“Quelli dei corsi sapevano soltanto chiederci soldi”

Al funerale di Francesco Tripaldi tutti dicevano “quel maledetto corso”. Aveva 41 anni e viveva con la madre in un piccolo paesino dell’alto Ionio cosentino. Era disoccupato e voleva sposarsi a breve. Aveva deciso perciò di frequentare la scuola professionale “Sud Europa” di Altomonte, in provincia di Cosenza. Nei suoi sogni c’era un posto di lavoro come operatore socio-sanitario che richiede attestato. Per averlo aveva sborsato 2.000 euro, ma quando si è accorto che quel pezzo di carta non valeva nulla e di essere stato raggirato, si è tolto la vita.

“Seppur non inquadrabile” come un’induzione al suicidio, secondo il gip di Castrovillari, la morte di Francesco è emblematica “del forte disvalore sociale delle condotte illecite contestate agli indagati” arrestati ieri dai carabinieri del Nas tra la Campania e la Calabria.

In carcere sono finiti il presidente della scuola “Sud Europa” Edoardo Scavelli e il direttore Saverio Epifanio. Ma anche due procacciatori di allievi, Domenico Pucci e Antonio Vincenzo Cuccaro, e due dipendenti dell’Asp di Cosenza, Alfonso Anna Sacco ed Enrico Novissimo, titolari delle scuole di formazione “Sadra” e “Check Up” che fornivano le loro società, accreditate presso la regione Campania, per lo svolgimento dei corsi e il rilascio dei falsi attestati.

Associazione a delinquere finalizzata alla truffa e al falso sono le accuse mosse dal procuratore di Castrovillari, Eugenio Facciolla, nell’inchiesta che ha messo nudo il dramma dei disoccupati in una regione come la Calabria. Per i carabinieri del Nas, tra il 2015 e il 2017, la truffa ha fruttato agli arrestati circa 570mila euro per oltre 30 corsi di operatore socio sanitario.

In realtà si trattava di una o due lezioni, alcune delle quali si tenevano all’ospedale Chidichimo di Trebisacce. Uno specchietto per le allodole che, per il procuratore Facciolla, serviva “solo per dare parvenza di ufficialità alla truffa”.

I pm hanno sequestrato anche 246 titoli di studio di oss che, stando all’indagine, sono falsi. Uno di questi doveva essere quello di Francesco Tripaldi che, probabilmente, si è visto crollare il mondo addosso dopo l’ennesima delusione lavorativa.

È stata più fortunata, invece, Clelia Gatto, 33 anni e residente a Canna, nel cosentino. I sei indagati arrestati ieri mattina dai carabinieri li conosce bene. Per un anno ha frequentato il corso alla “Sud Europa” e, dopo essersi accorta della truffa, li ha denunciati: “Mi dicevano che appena pagavo sarei stata una delle prime a fare il tirocinio e l’esame per diventare operatore socio sanitario. In realtà questi signori passavano i giorni a prenderci per il culo. Non facevano nemmeno lezione. C’era una persona che si metteva lì a leggere un libro, oppure un infermiere che ci raccontava la sua esperienza in ospedale e basta. Mi stava bene frequentare un anno, ma volevo essere preparata non presa in giro”.

Tutto ruotava intorno ai soldi. Clelia l’aveva capito: “Le continue richieste di denaro erano diventate come una tangente, un obbligo. Hanno fatto schifo. Ho comprato la divisa, i libri e ho pagato anche le fotocopie perché non davano nemmeno quelle. Mi dicevano che tra poco mi chiamavano a ‘Villa Azzurra’ per il tirocinio, ma sono andata e lì non ne sapevano nulla. Io ho perso un anno di benzina tra Trebisacce e Canna, ma soprattutto un anno di concorsi a cui avrei potuto partecipare”.

Ad aprirle gli occhi è stato il fatto che un’altra tirocinante è stata costretta a versare 2 mila euro e, subito dopo, le è arrivata la chiamata per sostenere l’esame: “A quel punto mi sono rifiutata di proseguire e loro mi hanno minacciato di non restituirmi i soldi. Ho dovuto mettere un legale per averli. È stata una bruttissima esperienza perché non si prendono in giro le persone. Mia madre non lavora e si è indebitata per me facendo sacrifici. Non si scherza con la vita delle persone”.

Spazzacorrotti, anche i politici in carcere

Gli effetti della Spazzacorrotti si abbattono sul “Mondo di mezzo”. O meglio su nove degli imputati che, dopo la sentenza della Cassazione di due giorni fa, sono finiti in carcere per scontare pene residue. C’è l’ex presidente del Municipio di Ostia, Andrea Tassone, l’ex presidente Pd dell’assemblea capitolina Mirko Coratti e anche l’ex consigliere comunale del Pdl Giordano Tredicine. Tutti si sono costituiti due notti fa. È il risultato dell’applicazione della Legge “Spazzacorrotti”, approvata il 31 gennaio scorso che introduce “misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”. Così il passaggio in giudicato della sentenza ha dato immediata esecuzione alla pena detentiva, precludendo la possibilità di richiedere – da uomini liberi – misure alternative al carcere, come l’affidamento in prova ai servizi sociali o gli arresti domiciliari. Prima invece era possibile.

