“Oriana, anche da morta, riesce a farsi tanti nemici”

“Nell’epoca in cui i modelli femminili sono rappresentati dalle veline e dalle fashion blogger, una donna che afferma il potere del coraggio, della curiosità, della volontà di lasciare qualcosa agli altri mi fa innamorare. Non solo: questa donna ha dimostrato che si può invecchiare senza botulino”. “Questa donna” è Oriana Fallaci e a raccontarla, oggi in seconda serata su Rai3, è Sabrina Impacciatore. È il primo di quattro docu-film del secondo ciclo di Illuminate, prodotto da Anele in collaborazione con Rai Cinema, che vedrà protagoniste anche la stilista Laura Biagiotti (con Serena Rossi), la dirigente d’azienda Marisa Bellisario (con Violante Placido) e Virna Lisi (con Bianca Guaccero). Passeggiando per l’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) – luogo che celebra con una mostra la passione della scrittrice-giornalista per lo spazio e, negli anni 60, per le missioni sulla Luna – l’attrice, diretta da Marco Spagnoli, incontra parenti, amici e colleghi che tracciano un profilo intimo della Fallaci, destrutturando l’icona e riappropriandosi della donna.

Impacciatore, eppure persino Salvini ha mostrato sul palco di Pontida una foto della Fallaci.

Oriana era una pensatrice libera, una donna profondamente intelligente: mi fa sorridere il fatto che c’è chi pensa di potersene impossessare. Ne La rabbia e l’orgoglio scrive che i leghisti non conoscono il Tricolore: credo che già questo renda chiara la sua posizione. Fu figlia di un partigiano torturato dai fascisti e fu lei stessa staffetta partigiana. Eppure non appartenne neanche alla sinistra: anzi, definiva “cicale” gli intellettuali di sinistra che usavano il filtro del controllo per non perdere il potere. Questo mi ha fatto innamorare: non ha mai avuto paura di farsi tutti nemici.

Ne parla con emozione, e quasi con devozione.

Veramente mi mette in soggezione: mi sono portata a casa la locandina del docu-film e già solo guardarla mi intimorisce. Lei mi crederà pazza, ma proprio martedì mi è successa una cosa magica.

Racconti.

Ero all’Asi per la proiezione in anteprima, mentre parlavo sul palco mi è sembrato che qualcuno dal pubblico volesse interrompermi. “Sì, prego?”. Silenzio. “Il prossimo film lo voglio fare su Giovanna d’Arco, considerato che sento le voci”. Poi parte il film e si sente Oriana che in un’intervista dice: “Giovanna d’Arco era una guerriera”. Ci siamo incontrate su questo nome. Un segno magico.

Non si è sentita addosso la responsabilità di raccontare un personaggio così “pesante”?

Me la sono assunta dopo essermene innamorata. Sono ben conscia delle reazioni contrastanti che il nome Fallaci suscita, ma il fatto che lei abbia avuto il coraggio di rimanere sempre fedele a se stessa, affrontando tutto in maniera viscerale, come se i fatti del mondo la riguardassero di persona, mi ha tolto qualsiasi dubbio.

In un periodo di guerre come questo, secondo lei si sente la mancanza di una Fallaci?

Probabilmente Oriana avrebbe preso il suo zainetto e sarebbe partita, con la solita scritta: “In caso di morte, restituire il corpo a…”. Ma insomma, chi altri lo farebbe? Si definiva “storica”, nel senso che raccontava la storia nel momento in cui la storia si svolgeva. E il coraggio era la dote che ammirava di più negli altri. Si chiedeva sempre: se questa persona fosse stata presa dai fascisti e torturata, avrebbe parlato? Suo padre non l’aveva fatto e questo era il suo metro di paragone. Dalla risposta che si dava, dipendevano i suoi rapporti con gli altri.

Determinata, ma senza tonalità di grigi. Per questo divisiva.

Eppure profondamente seduttiva anche quando usava toni forti. Mi dispiace che l’abbiano attaccata persino le donne. L’hanno considerata un’antiabortista, quando invece il suo Lettera a una bambino mai nato fu un libro sul dubbio, sul dolore, sulla disobbedienza, sulla libertà. In una società misogina come quella italiana, la Fallaci dovrebbe essere insegnata nelle scuole.

A proposito di insegnare, crede che possa servire questa tv che racconta i personaggi, le storie, la Storia?

Questi docu-film nascono dall’intuizione di Gloria Giorgianni di Anele. Ce ne vorrebbero di più di operazioni così: sono progetti che nutrono la società del futuro. Veniamo da trent’anni di televisione orribile, che ha comportato un enorme impoverimento culturale (a parte le dovute eccezioni, ovvio). Nel mio piccolo rifiuto proposte che magari mi arricchirebbero economicamente, ma che non ritengo educative. E se guardo una trasmissione che ritengo insultante, spero vada male. Quando invece prodotti come Illuminate funzionano, io gioisco e mi emoziono. Come spero facciano produttori ed editori. Le scommesse hanno bisogno di coraggio: impariamo da Oriana.

