“Quirinale, il voto da remoto è la soluzione più sensata”

Incipit: “Se in via del Corso chiami ‘Presidente!’ si gireranno in quindici”. Così comincia il “censimento” che Michele Ainis, costituzionalista di Roma Tre e membro dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ha scritto con Andrea Carboni, Antonello Schettino e Silvia Silverio. Presidenti d’Italia è, come spiega il sottotitolo, l’“Atlante di un vizio nazionale”. E dunque partiamo da qui.

Professore, quando nasce questo tic del “presidenzialismo”?

Mi sono esercitato sull’etimologia della parola, che va in auge durante la Roma repubblicana. Ma allora il termine aveva un significato diverso da quello che gli attribuiamo adesso. Praesidens – participio presente sostantivato del verbo praesidere – alla lettera significava “sedere avanti”, ma era usato di solito come “presidiare”: proteggere, difendere. C’è un’occorrenza in Boccaccio, ma dilaga nel Dopoguerra. Durante il fascismo non c’era il presidente del Consiglio: Mussolini era capo del governo, però molti apparati – il treno presidenziale, la polizia presidenziale – avevano questo appellativo.

I dirigenti pubblici, scrive, sono quasi 240mila: un esercito!

Quanto l’intera popolazione di Venezia. La stima l’ha fatta la Corte dei conti nel 2016, ma direi che fotografa un esercito di generali senza truppe, che infatti perdono le guerre. Questo dato ci dice che non siamo un Paese per giovani: abbiamo una popolazione anziana, cioè che ha raggiunto gradi elevati di carriera, a cui manca il ricambio. Dall’invecchiamento e dall’ingessamento dipende la piramide rovesciata che rappresenta la Pubblica amministrazione con la cifra esorbitante di 70mila presidenti.

Qual è il vaccino per l’epidemia di presidenzialismo?

Si chiama semplificazione, è stato scoperto un secolo fa ma non è mai stato inoculato: la prima commissione per la semplificazione burocratica fu istituita nel febbraio 1918! La moltiplicazione delle cariche deriva dalla moltiplicazione degli enti, che andrebbero sfoltiti anche perché spesso sono doppioni. Del resto, sono anni che parliamo della superfetazione normativa e le leggi comunque continuano a moltiplicarsi.

Parlando della Francia, lei ricorda che è un semipresidenzialismo. Arriveremo anche qui al semipresidenzialismo de facto, come ha detto il ministro Giorgetti riferendosi a un’eventuale ascesa al Colle di Draghi?

Il ruolo del capo dello Stato funziona, costituzionalmente, come una fisarmonica: tanto più il sistema dei partiti è fragile, quanto più il ruolo del presidente si espande: il semipresidenzialismo c’è già. Ma noi le riforme le facciamo sempre senza scriverle: siamo passati da Prima a Seconda Repubblica senza cambiare una virgola della Costituzione. Da tempo i nostri partiti sono deboli e spesso caratterizzati da un forte personalismo: non è un caso che Berlusconi e Meloni siano “presidenti” dei rispettivi partiti.

Berlusconi al Colle?

Senza impegnarci con le vicende giudiziarie, ricordo che il presidente “rappresenta l’unità nazionale”. Una caratteristica che nessun leader di partito può accampare.

Possibile che le uniche alternative siano un bis di Mattarella o un trasloco di Draghi?

Sono entrambe due figure “non partigiane” e dunque ciò di cui il Paese ha bisogno. In questo momento il Parlamento soffre di una crisi di legittimità, aggravata dalla pandemia e anche dal record assoluto di voltagabbana. Questo ci dice che abbiamo bisogno di un presidente autorevole e percepito come neutrale. Ma è disperante l’idea che in una nazione di 60 milioni di persone ci siano due soli papabili!

Sulle modalità di voto, nel pieno della quarta ondata, che pensa?

Se ci saranno cento o più elettori contagiati o in quarantena l’elezione sarà delegittimata: in questo momento non ne abbiamo bisogno. Senza dire che c’è un fattore di casualità – se e quanto saranno decimati i partiti – di cui tener conto. L’unica soluzione è il voto da remoto. È un voto secco, non prevede discussione: il pragmatismo a volte risolve più problemi del dogmatismo.

Salvini va a rapporto da B. (e i giallorosa si mettono in coda)

Ieri mattina Silvio Berlusconi ha alzato il telefono e ha chiamato Matteo Salvini. “Basta, la devi smettere di cambiare continuamente posizione”, gli ha detto. E così il leader della Lega ha poi dovuto correggere il tiro: “Noi andiamo convintamente su Berlusconi”. La realtà è che il voto per il Colle sta diventando una partita di scacchi per il leader della Lega. Tirato, strattonato, corteggiato, sollecitato da tutti. Da Berlusconi, che non può mollare facilmente. Da Matteo Renzi, che gli offre il suo sostegno per portare a casa un candidato di centrodestra. Da Enrico Letta, che cerca di convincerlo a costruire insieme una candidatura unitaria e insieme a Giuseppe Conte va a bussare alla sua porta.

