“La Tesei è poco trasparente, nascose la nomina bancaria”

Fino a qualche giorno fa, a turbare il sonno di Donatella Tesei, candidata leghista alle Regionali umbre di domenica prossima, era il buco di bilancio del Comune di Montefalco di cui è stata sindaco fino a un anno fa e certificato prima dalla Corte dei Conti umbra (2017) e ora anche dal revisore dei conti: il disavanzo messo nero su bianco dal dottor Carlo Alberto Zualdi è pari a 2.019.090,80 euro (un quinto del bilancio totale). Un Comune preso con i conti in ordine – nel 2009 l’avanzo di amministrazione era di 4,2 milioni – e lasciato con una voragine che ha costretto la responsabile dell’area finanziaria della nuova giunta di centrodestra, Maria Vittoria Paglialunga, a tagliare servizi, ad aumentare retroattivamente l’addizionale Irpef e a mantenere ai valori massimi Imu e Tari.

Contro Tesei c’è anche un esposto presentato all’Anac (Autorità nazionale anticorruzione) dai consiglieri comunali del gruppo “SìAmo Montefalco” che denunciano una violazione della legge anticorruzione del 2012 (Severino) e del decreto 33/2013 che obbliga i Comuni alla “pubblicità” e alla “trasparenza” sul proprio sito internet. È obbligatorio pubblicare l’atto di nomina, il curriculum, i compensi legati alla carica, ma soprattutto “i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, e i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti” e gli incarichi di collaborazione e consulenza fino a tre anni dalla cessazione dell’incarico. A oggi, alla sezione “Amministrazione Trasparente” del Comune di Montefalco, non v’è traccia della certificazione delle cariche della Tesei (con i relativi compensi) e nel curriculum ci sono tutte le informazioni biografiche sull’ex sindaca tranne una: la carica di consigliere di amministrazione nella Banca Popolare di Spoleto ricoperta dal 16 gennaio al 12 febbraio, quando il cda viene sciolto da Banca d’Italia perché ritenuto troppo in continuità con la gestione di Giovannino Antonini. Non solo: per quanto riguarda le “consulenze e le collaborazioni” il sito del comune rimanda al portale della PA, ma indicando solo gli incarichi affidati negli anni 2016 e 2017; non c’è traccia di quelli del 2018 e del 2019 che, secondo la legge, dovrebbero essere pubblicati immediatamente. “Al momento del nostro esposto all’Anac di venerdì scorso – spiega Daniele Morici, consigliere comunale di Montefalco – i dati sulle consulenze erano aggiornati al 2014: stanno provando a mettersi in regola grazie alla nostra denuncia ma ancora i dati sono incompleti”. E chissà che non dicano qualcosa del passivo di oltre due milioni.

Donatella Tesei, raggiunta dal Fatto Quotidiano, non è molto loquace: “Non ne so niente”. E butta giù. L’Anac sta valutando ma per i Comuni sotto i 15 mila abitanti, in ogni caso, non ci sarebbe alcuna multa. Infine i funzionari Anac dovranno capire se le eventuali omissioni siano dovute all’inerzia del responsabile anti-corruzione locale. Da una prima valutazione sembra che non tutti gli adempimenti siano stati fatti”.

Luca Tocchio, responsabile Trasparenza dal 2 aprile 2013 al 30 giugno 2019 (in piena èra Tesei), si giustifica così: “L’iniziativa sugli incarichi doveva partire dalla sindaca Tesei – dice – non è che tutti i giorni posso sapere gli incarichi del sindaco. I moduli li deve conoscere lei perché lo prevede la legge e poi noi li pubblichiamo”. Anche l’ex segretario comunale Antonio Carella a cui i consiglieri di Montefalco avevano scritto a luglio, spiega che ancora a giugno “c’erano dei problemi evidenti” legati alla trasparenza: “Ho fatto la segnalazione agli uffici di pubblicare gli atti ma non so se è stato fatto, io non lavoro più a Montefalco”.

Nel frattempo si discute del buco di bilancio: “La responsabilità del risultato economico del bilancio consolidato 2018 è della vecchia giunta – spiega il revisore dei conti Carlo Aberto Zualdi – e le criticità sono state confermate anche da quella nuova. Per questo nei prossimi mesi analizzerò una ad una tutte le voci di bilancio per fare maggiore chiarezza”.

“Castelli voleva una norma che aiuta un suo collaboratore”

Non solo Spadafora. Nella giornata da lupi dei dimaiani incappa anche la viceministra all’Economia Laura Castelli, accusata da alcuni dei 5Stelle per una norma salva-ostelli inserita nel decreto imprese, che prevedeva la trasformazione dell’Associazione alberghi per la gioventù (Aig), in difficoltà economica, in ente pubblico sottoposto alla vigilanza della presidenza del Consiglio. Connesso. Un testo in cui erano previsti finanziamenti all’associazione per 283 mila euro per quest’anno e 1,7 milioni di euro annui a decorrere dal 2021. E la Castelli finisce sulla graticola perché un suo collaboratore, Carmelo Lentino, è segretario generale proprio dell’Aig. Così racconta un anonimo parlamentare al sito Politico.Eu.