Migranti, il Tir della speranza diventa bara

Trentanove cadaveri senza nome stipati in un container in una zona industriale di Grays, nell’Essex, a trenta chilometri da Londra. La scoperta – ennesima tragedia della migrazione – risale all’1:40 di mercoledì notte.

La polizia è al lavoro sull’identificazione dei corpi – uno dei quali appartiene a un adolescente – ma una responsabile, Pippa Mills, ha chiarito: “Sarà un lungo processo”. Intanto il conducente del camion, 25 anni. originario dell’Irlanda del Nord, è stato già arrestato con l’accusa di omicidio.

Il veicolo, con ogni probabilità proveniente dalla Bulgaria, è arrivato nel Regno Unito entrando nel porto di Purfleet, cittadina sul Tamigi, da Zeebrugge, in Belgio. Questa ultima ricostruzione smentisce quanto inizialmente ipotizzato dalla polizia dell’Essex, e cioè che il camion fosse entrato attraverso il porto di Holyhead, in Galles, il secondo più trafficato dopo Dover e il principale punto di accesso per i traghetti irlandesi. Si tratta in ogni caso di una rotta “non ortodossa” poiché il tragitto classico avrebbe contemplato il passaggio per Calais e Dover attraverso l’eurotunnel.

Un portavoce del ministero degli Esteri bulgaro ha confermato che il camion era registrato in Bulgaria, a Varna, località sul Mar Nero, a nome di una compagnia di proprietà di un cittadino irlandese; ha però aggiunto che “la polizia ritiene improbabile che i corpi appartengano a cittadini bulgari”.

Il premier Boris Johnson si è definito “sconvolto” da questo “tragico incidente nell’Essex”. “Il ministero degli Interni” – continua in un tweet – lavorerà a stretto contatto con la polizia dell’Essex per stabilire esattamente cosa sia successo. I miei pensieri sono per tutti coloro che hanno perso la vita e i loro cari”. Il leader dell’opposizione laburista, Jeremy Corbyn, ha parlato di una “incredibile tragedia umana”. È “una vicenda orribile e straziante” anche per Steve Valdez-Symonds, direttore dell’ufficio diritti dei migranti e dei rifugiati di Amnesty International Regno Unito, che ha puntato il dito contro le decisioni del governo: “A causa delle attuali politiche in tema d’immigrazione, che non prevedono percorsi legali e sicuri, coloro che vogliono raggiungere il Regno Unito sono spesso costretti a intraprendere viaggi pericolosi e, come in questo caso, mortali”.

Quanto accaduto in Essex richiama alla memoria terribili precedenti: nel 2015 in Austria, 71 migranti siriani, iracheni e afghani diretti in Germania furono trovati morti in un camion-frigorifero abbandonato lungo un’autostrada, vicino al confine con l’Ungheria.

A giugno del 2000 invece la polizia britannica rinvenne all’interno di un camion sbarcato a Dover i cadaveri di ben 58 persone, poi identificate come migranti illegali cinesi.

“I privilegi della dittatura fanno ancora danni in Cile”

“Una pentola a pressione scoperchiata” e “una proverbiale goccia – l’aumento del prezzo del biglietto del trasporto pubblico – che ha fatto traboccare il vaso”. Con due metafore la scrittrice e professoressa cilena della generazione post-dittatura, Lina Meruane, descrive l’angosciante realtà delle proteste in Cile di questi ultimi giorni. “Stiamo vedendo una popolazione stritolata dalle politiche neoliberiste sommate ai privilegi per pochi, situazione a cui nessuno dalla fine della dittatura a oggi è mai davvero riuscito a porre fine”, spiega l’autrice che vive tra New York e il Cile e che in Italia ha pubblicato Sangue negli occhi e Contro i figli (La Nuova Frontiera). “È una risacca dell’enorme malcontento degli anni passati a cui che si è unito chi è più arrabbiato e non vuole sentire ragioni: vuole solo bruciare e rompere ogni cosa”.

Che vuol dire per un Paese che ha vissuto la repressione della dittatura tornare al coprifuoco e allo stato d’emergenza?

Sono segnali negativi di un governo che non ha idea di come affrontare le richieste della popolazione e al posto di ascoltarla la reprime. Il presidente Pinochet (lapsus, si riferisce a Pinera, ndr) dichiara guerra a milioni di cittadini cileni, non si rende conto che questo l’abbiamo già vissuto. Ciò che desideriamo è un sistema economico, politico e sociale che prenda in considerazione le necessità di tutti e non solo dell’1% di milionari o del 30% che guadagna uno stipendio ragionevole. C’è un 70% della popolazione che guadagna meno di 700 mila pesos all’anno (867 euro).

