra nei confronti del mondo venatorio. “Bisogna fare presto. Dobbiamo cercare di far capire alla popolazione e agli amministratori i benefici, ambientali ma anche economici, che il parco porterebbe. E non si può fare una zona tutelata a macchia di leopardo”, spiega Luca Pastorino, ex sindaco di Bogliasco e oggi deputato eletto con Liberi e Uguali.
Ma ormai pare impossibile rispettare il termine previsto. Si può solo sperare in una proroga: “Immaginate – sogna Leverone – che cosa sarebbe una regione con due parchi nazionali vicini, Cinque Terre e Portofino. Proprio davanti al Santuario dei Cetacei”. Rischia di restare un sogno.
Salvini “specula”, ma gli assunti sono 12 mila
Al cinismo di Matteo Salvini fa da contraltare la famiglia di Luca, che ieri ha deciso di donare gli organi del ragazzo.
Un gesto fatto con compostezza mentre il leader della Lega decide di utilizzare l’ennesimo fatto di cronaca per ragioni politiche: “Oggi, commosso e addolorato, prego per Luca e sono vicino alla sua famiglia. Ma sono anche incredulo e sdegnato. Da ex ministro dell’Interno fa ancora più male vedere tutta l’insicurezza della Capitale governata dai 5stelle e i tagli disastrosi che Renzi, Conte e Zingaretti fanno al fondo per le forze dell’ordine”.
Stavolta non ci sono gli immigrati da additare come obiettivo alla reazione rabbiosa del “popolo” e quindi la si butta in politica. In maniera piuttosto goffa visto che, insediato da poco più di un mese e con una manovra di bilancio ancora da realizzare, è improbabile che il trio “Renzi, Conte e Zingaretti” possa aver fatto alcun taglio.
Semmai il presidente del Consiglio – che ha definito “speculazione miserabile” le parole di Salvini – ha al suo attivo la firma del Dpcm del 24 settembre con cui ha autorizzato l’assunzione di 11.950 agenti, suddivisi tra Carabinieri (4.538), Polizia di Stato (3.314), Guardia di Finanza (1.900), Polizia Penitenziaria (1.440), Vigili del Fuoco (938). Saranno effettuate nel periodo 2019-2023. E Conte ha ricordato che proprio l’altroieri “abbiamo varato gli stanziamenti aggiuntivi per gli straordinari alle forze dell’ordine per il 2018, e indovinate chi doveva farlo e non l’ha fatto…? con un chiaro riferimento a Salvini.
Il paradosso è che se le forze di polizia hanno problemi di organico il vero responsabile è proprio Salvini, o meglio la Lega che ha governato con Silvio Berlusconi dal 2008 al 2011, gli anni del blocco del turn-over e quindi del dimagrimento progressivo delle forze dell’ordine: erano 325 mila nel 2008, scendono a 301 mila nel 2016 visto che anche i governi Monti e Letta hanno proseguito su quella strada.
E così, oggi, la Questura di Roma può contare (dati a inizio 2019) su 6.749 unità in servizio che però devono coprire il Comune più grande d’Italia. A Milano ce ne sono circa 4000 in un territorio di circa un decimo. Nel 1989, 30 anni fa, a Roma c’erano 9.500 poliziotti, quasi 3.000 in più. Come ripete spesso il capo della Polizia, Franco Gabrielli, c’è poi il dato sull’anzianità: a Roma gli agenti hanno in media 48,5 anni e ogni anno vanno in pensione, in tutta Italia, in 1500. Nel 2021 saranno fra i 4.000 e i 5.000 fino ad arrivare ai 6.000 del 2026.
Salvini non è stato seguito dai suoi alleati, con Giorgia Meloni che ha preferito concentrarsi sul “lutto” più che sulle polemiche. Resta la sensazione di un vilipendio sull’ennesima tragedia italiana.
Un colpo alla nuca a freddo: Luca morto per pochi euro
“Ecco cosa fare se ti entra un ladro in casa”, recita uno degli ultimi post visibili sul profilo Facebook di Luca Sacchi, il ragazzo di 24 anni ucciso mercoledì sera da due rapinatori a Roma. Un “esperto di autodifesa” raccontano gli amici: arti marziali e lotta greco romana gli sport che praticava da anni. Ma “non è mai stato coinvolto in una rissa, o in una lite: una persona seria e posata”, confida al Fatto lo zio, in lacrime, al reparto di terapia intensiva dell’ospedale San Giovanni. In mattinata, i medici avevano comunicato che Luca non ce l’aveva fatta.
