Da oggi in libreria “Sotto il suo passo nascono i fiori. Goethe e l’Islam” di Francesca Bocca-Aldaqre e Pietrangelo Buttafuoco, di cui anticipiamo uno stralcio.
Dei personaggi creati da Goethe è certamente Faust il più improbabile degli ammessi in Paradiso; ai più sembra un controsenso che, avendo Mefistofele vinto la scommessa, Faust venga condotto in Paradiso, mentre altri si ostinano a rileggere l’opera come una “battaglia dei vizi e delle virtudi”.
L’osservazione più vicina al vero è forse di Pietro Citati: “All’interno di ogni uomo sta una ‘fonte’ purissima, che nessuno riuscirà a intorbidare,” in altre parole una natura originaria istintivamente buona, proponendo che sia questa la chiave che spiega la salvezza di Faust che “continua a rivendicare la propria affinità con il creatore dell’Universo”. Pur di fronte all’immensità del proprio peccato egli non abbandona mai il sogno di “ritrovare in sé un’armonica corrispondenza con la natura universale”.
Quest’insolita teologia, criticata dallo stesso Citati poiché incompatibile con la dottrina cattolica, è invece profondamente islamica: Dio ha connaturato all’uomo una tensione che lo spinge a Lui, ed è la fedeltà a questo anelito a salvarlo. Uno specifico versetto coranico, noto a Goethe, è la chiave di questo problema: “Rivolgi il tuo volto alla religione come puro monoteista (hanif), natura originaria (fitra) che Dio ha connaturato agli uomini. Ecco la vera religione, ma la maggior parte degli uomini non sa”. Faust potrebbe definirsi un hanif in virtù della sua impossibilità di appagarsi nei piaceri che Mefistofele gli propone; questa sincerità è attribuibile alla fitra che lo guida, che – altro tema carissimo a Goethe – costituisce la continuità primigenia tra uomo e Natura.
Goethe rivela quest’intima convinzione nella raccolta Dio, Sentimento e Mondo: “Vago oltre, nella fiorita distesa/ della natura originaria,/ amena fonte in cui m’immergo/ è Tradizione, è Grazia”. Non si esauriscono nella teologia della salvezza le influenze islamiche in Faust: non si trovano solo somiglianze di forma, ma anche di contenuto con il testo coranico. L’esempio più limpido è questo dialogo:
“Mefistofele: ‘Cosa scommettete? Anche quello perderete, se mi permettete di condurlo, poco alla volta, sul mio sentiero!’.
Il Signore: ‘Finché egli vivrà sulla terra, non ti sia ciò proibito: l’uomo è soggetto a errare sin tanto che lotta e anela’”.
È impressionante la somiglianza con la conversazione coranica, quando Shaytan, ovvero Satana, chiede una tregua temporanea per portare alla perdizione i figli di Adamo, e Dio gliela accorda.
La figura di Mefistofele è intrisa di riferimenti coranici, partendo dagli appellativi che Goethe gli affibbia, alle caratteristiche con cui si palesa; nel suo primo manifestarsi, infatti, Faust lo chiama semplicemente “o Mentitore”, nome che tutt’oggi, nelle terre musulmane, è sufficiente per identificare il Demonio; Mefistofele stesso si descrive affermando: “Sono lo spirito che sempre nega!”.
Il negare, nel lessico coranico kufr, è la caratteristica di estrema miscredenza che si adempie nel rifiuto. È il Menzognero, padre della menzogna del Vangelo di Giovanni.
Non solo gli appellativi, ma anche le azioni di Mefistofele sono simili a quelle di Shaitan: Goethe rimase tutta la vita legato alla sura degli Uomini, nella quale il credente cerca rifugio in Dio “contro il male del sussurratore furtivo, che suggerisce il male nei cuori degli uomini”; non è quindi un caso che Mefistofele affermi: “L’arte oratoria del diavolo consiste nel suggerire.” Il suggerimento sussurrato (waswas) è capacità satanica, ed è nota l’invocazione (du’a) coranica.
Traspare la matrice coranica anche nel dialogo tra Faust e Margherita; lei desidera essere rassicurata della fede di lui prima di concedersi…
“L’unico tema, e il solo profondo e importante, rimane il conflitto tra fede e miscredenza. Tutte le epoche nelle quali è prevalsa la fede, qualunque fosse”, scrive Goethe nelle Note al Divan, “sono luminose, edificanti e feconde. All’opposto, tutte le epoche nelle quali è la miscredenza a prevalere, anche se per qualche istante brillano di falso splendore, sono poi tralasciate dalla posterità, poiché nessuno ama affaticarsi per la conoscenza di questioni vane”.