È vero che dietro agli scontri ci sono gli anarchici?

Dietro alla violenza di piazza c’è sempre di tutto: anarchismo, gruppi organizzati, ma ciò che vediamo per strada e durante gli scioperi, nelle manifestazioni di piazza Italia è un’impressionante quantità di persone pacifiche che chiede un cambiamento delle politiche neoliberiste. Ovviamente i media raccolgono i dati più violenti.

L’opposizione al governo di Pinera non sembra essere all’altezza della situazione. La sinistra cosa ha fatto in questi anni?

Nel Cile della dittatura si impose un’idea di neoliberismo che è quello di Milton Friedman e dei Chicago Boys, secondo cui se ai ricchi vanno bene le cose, se le imprese guadagnano molto denaro, questo va verso il basso e migliora la vita di tutti. In Cile è stato così solo in parte: è sparita la miseria più nera, ma la classe media e bassa non hanno visto un miglioramento, hanno visto solo aumentare la diseguaglianza con la classe alta. Ora succede che la classe bassa non riesce neanche a pagare gli studi ai figli o a curarsi, e vede calpestati i propri diritti alla pensione. Tutto questo è a una distanza siderale dalla grande ricchezza. I governi di centrosinistra non hanno risolto la situazione anche perché hanno creduto che questo modello potesse aiutare la popolazione. Negli ultimi 30 anni la diseguaglianza non ha mai smesso di crescere creando non solo malcontento, ma risentimento.

Lei vive a New York. Quali differenze vede tra i giovani del “primo” e quelli del “secondo mondo”?

Anche negli Usa ci sono un’enorme diseguaglianza e una grande povertà come si è visto durante l’uragano Katrina, ad esempio. Ci sono molti privilegiati e moltissima gente – non soltanto migranti – che vive con il minimo e che non è protetta dalle politiche statali di un presidente che è la sintesi di questo neoliberismo selvaggio. Direi però che la gioventù cilena è più cosciente di quella nordamericana, la quale invece è più allenata al consumo che al pensiero critico, posto che anche negli Usa ci sono movimenti studenteschi. Ma la pressione della dittatura che hanno sopportato praticamente tutti i paesi dell’America Latina, ha dato vita a una coscienza politica molto forte. I giovani pur non avendola vissuta, ne hanno subito gli effetti e quindi si ribellano. Non credo che questo movimento si spegnerà presto, né che andrà scemando, almeno non finché i politici non tradurranno in azioni concrete le promesse elettorali.

La prima sfida in aula. Assange: “Sono debole ma faccio ancora paura”

“Ero in tribunale. Ho visto il magistrato Vanessa Baraitser ostentare il suo disprezzo per il diritto e la giustizia, quando ha negato a Julian Assange il tempo necessario per preparare la propria difesa contro il rozzo piano da cowboy americano di estradarlo. Assange, indebolito, faticava a smascherarla. Restate al suo fianco, vi prego”.

Il tweet è di John Pilger, il giornalista e documentarista australiano da sempre dalla parte di Julian Assange. Lunedì, con altri sostenitori, era alla Westminster Magistrates Court di Londra: udienza convocata per discutere la richiesta dei legali di Assange di una proroga di un mese per preparare meglio la sua difesa. Richiesta negata: il processo per l’estradizione negli Stati Uniti avrà inizio inderogabilmente il 25 febbraio, dopo una udienza preliminare il 19 dicembre. Su Assange pendono 18 capi di imputazione negli Usa, fra cui l’accusa di aver cospirato con Chelsea Manning per aver accesso a materiale classificato in un computer del Pentagono. Se estradato rischia 175 anni di carcere.

Secondo i resoconti diretti della seduta, la salute di Assange, 48 anni, si sarebbe deteriorata moltissimo negli ultimi mesi. Era già molto provato dai 7 anni di isolamento nell’ambasciata ecuadoriana di Londra. Poi l’arresto, lo scorso aprile; la condanna a 50 settimane di reclusione per aver violato i termini della condizionale rifugiandosi nell’ambasciata ecuadoriana ai tempi del primo arresto, nel 2012; la richiesta di estradizione.

Da allora è nel carcere di massima sicurezza di Balmarsh dove, secondo i suoi legali, è sottoposto ad un regime durissimo. Isolamento totale, solo 45 minuti di movimento al giorno. Nessun accesso alle carte, rapporti limitati perfino con i suoi difensori, che denunciano di non avere per questo modo di preparare la difesa. Denunce che non hanno smosso il magistrato, nemmeno di fronte alla recente rivelazione che Assange e i suoi visitatori, durante la sua permanenza in ambasciata, sarebbero stati regolarmente spiati e registrati dalla Global S.L. società di sicurezza che, secondo i magistrati spagnoli, avrebbe agito per contro dell’intelligence Usa. A maggio, i primi segnali di allarme sulle condizioni fisiche e mentali di Assange. Ieri, la conferma.