La dinamica Sono passate le 22 di mercoledì sera quando Luca scende dall’appartamento dell’Appio Latino dove vive con i genitori e, insieme al suo cagnolino, passa a prendere Anastasia, 25 anni, la sua fidanzata, di origini ucraine, babysitter. I due si incamminano, come fanno spesso, lungo le vie che costeggiano il Parco della Caffarella. Un quartiere residenziale come tanti quello dei Colli Albani. Non una zona “bene”, ma neanche una periferia malfamata. Le strade ben illuminate, qualche ristorante e alcuni pub. In uno di questi, il John Cabot, il fratello 19enne di Luca stava guardando la partita Inter-Borussia Dortmund.
La coppia percorre via Latina, svolta per via Bartoloni e si avvicina al locale. Dall’altra parte della strada, da lontano incrociano altri amici, cui propongono di bere una birra appena finita la partita. È a questo punto che avviene tutto: da una Smart FourFour accostata poco più avanti scende un uomo sui 30 anni, avvicina i due alle spalle. Ed è la stessa ragazza a fornire agli investigatori dell’Arma dei carabinieri la dinamica: “Eravamo appena usciti dal pub. Mi sono sentita strattonare da dietro, mi hanno detto: ‘Dacci la borsa’. Gliela stavo consegnando quando mi hanno colpito con una mazza. A questo punto è intervenuto Luca che ha reagito bloccando il ragazzo che mi aveva aggredito, quindi è intervenuto l’altro aggressore: gli sparato alla testa”. La ragazza è sotto choc. “Ha detto che lei era a terra e hanno sparato a Luca davanti ai suoi occhi – racconta un amico di famiglia – è una tragedia enorme. Luca ha reagito quando ha visto la fidanzata colpita efinita a terra. Certo non pensava che tirassero fuori la pistola…”. Incensurato, il 24enne lavorava come personal trainer nella palestra di ju jitsu.
Le indagini La Procura di Roma indaga per omicidio volontario. Il fascicolo è stato assegnato al pm Nadia Plastina, che ha affidato le indagini ai carabinieri del Nucleo Investigativo di via In Selci. Dalle immagini delle 4 videocamere installate nei pressi del pub si vede chiaramente come la Smart abbia fatto per almeno 2 volte il giro dell’isolato: i malviventi avevano puntato la coppia, la stavano seguendo. “La dinamica è del tutto irrituale – confida un investigatore al Fatto – Due romani, che dovrebbero conoscere la zona, girano con una pistola carica e uccidono al primo problema. Per un bottino insignificante, poi”. C’è qualcosa sotto? “No, è il contesto che è cambiato”, ci spiegano. “Gli effetti delle droghe ormai fanno assumere atteggiamenti assurdi anche ai malviventi”. E i casi del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, ucciso il 26 luglio a Prati, e del nuotatore Manuel Bortuzzo, ferito gravemente ad Acilia a quanto pare insegnano.
Il ricordo “Per me è un eroe”, ci racconta lo zio, mentre con un amico ci allontana dalla nonna e dai genitori disperati. “Ha soccorso la sua fidanzata. Ha messo a terra il rapinatore. Poi è arrivato quel vigliacco e gli ha sparato. Da dietro, a sangue freddo”. Su Facebook, oltre a dare consigli su come difendersi, era critico nei confronti della vecchia legge sulla legittima difesa e condivideva post di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia sui presunti problemi di sicurezza derivanti dall’immigrazione. A ucciderlo, invece. è stato un italiano, “con evidente accento romano”.
“Luca era un lavoratore e un atleta”, dice ancora lo zio. “Dava una mano al papà, che ha un ristorante al centro di Roma, e poi lavorava in palestra. Conosceva le arti marziali, ma aveva giocato a calcio fino a 20 anni. Un ragazzo d’oro”. “Il mio stronzetto”, lo ricorda affettuosamente la cugina Chiara: “Per lui ogni cosa era uno scherzo”. “Lo conoscevo da quando era piccolo – racconta il papà di un amico – è cresciuto con mio figlio. Ci siamo precipitati qui. Non ho avuto il coraggio di guardare negli occhi la madre”. In lacrime anche gli amici di una vita di Luca. “Stanno insieme da qualche anno – racconta un amico – Anastasia è sconvolta. Le hanno ucciso l’uomo della sua vita davanti agli occhi”.
