Incipit: “Se in via del Corso chiami ‘Presidente!’ si gireranno in quindici”. Così comincia il “censimento” che Michele Ainis, costituzionalista di Roma Tre e membro dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ha scritto con Andrea Carboni, Antonello Schettino e Silvia Silverio. Presidenti d’Italia è, come spiega il sottotitolo, l’“Atlante di un vizio nazionale”. E dunque partiamo da qui.
Professore, quando nasce questo tic del “presidenzialismo”?
Mi sono esercitato sull’etimologia della parola, che va in auge durante la Roma repubblicana. Ma allora il termine aveva un significato diverso da quello che gli attribuiamo adesso. Praesidens – participio presente sostantivato del verbo praesidere – alla lettera significava “sedere avanti”, ma era usato di solito come “presidiare”: proteggere, difendere. C’è un’occorrenza in Boccaccio, ma dilaga nel Dopoguerra. Durante il fascismo non c’era il presidente del Consiglio: Mussolini era capo del governo, però molti apparati – il treno presidenziale, la polizia presidenziale – avevano questo appellativo.
I dirigenti pubblici, scrive, sono quasi 240mila: un esercito!
Quanto l’intera popolazione di Venezia. La stima l’ha fatta la Corte dei conti nel 2016, ma direi che fotografa un esercito di generali senza truppe, che infatti perdono le guerre. Questo dato ci dice che non siamo un Paese per giovani: abbiamo una popolazione anziana, cioè che ha raggiunto gradi elevati di carriera, a cui manca il ricambio. Dall’invecchiamento e dall’ingessamento dipende la piramide rovesciata che rappresenta la Pubblica amministrazione con la cifra esorbitante di 70mila presidenti.
Qual è il vaccino per l’epidemia di presidenzialismo?
Si chiama semplificazione, è stato scoperto un secolo fa ma non è mai stato inoculato: la prima commissione per la semplificazione burocratica fu istituita nel febbraio 1918! La moltiplicazione delle cariche deriva dalla moltiplicazione degli enti, che andrebbero sfoltiti anche perché spesso sono doppioni. Del resto, sono anni che parliamo della superfetazione normativa e le leggi comunque continuano a moltiplicarsi.
Parlando della Francia, lei ricorda che è un semipresidenzialismo. Arriveremo anche qui al semipresidenzialismo de facto, come ha detto il ministro Giorgetti riferendosi a un’eventuale ascesa al Colle di Draghi?
Il ruolo del capo dello Stato funziona, costituzionalmente, come una fisarmonica: tanto più il sistema dei partiti è fragile, quanto più il ruolo del presidente si espande: il semipresidenzialismo c’è già. Ma noi le riforme le facciamo sempre senza scriverle: siamo passati da Prima a Seconda Repubblica senza cambiare una virgola della Costituzione. Da tempo i nostri partiti sono deboli e spesso caratterizzati da un forte personalismo: non è un caso che Berlusconi e Meloni siano “presidenti” dei rispettivi partiti.
Berlusconi al Colle?
Senza impegnarci con le vicende giudiziarie, ricordo che il presidente “rappresenta l’unità nazionale”. Una caratteristica che nessun leader di partito può accampare.
Possibile che le uniche alternative siano un bis di Mattarella o un trasloco di Draghi?
Sono entrambe due figure “non partigiane” e dunque ciò di cui il Paese ha bisogno. In questo momento il Parlamento soffre di una crisi di legittimità, aggravata dalla pandemia e anche dal record assoluto di voltagabbana. Questo ci dice che abbiamo bisogno di un presidente autorevole e percepito come neutrale. Ma è disperante l’idea che in una nazione di 60 milioni di persone ci siano due soli papabili!
Sulle modalità di voto, nel pieno della quarta ondata, che pensa?
Se ci saranno cento o più elettori contagiati o in quarantena l’elezione sarà delegittimata: in questo momento non ne abbiamo bisogno. Senza dire che c’è un fattore di casualità – se e quanto saranno decimati i partiti – di cui tener conto. L’unica soluzione è il voto da remoto. È un voto secco, non prevede discussione: il pragmatismo a volte risolve più problemi del dogmatismo.