Uno “strappo alla giustizia”: Mosca insegna

Gaetano Mosca (Palermo, 1858 – Roma, 1941), che Norberto Bobbio considera il padre della moderna scienza politica, nel 1900 tenne prima a Torino e poi a Milano una lezione-conferenza sulla mafia. Nel concluderla affermava che “è sperabile che le nostre classi dirigenti, edotte dall’esperienza, comprenderanno finalmente che, quando si permette uno strappo alla giustizia e alla legalità, non è possibile prevedere dove lo strappo andrà a fermarsi e che può eziandio accadere che esso si allarghi tanto da ridurre a brandelli tutto il senso morale di un popolo civile”.

Parole scritte ieri, parole quanto mai di attualità, anche se lo studioso si riferiva al processo per l’assassinio nel 1893 a Palermo del banchiere Emanuele Notarbartolo, un “affare” politico-mafioso che si sarebbe concluso con l’assoluzione del mandante e dell’esecutore dell’omicidio.

Di una validità non tramontata davvero straordinaria, principalmente per le annotazioni sullo “strappo alla giustizia” e sulla mafia “in guanti gialli”, quella dei piani alti del potere, il testo di Mosca è stato appena ripubblicato a oltre dieci anni di distanza dall’edizione Laterza, che comprendeva un saggio di Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia. A ristampare in una elegante edizione Che cosa è la mafia è Nino Aragno (pagine 58, euro 12), con una introduzione puntuale di Giacomo Ciriello. Ed è quest’ultimo a parlare giustamente di attualità da brivido, perché basta leggere poche pagine di Mosca per essere indotti a passare, nelle riflessioni, dal processo Notarbartolo del 1900 “a quello di Palermo del 2018”, cioè il dibattimento di primo grado sulla trattativa Stato-mafia. Le analogie impressionanti tra ieri e oggi, nei ragionamenti di Gaetamo Mosca, non si fermano al fatto che la mafia, già così rilevante allora, neanche oggi sia stata debellata per sempre, oppure che né il processo Notarbartolo, né quelli odierni, abbiano fatto piena luce sulle collusioni politico-mafiose nei vari gangli dello Stato. A fare rabbrividire sono le affermazioni dello studioso siciliano sullo “strappo alla giustizia”, e su come esso “si allarghi tanto da ridurre a brandelli tutto il senso morale di un popolo civile”. Scritto ieri, più che valido adesso, per l’appunto. Anzi: sempre più attuale. Con ogni probabilità gran parte dei componenti della classe politica italiana, quella di ora, non ha mai sentito parlare di Gaetano Mosca; e infatti se ne vedono gli effetti. Un testo, Che cosa è la mafia, nella nuova edizione Aragno o in quella Laterza, che invece dovrebbe essere letto dai politici per lo meno di buona volontà, ma soprattutto adottato nelle scuole (in fondo sono solo 58 pagine!) come libro di una possibile educazione civica.

 

Per Roma, era quasi meglio la Mafia

Dopo la sentenza della sesta sezione penale della Corte di Cassazione esultano i giornali romani e quelli più legati al mondo romano, un po’ meno i quotidiani del nord, compresi i notoriamente “ultragarantisti” Il Giornale e Libero che non danno alla notizia un rilievo particolare. Il Tempo: “Mafia Capitale non è mai esistita”. Il Messaggero: “Non era mafia Capitale”. Il Foglio: “Mafia Capitale era una fiction”. Sul Messaggero Mario Ajello, figlio di Nello Ajello (nel giornalismo italiano quasi nessuno è figlio di nessuno) si lancia in una intemerata contro la sentenza della Corte d’appello, riformata ora dalla Cassazione, che aveva definito Roma come una città potentemente infiltrata da associazioni mafiose che usavano metodi mafiosi. E scrive: “Era una fake news (la sentenza della Corte d’appello, ndr). Ma quanti danni ha creato, quanta vergogna ha prodotto, come è riuscita ad annichilire la coscienza personale e pubblica dei romani, e ad abbattere l’immagine di capitale d’Italia e di caput mundi, l’etichetta di Mafia Capitale. Mai brand ha distrutto di più, agli occhi di tutti, la reputazione di una città… Mafia Capitale ha segnato la brusca interruzione del plurimillenario rispetto che il mondo portava a questa città, non solo per il suo passato ma anche per il resto della sua storia”.