“Sono rimasto profondamente colpito nel vedere quanto peso ha perso il mio amico, più di 15 chili dal giorno del suo arresto. Ha perso molti capelli, sono evidenti i segni di un rapido e prematuro invecchiamento.”. A scriverlo sul suo blog è Craig Murray, ex ambasciatore di sua Maestà e oggi è uno dei più feroci accusatori degli apparati diplomatici, politici e giudiziari britannici. In un ampio resoconto dell’udienza di lunedí, denuncia le condizioni di Assange come allarmanti. “Ancora più shockante il deteriorarsi delle sue funzioni mentali. Faceva fatica a ricordare il proprio nome e data di nascita, ed era chiaramente difficile per lui concentrarsi e seguire un filo coerente di pensieri”. Murray descrive anche la presunta connivenza fra il governo Usa e il team di avvocati britannici che sostengono l’accusa contro Assange. “C’erano 5 rappresentanti del governo statunitense seduti dietro i legali britannici”.

Con loro, secondo Murray, che però dichiara la sua amicizia con Assange e non può essere considerato equidistante nel caso, gli avvocati dello Stato britannico si sarebbero consultati regolarmente nel corso dell’udienza. Ad un certo punto uno dei consulenti del team legale avrebbe dichiarato al giudice di essere andato “a prendere istruzioni’ dagli statunitensi. Ingerenze già denunciate da Nils Melzer, rappresentante speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, che lo scorso maggio ha chiesto ufficialmente alle autorità britanniche di non estradare Assange negli Stati Uniti: “In 20 anni di lavoro al fianco di vittime di conflitti, violenze e persecuzione politica non ho mai visto un gruppo di stati democratici coalizzarsi per isolare, demonizzare e abusare deliberatamente un singolo individuo così a lungo e con così poco rispetto per la dignità umana e lo stato di diritto”. Eppure, in un passaggio cruciale, Assange sembra aver ritrovato lucidità e spirito. Quando il giudice gli ha chiesto se capisse cosa stava accadendo, ha risposto: “Non proprio. E non riesco a capire cosa ci sia di giusto in quello che succede. Questa superpotenza ha avuto 10 anni per preparare l’accusa, mentre io non ho accesso ai miei appunti. Non posso fare nulla, eppure queste persone hanno risorse illimitate. Dicono che giornalisti e whistleblower sono nemici del popolo.[…]. Non c’è niente di giusto”.

Dossier revoca, perché va rifiutata l’offerta di Gavio

Cosa avrà in testa Beniamino Gavio quando dichiara “noi in Autostrade? Se il governo ce lo chiede siamo a disposizione”? Quando i concessionari si offrono di sedersi a tavola col governo i pedaggiati (noi poveretti) possono star sicuri che saranno comunque e sempre loro a pagare i costi del banchetto.

Il governo si è messo da tempo in una posizione assurda: per salvare l’Alitalia chiede soldi ad Atlantia che esige in cambio che sia accantonata la revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia (Aspi), ma poiché questo sarebbe un boccone troppo amaro per il maggior partito si continua a rinviare sia l’una che l’altra questione. Una soluzione che era stata ipotizzata, non sappiamo quanto realisticamente, era quella che Aspi rinunciasse, d’accordo col Governo, alla parte ligure della sua rete mentre, in una sorta di scambio, verrebbe accantonata la procedura di revoca. Questa soluzione avrebbe il vantaggio di evitare l’evidente difficoltà politica di affidare ancora ad Aspi la costruzione della famosa “gronda” di Genova.

Anche se si trovasse un accordo il tal senso, resterebbe da decidere chi e come potrebbe subentrare ad Aspi nella gestione della sua ex rete ligure. È forse a questo che pensa Gavio quando dice di essere a disposizione del governo: sarebbe ben lieto di ingrandire la sua rete, magari come sempre senza gara e a condizioni vantaggiose come è normale che richieda chi si offre di “aiutare” il governo.

Questo, come altri casi, solleva una questione di fondo che non è mai stata affrontata: cosa dovrebbe fare lo Stato quando scadono le concessioni? Qual è la politica a lungo termine in questo settore? Tutte le concessioni prevedono che, una volta costruita ed ammortizzata un’autostrada questa venga devoluta gratuitamente allo Stato/concedente a fine concessione, salvo l’eventuale indennizzo di subentro. Ma sinora non è mai avvenuto: si sono sempre concesse proroghe o, in casi rarissimi, lo Stato ha messo a gara l’assegnazione di una nuova concessione.