La riunione di centrodestra di oggi sarà una tappa non secondaria, ma neanche definitiva sulla strada del Quirinale. Berlusconi non si autocandiderà. Ma neanche si tirerà indietro. “Mi chiedete se ho i numeri, ma siete voi a dovermi garantire i vostri e il vostro sostegno compatto senza cambiare più posizione” dirà ai riluttanti leader di centrodestra. Tutti poco convinti. Non solo Salvini, ma anche Giorgia Meloni e il drappello dei centristi. E anche il suo fido Gianni Letta (da sempre molto scettico sull’operazione) che ieri, alla camera ardente di David Sassoli, ha scaricato il leader azzurro: “Bisogna guardare agli interessi del Paese e non a quelli di parte” ha detto. A ogni modo oggi i leader del centrodestra troveranno il modo di non aprire e non chiudere. E con ciascuno pronto a pretendere qualche rassicurazione. A partire da Meloni che vuole la garanzia che non si faccia un proporzionale. E dunque, per ora, lo scenario più probabile resta che Berlusconi vada a farsi impallinare alla quarta votazione. Anche perché i numeri latitano. Si parla di una decina di voti conquistati ma almeno altrettanti franchi tiratori nel centrodestra.

A quel punto, il gioco si fa serio. Salvini cerca disperatamente un “piano b”. Ieri ha di nuovo escluso Draghi, mentre ha detto che è una mancanza di rispetto nei confronti di Mattarella continuare a insistere sul bis. E che è giusto che si parta dal centrodestra. Per questo, mantiene il filo con Renzi. Che gli fa balenare l’appoggio a Pierferdinando Casini, Letizia Moratti, Elisabetta Casellati. E ieri ha fatto pensare a un accordo al quarto scrutinio con il centrodestra sposando le parole di Gianni Letta contro Berlusconi: “Ha ragione, il suo schema non prevede la conta”.

Anche la trattativa con il Pd è apertissima. Salvini e Letta si sentono continuamente, si sono pure incontrati. E anche Conte ieri ha informato i suoi parlamentari del canale aperto con la Lega. Motivandolo con la necessità di trovare una figura di alto profilo, ribadendo che Draghi farebbe meglio a restare a Chigi e ricordando che nemmeno il centrodestra ha di partenza numeri autosufficienti. I giallorosa, nella loro debolezza, sono costretti, a sperare in Salvini. A Palazzo Chigi, intanto, confidano in Letta. I nomi del Nazareno sono noti: Mario Draghi, Giuliano Amato e Sergio Mattarella. Il segretario del Pd spinge sulla paura delle elezioni del leader leghista. Elezioni che vorrebbe la Meloni e che se fosse eletto al Colle un nome di parte sarebbero vicine. Salvini stesso sa che può essere difficile chiedere il voto su un nome di centrodestra, dopo non essere stato in grado di bloccare Berlusconi. Gli schemi per i giallorosa restano comunque Draghi e Mattarella. Sul primo, Letta ha fatto riflettere Salvini su un punto: se alla fine il premier dovesse salire al Colle, con questo sistema elettorale potrebbe diventare premier dopo le elezioni chi tra lui e la Meloni ha un voto in più. E se Salvini teme il sorpasso, “Giorgia” teme che sia pronto l’accordo per il proporzionale. Non ha tutti i torti: se alla fine al Quirinale restasse Mattarella, Letta è pronto a offrire al leghista questa legge elettorale.

I Ferri del mestiere

“Noi i nostri li cacciamo, i partiti i loro li coprono”. Ogni volta che Davigo ricorda l’impunità di gregge della politica, opposta al maggior rigore dei magistrati, le vergini violate del garantismo all’italiana insorgono come un sol uomo. Salvo poi fare di tutto per dargli ragione. Era accaduto un mese fa col doppio salvataggio di Renzi (Open) e Giggino ’a Purpetta (camorra) nella giunta del Senato. È riaccaduto giovedì alla Camera col salvataggio quasi unanime di Cosimo Ferri (contrari solo i 5Stelle e gli ex). Ferri è un magistrato in aspettativa, già leader di Magistratura Indipendente e presidente dell’Anm, prestato alla politica (che per fortuna non l’ha più restituito): sottosegretario tecnico alla Giustizia in quota FI nel governo Letta jr. e in quota Alfano-Verdini nei governi Renzi e Gentiloni, deputato Pd dal 2018 e poi Iv, è un presenzialista degli scandali: il suo nome saltò fuori, senza conseguenze penali per lui, in Calciopoli, nella P3 e nei traffici di B. con l’Agcom per cacciare Santoro. Poi fu beccato a far campagna elettorale, da via Arenula, per due amici alle elezioni del Csm. Si scoprì che nel 2013 aveva accompagnato il giudice Amedeo Franco a casa di B. per rinnegare la condanna definitiva, peraltro firmata anche da lui e in veste di relatore. Nel 2019 i pm di Perugia che indagavano su Luca Palamara per corruzione lo sorpresero all’hotel Champagne di Roma col magistrato inquisito, con Luca Lotti e con 5 membri del Csm, in una cena per decidere i nuovi procuratori di Roma (dov’era imputato Lotti) e Firenze (dove l’Innominabile aveva già mezza famiglia nei guai).