Si chiama Giovanni Peluso l’ex poliziotto indagato per il tritolo della strage di Capaci
È Giovanni Peluso l’ex sovrintendente della Polizia di Stato, con un passato in servizio a Napoli e Roma, a essere indagato da mesi per la strage di Capaci (il 23 maggio 1992) e per associazione mafiosa in seguito alle dichiarazioni del pentito Pietro Riggio. Secondo l’accusa della Procura di Caltanissetta il campano Peluso avrebbe ricoperto il ruolo di “compartecipe ed esecutore materiale della strage di Capaci”. I verbali di Caltanissetta sono ora agli atti del processo Capaci-bis, Riggio rivela che l’ex poliziotto Peluso avrebbe addirittura messo sotto l’autostrada il tritolo che ha fatto saltare in aria Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta. Peluso, sentito dai pm il 6 marzo, ha negato: “Sono innocente, all’epoca nemmeno sapevo che esisteva Capaci. Mi trovavo al corso per sovrintendente che è iniziato nel gennaio 1992 e finito nel luglio 92. Appresi della strage al corso”. Riggio ha conosciuto Peluso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nel 1998: “Dopo la scarcerazione – si difende Peluso – Riggio si era offerto di darmi lavoro, poi però dal 2002, dopo esser stato fermato con lui in auto a Caltanissetta, non l’ho più visto”.
La sfilza dei reati accertati in quel “Mondo di mezzo”
Cosa rimane in piedi delle accuse al “Mondo di mezzo” di Massimo Carminati adesso che la Cassazione ha cancellato la parola “mafia” davanti alla parola “capitale”? Più di quello che una vulgata delle prime ore ha voluto far credere, l’impianto accusatorio imbastito dalla Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone, infatti, è comunque solido, anche se sfregiato dall’abbattimento del caposaldo che indicava in un’unica organizzazione, battezzata dai pm appunto Mafia capitale, il cancro di Roma. Le organizzazioni criminali in questione, non mafiose, sarebbero due, distinte tra loro, come già da sentenza di primo grado: una con al vertice Carminati e l’altra con al vertice il capo storico delle coop romane Salvatore Buzzi. Nella sostanza questo si tradurrà nei prossimi giorni con l’uscita di Carminati dal regime di 41bis, il carcere duro per i boss mafiosi a cui era sottoposto, e nei prossimi mesi con il ricalcolo delle pene in sede di appello per gli altri detenuti del Mondo di mezzo. In primo grado, per altro, senza il riconoscimento della “mafia” le pene furono più alte che in appello. Sono una sfilza i capi d’imputazione, quasi tutti, che hanno ricevuto il sigillo della Cassazione, scorriamo quelli dei personaggi principali.
Massimo Carminati, detenuto
Lascerà il carcere di Parma e il 41bis per essere assegnato dal Dap a un’altra casa circondariale nei prossimi giorni. I reati accertati: associazione per delinquere; estorsione (la cessione di terreno in danno di Luigi Seccaroni); trasferimento fraudolento e possesso ingiustificato di valori (l’attribuzione fittizia di una villa a Sacrofano al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniali); corruzione (promessa di assunzione a responsabili e funzionari del Comune di Roma per il compimento di singoli atti riconducibili al loro ufficio / in relazione ai rapporti con Alemanno e Panzironi: vendita funzione del sindaco di Roma Capitale, indicazione componente cda Ama, intervento su nomina dg Ama, messa a disposizione dell’ufficio del sindaco in favore di Buzzi e se stesso, interventi per erogazione finanziamenti dal Comune in favore di Eur spa, interventi su organi Ama per sblocco crediti in favore delle imprese di Buzzi, interventi su organi del Comune per sblocco finanziamenti in favore di Eur spa, ricezione denaro e altre utilità da parte della fondazione Nuova Italia di Alemanno / percezioni di denaro mensili e una tantum da parte di incaricati di pubblico servizio, somme versate per l’assegnazione di appalti alla Eriches-29 giugno); turbata libertà degli incanti (il bando di gara di Ama del 2013 per la raccolta differenziata); trasferimento fraudolento e possesso ingiustificato di valori (attribuzione fittizia di valori a Eriches-29 giugno e coop Scarl).
Gli altri principali condannati
Salvatore Buzzi, detenuto, capo storico delle cooperative sociali romane: associazione per delinquere, corruzione, turbata libertà degli incanti, concorso in corruzione, rivelazione utilizzazione segreti di ufficio.
Riccardo Brugia, detenuto, braccio destro di Carminati: associazione per delinquere, estorsione, rapina.
Matteo Calvio, detto lo “spezzapollici”: associazione per delinquere, estorsione, rapina.