Nessuna regola europea impone che lo Stato assegni una nuova concessione con gara: potrebbe benissimo riprendersi l’infrastruttura e gestirla “in house”. I pedaggi che si pagano su autostrade già ammortizzate sono essenzialmente delle imposte e non si vede perché si debbano delegare i concessionari a riscuoterle. Ma il fatto è che manca sia una politica sia un ente statale che è legittimato e attrezzato a rilevare l’infrastruttura “devoluta” dal concessionario cessante, e per questo al termine di ogni concessione lo Stato, incapace di far altro, chiede al concessionari di continuare la gestione, a volte per anni.

Lo Stato, riprendendosi l’autostrada, potrebbe decidere di azzerare il pedaggio o di ridurlo al solo costo di manutenzione, e assegnare in gara la manutenzione ed eventualmente l’esazione senza creare alcun “carrozzone” pubblico. Per far questo occorre però, oltre alla volontà politica, un ente pubblico che rilevi l’infrastruttura e agisca come ente appaltante. Se esistesse un tale ente, e la volontà politica, lo Stato potrebbe rilevare rapidamente la rete ligure di Aspi senza dover far gare e senza dover chiedere a Gavio (o altri) di gestire quella rete in proroga. Anzi, lo Stato potrebbe rilevare proprio dal gruppo Gavio le due autostrade (Ativa e Torino-Piacenza) con concessioni già scadute da anni.

Questo governo dovrebbe dichiarare quale sia la sua politica: riappropriarsi delle autostrade, man mano che scadono le concessioni, per tornare un paese normale dove la rete stradale è fondamentalmente pubblica, o continuare con questo sistema di scambi di favori tra governi e concessionari perpetuando lo sfruttamento dei “pedaggiati”?

Guai pure a Napoli: a rischio il viadotto verso Capodichino

Anche Napoli sprofonda nel gorgo del metodo Autostrade per l’Italia, quel mix di risparmi e ritardi sui lavori di manutenzione che finisce per mettere a rischio la sicurezza della rete gestita dal colosso dei Benetton. Da venerdì notte, i tecnici del ministero delle Infrastrutture hanno imposto pesanti restrizioni al traffico sul viadotto Capodichino, quasi un chilometro e mezzo di strada sospesa tra i ponti Rossi e piazza Ottocalli, altezza 60 metri. Un fiume di asfalto che sovrasta un quartiere popoloso. Stop ai mezzi pesanti, traffico compresso in due corsie centrali, code chilometriche e città nel caos. La decisione è stata presa per alleggerire il peso dei veicoli su una infrastruttura che soffre situazioni di grave “ammaloramento”: bulloni e dadi privi di configurazione, che si sfaldano se li tocchi, perdite di resistenza sull’acciaio, un degrado diffuso che ne compromette l’integrità statica. Il tratto fa parte della Tangenziale di Napoli, 20 km gestiti dall’omonima spa controllata da Atlantia e presieduta dall’ex ministro Dc Paolo Cirino Pomicino. A pagamento, caso unico in Italia. Secondo il primo rapporto del capo dell’ufficio ispettivo del Mit, l’ingegnere Placido Migliorino, non è stata fatta manutenzione sul viadotto. E sulle rampe di Corso Malta la concessionaria non avrebbe dato prove di essere mai andata a ispezionare. Lì ora si circola a una sola corsia.

Dal ministero arrivano solleciti a produrre un piano generale di adeguamento del viadotto. Potrebbero servire due anni e con la Tangenziale a mezzo servizio Napoli esploderebbe. Per riaprire subito un’altra corsia bisognerebbe sostituire le flange, le parti ossidate e impiantare bulloni nuovi. Un intervento di somma urgenza, con l’intento, da verificare, di limitare l’interdizione ai soli mezzi pesanti. Potrebbero servire tre mesi. Pomicino, più ottimista, ipotizza “una ventina di giorni”. Ma durante i lavori il tratto va chiuso de tutto. Serve farli di notte.

Il sindaco Luigi de Magistris è inferocito. Ha chiesto al ministro Paola De Micheli “la tangenziale gratis fino alla fine dei disagi”, per rendere i lavori “più rapidi perché ad oggi non sappiamo ancora quanto dureranno. Siamo sconcertati perché né noi, né il Prefetto, né i vertici delle forze dell’ordine sanno nulla sull’argomento sebbene sia una questione molto seria per la sicurezza”. De Magistris ce l’ha anche con Pomicino e il suo suggerimento di riaprire alle auto via Caracciolo, la cui pedonalizzazione è il simbolo identitario della sua giunta quasi decennale. “Attività di distrazione di massa – l’ha definita – anche i bambini sanno che il lungomare non c’entra nulla con la Tangenziale”. Pomicino sorride: “Meno male che sono specialista in malattie nervose e mentali. Al caro Luigi, nipote di un mio fratello scomparso, dico che la Tangenziale è l’unico asse che collega la parte est con la parte ovest della città. Alternative ce ne sono? ”. Sul pedaggio Pomicino passa la palla al governo. “Siamo una società quotata, non possiamo abrogarlo. Il governo, che ha il 30% del ricavato, se vuole farlo deve accollarsene i costi, perché è un’emergenza e nelle emergenze deve intervenire il governo”.