Alcune richieste dei legali sono già partite. “Stiamo avviando tutte le istanze finalizzate alla sospensione della pena”, ha spiegato Gianluca Tognozzi, avvocato di Tredicine. L’ex consigliere Pdl, accusato di corruzione per aver messo la propria funzione a disposizione di Salvatore Buzzi, è stato condannato in appello a 2 anni e sei mesi. Il suo ricorso in Cassazione è stato rigettato: la pena residua è di un anno e 9 mesi.

Tre anni e 11 mesi è invece la pena residua per Andrea Tassone, l’ex presidente del X Municipio di Roma condannato per un’ipotesi di corruzione. Si è costituito nel carcere di Rebibbia e ieri il suo legale, l’avvocato Antonio Ugo Palma – che nei prossimi giorni depositerà un’istanza di affidamento ai servizi sociali – ha chiesto una sospensione dell’ordine di esecuzione.

Stessa richiesta fatta dall’avvocato Filippo Dinacci per Mirko Coratti, il quale ha una pena residua di 3 anni e 7 mesi di reclusione da scontare. Anche a Coratti viene contestato un episodio di corruzione che gli è costato in appello una condanna a 4 anni e mezzo.

E poi ci sono altri sei tra ex amministratori locali e dirigenti pubblici accusati di corruzione per i quali sono state aperte le porte del carcere. Così nelle prossime ore i giudici dell’esecuzione si troveranno a dover analizzare non poche istanze.

Ieri molti legali hanno sollevato dubbi sull’applicazione della Spazzacorrotti soprattutto in vista dell’udienza fissata nei prossimi mesi davanti alla Corte Costituzionale: “Sicuramente – spiega il presidente dell’Unione delle Camere penali Giandomenico Caiazza – i difensori di alcuni degli imputati del processo ‘Mondo di mezzo’ finiti in carcere solleveranno incidente di esecuzione richiamando le questioni di costituzionalità in cui si ritiene che la norma della ‘Spazzacorrotti’ non possa essere retroattiva. In Corte Costituzionale ci sono già 14 ordinanze di rimessione: la gran parte riguarda proprio la retroattività delle norme. L’11 febbraio è già fissata l’udienza che raggruppa molte di queste 14 questioni”.

Così per nove degli imputati la sentenza di Cassazione ha avuto come conseguenza diretta il carcere. Per altri però sono arrivate anche le assoluzioni. È il caso di Giovanni De Carlo, difeso dall’avvocato Tognozzi: la condanna per favoreggiamento è stata annullata senza rinvio perchè “il fatto non sussiste”. Per Michele Nacamulli “è stata annullata non soltanto la aggravante mafiosa ma anche la sua condanna per corruzione, per non avere commesso il fatto”, sottolineano i suoi legali.

Carminati non è più mafioso e ora spera di tornare libero

Il processo “Mondo di Mezzo”, poi “Mafia Capitale” e poi di nuovo “Mondo di Mezzo” si appresta a giocare un quarto match: quello che si terrà in Corte d’appello alla quale la Cassazione due giorni fa ha chiesto di ricalcolare le pene per una serie di soggetti contro i quali è caduta la pesante accusa di far parte di un’associazione mafiosa sul territorio romano. E tra questi c’è Massimo Carminati, che ancora detenuto nel carcere di Sassari, può ben sperare di lasciare presto la cella. I tempi non sono immediati: bisognerà aspettare la decisione della Corte d’appello.

Di certo una conseguenza diretta della sentenza della Suprema corte c’è già: la revoca del 41-bis. L’ex Nar, condannato ora quindi per associazione a delinquere semplice, è l’unico del mega-processo sottoposto al carcere duro. Ma ancora per poco.

Poi la palla passerà alla sua difesa, rappresentata dall’avvocato Cesare Placanica, presidente della Camera penale di Roma. “Valuteremo se fare un’istanza di scarcerazione nell’attesa che la Corte d’appello di Roma ridetermini la pena”, ha commentato ieri Placanica. Per il legale, i giudici dovranno ricalcolare la pena inflitta a Carminati partendo da un’accusa di associazione a delinquere semplice, che viene punita con la reclusione da tre a sette anni. E l’ex Nar dal giorno dell’arresto (il 3 dicembre 2014) ha già trascorso quasi cinque anni in carcere. Certo, non è scontato che le pene verranno rideterminate così al ribasso. Spiega al Fatto Luca Tescaroli, uno dei pm titolari dell’indagine: “Non vi è alcun automatismo. Non si può stabilire a priori quale sarà l’esito. La valutazione è demandata al libero convincimento dei giudici d’Appello. Le future decisioni possono modularsi anche sull’entità delle pene di giudizio di primo grado, e quindi in teoria potrebbero aumentare. Come pure sulla sentenza di secondo grado quando invece c’è stato, nonostante il riconoscimento del 416-bis, una diminuzione delle pene”.