Sapete che fine han fatto i commensali del Champagne? Palamara è stato radiato dalla magistratura e i 5 consiglieri del Csm han dovuto dimettersi. Invece Lotti resta deputato del Pd (“autosospeso”, qualunque cosa significhi, dal 2019) e Ferri di Iv. Siccome Ferri resta magistrato, il Csm ha aperto un procedimento disciplinare in base alle intercettazioni indirette della famosa cena (il bersaglio del trojan era Palamara). Ma siccome è pure un politico, la casta gli ha eretto un impenetrabile muro protettivo: tutti i partiti di destra, centro e sinistra (eccetto il M5S) hanno negato al Csm l’autorizzazione a usare le captazioni in base alla privacy (come se si parlasse di malattie, e non di Procure) e – udite udite – al fumus persecutionis. Invano il grillino Saitta ha provato a far notare ai colleghi che è difficile perseguitare Ferri indagando Palamara: per non farsi perseguitare, bastava non andare a quella cena o fuggirne non appena fu chiaro che si stavano pilotando nomine di procuratori in barba alla separazione dei poteri. Ma è stato tutto inutile. La casta non si processa. Anzi la cosca.

“Gli Sciti non fanno sesso, i meridionali sono paurosi e i Tebani grassi per l’aria”: luoghi comuni d’autore

I luoghi comuni sulle persone nascono nei modi più diversi, ma alla fine fanno sempre comodo a qualcuno. Il saggio di Emilio Mazza e Michela Nacci, Paese che vai (Marsilio), raccoglie e analizza i caratteri nazionali così come sono stati tramandati dai cliché. “Le nazioni sono viste come individui: hanno una personalità, precise caratteristiche, un volto”, scrivono gli autori. E sorprende nel vedere come questi ritratti stereotipati non nascano da chiacchiere al bar. Anzi, sono spesso i più grandi pensatori della storia a metterli nero su bianco.

Se oggi si cerca di evitare gli stereotipi sugli stranieri, nell’antica Roma non ci si scandalizzava del “razzismo climatico”. Cicerone scriveva che “ad Atene l’aria è sottile e per questo gli Attici sono ritenuti più acuti, a Tebe è pesante e così i Tebani sono ritenuti grassi e robusti”. Ippocrate raccontava che gli Sciti, nomadi indoeuropei che giravano a cavallo nella steppa, “per il freddo e lo scuotimento, non provano desiderio di avere rapporti sessuali”; per Platone erano “irascibili”, mentre Fenici ed Egizi erano avidi di guadagno. Aristotele pensava che gli Asiatici fossero abili nelle arti, ma codardi e per questo destinati a una “vita servile”. Gli Europei del Nord coraggiosi (per i climi freddi), ma poco intelligenti. I “Meridionali”, osservava invece Jean Bodin qualche secolo più tardi, “sono poco sanguigni, come le lepri e i cervi. Ciò li rende più paurosi e deboli”.

I vizi, poi, si sprecavano. La Spagna di Baltasar Gracián (1601-1658) era superba, l’Italia ingannatrice, l’Inghilterra incostante, la Grecia infedele e la Turchia barbara. La lussuria, invece, “parendogli angusta una sola Provincia, si dilatò per tutto il mondo”. A Montesquieu, oltre allo spirito delle leggi, piaceva descrivere quello dei popoli che incrociava nei suoi viaggi. Nel Belpaese osservava che “non si sono mai visti tanti devoti e così poca devozione”. David Hume, invece, da buon empirista, è il primo che “va alla fonte dei pregiudizi e propone gli antidoti”. Si accorge che i giudizi sul popolo di appartenenza sono quasi sempre più indulgenti. Ne nasce una teoria dei caratteri: c’è chi guarda alle cause fisiche, chi a quelle morali; chi ai caratteri rigidi e chi a quelli flessibili.