Mirko Coratti, libero fino alla sentenza della Cassazione di due giorni fa e arrestato per esecuzione pena, ex presidente dell’Assemblea capitolina (Pd): concorso continuato nei reati di corruzione per l’esercizio della funzione e corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio.
Luca Gramazio, agli arresti domiciliari, ex consigliere regionale (Pdl), figlio di Domenico capo storico della destra sociale romana: concorso continuato nei reati di corruzione per l’esercizio della funzione e corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio.
Fabrizio Franco Testa, agli arresti domiciliari, ex membro del cda di Enav (la società che gestisce il traffico aereo civile in Italia): concorso continuato nei reati di corruzione per l’esercizio della funzione e corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, pene per il corruttore.
Andrea Tassone, libero fino alla sentenza della Cassazione di due giorni fa e arrestato per esecuzione pena, ex mini-sindaco di Ostia (Pd): corruzione.
Giordano Tredicine, libero fino alla sentenza della Cassazione di due giorni fa e arrestato per esecuzione pena, ex onorevole capitolino (Pdl): corruzione.
Da Tremonti a B. Già vent’anni di editti contro “Report”
La puntata di Report su Moscopoli e i presunti finanziamenti alla Lega dalla Russia grazie alle frequentazioni di Gianluca Savoini è solo l’ultima tra le serate del programma Rai ad aver fatto tremare la politica. C’è da dire che, in quanto a inchieste scomode, Report non ha mai guardato in faccia a nessuno, bastonando a destra, a sinistra e al centro. Sia oggi, sotto la guida di Sigfrido Ranucci, sia prima, dal 1997, con la sua fondatrice Milena Gabanelli.
Uno dei casi più eclatanti degli ultimi anni è stato quello di Antonio Di Pietro, perché si può dire che la storia dell’Italia dei Valori è finita per una puntata del programma di Rai3. Siamo nel novembre 2012, a pochi mesi dalle elezioni, e i consensi dell’Idv non sono granché. Ma la mazzata finale arriva da una trasmissione in cui si accusa Di Pietro di gestione opaca dei finanziamenti pubblici: invece di usarli per il partito l’ex pm li avrebbe in parte utilizzati per l’acquisto di 56 proprietà tra case, terreni e casolari agricoli. Poi si scoprirà che saranno molti meno e di scarso valore, ma la difesa dell’ex ministro servirà a poco e l’Idv da quell’inchiesta non si riprenderà più, scomparendo dalla scena politica.
Nel mirino di Report, poi, non poteva non finire Silvio Berlusconi. Il quale s’infuriò per un’inchiesta trasmessa nell’ottobre del 2010 sull’acquisto di una villa principesca ad Antigua, operazione opaca su cui, secondo Report, s’intravedeva l’ombra del riciclaggio e dell’evasione fiscale tramite l’uso di società off shore. “Non c’è nulla di illegale in quella compravendita. Report non deve trasmettere il servizio!”, tuonò Niccolò Ghedini, intimando alla Rai di fermare il programma, che poi andò regolarmente in onda. Ma Ghedini non è stato l’unico politico a tentare la strada della censura preventiva.
L’avversario più ostico per Gabanelli è stato Giulio Tremonti. Nel giugno 2009 l’allora ministro dell’Economia presentò esposti all’Agcom e in Vigilanza per una puntata che metteva nel mirino la “social card”, misura introdotta quell’anno dal governo Berlusconi che, secondo Report, non funzionava. Nel novembre 2012, Tremonti finì ancora nel mirino per un servizio sul patrimonio immobiliare della sua famiglia, in particolare i 10 milioni di immobili gestiti dai figli. Poi ci fu la vicenda della casa romana di Marco Milanese, abitazione pagata dal deputato Pdl e messa a disposizione di Tremonti nei suoi anni da ministro. Vicenda che venne alla luce nell’inchiesta sulla P4 (per cui Milanese venne anche arrestato) e su cui Report fece un paio di servizi: anche in questo caso piovvero esposti all’Agcom e in Vigilanza. “Abbiamo realizzato tante inchieste pestando i piedi a molti politici, ma il più scorretto di tutti è stato Tremonti…”, ha raccontato Milena Gabanelli in un’intervista del 2016. Il centrodestra su di lei ha sempre picchiato duro: nel 2010, all’epoca del terzo governo Berlusconi, con Mario Masi dg Rai, si parla con insistenza di togliere la tutela legale alla trasmissione, di fatto uccidendola. Cosa poi mai avvenuta.