Non si può escludere un ennesimo colpo di scena in questo processo dall’iter giudiziario molto complesso. A cominciare dalla sentenza di primo grado, emessa nel luglio 2017, quando la X sezione del Tribunale di Roma smonta una prima volta l’impostazione della Procura guidata in quegli anni da Giuseppe Pignatone. I giudici, infatti, stabiliscono che non vi è alcuna mafia a Roma, bensì due associazioni a delinquere semplici: una costituita da Carminati dedita all’usura e all’estorsione, e quella di Buzzi, operante invece negli appalti pubblici, in cui partecipavano anche alcuni politici. Le pene inflitte in primo grado sono pesanti: 20 anni a Carminati, 19 a Buzzi.

Nel settembre 2018, questa sentenza viene ribaltata in Appello, dove i giudici riconoscono l’accusa di 416-bis: si torna dunque a parlare di associazione mafiosa. Le pene inflitte però sono minori: 14 anni e mezzo per Carminati, 18 anni e 4 mesi per Buzzi. Due giorni fa, un ulteriore colpo di scena, con la Cassazione che ritorna a non riconoscere l’accusa di mafia, assolve da alcune accuse Buzzi, Carminati e altri e riqualifica alcuni reati. È una sentenza definitiva. Ora bisognerà aspettare la decisione della Corte d’Appello sulle pene da infliggere. La partita non è chiusa.

Il pentito Riggio: “Un ex poliziotto posizionò l’esplosivo per Falcone”

La memoria ritrovata a distanza di dieci anni di un collaboratore nisseno, l’agente di polizia penitenziaria, Piero Riggio, riaccende tutti gli interrogativi sulle “presenze occulte” nel cantiere stragista di Capaci. Anche se i pm che hanno acquisito i suoi verbali nel processo di appello della strage, hanno accolto con perplessità quelle dichiarazioni, e hanno deciso di non chiamare Riggio a deporre in aula, il processo procederà dunque secondo il calendario stabilito. E il 29 ottobre, il procuratore generale pronuncerà la sua requisitoria.

Che cosa dice Riggio nei verbali acquisiti un anno fa, ma saltati fuori oggi? Che a Capaci c’era un misterioso ex poliziotto chiamato ’u turcu, che aiutò il commando a riempire il condotto sotto l’autostrada con l’esplosivo trascinato con gli skate board. Riggio dice di aver ricevuto le confidenze del turco nel carcere di Santa Maria Capua Vetere – rivela la Repubblica – nel quale entrambi sarebbero stati reclusi insieme fino al 2000, anno della sua scarcerazione.

In quel contesto, l’ex poliziotto gli avrebbe proposto anche di entrare in una rete riservata finalizzata alla cattura del super latitante Bernardo Provenzano, indicando le persone in contatto con lui e diventando di fatto un infiltrato. Le dichiarazioni di Riggio sono state al centro di una riunione della Direzione nazionale antimafia con le procure di Palermo, Caltanissetta, Reggio Calabria, Catania e Firenze il 15 ottobre in via Giulia nel corso della quale sono state valutate le dichiarazioni del collaboratore il cui esito è ancora top secret.

Lo stesso Riggio era stato ascoltato agli inizi del Duemila dal pubblico ministero Gabriele Chelazzi, ma in quel caso aveva preferito avvalersi della facoltà di non rispondere. Quando nel giugno scorso in via Giulia l’aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci e quello di Firenze Luca Turco, gli hanno chiesto perché abbia atteso tanto tempo per ritrovare la memoria, Riggio ha risposto di avere avuto timore a mettere a verbale certi argomenti, per paura di ritorsioni contro di lui e la sua famiglia. Il caricamento di esplosivo con lo skate board è una modalità già descritta dai pentiti principali Gioacchino La Barbera, Santino Di Matteo e Giovanni Brusca. Di loro, La Barbera rivelò di aver visto un personaggio a lui sconosciuto ed estraneo all’ambiente mafioso partecipare a una riunione in una villa adiacente l’autostrada, nelle fasi preparatorie dell’agguato.

Oltre ai collaboratori, a descrivere strane presenze il giorno prima a Capaci su quel tratto di autostrada fu il cognato del generale Dalla Chiesa, l’ingegnere Naselli Flores che indicò un furgone bianco di un’impresa edile con gli sportelli posteriori aperti e dentro una serie di cavi proprio nel tratto che sarebbe saltato in aria il giorno dopo. E un furgone bianco fu visto anche da un poliziotto della Questura di Palermo, Stefano De Michele, che tra accuse e ritrattazioni, disse di averlo visto prima al lato dell’autostrada e poi sullo svincolo di Capaci.