Bodin, Du Bos, Montesquieu, Hume, Herder, Madame de Staël, Michelet, Hegel, Tocqueville, Spencer, Weil e Bateson… sono tanti gli intellettuali che hanno contribuito a selezionare e tramandare i luoghi comuni che ancora oggi usiamo. Anche se molto spesso servivano a esaltare gli amici o i propri ideali. A spese di tutti gli altri.

Passaggio in India: Pasolini, Moravia, Morante e amanti

Nei primissimi anni Sessanta, in seguito all’esplosione del “boom” economico che avrebbe regalato a tutti, come gridava la pubblicità, “un pollo su ogni tavola”, un frigorifero e una Lambretta, gli italiani guardavano al Terzo mondo con occhio commiserevole. Soprattutto piansero lacrime di coccodrillo sulla “fame nell’India”.

Così Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini il 31 dicembre 1960 partirono per Bombay. Li avrebbe seguiti, a breve, anche Elsa Morante. L’occasione fu un convegno su Tagore, il grande poeta indiano.

Al ritorno, dopo qualche mese da quel viaggio, Moravia e Pasolini raccolsero gli articoli che mandavano ai loro giornali e, nel 1962, pubblicarono entrambi un libro sull’India. Moravia lo intitolò Un’idea dell’India e Pasolini L’odore dell’India. Già dai titoli si intravedeva la diversa esperienza indiana dei due. Allora Moravia era conosciutissimo, i suoi romanzi figuravano nelle edizioni Penguin e si potevano trovare anche nelle librerie indiane, mentre Pasolini e la Morante erano quasi sconosciuti.

Dinanzi all’estrema povertà, in particolare, ebbero reazioni diversissime. Moravia viaggiava all’inglese, con il suo atteggiamento illuministico e un carico di letture riguardanti l’India, a partire da Un barbaro in Asia di Henri Michaux. La povertà la guardava con distacco, meravigliato dell’immersione pasoliniana tra la gioventù e della sua religiosità che condivideva con quella morantiana.

Pasolini raccontò nel suo libro che Moravia a mezzanotte lo lasciava e tornava in albergo “terreo”, anche per i continui rimproveri di sua moglie Elsa, che voleva riportarsi a Roma un ragazzo bellissimo che le aveva presentato Pasolini. Alla fine decisero di ricoverarlo in una casa d’accoglienza. Intanto Moravia aveva lasciato a Roma la sua nuova fiamma, la “principessina” Dacia Maraini ed Elsa il suo amante Bill Morrow, il giovanissimo pittore gay con cui conviveva.

Mentre in Un’idea dell’India non ci sono riferimenti ai compagni di viaggio, ne L’odore dell’India Pasolini racconta ironici episodi di quel viaggio per lui meraviglioso: aveva appena abbandonato i ragazzi di vita delle borgate romane, e credeva di averli ritrovati intatti. Fu un viaggio lunghissimo. Attraversarono in macchina tutta l’India. Moravia raccontò delle statue del kamasutra, Pasolini no. La Morante tacque su quel viaggio. Non c’era giorno che non facesse le valigie, dopo i continui litigi con il marito. Poi le disfaceva e tornava la calma piatta.

Il terreo Moravia aveva paura dei luoghi in cui c’erano briganti che sequestravano e a volte uccidevano gli occidentali, mentre Elsa e Pier Paolo ridevano di lui. Quando Moravia mi invitò a fare la prefazione della ristampa del suo libro era vicino alla sua dipartita, ma sembrava ancora eccitato da quell’esperienza. Ancora oggi molti turisti occidentali che si recano in India portano in valigia quei due volumi.

Ora si avvicina il centenario della nascita di Pasolini e mentre a febbraio uscirà il mio Moravia e Pasolini. Due volti dello scandalo per Einaudi, Dacia Maraini pubblicherà Caro Pier Paolo e Roberto Galaverni un’antologia delle poesie più belle dedicate all’autore di Petrolio, da Montale al sottoscritto. Naturalmente Walter Siti farà il punto critico su Pier Paolo editando anche un’edizione completa di Petrolio,

illustrata dalle foto nude nella torre di Chia. Quel mondo è irripetibile, ormai del tutto perduto, e riapparirà ancora una volta in tutto il suo splendore.

“Ricuciamo le pellicole di Dakar, la Cannes d’Africa negli anni 60”

Chiedi alla polvere, quella africana. Sospese tra oblio e abbandono, in una stanza con la porta semiaperta, nel vecchio edificio del ministero della Comunicazione senegalese, migliaia di foto e bobine sono rimaste per decenni seppellite dal silenzio e dalla patina del tempo. Quando la videomaker Tiziana Manfredi e Marco Lena, storico e restauratore digitale, entrano nell’ufficio nel 2009, scoprono che in quella cellulosa dimenticata si nasconde l’inizio della storia del cinema di Dakar, la città-carrefour, snodo di culture e identità di tutto il West Africa. Dieci anni dopo aver aperto quella porta, sono gli addetti di riferimento del ministero della Cultura senegalese per salvare l’archivio ritrovato: “Si tratta in assoluto della prima documentazione cinematografica del Paese, la narrazione per immagini comincia con l’indipendenza, che avviene nel 1960: in epoca coloniale agli africani non era permesso realizzare film”.