Curioso ragionamento. Le ispezioni del Mit mostrano che la manutenzione non è stata fatta. La concessionaria, peraltro, dal 2014 non ha mai avuto approvati i piani manutentivi dall’ufficio ispettivo presieduto da Migliorino, perchè considerati inadeguati. Eppure da un’infrastruttura degli anni 70, già ammortizzata, incassa dai pedaggi 70 milioni l’anno, 3,4 a chilometro contro gli 1,9 della già alta media delle rete di Autostrade. Il pedaggio secondo l’ex ministro, è una polizza sulla qualità della gestione: “Il Mit dovrebbe cedere alla città di Napoli la sua quota di 5 milioni di ricavi sulla Tangenziale, per mantenerne le vie cittadine”. Ieri la società ha annunciato nuove verifiche, l’esito si saprà la prossima settimana.

“Ispeziono i ponti, ma lì i miei figli non li porterei…”

Possiamo portare i nostri figli su questo ponte senza paura? “Francamente me lo sto chiedendo anch’io… non sarei molto tranquillo”, il tecnico allarga le braccia. Fa una smorfia che la dice lunga, indica un pilone dove il cemento cade a pezzi e mostra cavi d’acciaio pieni di ruggine. L’uomo fa parte dell’esercito di ingegneri, tecnici e dipendenti di Autostrade che ieri mattina sono entrati dentro il viadotto Sori per conto della Procura. Siamo sulla A12 che collega Genova con Livorno. Quell’autostrada che ogni giorno viene percorsa da auto e tir diretti a Genova e al porto. E che nel weekend diventa un serpente ininterrotto di auto; lombardi e piemontesi che corrono verso Cinque Terre, Rapallo e Portofino.

Decine di migliaia di automezzi al giorno, centinaia di tonnellate che pesano su questi viadotti alti come grattacieli, sottili come gambe di ragni. Ed ecco il punto: l’inchiesta sul crollo del ponte Morandi sta portando lontano. È stato aperto un secondo fascicolo sui falsi report. Da qui è nato un altro filone, quello della sicurezza (in particolare i cassoni, le intercapedini poste sotto il manto stradale). E basta guardare la faccia dei tecnici che escono dal viadotto di Sori per leggere nelle loro espressioni un dubbio: qui non ci si ferma più. Il malato adesso si chiama A12. Un’arteria che per Genova, il cuore della Liguria, non può essere chiusa. Eppure pochi scommetterebbero sulla sua sicurezza.

Sono le otto di ieri mattina. Gli automobilisti che corrono sul Sori non fanno caso al furgone che si ferma sul viadotto. Scendono due uomini dall’accento bellunese, vestiti da scalatori. Sono proprio due ingegneri alpinisti di una ditta specializzata di Cortina d’Ampezzo. Scavalcano il parapetto e varcano la porticina che li porta nella pancia del ponte. Già, perché i viadotti autostradali dentro sono vuoti: enormi grotte alte cento metri. Gli scalatori, proprio come sulle montagne, calano le loro corde e con i faretti frontali sul casco illuminano questo buio che sa di umido, benzina e asfalto. Passano ore e ore prima che tu senta le loro voci nella tenebra del pilone. Alla fine riemergono da una porticina ai piedi del viadotto. Cominciano a parlare fitto fitto tra loro. C’è tanta acqua dentro il Sori, e non si capisce perché. Veri e propri ‘laghetti’ che la pioggia degli ultimi giorni non basta a spiegare. E ci sono anche quelle ‘stalattiti’ che dimostrano infiltrazioni di anni. Ecco il punto: “Dal 2013 nei cassoni sembra che non ci abbia messo piede nessuno”, sussurrano i tecnici. Poi c’è la manutenzione dei piloni. I due principali hanno il problema dell’acqua, ma sembrano quelli messi meglio. I guai saltano fuori dai piloncini a Ponente, alti trenta metri. Basta avvicinarsi e trovi cemento che cade a pezzi. Le sbrecciature rivelano cavi d’acciaio pieni di ruggine. “Non sono elementi decorativi, anche quelli hanno una funzione resistente, portante”, scrollano la testa i tecnici. Gli ingegneri guardano il grande viadotto: è alto cento metri, quasi mezzo chilometro di asfalto sospeso nel vuoto. Un capolavoro di ingegneria nato nel 1967 – gli stessi anni del Morandi – dalla matita dello strutturista Luciano Zorzi. Questo come tutti i vicini viadotti della A12: Veilino, Bisagno, Nervi, Poggio, Cortino.