Altri indizi di presenze estranee ai mafiosi del commando stragista emersi nel corso degli anni, nei guanti di lattice trovati insieme a una torcia e a un tubo di mastice a circa 60 metri dal cratere. Venne poi isolato nei reperti 4A e 4B il dna di una donna della quale i collaboratori non hanno mai parlato.

E su quei reperti vennero avviati accertamenti: “Abbiamo in programma un fitto calendario di cose da fare”, dichiarò due anni fa il procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone. Della strage sono accusati i mafiosi Salvo Madonia, Giorgio Pizzo, Lorenzo Tinnirello e Cosimo Lo Nigro condannati all’ergastolo in primo grado. Assolto invece un altro esponente della cosca di Brancaccio, Vittorio Tutino

“La mafia adesso minaccerà i giudici di sorveglianza”

Alfonso Sabella è giudice del Tribunale del Riesame di Napoli, è stato pm antimafia a Palermo ed è stato anche direttore del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Lo abbiamo sentito al telefono poco dopo la notizia della sentenza della Corte costituzionale.

Che succede adesso?

Ormai l’ergastolo totalmente ostativo non esiste più. Con un gioco di parole, possiamo dire che rimane significativamente ostativo perché la sentenza della Corte costituzionale non ha creato automatismi.

Se l’aspettava?

La Corte ha tenuto conto sicuramente del richiamo della Cedu di Strasburgo e non poteva non tenerne conto. Ha quindi pensato al fine della rieducazione della pena. Anche se, per fortuna, la Corte non parla solo di percorso rieducativo per ottenere un permesso premio, ma anche di dimostrazione dei legami criminali recisi.

Quindi tutto bene?

Dal comunicato non è chiaro se sia il condannato che deve dimostrare che non ha collegamenti attuali con l’associazione criminale o se sia la magistratura che deve dimostrare l’esistenza attuale dei collegamenti. Se dovesse essere la magistratura a dover dimostrare che i collegamenti esistono e sono ancora attuali, allora questa pronuncia spalancherebbe un’autostrada per i condannati. Sarebbe molto complicato dimostrare collegamenti attuali in relazione a soggetti magari sottoposti pure a regime speciale e che sono da decenni in carcere. Aspettiamo le motivazioni per capire se la Corte ha individuato l’onere della prova o se pone la questione al legislatore

Aver ridato discrezionalità ai giudici di sorveglianza non li espone a un grosso rischio di minacce?

Assolutamente sì. Sono a rischio non solo i giudici, ma soprattutto polizia penitenziaria, assistenti sociali e tutti gli altri operatori penitenziari che diventeranno molto esposti a intimidazioni, minacce o offerte di denaro perché diano pareri favorevoli ai permessi premio. L’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario è una delle norme che io definisco salva vita come l’articolo 275 del codice penale comma 3 che, come misura cautelare, per i mafiosi prevede solo il carcere

In che senso salva vita?

Nel senso che non c’è più il giudice buono che dà gli arresti domiciliari e il giudice cattivo che manda i mafiosi in carcere. Quindi quell’articolo del codice penale ha salvato la vita a parecchi magistrati. Lo stesso ragionamento “salva vita” vale per i giudici di Sorveglianza che, con l’automatismo del 4 bis non sono stati più divisi in buoni perché concedono benefici e cattivi perché li negano. Ma capisco anche la Corte che dopo Strasburgo ha trovato un contemperamento.

Per proteggere i magistrati cosa si può fare?

Penso che sia indispensabile un intervento del legislatore che quanto meno stabilisca, rispetto alle decisioni sui benefici legati al 4 bis, che debba essere un giudice collegiale e non un singolo giudice di sorveglianza a prenderle. Almeno in questo modo i giudici sarebbero tre. E si potrebbe pure pensare di non rendere esecutivi eventuali permessi fino a quando non si siano consumati i mezzi di impugnazione. Cioè fino a quando non si arriva eventualmente alla Cassazione. Allo stesso modo, per tutelare gli operatori penitenziari, che temo siano molto più esposti di noi magistrati, si dovrebbero prevedere documentazioni finalizzate alla concessione dei benefici penitenziari redatte da più persone e non da un singolo dirigente penitenziario, assistente sociale o psicologo. Mi rendo conto che la procedura sarebbe farraginosa, ma lo Stato ha il dovere di tutelare i suoi servitori

La Consulta: “L’ergastolo ostativo è incostituzionale”

Anche gli ergastolani mafiosi e terroristi potrebbero ottenere permessi premio pur non avendo mai collaborato con la giustizia. Lo ha stabilito la Consulta che ieri ha dichiarato incostituzionale l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario che regolamenta l’ergastolo ostativo, ma esclusivamente in merito al punto che vieta i permessi premio, non, per esempio, rispetto a libertà anticipata e misure alternative al carcere. La norma, infatti, è arrivata alla Corte attraverso due ordinanze della Cassazione e del Tribunale di Sorveglianza di Perugia in merito a due ergastolani condannati per mafia che chiedevano un permesso premio pur non avendo mai collaborato con la giustizia. La decisione della Consulta segue quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha chiesto modifiche dell’ergastolo ostativo, previsto principalmente per reati di mafia e terrorismo.