Vigeva il decreto Laval, la legge che impediva ai registi africani di fare film in Africa.

A differenza del Maghreb, dove esistevano produzioni locali già dagli anni 40, in West Africa non si filmava. Nell’archivio ritrovato ci sono i primi cinegiornali, creati prima che nascesse la tv nazionale senegalese, o anche il Festival Mondial des Arts Nègres, organizzato per la prima volta a Dakar nel 1966, evento di arte contemporanea di cui non si sa quasi nulla, ma era grosso come quello di Cannes. Con il restauro non si salvano solo le bobine, ma le tracce di un processo di evoluzione culturale che ha portato alla nascita del cinema africano. Le immagini documentano la vita senegalese sotto il primo presidente, Leopold Sedar Senghor, abile uomo politico che si rese conto che era necessario costruire un sistema mediatico e di informazione. In quegli anni, Dakar diventò una palestra per una generazione di cineasti.

Con l’autonomia politica comincia l’auto-narrazione. Senza il vostro salvataggio, si rischiava un’amnesia collettiva, un eterno oblio.

Se non si può accedere più alla documentazione di un periodo storico, è come se non fosse mai accaduto. L’assenza di passato modifica la percezione del presente. Cosa si conosce dell’Africa oggi? Conflitti, migrazione, fame, povertà. Queste storie, se fossero state più note o diffuse, avrebbero trasmesso indietro un’altra immagine del continente.

Per salvare il materiale avete addirittura costruito una “macchina da cucire” per le pellicole.

Una specie di tavola passa film, composta da due piatti tipo quelli dei dj, con sotto due manovelle e una lampada nascosta. Ci permette di leggere il titolo della bobina e il suo contenuto. Negli archivi, soprattutto quelli abbandonati, spesso le due cose non corrispondono. Dopo la riparazione, si può procedere alle fasi di restauro, lavaggio e digitalizzazione. Questo archivio, per molto tempo, in principio, è rimasto “astratto” perché non ne conoscevamo il contenuto che abbiamo scoperto e valorizzato solo dopo. Tra le 5.900 bobine ritrovate, 250 sono salvabili. I 150 mila negativi invece sono stati scattati dal 1950 in formato sei per sei, dal 1974 in poi in 35 millimetri.

Molte bobine sono purtroppo illeggibili o erose.

La maggior parte era in sindrome acetica e abbiamo dovuto abbandonarle perché rischiavano di contaminare il resto.

Tra le immagini è spuntato anche, inaspettato, il volto di un politico italiano.

Aldo Moro. In Senegal è arrivato in visita quando era ministro degli Esteri: le relazioni tra i due Paesi erano molto strette, i rapporti culturali intensi. Dietro al cinema c’erano trattati politici e cooperazioni. Era italiano anche il comitato scientifico del Festival del 1966. A Roma, per esempio, ha studiato al Centro sperimentale uno dei più famosi registi senegalesi, Ababacar Samb.

Anche quest’opera di sottrazione alla polvere si è avvalsa della cooperazione italiana, dopo tanto tempo.

Quella della Cineteca di Bologna, che insieme a quella di Tolosa, in Francia, si è subito mostrata interessata al progetto.

È senegalese anche il primo africano nero a girare un film.

Si tratta di Paulin Soumounou Vierya. Lo assunse Senghor dopo l’indipendenza: lo mise a capo della Sezione cinema del ministero dell’Informazione. Il presidente aveva capito che i film potevano essere un grimaldello per far arrivare il Senegal sulla scena mondiale.

Alla Camera BoJo balbetta scuse, i laburisti: “Il premier è a fine corsa”

Nel corso di un question time che potrebbe segnare la sua fine da primo ministro, ieri Boris Johnson ha finalmente ammesso di aver partecipato al party organizzato nel giardino di Downing Street il 20 maggio 2020, quando le regole del lockdown – imposte dal suo stesso governo – lo proibivano: di fronte a una Camera dei Comuni in rivolta, si è “scusato dal profondo” aggiungendo di aver creduto si trattasse di un evento di lavoro e di essersi trattenuto per circa 25 minuti per ringraziare lo staff. Il segretario laburista Keir Starmer (nella foto) lo ha inchiodato alle sue responsabilità invitandolo a dimettersi per aver mentito in più occasioni, e definendo le sue scuse ‘lo spettacolo patetico di un uomo a fine corsa”. Spesso balbettando, Johnson ha replicato alle richieste di chiarimenti del capo dell’opposizione e di altri parlamentari ripetendo che è necessario aspettare le conclusioni dell’inchiesta interna. Una prova imbarazzante, che non ha sopito l’indignazione né dell’opinione pubblica né dello stesso partito conservatore: secondo indiscrezioni, più di metà dei parlamentari Tories vuole le sue dimissioni.