E allora che cos’era questa Mafia Capitale che non era mafia? Ce lo spiega, in tutta innocenza e con un certo candore, Il Foglio, un giornale che con un trucco, come ha ammesso Giuliano Ferrara che ne fu lo storico direttore, è in parte pagato dai contribuenti, cioè da noi: “Non era mafia, dunque, ma una semplice associazione a delinquere (‘corruzione come ovunque’ secondo Il Tempo, ndr) quella che dal 2011 al 2 dicembre 2014, data in cui deflagrò l’inchiesta con decine di arresti e rilevanza mediatica in tutto il mondo, avrebbe operato nella Capitale accaparrandosi appalti per la manutenzione urbana (come punti verdi e piste ciclabili) e per il sociale (gestione dei migranti) coinvolgendo anche i vertici di Ama, la municipalizzata dei rifiuti”… In quanto a Salvatore Buzzi era “un imprenditore a capo di una compagine di cooperative sociali che offriva lavoro a ex detenuti, con la complicità di politici e funzionari pubblici”.

Il tutto condito con “intimidazioni e minacce”, cioè quella “riserva di violenza” riconosciuta in primo grado che il verdetto della Cassazione non ha smentito. Insomma bazzecole, cose di tutti i giorni da non meritare che si spacchi il capello in quattro.

Io dico che sarebbe stato meglio se in Roma fosse stata accertata la presenza di una mafia propriamente detta. Perché la mafia ha una struttura, un’organizzazione, una gerarchia, per cui si può pensare di poterla smantellare, almeno in linea teorica, risalendo dai “picciotti” ai sottocapi e ai capi. La corruzione capillare, il cosiddetto “mondo di mezzo” è invece “liquido”, come si dice oggi, non è individuabile se non caso per caso e può coinvolgere tutti, anche persone all’apparenza insospettabili. A differenza della mafia propriamente detta ti sguscia fra le dita, come acqua infetta, senza poter nemmeno sapere che ti ha sporcato.

In quanto alla reputazione di Roma tanto decantata da Mario Ajello è patetica. Quando i piemontesi nel 1865 spostarono la capitale da Torino, troppo decentrata, decisero per Firenze tanto Roma era malfamata. Roma è splendida, ma è una città clientelare e corrotta dai tempi dell’Impero Romano. Come una cozza ha assorbito il peggio del Sud, trasportandolo poi al Nord, in particolare a Milano la fu “capitale morale”.

Nel 1980 feci per Il Settimanale un’inchiesta intitolata “Via da Roma la capitale”. Roma infatti col progressivo accentramento di tutti i poteri, dai ministeri alla Rai alla stessa economia (gli imprenditori del nord dovevano fare code defaticanti davanti a sottosegretari e segretari, non dico ai loro ministri, irraggiungibili, per cercare di risolvere qualche loro problema) aveva finito per assorbire, nel modo peggiore, le energie positive del nostro Paese che allora non mancavano.

Ma molto prima di me, nel 1955, L’Espresso per l’illustre firma di Manlio Cancogni aveva dedicato pressoché l’intero settimanale a un’inchiesta intitolata “Capitale corrotta, nazione infetta”. Da allora nulla è cambiato, se non in peggio. Perché il cosiddetto “mondo di mezzo” è molto più inafferrabile della mafia. Io ribadisco quindi: meglio la mafia.

Mail box

 

L’infiltrazione di Buzzi non è semplice corruzione

La “Mafia Capitale” dei Buzzi e Carminati non è mafia. Lo ha stabilito la Cassazione. Ma qual è la differenza che qualifica un criminale semplice da un mafioso? La letteratura giuridica pone l’accento sulla trasformazione profonda – antropologica – del contesto sociale, che traspare da paura diffusa, omertà, fino alla sottomissione volontaria.

Questo quadro a Roma non si riscontra, dicono i giudici. Ma perché questa non è mafia o perché nella Capitale si è modificata per conformarsi al potere? Io credo alla seconda ipotesi: l’infiltrazione di Buzzi e Carminati nelle istituzioni non può essere spiegata come semplice corruzione.

E la prova si ha guardando al marcio che periodicamente affiora dagli scandali nell’Amministrazione capitolina, dal quale si capisce che la “dottrina” di questi criminali, saldandosi con la peggiore partitocrazia, ha generato una profonda decadenza etica e funzionale assoggettata al malaffare, in gran parte della macchina comunale. Se questa non è mafia, le somiglia molto.

Massimo Marnetto

 

Autonomie, denunciamo le contraddizioni della Lega

Credo che l’unità d’Italia sia in pericolo. Infatti il progetto leghista dell’autonomia differenziata punta decisamente a spaccare l’Italia in due: il Nord Italia, dalle Alpi fino al Po, e il resto d’Italia, abbandonato al suo destino.