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che aveva anche fatto ricorso contro la pronuncia della Cedu, dichiara che “la questione ha la massima priorità” e ha chiesto un monitoraggio ai funzionari di via Arenula per capire le ricadute della sentenza. Ricadute pesanti, secondo Sebastiano Ardita: “Dovremo aspettarci – dice il consigliere del Csm – una prevedibile pressione delle organizzazioni mafiose sulla Magistratura di sorveglianza”. Il neo consigliere del Csm, Nino Di Matteo, pm antimafia, spera che “la politica sappia prontamente reagire e approvi le modifiche normative necessarie a evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo” per evitare che i mafiosi raggiungano “lo scopo prefissato con le stragi”. Dichiarazioni di “straordinaria gravità” per il presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza, perché Di Matteo chiede che il legislatore “adotti contromisure per vanificare quella decisione”.

Secondo la Corte Costituzionale presieduta da Giorgio Lattanzi se un ergastolano condannato per mafia o terrorismo ha reciso i rapporti con l’associazione criminale e ha intrapreso un percorso rieducativo, anche se non ha collaborato può aspirare al permesso premio. A deciderlo, caso per caso, dovrà essere il giudice di Sorveglianza competente. La Corte cancella dunque l’automatismo del divieto al permesso premio senza la collaborazione. In attesa delle motivazioni, un comunicato anticipa il ragionamento che ha portato alla controversa decisione: “La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”.

Pertanto “la presunzione di ‘pericolosità sociale’ del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica”.

Alla Consulta si era rivolta, nel dicembre 2018, la prima sezione della Cassazione che ha ritenuto fondata la questione di costituzionalità su questo automatismo posta dall’avvocato Valerio Vianello, difensore di Sebastiano Cannizzaro, boss del clan catanese di Nitto Santapaola.

Alla Corte si è rivolto anche il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, sollecitato dai difensori di Pietro Pavone, ergastolano condannato per mafia. In entrambi i casi la norma è stata ritenuta contraria alla funzione rieducativa della pena. A difendere, invece, il 4 bis davanti alla Consulta sono stati gli avvocati dello Stato Marco Corsini e Maurizio Greco: “Non si demolisca una norma che ha sempre funzionato nella lotta alla mafia e al terrorismo e che costituisce un incentivo alla collaborazione”. La stessa Consulta nel 2003- è stato ricordato- aveva stabilito che “subordinare i benefici alla collaborazione con la giustizia non è incostituzionale”. Ci sono reazioni contrarie a questa pronuncia pure di esponenti politici. Per il segretario del Pd Nicola Zingaretti è una “decisione stravagante” mentre il leader della Lega Matteo Salvini parla di “sentenza diseducativa e disgustosa”.

Capitan Reflusso, il politico col ragù “acchiappalike”

Pubblichiamo un’anticipazione del libro di Andrea Scanzi “Il cazzaro verde. Ritratto scorretto di Matteo Salvini”. In edicola e libreria da oggi per PaperFirst.

Ragù. Sarebbe disonesto negare le qualità di Salvini. Ne ha tante, altrimenti non avrebbe preso un partito moribondo per poi portarlo in sei anni ben oltre il 30 per cento. Lo ha fatto con una meticolosa operazione di politica sul territorio, mescolandosi alla gente comune – mentre il Pd renziano si trincerava nei salotti pariolini – e facendo quello che una volta faceva la Sinistra. Ha dato la percezione di essere “uno di noi” (cioè di loro). Ha poi sfruttato innegabili qualità mediatiche (in tivù è uno dei più bravi, forse il più bravo). E si è intestato battaglie sacrosante, su tutte quella contro la legge Fornero.

Salvini ha poi sfruttato i social. Lo ha fatto aiutato da un team di nerd denominato con sobrietà “La Bestia”, insistendo sull’idea dell’uomo comune che pur stando nella stanza dei bottoni non si dimentica le origini e resta coi piedi piantati a terra. Per creare questa immedesimazione con i fan (fan: non elettori), Capitan Reflusso adora mostrarsi spesso al suo peggio. Del resto pare venirgli naturale. Da una parte fa lo strafottente (il nemico esposto alla pubblica gogna, i “bacioni”), dall’altra esibisce tutta (oddio: per fortuna quasi tutta) la sua corporalità. Sovrappeso, stempiato, gonfio, la barba sempre più bianca. Le occhiaie di chi lavora tanto. Il sudore di chi sgobba. Le facce arrapate di fronte alle belle ragazze del Papeete. Qualche post animalista (i gatti, i cani) e ambientalista (l’orto, le piante). I tweet mentre guarda il Grande Fratello o Sanremo. E poi – e soprattutto – il cibo. Salvini mangia sempre (e si vede). Lo fa perché gli piace e perché, volendo parlare alla pancia, la pancia deve anche mangiare. Tanto mangiare.