Il destino di Johnson deciso da Lady Etica, potente sconosciuta

Durante il fallimentare question time di ieri, Boris Johnson ha dribblato le domande più spinose trincerandosi dietro l’obbligo di aspettare i risultati dell’inchiesta in corso, affidata a Sue Grey, 64 anni, altissima funzionaria del rispettato Civil Service. Il premier ha cercato così di guadagnare tempo, nella speranza che la forte indignazione suscitata dalle sue omissioni sfumi, e ha scaricato il grosso della responsabilità sulle spalle della Grey. Spalle solide, non ci sono dubbi: è nella pubblica amministrazione dagli anni Settanta. Ha un curriculum non conformista: negli anni Ottanta va in sabbatico per gestire un pub in Irlanda con il marito cantautore folk. Anche quando rientra nei ranghi ha fama di essere una tosta, che mette in discussione gli status quo. Arriva all’Ufficio di Gabinetto a fine anni Novanta, gli ultimi del New Labour, e vi resta con i conservatori da David Cameron in poi. Dal 2012 al 2018 ricopre il ruolo di direttore generale dell’Ufficio Etico, dove si approvano rimpasti di governo, si autorizzano onorificenze e titoli, si verificano profili pubblici di politici ambiziosi, si disfano carriere di ministri compromessi.

Uno snodo importantissimo in una società che detesta e sanziona l’ipocrisia della politica, se e quando fa lo sforzo di cercarla. Lei lo interpreta con rigore: nel 2015 viene definita da un direttore Bbc ‘la persona più potente di cui non avete mai sentito parlare”. Poco dopo l’ex ministro conservatore Oliver Letwin dichiara: “Mi sono serviti esattamente due anni per capirlo: il nostro grande Regno Unito è gestito completamente da una signora chiamata Sue Grey… le cose semplicemente non accadono, se lei non è d’accordo”.

Oggi è secondo segretario permanente dell’Ufficio di Gabinetto, una carica che la porta a stretto contatto con i meccanismi interni del governo. E, se i calcoli di Johnson si riveleranno giusti e la situazione non dovesse precipitare prima, in teoria sarà lei a decidere del destino politico del premier. Va ricordato che ha ereditato l’inchiesta da Simon Case, il mandarino più alto in grado di tutta la Pubblica amministrazione, che si è dovuto dimettere perché coinvolto in uno dei festini su cui avrebbe dovuto indagare. Si muove, insomma, in un campo minato.

Ma è davvero una funzionaria dall’integrità specchiata? E ha davvero il potere di indagare a tutto tondo sui party proibiti a Downing Street che rischiano di far saltare il tavolo? In una lunga inchiesta pubblicata ieri, Open Democracy getta serie ombre sul suo passato. “Sue Grey è tristemente nota nel mondo della trasparenza dell’informazione”, sottolinea il sito investigativo. Nel 2018, un gruppo di attivisti vittime di un famoso caso di sangue infetto chiede al ministero competente informazioni su quello scandalo, come previsto dalla legge che permette ai cittadini di ottenere documenti pubblici. Grey fa pressione perché non ottengano risposta, suggerendo invece che la faccenda sia gestita ‘in modo controllato, come abbiamo cercato di fare con il rapporto Chilcot”. Il rapporto Chilcot è la devastante indagine pubblica sull’intervento armato in Iraq, annunciata dal governo Brown nel 2009 e pubblicata nel 2016, che rivelò al mondo come il pericolo Saddam Hussein fosse stato grandemente esagerato per spingere l’opinione pubblica britannica a sostenere una guerra non necessaria. Che Grey sia tutt’altro che una campionessa di trasparenza lo conferma Chris Cook, storico presentatore di Bbc Newsnight: “So di almeno mezza dozzina di casi in cui è intervenuta direttamente per impedire il rilascio di informazioni dovute al pubblico”. Versione confermata nel 2020 dall’ex ministro conservatore David Davis: “È straordinariamente ironico che il Dipartimento che dovrebbe garantire la libertà di informazione faccia di tutto per bloccarla”. Queste le premesse. Byline Times va oltre e analizza le regole di ingaggio dell’inchiesta sui festini. “I termini appaiono vaghi, affidati alla sua motivazione personale di sanzionare il primo ministro e i funzionari più esperti”. Il documento ufficiale, una paginetta, identifica come obiettivo dell’inchiesta la ricostruzione dei fatti, con l’aggiunta “Se necessario, stabilirà se siano opportune azioni disciplinari individuali”. Non è quindi previsto che valuti l’operato del primo ministro o la sua conoscenza dei fatti, compito che spetterebbe al consulente indipendente sul codice ministeriale Lord Geidt, che però interviene solo… su richiesta del primo ministro. L’unico con l’autorità di decidere eventuali sanzioni su se stesso. Resta l’ipotesi che apra un’inchiesta il Met, la polizia metropolitana, che però continua a nicchiare. Da Grey per ora nessuna esternazione: non è chiaro a che punto sia, se abbia già sentito il personale coinvolto e di quanto tempo abbia bisogno. Insomma, la palla sul destino di Johnson è nel campo della politica. E “in politica”, come intuì il leader laburista Harold Wilson, “una settimana è un periodo molto lungo”.