Salvini vuole ricreare il Lombardo-Veneto, allargato a Piemonte, Liguria ed Emilia-Romagna, questa volta come protettorato della Germania, non più dell’Impero Austroungarico come avvenne nell’800. La polemica costante di Salvini contro Berlino serve solo a mascherare questo progetto folle.

Che fare? Dobbiamo denunciare la contraddizione della Lega, che si espande proprio nelle regioni italiane del Centro-Sud.

Fabio Tomei

 

Chi può sentirsi offeso dalle manette in prima pagina?

Perché indignarsi per delle manette messe in prima pagina, chiaramente dedicate a dei malfattori? Chi, partendo da un banalissimo presupposto di onestà intellettuale, dovrebbe mai sentirsi offeso? Quale parametro di coerenza culturale esiste, nello stesso tempo, nel lasciar scivolare nell’indifferenza la spregevole aberrazione qual è stata la commistione Stato-mafia?

Forse abbiamo smarrito principi e valori, propri di un popolo civile.

Forse, nemmeno ci rendiamo conto di aver sconfinato una dimensione perversa, una curvatura distorta del vivere comune. Perché sembra che in larga parte della classe politica, nell’imprenditoria, all’interno degli apparati dirigenziali, nella cultura giuridica, nell’informazione e finanche nei comuni cittadini la normale percezione di illegalità è andata persa.

Una generalizzata assuefazione da malaffare, una sub cultura priva del senso di collettività inteso come bene comune, che crea un insieme sociale di individualismi, furbizie e abietto opportunismo.

Prova ne sono i molti colletti bianchi che esercitano o accettano comportamenti penalmente perseguibili, come normale pratica consolidata, considerandola del tutto veniale.

Piercamillo Davigo ha ragione da vendere quando dice che i candidi colletti non hanno smesso di rubare… ma solo di vergognarsi.

Una bruttissima deriva. Una delle peggiori che un Paese civile possa conoscere.

Anna Lanciotti

 

La guerra in Siria e il sogno svanito delle Nazioni Unite

Si dice che i sogni muoiono all’alba. In quale lontana alba è morto il sogno di un Organizzazione delle Nazioni Unite capace di mantenere la pace e la sicurezza internazionale?

In Siria l’escalation di una guerra infinita minaccia la vita di donne e bambini, di una popolazione già martoriata da quasi dieci anni di conflitto, tanti quanto quelli della mitica guerra di Troia, che al confronto con i mezzi di oggi ha il sapore di una guerra da operetta.

Non vogliamo restare a guardare, eppure non possiamo fare altro per fermare questa “inutile strage”.

Ezio Pelino

 

Poche misure per salvare le sorti delle edicole italiane

A proposito della crisi delle edicole e dell’appello segnalato da Simone Perboni a cui ha risposto Salvatore Cannavò, avrei dei semplici suggerimenti che potrebbero servire a migliorare la situazione di crisi attuale: gli editori potrebbero incentivare i cosiddetti “abbonamenti in edicola”, cioè veicolare la consegna attraverso le edicole invece che la posta, di quotidiani, settimanali e raccolte varie, introdurre contenuti extra solo nelle edizioni cartacee in modo da invogliare a non limitarsi al web per l’accesso all’informazione. Lo Stato, invece di sovvenzionare “a pioggia” (così è facile che si registrino frodi) dovrebbe alleggerire il carico di tasse e balzelli (ad esempio: occupazione di suolo pubblico) e diminuire il carico contributivo.

Queste misure forse non risolverebbero totalmente la crisi, ma darebbero una mano notevole. Poi, naturalmente, servirebbe che gli italiani tornassero a leggere di più, ma questo purtroppo è un discorso un po’ più complesso.