Ecco allora la sequela interessantissima dei post in cui mangia la mozzarella, i babà e il pane e la Nutella. Salvini si mostra affamato e goloso perché sono difetti condivisi dalla stragrande maggioranza degli italiani. Se i giuggioloni che gli curano i social gli dicessero che la Rete ama il brodo di topi morti con una spolveratina di sterco grattugiato sopra per dare una allure di nouvelle cuisine, state pur certi che posterebbe una foto mentre con sguardo libidinoso trangugia quel brodo.

Tra i mille post che potrei scegliere, il mio preferito è quello del ragù. Verso la fine del 2018, Jabba The Polenta ha avuto il coraggio di postare una foto raffigurante (in via teorica) un piatto di pasta. La dose era per sedici persone e l’impiattamento così brutto che Joe Bastianich lo avrebbe spedito per direttissima a Guantanamo. Era un piatto di pasta al ragù. E tu dici: “Dài, ma almeno il ragù sarà stato fatto in casa”. Magari un bel ragù della mamma, della zia, della cugina. Di un’amica. No: era ragù Star, come lui stesso ci teneva a sottolineare nella didascalia. Il ragù Star. Una roba che – con tutto il rispetto – non sentivamo nominare dai tempi del governo Tambroni. Salvini era e resta bravissimo a incarnare il meglio del peggio degli italiani. Come Mussolini. Come Craxi. Come (peggio di) Berlusconi. Come (meglio di) Renzi. Eccetera.

Auguri. E buon ragù a tutti.

Fumo negli occhi. A ridosso delle elezioni europee 2019 e dunque nella metà di maggio, Matteo Salvini si impegna (parola grossa) in due operazioni campali. La prima è la lotta senza quartiere ai negozi di cannabis legale. Una grande urgenza del Paese, di cui Capitan Reflusso parla – ma guarda un po’ – nel bel mezzo dello scandalo Siri-Arata-eolico. Le parole di Salvini risuonano come un peto timido in un ascensore bloccato: “La droga è un’emergenza nazionale: da domani darò istruzioni agli uomini della sicurezza per andare a controllare uno per uno i presunti negozi turistici di cannabis, luoghi di diseducazione di massa. Vanno sigillati uno per uno. Saranno proibite e vietate anche tutte le cosiddette feste e sagre della cannabis, siamo contro ogni sperimentazione e regolamentazione della cannabis”. Il Cazzaro Verde, ovviamente, ignora tutti i benefici che il rilancio del settore della canapa industriale (dal tessile all’energetico, dall’alimentare alla bioedilizia) porterebbe in termini economici e di tutela dell’ambiente. E ignora pure molte altre cose, compreso quel che lui stesso diceva nel 1998 al giornale Il Sole delle Alpi e che Stefano Cagelli ha recuperato su Linkiesta: “Noi ci rapportiamo alle tematiche classiche della Sinistra, dalla forte presenza statale alla liberalizzazione delle droghe leggere”.

La coerenza è davvero uno dei suoi forti.

Sempre in quei giorni prossimi alla sua apoteosi nelle urne, Salvini rilancia l’appassionante “VinciSalvini”. Funziona così: ci si iscrive alla sua pagina e, se si è i più veloci a mettere i like a raffica sopra ogni post del Capitano, si vince una telefonata di Salvini stesso. Meglio drogarsi, forse.

Rai, la folle storia del nuovo canale istituzionale

Dato che in Rai non ci si fa mancare niente, ecco l’ultimo bel pasticcio: il canale istituzionale. Se ne sarebbe dovuto parlare nel Cda di ieri, ma l’argomento è slittato perché sul tema è in corso un notevole scontro, anche di potere. Ma partiamo dall’inizio.

Il contratto di servizio della tv pubblica prevede la realizzazione di un canale per raccontare la vita delle istituzioni italiane ed europee. Di preciso, però, non si capisce cosa debba contenere, dato che esistono già Rai Parlamento e Rai Quirinale, più Gr Parlamento e un ufficio di corrispondenza a Bruxelles.

Il nuovo canale, a quanto si sa, dovrebbe essere un altro contenitore per tutto ciò. La partita viene affidata a Fabrizio Ferragni, ex vicedirettore del Tg1 e giornalista di lungo corso. Nel sito della Rai alla voce Fabrizio Ferragni si legge: direttore (o funzione equivalente) dell’istituendo canale tematico istituzionale.