Il Sori preoccupa, ma in fondo è uno di quelli che se la passano meglio. Il Bisagno, proprio vicino all’uscita Genova Est, è in condizioni peggiori. Anche il Velino va tenuto sotto stretta osservazione. E basta avvicinarsi al viadotto alle spalle di Bogliasco (tra Genova e Sori) per notare ancora calcinacci e ruggine.

Ma se non fosse caduto il Morandi qualcuno se ne sarebbe accorto? E accade soltanto in Liguria oppure l’inchiesta rischia di dilagare in tutta Italia? Certo, spiegano i tecnici, la Liguria è sorvegliata speciale. Qui l’autostrada corre a poche centinaia di metri dal mare e il salino è una termite che sgretola il cemento, si mangia l’acciaio. Come potrebbe essere successo al Morandi. E soltanto qui – e in alcune regioni del Sud – le autostrade corrono su viadotti così alti e sottili. Sogni di ingegneria che dopo mezzo secolo stanno diventando un incubo.

Ormai intorno a Genova l’elenco dei ponti sotto osservazione non finisce più. E non risparmia nessuna arteria autostradale. Sulla A26, che porta in Piemonte, si sapeva del Pecetti (al centro dell’inchiesta sui dossier) e del Gargassa, ma adesso emerge che si stanno compiendo accertamenti urgenti anche sul Gorsexio. Per capire cosa significhi bisogna andare ai piedi di questo gigante – ancora opera di Zorzi – lungo oltre 600 metri, con un pilone alto 172 metri. Quasi il doppio del grattacielo Pirelli di Milano, tanto per capirci. Poi c’è il Sei Luci, accanto al Morandi. E non sono stati risparmiati neanche i viadotti della A10 che segue tutta la Riviera di Ponente. Un’altra autostrada delle vacanze. Qui ci sono il Teiro (vicino a Varazze) e il Letimbro (a Savona).

“Sinceramente – ripete il tecnico sollevando la testa verso il viadotto – non so se sarei tranquillo a portarci i miei figli”. Eppure proprio a quest’ora migliaia di bambini ci stanno passando per tornare a casa da scuola con i genitori.

La mania tv degli anni 80 funziona pure in “Collegio”

Quanto ci hanno sfrantecato i cabasisi con gli anni 80 Dio solo lo sa. Tornano gli anni 80, ritornano gli anni 80, riecco i favolosi anni 80… Ma deve valer la pena a giudicare dall’ottimo esordio della quarta stagione del Collegio (10,7 di share martedì su Rai2), dove il decennio reaganian-berlusconiano è introdotto da Simona Ventura: la scoperta della moda, del fondotinta, del deodorante, della disco-music e del risotto alle fragole. Anche senza aver letto Pier Vittorio Tondelli la sensazione è che di alcune cose si poteva fare a meno, altre manchino; ma nell’austero convitto ci sono altre priorità. Parlare un italiano intellegibile (da parte degli studenti). Comprendere il grammelot dialettale degli studenti (da parte degli spettatori). Concepire bravate leggendarie. Ricevere punizioni esemplari. Piangere (le lacrime stanno su tutto). Quel che non esisteva negli anni 80 sono i talent e i reality scritti da capo a piedi, mentre Il Collegio è sempre più un mix tra i due generi: promozioni e retrocessioni modello Big Brother, precisa geometria del casting (il cicciobomba ruspante, la madonnina infilzata, l’adolescente inquieta, “è intelligente ma non si applica”, i casi famigliari…). Meno varietà tra i prof, dove si oscilla sempre tra il Libro Cuore e le professoresse di Amarcord. Dicono sia un esperimento sociale, e forse lo è davvero sui nostri tempi. Cosa resterà di questi anni 10? Algoritmi e profilazioni sono il collegio di tutti noi, invisibile e invalicabile.