Mauro Chiostri

Lotta all’evasione. I buoni risultati anche grazie alle procedure telematiche

Fino a poco tempo fa, l’Agenzia delle Entrate inviava al contribuente un plico raccomandato con gli importi da pagare. In caso di mancata ricezione si poteva ritirare la raccomandata con tutte le informazioni relative al proprio debito. Oggi, dopo aver speso milioni di euro per l’informatica, ti arriva sempre una raccomandata con le istruzioni per ricavare quello che tempo addietro ti avrebbero notificato come hanno notificato oggi le istruzioni. Riporto l’indicazione: “È possibile visualizzare le notizie di avvenuto deposito degli atti oggetto di notifica. (…) Le notizie di avvenuto deposito sono visibili per un periodo di 15 giorni e possono essere recuperate cliccando sul link (…) È possibile scaricare gli atti notificati se in possesso di credenziali Spid o della carta Cns”. E non è finita. “Una volta scaricati gli atti possono essere consultati con la password che può essere recuperata cliccando sul link ‘visualizza il pin’ all’interno dell’area riservata. Per ottenere un’identità digitale Spid occorre fare richiesta ai gestori accreditati da Agid”. E non è ancora finita. “Per ottenere le credenziali vai sul sito www.spid.gov.it. Per informazioni clicca su www.agid.gov.it.”. Con queste procedure “demenziali” che sostituiscono la cara “vecchia raccomandata” si vorrebbero recuperare 7 miliardi di evasione fiscale…
Francesco Degni

 

Gentile Degni, mi sento di dissentire sulla sua riflessione: le transazioni elettroniche rappresentano un buon deterrente all’evasione. Sul fronte delle entrate il governo si aspetta 7 miliardi dal recupero dell’evasione introducendo provvedimenti giusti come multare chi non permette di pagare con bancomat o carta di credito, la lotteria degli scontrini o l’abbassamento del limite all’uso del contante. Le procedure, che lei considera “demenziali”, sono in atto già da tempo: si tratta del ricorso alla telematica utilizzata dall’Agenzia delle Entrate nell’ottica della semplificazione. Dal 2017 i contribuenti che ricevono la raccomandata a casa possono, infatti, continuare a pagare la cartella esattoriale in banca o alla posta, ma anche online come si fa per lo shopping attraverso una procedura che certamente risulta articolata e complicata. È innegabile che lo Spid, che permette di accedere a tutti i servizi online delle pubbliche amministrazioni, sia ancora ostico. Il potenziamento dei servizi telematici si è reso necessario a causa degli enormi volumi di cartelle elaborate con l’adesione alle varie versioni della rottamazione. Se le cartelle non venissero più inviate a casa, si risparmierebbe pure sui costi di notifica.
Patrizia De Rubertis

Il senso di Libero per le latrine

Bisogna fare qualcosa per gli amici di Libero. Consultare un gastroenterologo, acquistare ingenti scorte di enterogermina, chiedere consigli a un dietologo o comunque valutare seriamente l’ipotesi di cambiare alimentazione. Libero – questo è il fatto – sembra avere un serio problema con la puzza, con le deiezioni. Lo diciamo volgarmente: con la merda. Il giornale di ieri ne è una sapida testimonianza. Titolo grande in prima pagina: “Dal letame nascono le tasse”. Occhiello: “Più che un governo pare una latrina”. E ancora, sempre in prima: “La Raggi regina della monnezza”, “Tenete i rifiuti in casa”, “Terroni, basta fango su Milano”, “Il water d’oro prima stupisce e poi stanca” (qui ce l’hanno con Maurizio Cattelan), “Un cesso di governo”.

È in qualche modo una pagina indimenticabile di giornalismo: tutto un suggestivo inseguirsi di cattivi odori, pattume, tavolette non alzate, emissioni indesiderate. Siamo solidali con Vittorio Feltri: quando ci si inoltra nella terza età a determinati problemi si diventa particolarmente sensibili. Direttore, non si arrabbi. Per evitare certe sgradevoli ossessioni, basta un attimo di riflessione in più prima di ordinare la messa in stampa. Altrimenti, può provare con un deodorante per ambienti: magari funziona.

Sandrò Gozì resti transnazionale

Quel dommage!Che peccato! Sandrò Gozì ieri s’è dimesso dalla sua “missione presso il primo ministro della Francia per evitare qualsiasi strumentalizzazione politica, vista anche l’attuale situazione europea”. Gozì, il cui nome domina e decide gli equilibri politici del Vecchio continente, ha dunque scelto con eleganza – di più: con “responsabilità” – di farsi da parte per evitare che le istituzioni francesi ed europee finissero gambe all’aria per colpa sua (“vista l’attuale situazione europea”, d’altronde, ha fatto bene). “E che è successo?”, si chiederà il lettore. Ma niente: è che Sandrò Gozì, già sottosegretariò en Italie, prima di andare a lavorare per il governo francese s’era fatto un giretto (“come consulente tecnico esterno”) pure con quello maltese. Si sa come sono gelosi questi parigini, peggio dei siciliani: ahi voglia le pauvre Sandrò a dire che la sua consulenza in quella casa di vetro che è Malta “era priva di ogni potenziale incompatibilità” col lavoro a Palazzo Matignon, quelli niente, i soliti sciovinisti. Fortuna che Gozì non è uno che s’abbatte facilmente: “Rimango determinato nella mia ambizione transnazionale”, ha fatto sapere ieri. Ecco, resti transnazionale, non facciamo che ce lo ritroviamo di nuovo in qualche sgabuzzino di sottogoverno in Italia: il mondo non può farcela sans Sandro, ça va sans dire.