Classe 1958, Ferragni muove i primi passi al quotidiano Avvenire e naturalmente guarda verso la Dc, tanto da diventare assistente di Amintore Fanfani: tra il 1982 e il 1983 è all’ufficio stampa di Palazzo Chigi con Fanfani premier. Poi torna a fare il giornalista e nel 1987 approda alla redazione politica del Tg3. Nel 1990 il salto al Tg1, dove ricopre molti ruoli, anche il quirinalista. Nel frattempo Tangentopoli spazza via la prima repubblica e il nostro si avvicina alla Margherita. Ottimi i suoi rapporti con Francesco Rutelli e il suo portavoce, Michele Anzaldi. Nel 2000 lo ritroviamo già vicedirettore del Tg1 dove, dopo un passaggio al Tg3 Lazio, avrà il suo periodo d’oro sotto la direzione di Augusto Minzolini (2009-2011), mentre entrerà in una zona d’ombra con Mario Orfeo (2012-2017), col quale non si prende. Nel 2016, ormai in orbita renziana, Campo Dall’Orto lo mette a capo delle relazioni istituzionali, dove nella primavera scorsa puntava a essere confermato dal nuovo ad Fabrizio Salini, con l’upgrade però di veder trasformata la carica in direzione autonoma.

Poi qualcosa va storto. Non gli giova una telefonata con cui ad aprile tenta di bloccare l’ospitata di Luigi Di Maio da Fabio Fazio. Manca poco alle Europee, meglio evitare. Perché nel frattempo Ferragni con un triplo salto carpiato si è avvicinato alla Lega: in ogni occasione pubblica di Marcello Foa, al suo fianco c’è Ferragni. Salini però lo stoppa: a capo delle relazioni istituzionali metterà Stefano Luppi. Ma per Ferragni è pronto il nascituro canale istituzionale: una direzione nuova di zecca, altro che tagli di poltrone, che a Viale Mazzini si moltiplicano come pani e pesci.

E qui iniziano i nuovi guai, perché Rai Parlamento e Giornale Radio non hanno la minima intenzione di finire dentro il nuovo canale. I cdr delle due redazioni nei giorni scorsi hanno scritto a Salini per avere rassicurazioni e chiedere “un approfondimento su contenuti e funzione del nuovo canale istituzionale” e sul “ruolo che Rai Parlamento e Gr Parlamento avranno in futuro”. Dicono che Salini abbia pure ricevuto telefonate allarmiste da parte di Antonio Preziosi, potente direttore di Rai Parlamento, vicino a Forza Italia e Antonio Tajani, che nel 2018 è stato suo testimone di nozze (si è sposato con la giornalista Susanna Lemma, con cerimonia officiata da Tarcisio Bertone).

Così tutto ancora si blocca. Lega, Fi e Vaticano, ma pure renziani e un pezzo di Pd (tutti vogliono metterci le mani sopra): questi i poteri che si stanno scontrando, in queste ore, sulla nascita del nuovo canale istituzionale di mamma Rai.

Riecco “il Riformista”. Un foglio leopoldino firmato dalla Boschi

Ci sono un giornalista ex comunista e una deputata di Forza Italia che insieme dirigeranno un giornale la cui testata è scomparsa dalle edicole sette anni fa, edito da un imprenditore a processo per corruzione in un’inchiesta sugli appalti pubblici (che ha coinvolto il noto papà di un noto ex premier).

Non è una barzelletta, è davvero così: il Riformista torna in edicola dal 29 ottobre. La testata e il logo arancione sono gli stessi di cui si erano perse le tracce nel 2012, quando fallì la creatura fondata dieci anni prima da Antonio Polito e ideata da Claudio Velardi, l’ex lothar che consigliava Massimo D’Alema.

Ora quel marchio rinasce dalle sue ceneri con una formula abbastanza peculiare. Sarà diretto da Piero Sansonetti (ex Unità, ex Liberazione, ex Il Dubbio) e da Deborah Bergamini (ex portavoce di Silvio Berlusconi). Tra le sue firme più in vista, diciamo, ci saranno Maria Elena Boschi, Fabrizio Cicchitto, Fausto Bertinotti, Paolo Guzzanti e Tiziana Maiolo.

I soldi – volgarmente – ce li mette Alfredo Romeo, che ha acquistato la testata dalla Tosinvest di Angelucci. L’imprenditore casertano è noto al grande pubblico per essere imputato nel processo Consip, l’inchiesta che ha pregiudicato l’immagine del Giglio magico renziano, coinvolgendo il padre dell’ex premier, Tiziano, e l’ex ministro Luca Lotti (di recente rinviato a giudizio).

Trovare un senso a questa storia potrebbe risultare complicato. Ci provano i due condirettori, in conferenza stampa a Montecitorio. Sansonetti: “Sarà un giornale con una fortissima linea politica, basata sulle idee libertarie e garantiste”. Ecco, il garantismo: la battaglia contro giustizialisti e “manettari” da anni è il rovello dell’ex direttore di Liberazione. Sulla prima pagina del “numero zero” mostrato da Sansonetti c’è già tutta la linea editoriale del quotidiano: “Ergastolo addio, l’Europa civilizza l’Italia” (con riferimento alla recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”). Il direttore aggiunge: “Faremo battaglie furiose su questi temi. Noi non siamo contro il carcere agli evasori: vogliamo proprio l’abolizione del carcere!”.