Caso Epstein, il principe Andrea a processo negli Usa: “Violentò una ragazza di 17 anni”

Non potrà più stare zitto. La Corte di Manhattan ha detto no alla richiesta di archiviazione: la causa civile contro il principe Andrea, figlio di Elisabetta, può andare avanti. Il duca di York potrà finire sul banco degli imputati per le accuse di abusi sessuali mosse da tempo da Virginia Giuffre, oggi 38enne. La ragazza, che faceva parte della cerchia del tycoon pedofilo e poi suicida, Jeffrey Epstein, e dalla sua fidanzata e complice, Ghislaine Maxwell, sarebbe stata forzata dai due ad avere rapporti sessuali con molti dei loro conoscenti, tra cui il principe britannico, nel 2001. Che avesse solo 17 anni all’epoca il reale lo sapeva bene, ha detto più volte l’accusatrice. La strategia difensiva dei legali di Andrea si basava su un accordo firmato da Giuffre con gli avvocati di Epstein, nel 2009; mezzo milione di dollari per non procedere con le accuse e i processi. “La legge vieta al tribunale di considerare, in questa fase del procedimento, gli sforzi dell’imputato per mettere in dubbio la veridicità delle affermazioni della Giuffre” ha detto il giudice Lewis Kaplan rigettando la richiesta d’archiviazione.

B. for president? No grazie, però…

Se Draghi va al Quirinale noi usciamo dall’attuale maggioranza, cade il governo e si va a elezioni anticipate.

Questo è il senso della manovra attribuita, e men che meno smentita, a Silvio Berlusconi. Che si vada a elezioni anticipate, per chiarire una situazione confusissima, è ciò che anche noi ci siamo augurati nell’articolo scritto per il Fatto l’11 gennaio, ma l’intento dell’ex Cavaliere è tutt’altro. Non ci vuole un genio per capire che Berlusconi vuole che Mario Draghi resti premier in modo che non gli faccia ombra nella corsa verso il Quirinale in cui è decisissimo a competere e non da figurante. È perlomeno un anno che l’uomo di Arcore e ora anche di Villa Grande lavora per questo obiettivo. Fa il moderato, l’europeista, cerca di tenere buoni rapporti anche con i partiti che gli sono tradizionalmente più avversi, il Pd e persino i 5 Stelle cui ha graziosamente concesso che il Reddito di cittadinanza, prima sputacchiato, oltre che da lui, da tutti i suoi media, non è poi una così cattiva cosa. Sono convinto che sarebbe addirittura disposto a un abbraccio con quella Magistratura cui è sempre stato, per comprensibili motivi, ferocemente avverso (dalla Spagna definì nientemeno che “criminale” la sentenza che lo condannava per una colossale frode fiscale). Insomma cerca di accreditarsi in tutti i modi come “pacificatore” e “uomo super partes” che è il ruolo che la Costituzione affida al presidente della Repubblica.

La sorprendente uscita di Berlusconi è passata fra la sostanziale indifferenza dei media e della classe politica o è stata avversata in termini così flebili da avvalorarla. Enrico Letta, l’unico, mi pare, che abbia alzato un laio ha affermato che Berlusconi non può fare il presidente della Repubblica perché è il capo di un partito politico ed è quindi un uomo divisivo. “Divisivo” Silvio Berlusconi lo è da un quarto di secolo, cioè da quando nel 1994 entrò in politica. Ma non è questo il vero ostacolo alla sua candidatura come presidente della Repubblica italiana. Si tratta di un uomo che è stato condannato in via definitiva per un’evasione fiscale di 7 milioni (in euro) che non è che una minima parte di quella che è finita sotto la mannaia delle prescrizioni, degli indulti, delle leggi ad personam. Di un uomo che ha goduto di otto prescrizioni in cui quasi sempre la Cassazione ha accertato che i reati che gli erano attribuiti li aveva effettivamente commessi. Di un uomo che ha tre processi in corso per corruzione. Di un uomo di cui è stato accertato, attraverso due sentenze, quella del 2.5.2008 che assolveva Giovanni Ruggeri autore del libro Berlusconi. Gli affari del Presidente, l’Espresso e il sottoscritto e quella del Tribunale di Roma del 21.4.2021 che riguarda me solo, che in combutta con l’avvocato Cesare Previti aveva truffato per miliardi una minorenne, orfana di entrambi i genitori periti in circostanze tragiche.