Tav, il sindaco di Venaus scrive a Conte: “Cosa è cambiato?”

“Il progetto prosegue, non ci sono spazi per metterlo in discussione”: le parole sul Tav del premier Conte, martedì a Torino, sono arrivate a margine di un incontro con la sindaca Appendino. Valutazione che conferma la linea definita da mesi, ma di fronte alla quale il sindaco di Venaus (sede del cantiere), Avernino Di Croce, ha deciso di non arrendersi. Così ieri ha indirizzato a Conte una lettera in cui parla di “stupore che nasce dal confronto con l’attività di Alta Amministrazione da Lei svolta nei confronti della Telt, l’impresa francese promotrice dell’opera”. Di Croce ricorda che a marzo Conte era stato “molto preciso e responsabile”, indicando che l’interesse pubblico “non fosse affatto scontato” e “diffidava la Telt ad astenersi” da ogni azione che producesse “vincoli giuridici di sorta”. Conclusione a cui era arrivato dopo aver letto l’analisi costi-benefici. “Non essendo intervenuto alcun nuovo fatto giuridico-istituzionale o ulteriore studio – chiede il sindaco – (…) e atteso che la Commissione europea mai ha aumentato il contributo per l’opera, quali eventi l’hanno costretta a tale inversione di opinione nella gestione della cosa pubblica? Quali sono i fattori giuridici, amministrativi e contabili che sostanziano la dichiarazione secondo cui, al netto della violenza ambientale, ‘ormai l’opera costerebbe più non farla che farla’”?

Eni-Nigeria, primi documenti dall’hard disk del mediatore

Eni l’ha ribadito più volte, anche con comunicati ufficiali: “Le negoziazioni con gli advisor finanziari di Malabu non hanno avuto buon fine e si sono interrotte nel novembre 2010”.

Erano le trattative per acquistare i diritti d’esplorazione di Opl 245, il gigantesco giacimento petrolifero al largo delle coste nigeriane, avviate con la società Malabu attraverso la mediazione dell’“advisor finanziario” Evp di Emeka Obi.

Ora Eni e i suoi dirigenti (tra cui l’amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni) sono a processo a Milano per corruzione internazionale, con l’accusa di aver pagato una mega-tangente di 1,092 miliardi di dollari. Ma davvero “le negoziazioni si sono interrotte nel novembre 2010”? No, a guardare i nuovi documenti arrivati da Ginevra dopo una faticosa rogatoria della Procura di Milano: Emeka Obi continua nei mesi seguenti a incontrare gli uomini ai vertici dell’Eni (Claudio Descalzi e Roberto Casula) a Milano, a Parigi, a Londra e anche nella capitale della Nigeria, Abuja.

Perché i manager della compagnia petrolifera italiana hanno continuato a incontrare Obi almeno fino al febbraio 2011? Che motivo avevano di parlare con lui, anche dopo che avevano raggiunto un accordo diretto con il governo nigeriano? Per quale motivo incontrarlo ripetutamente, se davvero Obi era solo il mediatore della società Malabu, che ormai era stata esclusa dalla trattativa? Sono le prime domande suggerite dalla valigetta di documenti più contesa della Svizzera, arrivata a Milano, al procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, dopo tre anni di braccio di ferro e sei pronunce delle autorità giudiziarie elvetiche. Il trolley era stato sequestrato a un fiduciario svizzero nell’aprile 2016 dai magistrati di Ginevra che stavano indagando su un’altra vicenda.