In platea ci sono Renato Brunetta, Mariastella Gelmini, Alessandro Cattaneo, Osvaldo Napoli. La Bergamini gioca in casa: “Ringrazio i deputati di Forza Italia presenti. È chiaro che queste sono le battaglie della nostra vita”. Sansonetti storce il naso: “Io e la Maiolo restiamo sessantottini”. Bergamini precisa: “Questo comunque non è il giornale del nostro partito”.

Sembra, piuttosto, il giornale di “Forza Italia Viva”. Sansonetti non a caso dice di voler “ricreare un’area riformista che non c’è più”. Ma che si sta ricostituendo attorno al nuovo movimento di Renzi e ai tanti “liberali” di Forza Italia che guardano con angoscia al centrodestra dominato dal populista Salvini. Se il vecchio Riformista è stato, per un periodo, il riferimento di una parte della sinistra post-comunista (quella più moderata: potremmo dire l’ala destra del dalemismo, per gli appassionati di microbiologia), il nuovo quotidiano di Sansonetti e Bergamini sembra nascere per il piccolo universo che ruota intorno alla Leopolda e all’indimenticato patto del Nazareno. Non a caso si potrà fregiare degli editoriali (a titolo gratuito) della Boschi. E non a caso l’editore Romeo ha qualcosa in comune con Renzi e famiglia. L’immobiliarista ha riscoperto la passione per l’editoria (aveva una quota anche del Riformista originale): è in trattativa con Caltagirone per acquistare anche il Mattino (l’offerta si aggira sui 7 milioni di euro). Anche in questi tempi di crisi drammatica della stampa, possedere un giornale torna utile. Specie se c’è bisogno di una lucidata all’immagine.

Il renziano fa la campagna della leghista

“La #Leopolda a 10 anni dalla prima edizione, resta uno straordinario luogo di innovazione a prescindere dall’appartenenza partitica. Il flusso di persone quest’anno è davvero impressionante, come la voglia di partecipazione. Ad averne di momenti così”. Così twittava appena 5 giorni fa Pietro Raffa, 31 anni, oggi “Partner” e “Digital Strategist” di MR & Associati, società di Comunicazione di Milano. Un comunicatore, in sintesi. E un simpatizzante renziano da sempre, uno di quelli che a vario titolo ha dato una mano alle campagne social dell’attuale leader di Italia Viva, fin dagli anni della scalata a Palazzo Chigi. Non ci sono contratti in corso tra la MR e Italia Viva, ma i rapporti restano ottimi.

Lo stesso Raffa, tramite la società di comunicazione, sta curando parte della campagna di Donatella Tesei, la candidata della Lega in Umbria, a livello locale. Ora, i comunicatori sono prima di tutto dei tecnici. Ma visti i rapporti di Raffa con il mondo renziano, la cosa salta agli occhi. Così come il fatto che questa collaborazione sia tenuta piuttosto coperta.

Qualche elemento in più. Renzi non presenta proprie liste in Umbria. E anche se i suoi ufficialmente sostengono il candidato Pd-M5S, Vincenzo Bianconi, non ha fatto mistero di essere contrario all’alleanza strutturale tra queste due forze. Se l’Umbria dovesse essere una débacle per Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio, come in molti temono, c’è da scommettere che sarà pronto a cercare di approfittare della situazione a suo vantaggio. Ancora. Il duello fatto con Matteo Salvini a Porta a Porta si è rivelato uno scambio di favori reciproco, proprio nella chiave delle elezioni umbre. Perché Renzi (almeno in quell’occasione) si è intestato il ruolo di leader antagonista del segretario della Lega. Ma l’altro ha guadagnato visibilità sulle elezioni di domenica. Giuseppe Conte, Di Maio, Zingaretti di visite nella Regione ne hanno fatta più d’uno. Il leader di Iv no.

Diceva il deputato del Carroccio, Massimo Garavaglia, a Radio24 lunedì: “Voti di Italia Viva a un ipotetico governo di centrodestra? Se proprio manca qualche voto, ci si parla”. Per aggiungere ironicamente: “Però diciamo che Renzi non è il massimo dell’affidabilità. Mettiamola così: chi si mette con Renzi ha la garanzia che ‘dura minga’ (non dura mica, ndr)”. Quest’ultima, una notazione che permette di ipotizzare qualsiasi scenario. Ancora. Roberto Maroni al Foglio: “La piazza della Leopolda di “Matteo-R” e quella romana di “Matteo-S” rappresentano una novità non da poco nella politica di oggi e – soprattutto – in quella che presto arriverà: nella ‘Terza Camera’ (lo studio di Vespa, ndr) è stato piantato il seme di un progetto ambizioso di leadership futura, che vede i due Mattei diversi ma simili, avversari ma alleati nella ricerca dell’egemonia (rottamatoria) nei rispettivi campi”. Come dire: il patto tra i due magari non passerà per un ipotetico governo. Ma per qualche cortesia reciproca al bisogno, di certo.