Se l’elezione del presidente della Repubblica fosse diretta espressione dei cittadini di questo Paese dubito molto che, nonostante il generale abbassamento etico della nostra popolazione, Silvio Berlusconi avrebbe una qualche possibilità di salire alla più alta carica dello Stato. Che ne penserebbe, poniamo, un cittadino che per tutta la vita ha pagato le tasse (esistono anche di questi imbecilli) e che viene inseguito senza pietà dall’Agenzia delle Entrate per un banale disguido amministrativo o per una multa stradale? Che ne penserebbero i cittadini della moralità di un uomo che ha truffato un’orfana minorenne, che è come picchiare per strada un bambino? Non voglio credere che siamo scesi così in basso da accettare che si picchino i bambini per strada.

Personalmente ho difeso Berlusconi sulla questione, troppo spesso strombazzata, delle cosiddette “cene eleganti”, perché il presidente del Consiglio, come qualsiasi altro cittadino, in casa sua ha diritto di fare ciò che più gli pare e piace, sempre che non vi commetta reati. E l’ho difeso anche nella vicenda di “Ruby Rubacuori” perché oggi molto spesso una ragazza di 17 anni è minorenne solo per l’anagrafe. Quello che conta non è la moralità privata di un aspirante alla Presidenza della Repubblica, ma quella pubblica quando si è messa in contrasto con le leggi dello Stato italiano.

Ci sono poi da notare, per incidence e in subordine, altre cose. In quasi tutti i casi giudiziari che lo hanno riguardato Berlusconi quasi mai si è difeso solo nel processo (come hanno invece fatto Andreotti e Forlani) ma quasi sempre fuori dal processo dimostrando di non credere affatto alle Istituzioni dello Stato, in particolare alla Magistratura che ne è la garante. Per questo in uno dei miei articoli ho osato azzardare, venendone assolto, un paragone con Renato Vallanzasca. Vallanzasca non ha mai contestato il potere e il diritto dello Stato a punirlo per i suoi delitti; Berlusconi, in linea generale, si è comportato nel modo opposto. Insomma ha contestato quelle Istituzioni di cui pretende di diventare il massimo rappresentante e in particolare la Magistratura di cui, attraverso il Csm, diverrebbe paradossalmente il capo.

Sempre in via subordinata. Il presidente della Repubblica rappresenta l’Italia all’estero e Berlusconi nel periodo in cui è stato premier ci ha esposto a memorabili gaffe internazionali che qui è inutile ricordare. Il presidente della Repubblica ha impegni assai gravosi, molti dei quali all’estero. In che modo Silvio Berlusconi, che ha 85 anni e ha subìto tre gravi operazioni, potrebbe onorarli? Una cosa è tenere un meeting tra i suoi e i suoi amici a Villa Grande, altra è viaggiare per l’intera Europa e magari oltreoceano.

Sulla strada di Berlusconi for President ci sono però alcuni ostacoli. Deve ottenere l’appoggio incondizionato dei suoi alleati, Lega e Fratelli d’Italia, perché l’uscita dal governo della sola Forza Italia, che attualmente è attestata al 7%, non è in grado di far cadere l’esecutivo. Sarebbe disponibile l’intera destra a coprirsi di fango, perché di questo si tratta, per il solo beneficio di un suo esponente di minoranza? Inoltre la caduta del governo comporterebbe la perdita della poltrona, e degli annessi privilegi, per moltissimi parlamentari in virtù della legge, voluta dai Cinque Stelle, che ne ha diminuito il numero.

Eppure Silvio Berlusconi a questo suo sogno ci crede e ci lavora con quell’incredibile energia che è forse la sua migliore dote e che nessuno onestamente può negargli. Non per nulla in questi giorni, sia in prima persona sia attraverso i suoi uomini più fidati, sta facendo scouting, nel Gruppo Misto, tra i Grandi Elettori e ovunque ne veda una qualsiasi possibilità.

Personalmente sono diviso fra due opposte opzioni. La prima è che l’incubo Berlusconi for President non si avveri, per il bene dell’Italia. La seconda è che si avveri perché disveli al mondo intero, e in particolare all’Europa, che cos’è diventato realmente il nostro Paese.