Conteneva documenti, un hard drive con 41 mila file elettronici, chiavette usb e passaporti britannici e africani. Il tutto apparteneva a Emeka Obi, che con la sua Evp (Energy Venture Partners) – e con l’intervento di mediatori italiani come Luigi Bisignani e Gianluca Di Nardo – aveva tentato di vendere a Eni la licenza di Opl 245 per conto di Malabu, società riconducibile all’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete, il quale se l’era fatta concedere dal governo per una cifra bassissima. La trattativa dura fino all’ottobre 2010, quando lo schema cambia e l’operazione, prima apertamente indecente, diventa safe sex fatto “con il condom”, scrive l’Economist già nel 2012: Eni paga 1,092 miliardi di dollari non a Malabu e a Etete, bensì versandoli su un escrow account di Jp Morgan a Londra su cui opera il governo della Nigeria, che poi provvede a distribuirli ai conti nigeriani di Malabu per farli arrivare – secondo l’ipotesi d’accusa – a Dan Etete, al presidente della Repubblica Goodluck Jonathan, ad altri politici e mediatori nigeriani e forse anche italiani. Per questo affare, Obi è già stato condannato per concorso in corruzione internazionale, in primo grado con rito abbreviato, a 4 anni di carcere. Ora le sue carte segrete arrivate da Ginevra aggiungono elementi agli argomenti dell’accusa. Tra queste, c’è una lunga e meticolosa cronologia su foglio elettronico. Rivela che ha continuato a seguire l’affare almeno fino al febbraio 2011.

Domenica 31 ottobre 2010, Obi incontra Etete a Parigi, all’Hotel Bristol. Lunedì 1 novembre, ai due si unisce anche l’ex diplomatico russo Ednan Agaev, che faceva da mediatore per Shell, partner di Eni nell’affare Opl 245 (e sua coimputata nel processo di Milano). Giovedì 4 novembre, Obi incontra direttamente Descalzi, nel quartier generale di Eni a Milano. Il 16 e il 17 novembre, Obi incontra Descalzi a Milano in maniera più riservata, ai grandi magazzini Coin. La cronologia aggiunge, tra parentesi: “drinks”. Sempre al Coin di Milano, il 30 novembre avviene un incontro con Descalzi e Casula (“drinks”). Lo stesso giorno, il meeting si sposta all’Hotel Four Seasons di Milano, con la partecipazione di Etete, Casula e Agaev. Il 1 e il 2 dicembre, sempre al Four Seasons, s’incontrano Etete e Agaev.

Venerdì 10 dicembre è Casula a incontrare Obi, a Milano, per un pranzo (“lunch”) alla Scala. Poi, il 13 gennaio 2011, Casula incontra Obi in Nigeria, ad Abuja. Il 17 gennaio il meeting è nell’ufficio dell’Attorney general nigeriano, Mohammed Bello Adoke. Il 31 gennaio Casula incontra Obi nel quartier generale della Nae (Nigerian Agip Exploration), la consociata nigeriana di Eni. Il 2 febbraio, Obi incontra Descalzi a Londra, in hotel, e domenica 14 febbraio vede Descalzi, Casula e il manager Eni in Nigeria Vincenzo Armanna all’Hilton Hotel di Abuja.

Se questi documenti entreranno nel processo di Milano sulla presunta corruzione internazionale in Nigeria, Eni e Descalzi dovranno spiegare perché hanno continuato a negoziare con Obi e quali erano i contenuti di questa trattativa fuori tempo massimo, visto che ormai l’affare Opl era stato concluso – almeno formalmente – direttamente con il governo nigeriano. Per chi lavorava Obi? Secondo Eni rappresentava la Malabu di Etete. Secondo Armanna, era invece uomo di Scaroni e Descalzi, platealmente cacciato da Etete che non lo riconosceva come mediatore. Saranno i giudici a decidere.

Bio On, il bluff da 1 miliardo finisce con l’arresto dei vertici

Finisce con la Procura di Bologna che arresta il fondatore, Marco Astorri, la storia della start up italiana che valeva un miliardo di euro in Borsa: Bio On, la società bolognese che doveva rivoluzionare il mondo con le bioplastiche e che invece, ora lo dicono anche i pm, si reggeva su bilanci finti. Astorri è stato arrestato ieri, per il co-fondatore Guido (detto Guy) Cicognani e il presidente del collegio sindacale Gianfranco Capodaglio, ci sono interdittiva e divieto di esercitare ruoli direttivi. I reati contestati sono falso in bilancio e manipolazione del mercato. Il titolo è stato sospeso in Borsa e sono scattati sequestri per 150 milioni.