Altra puntata incandescente è stata quella del gennaio 2005 sul potere di penetrazione della mafia in Sicilia, con sollevazione dei politici siciliani, tra cui l’allora governatore Totò Cuffaro (poi finito in carcere). Reazioni talmente pesanti che il dg Rai Flavio Cattaneo decise per la messa in onda di una trasmissione “riparatrice”. Non poteva mancare, poi, Matteo Renzi. Che non gradì un servizio – siamo già alla gestione Ranucci – che raccontava come il Pd renziano avesse lasciato morire l’Unità dopo averne promesso il rilancio. In particolare una puntata si focalizzò sul costruttore Massimo Pessina, chiamato da Renzi a salvare il giornale, avanzando sospetti su una commessa avuta dalla Pessina costruzioni in Kazakhstan dopo l’ingresso del gruppo nella proprietà del quotidiano. Nel lungo elenco, infine, compare anche l’ex sindaco di Verona Flavio Tosi. In una puntata del 2014 proprio un servizio di Ranucci puntò i riflettori su presunti rapporti clientelari dell’amministrazione scaligera, ipotizzando l’esistenza di un video hard sul sindaco, che per questo sarebbe stato ricattabile. Tosi querelò, ma perse la causa e, tre settimane fa, per questa vicenda gli è arrivata pure una condanna a tre mesi di reclusione per calunnia.
Ieri, intanto, ancora polemiche sulla puntata di lunedì. “Il dovere della Rai era quella di trasmetterla prima possibile, altro che par condicio…”, ha detto intervenendo sulla vicenda, Milena Gabanelli. Matteo Salvini, invece, molto infastidito, ostenta sicurezza: “Report ha violato la par condicio? Non so, chissenefrega, io lunedì sera ho guardato Checco Zalone”.
Copasir, le destre anti-Conte perché ha attaccato Salvini
Al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, l’ormai arcinoto Copasir, le opposizioni non hanno apprezzato la conferenza stampa “aggressiva” di Giuseppe Conte, peraltro annunciata come strumento per “rassicurare gli italiani” sul Russiagate. Appena conclusa l’audizione, al solito secretata – si fa notare al Copasir –, mercoledì pomeriggio il premier non ha soltanto riportato gran parte della versione fornita a palazzo San Macuto sulla doppia missione in Italia del ministro americano William Barr e i colloqui con i vertici dei servizi segreti, ma s’è soffermato anche su questioni che non ha sfiorato dinanzi ai parlamentari e cioè lo scandalo Metropol e i rapporti con Mosca che riguardano Gianluca Savoini, ex portavoce del leghista Matteo Salvini. Eppure al Copasir era in agenda la migliore delle occasioni: la relazione semestrale del presidente del Consiglio sull’attività dell’intelligence. Per alcuni parlamentari che siedono nel Comitato, con la guida di recente affidata al leghista Raffaele Volpi, la versione del governo sul Metropol porta la data del 24 luglio e la firma del premier, il medesimo Conte, che riferì in Senato. Questa chiosa viene menzionata per giustificare l’irritazione per le dichiarazioni del premier ai giornalisti che, rispetto alle intenzioni, si sono trasformate in un attacco frontale a Salvini e non nel momento per “portare serenità agli organi di sicurezza”, come precisa Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia e vice di Volpi.
Il tormentone Barr, sviscerato tra protocolli e calendari, non è ancora esaurito. Il premier ha spiegato che lo scorso giugno, in un tempo lontano dalla caduta del governo gialloverde, l’ambasciata italiana a Washington ha ricevuto una richiesta di informazioni dall’Amministrazione Trump sulle condotte degli agenti americani in Italia nella campagna elettorale del 2016.
William Barr, il ministro della Giustizia e procuratore generale nonché responsabile dell’Fbi, ha setacciato i Paesi alleati per dimostrare che il Russiagate non fu una manovra di Mosca per danneggiare Hillary Clinton, ma un complotto per falcidiare la rincorsa e il mandato alla Casa Bianca di Trump. Conte ha ribadito che gli americani non avevano sospetti sull’operato dell’intelligence italiana e che, dopo le verifiche e le riunioni con gli 007, hanno riconosciuto l’estraneità di Roma. Il Russiagate torna al Copasir già martedì con la “visita” di Gennaro Vecchione, il capo del dipartimento che coordina le agenzie dei servizi. Si tratta di incontri rituali e perciò l’unico argomento non è il ministro Barr, ma è scontato che ci siano domande sul tema. Completato il giro di voci dell’intelligence, al Copasir ascolteranno i membri del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica, tra cui ci sono i ministri degli Esteri Luigi Di Maio e quello della Giustizia Alfonso Bonafede.