Fatevi assumere, fatelo per Bono

Da ieri il povero Matteo Renzi ha un cruccio in più: non solo a Cdp gli rimandano come presidente l’uomo che aveva cacciato da ad, Gorno Tempini, ma pure la fusione tra Leonardo e Fincantieri per cui si era speso appena rientrato in orbita governo è stata bocciata dall’unico che ci avrebbe guadagnato, cioè l’eterno numero uno dell’azienda di navi e molto altro, Giuseppe Bono (“non porterebbe alcun valore aggiunto”). L’arzillo Bono, d’altra parte, ha già i suoi di crucci. “A luglio lei ha lanciato un appello dicendo che Fincantieri, in Italia, non trova seimila fra saldatori e carpentieri: li avete trovati?”, gli ha chiesto accorato ieri il cronista de La Stampa. E Bono, affranto: “Purtroppo no, non ancora”. I giovani, ci ha spiegato l’anziano manager, non hanno voglia di lavorare: fanno i rider a 500 euro al mese invece che i saldatori per Bono a 1.600. Come dargli torto? Che dire di quei carpentieri e saldatori che nei cantieri di Fincantieri si ostinano a lavorare in subappalto a due lire invece di farsi assumere da Bono? Lui ci prova eh, ma quelli niente: si rifiutano. E quelli in cassa integrazione alla Cordioli, gruppo Fincantieri, che lavora al nuovo Ponte Morandi? Fancazzisti. Eddai, per favore, fatevi assumere: date una gioia a Bono.

Aperitivo dadaista in moschea: l’arte per l’immigrazione

Aperitivo dadaista in Borgo Stazione. Accade a Udine. A Milano lo chiameremmo “apericena in moschea”. Metti un sociologo delle migrazioni (Marco Orioles), un artista dadaista (Rocco Burtone) e il presidente del centro islamico udinese (Shahdat Hossain). Metti il quartiere più temuto della città friulana, il ghetto della stazione “invaso” e “occupato” dagli immigrati, dove dal 2015 c’è anche una moschea. E ne nasce un’iniziativa dove il dialogo tra culture diverse diventa condivisione di idee, cibo e bevande (non alcoliche). La cosa è nata un sabato di settembre, con i cittadini di Udine invitati da Orioles e dai suoi due “complici” a fare un tour del quartiere più etnico della città e poi a confluire nella moschea. Interventi, domande, risposte e infine cena con specialità arabo-asiatiche.

“Dopo trent’anni di dibattiti, convegni e iniziative di legge sull’immigrazione, siamo ancora all’anno zero”, racconta Orioles, che fa il sociologo, ma anche il giornalista e il commentatore sul Piccolo di Trieste. “Stranieri e italiani sono entità separate che non comunicano tra loro. Per rendersene conto, basta andare in Borgo Stazione: un concentrato di immigrazione diventato un ghetto che molti friulani non frequentano più per paura”. Ma venite a vedere, dice Orioles. Ecco dunque una visita guidata al quartiere dove i commercianti friulani sono stati in gran parte sostituiti da botteghe “etniche” e negozi di kebab. Partenza alle 17:09 (è pur sempre un’azione dadaista!).

Ecco il mini-market algerino, l’aperitivo afghano alla Kabul House, gli assaggi di sambosa (pasticcino riempito con carne macinata di manzo, verdura, spezie afghane), di kabab morgh (carne di pollo alla griglia marinato con le spezie afghane e grigliato), di pakawra (fette di patate fritte in pastella). La guida è Simonetta Di Zanutto, blogger e autrice di guide turistiche, che spiega, racconta, regala i suoi ritagli di viaggio. Poi, in via Battistig, chiacchierata con i kebabbari (e titolari di protezione internazionale) Muhammad Usman e Danyal Ahmad. Si prosegue con la visita in via Roma, il viale della stazione ferroviaria, scandita dai racconti di Piero Villotta. Per finire in moschea, dove all’intervento del presidente della comunità islamica Shahdat Hossain segue il “comizio dadaista” di Roberto Muradore e il finale a sorpresa di Rocco Burtone. Con cena tutti insieme.

Dopo il successo di settembre e la replica di ottobre, l’aperitivo dadaista sarà ripetuto a novembre, con la partecipazione anche del parroco della chiesa cattolica del quartiere. “L’incontro e lo spettacolo dadaista avviene nella sala di preghiera della moschea”, spiega Orioles.

“L’iniziativa è dedicata a chi vuole scoprire o riscoprire il quartiere multietnico, a chi vi ha fatto esperienze e conoscenze interessanti che potrebbero dare spunto a progetti da sviluppare proprio in Borgo Stazione e, ancora, a chi vuole dare il suo contributo alla risoluzione dei problemi della zona, a chi vuole rilanciarne l’immagine con grandi e piccole iniziative, o ricostruire da zero la reputazione di un quartiere che da ghetto per immigrati potrebbe diventare, come accaduto in tante città europee, persino luogo di attrazione turistica”.

Chi partecipa ascolta, parla, mangia, beve, contribuisce a scrivere la bozza di un “manifesto per Borgo Stazione”, scatta foto e video da postare sui social e sulla apposita pagina facebook. “L’immigrazione, l’integrazione e la convivenza, dopo tante polemiche sterili, le vogliamo affrontare a colpi di arte, cultura, spettacoli, giochi”.