Il caso Bio On scoppia a luglio: il fondo speculativo americano Quintessential, guidato da Gabriele Grego, è specializzato nello scovare frodi aziendali e poi scommettere sul crollo del titolo. Prepara un report intitolato Una Parmalat a Bologna? che il Fatto Quotidiano rilancia per primo in un articolo, dopo averne verificato i contenuti. I bilanci di Bio On raccontano una storia molto diversa da quella che Astorri ha veicolato per anni ai giornali: nessun brevetto miracoloso, ma solo una ragnatela di ricavi fittizi in cui Bio On vende licenze per tecnologie dubbie a joint venture di cui è la principale azionista, soldi veri non ne entrano in cassa, ma i ricavi si gonfiano e così il valore in Borsa. Dopo il report e gli articoli, il titolo crolla. Astorri si spertica su giornali e tv per difendere la solidità del suo impero, pensava di poter imbrogliare tutti ancora una volta perché “visto che siamo nel settore tecnologico, siamo bellissimi e fichissimi”, come dice in una conversazione intercettata. Ma il 1º ottobre Bio On presenta conti semestrali con una perdita da 10 milioni e si capisce che le critiche di Quintessential erano piu che fondate. In una telefonata del 9 agosto, il consigliere di amministrazione Gianni Lorenzoni commenta le accuse a Bio On con il presidente del collegio sindacale Capodaglio e ammette che “tutte le entrate delle joint venture sono fittizie”.

Grazie al lavoro della Guardia di Finanza, la Procura di Bologna completa il quadro che emergeva dai bilanci. Bio On vendeva licenze per fantomatiche bioplastiche di fatto a se stessa così da far risultare ricavi inesistenti, come se la joint venture (società create da Bio On stessa con un partner terzo) fosse stata un vero cliente. Lo scopo, scrive il pm, era dimostrare “diversamente dalla realtà, la strabiliante capacità dell’azienda di generare reddito”. Queste joint venture, scrive sempre il pm, sono scatole vuote, “non essendo dotate di mezzi finanziari e organizzativi per poter impiegare nella produzione industriale l’oggetto della licenza, non è dato comprendere come avrebbero potuto acquisire le licenze e corrisponderne il prezzo a Bio On”. In due joint venture era azionista anche Banca Finnat, l’istituto della famiglia Nattino legato a tante vicende finanziarie romane e vaticane, che era anche l’unico a produrre report sul titolo, raccomandandone l’acquisto agli investitori. Senza dichiarare il conflitto di interessi.

In altri casi, Astorri e Bio On si limitavano ad annunciare al mercato operazioni inesistenti, come l’accordo del 2015 di una grande operazione con la società Seci del gruppo Maccaferri, che infatti nei suoi bilanci non ha mai contabilizzato nulla. Perché l’operazione non esiste. Così come non esiste la misteriosa e mai nominata “multinazionale” che nel 2016, dicevano i comunicati di Bio On, aveva comprato licenze per 55 milioni di euro. Anche l’impianto di produzione di Castel San Pietro Terme era un bluff, come denunciato dal fondo Quintessential e come negato con forza da Astorri e da un esercito di account Twitter a difesa dell’azienda. Dal 2014 Astorri promette una produzione di mille tonnellate all’anno di PhA, la bioplastica miracolosa, ma non il pm scrive che è ancora in fase “acerba”. Un consigliere di amministrazione, Vittorio Folla, definisce in un’intercettazione quelle di Astorri “teorie comunicative e scollegate dalla realtà”. Nelle carte della Procura si legge che Alberto Rosa, revisore di Ernst & Young, ha contestato ad Astorri che al massimo l’impianto può produrre 5 tonnellate al mese, che fanno 60 all’anno.

Molti risparmiatori e casse di previdenza che avevano comprato il titolo Bio On hanno perso ormai tutto il loro investimento, crollato come le bugie sui conti della azienda. Difficile che possano recuperare qualcosa. Ma i due fondatori, Astorri e Cicognani, hanno incassato almeno 35 milioni. La Procura ricostruisce le vendite di warrant, strumenti finanziari che in pratica hanno permesso alla holding Capsa di Astorri e Cicognani di vendere al mercato parte delle azioni che detenevano dopo la quotazione in Borsa del 2014. Iniziano a vendere nel 2015, quando il titolo corre spinto da annunci fittizi, dichiarano alla Consob – la Commissione di vigilanza sulla Borsa – di aver venduto 51 mila warrant. Ma il pm dice che è un “numero falso”, perché le operazioni hanno riguardato 378.440 warrant. Astorri, in una intercettazione, dice che quei soldi li ha destinati alla costruzione dell’impianto di Castel San Pietro Terme, cosa che dai bilanci non risulta, ma su questo gli investigatori stanno ancora lavorando.

Dopo aver imbrogliato tutti per anni, anche dopo l’uscita del report e degli articoli, a luglio Astorri ancora si chiedeva come illudere il mercato, voleva trovare il modo di annunciare “un conto economico dignitoso” e un Ebitda (margine operativo) di 20 milioni “per giustificare 300 milioni di capitalizzazione”, diceva al telefono. Ma la realtà, alla fine, prevale e Bio On ha dovuto comunicare una perdita da 10 milioni.

Quel grande affabulatore di Astorri, uno che voleva mettere microchip in tutti gli abiti Benetton e che raccontava ai giornali di aver scoperto la bioplastica del futuro su Google, ha già la giustificazione pronta. In una conversazione col revisore dei conti Rosa, il 29 settembre, spiega che “non è solo colpa nostra, è colpa del sistema che ci ha indotto a fare queste comunicazioni”.

La guerra dei borghi: la Sicilia contro Daverio

Agrigento

Si è trasformata in una sfida Nord-Sud e – politicamente – in una tenzone Fratelli d’Italia-Italia Viva, l’edizione di “Borgo dei Borghi 2020” del paesino di Bobbio, comune in provincia di Piacenza. A Palazzolo Acreide, il borgo siracusano arrivato secondo, però, non tutti, dopo la lunga maratona televisiva su Rai3 seguita dalla piazza gremita, hanno preso bene la sconfitta, “bucando” la possibilità di far vincere il titolo – per la quinta volta in sei anni – a un pezzo di Sicilia.

Nel mirino è finito Philippe Daverio, presidente della giuria, critico d’arte, docente, personaggio televisivo e politico nonché, negli ultimi tempi, volto di Striscia la notizia. Secondo Salvatore Gallo, sindaco di Palazzolo, il presidente della giuria si trovava in un grande conflitto di interesse. Daverio infatti, lo scorso anno ha ricevuto la cittadinanza onoraria proprio di Bobbio per la “visibilità e valorizzazione data alla città attraverso testate giornalistiche e reti televisive” e quindi – secondo i cittadini di Palazzolo – non sarebbe del tutto imparziale nella decisione.

Il “misfatto” si è consumato in televisione dopo le decisioni della giuria popolare che ha premiato la cittadina siciliana: 42% per Palazzolo Acreide contro il 27% di Bobbio. Quel voto poteva essere ribaltato solamente dalla giuria e così è stato: i tre giurati hanno votato all’unanimità Bobbio, rendendo così nullo quanto scelto dal pubblico.

La rabbia nel centro barocco di Siracusa è esplosa il giorno successivo, alla scoperta della cittadinanza donata a Philippe Daverio, il quale non ha mai nascosto le sue simpatie per Bobbio, tanto da chiedere un anno fa che questa divenisse la terza capitale d’Europa, dopo Strasburgo e Bruxelles. Lo scontro si è spostato poi sul piano politico con il deputato di Italia Viva, Michele Anzaldi, che ha scritto un’interrogazione alla Vigilanza Rai per chiarimenti, dopo aver un acceso post su Facebook in cui scrive “chi ha sbagliato deve pagare”. Il deputato ex dem chiede nel documento da chi sia stata selezionata la giuria e secondo quali criteri, chiedendo trasparenza. Anzaldi, parlando di un danno di immagine al servizio pubblico, chiede poi la testa di chi doveva controllare e non lo ha fatto su potenziali conflitti di interesse, domandando alla commissione di vigilanza “Se la Rai fosse a conoscenza dell’evidente conflitto di interessi di Daverio, chiamato a dare il voto decisivo nella selezione finale pur essendo direttamente coinvolto con uno dei borghi in gara” e “se la Rai sia a conoscenza di eventuali rapporti economici di Daverio con istituzioni ed enti del territorio di Bobbio”.

Anche il sindaco Salvatore Gallo ha chiesto di essere ascoltato in Vigilanza Rai, per esprimere tutti i suoi dubbi sulla giuria e sul voto. Al primo cittadino ha fatto eco anche l’assessore al Turismo della Regione Sicilia Manlio Messina che parla di un “grande papocchio” da parte della Rai che ha commesso un “imbarazzante errore”.

La risposta politica non tarda ad arrivare e da un capo all’altro della Penisola, a difendere a spada tratta è il parlamentare piacentino di Fratelli d’Italia Tommaso Foti, che parla di “invidia” da parte “degli esponenti politici di altri borghi, sicuramente a loro volta magnifici, ai quali tuttavia una giuria di esperti non ha ritenuto di assegnare la vittoria. Tentare di gettare ombra sui successi altrui – continua Foti – qualifica già di per sé chi si avventura nel tentativo”.