Ma l’emendamento per l’associazione, firmato da 5 grillini della commissione Attività produttive del Senato, aveva provocato proteste e mal di pancia già dalla sera prima. La viceministra respinge subito ogni accusa, sostenendo che la norma era stata chiesta da tutti i partiti (la sera prima, a rileggere le agenzie, Italia Viva e Leu l’avevano salutato “come una giusta soluzione”). Ma +Europa tuona contro il “conflitto d’interessi” della 5Stelle. E nelle chat del M5S il caso provoca forti discussioni. Alimentate anche dalla fronda anti-Di Maio, a cui la viceministra è vicina. In giornata la norma salta, perché priva delle necessarie coperture. Ma due deputati del M5S, Marco Rizzone e Fabio Berardini, vanno ugualmente all’attacco: “Lentino è venuto anche da noi sei mesi fa a sponsorizzare la norma ma l’abbiamo fermato. Castelli era consapevole?”. Lei tira dritto. “Nessun conflitto d’interessi, io non faccio cose del genere” spiega ai suoi. E replica con una nota: “La norma era nata da emendamenti di tutte le forze politiche e da alcune proposte di legge presentate alle Camere”.

“Ho ceduto sul Pos, ma mi sa che lo tolgo”

“Èvero, ho messo il bancomat perché me l’ha chiesto Conte. Ma la prossima volta gli dirò che se non toglie le commissioni bancarie, lo levo. Perché me so’ stufato de pagà ‘sti str… a buffo”. La proverbiale veracità di Carlo Muzi non si ferma nemmeno davanti al presidente del Consiglio. Lui è il titolare della storica pizzeria “La Montecarlo” di Vicolo Savelli, uno dei pochi posti del centro storico di Roma frequentato quasi più dai romani che da turisti e “forestieri”, forse per l’ambiente informale, la cucina senza fronzoli e i prezzi accessibili. Uno dei posti preferiti da Giuseppe Conte, che da tempo si fa vedere con regolarità, anche un paio di volte al mese. Solo che nel gennaio scorso – come ha raccontato a l’Aria che tira –, il premier ha “bacchettato” il buon Carletto: “Se non metti il Pos non vengo più”, gli ha detto l’inquilino di Palazzo Chigi. “A malincuore, l’ho dovuto far mettere”, racconta ora Muzi al Fatto, perché “se un presidente del Consiglio, che è tuo cliente, ti dice una cosa del genere, tu non puoi non raccogliere l’invito”.

Proprio lui che un anno e mezzo prima, intervistato dalla trasmissione Matrix di Canale 5, si era eretto leader dei ristoratori romani che resistevano “contro il sistema bancario”. E a Roma ce ne sono di storici: da “Betto e Mary” a Tor Pignattara al “Gallo Rosso” a Pietralata, passando per “Alfredo a San Giovanni” e “La Gensola” a Trastevere. “Ma io la penso ancora così”, puntualizza il titolare de “La Montecarlo”, mentre si avvicina al computer e accede al conto online della società: “Guarda qua, è uno stillicidio – ci dice scorrendo le voci di uscita – Da quando ho messo il pos, mi scalano dai 600 ai 1.000 euro al mese in commissioni. Ognuno che arriva, paga con la carta e la banca si tiene il 2%. A volte passa qualche straniero con qualche carta oro e la percentuale sale. Non si può andare avanti così”. Ora che arriva l’obbligo, tutti si sentiranno in dovere di pagare con carta di credito. “Ma perché mi devi costringere? Io le tasse le pago, le fatture stanno tutte qua (apre un’altra finestra ad hoc, ndr)”. Poi azzarda: “Ho deciso, la prossima volta che viene, gli dico che se non fa qualcosa per togliere le commissioni bancarie, il pos lo levo. Non se ne può più”. E aggiunge: “Almeno che queste spese siano a carico dei clienti, come avviene nel resto del mondo. Tu spendi, paghi con la carta e sai che hai le commissioni”. E in romanesco chiosa: “Ahò, io dovrei fa’ er pizzettaro, nun posso fa’ pure er ragioniere!”.

In fondo, in una città che si popola di pinserie, bistrot e carbonare destrutturate, Muzi resta un romantico della ristorazione. Anche nell’accettazione della tecnologia: “Io quelli di queste app che portano le pizze in giro non li voglio vedere. Devi uscire di casa e venire qua a mangiarla, oppure la prendi e te la porti”. Il pagamento con carta, secondo Muzi, avrebbe messo in difficoltà il personale: “I camerieri non prendono più mance. Il cliente viene, mangia, si alza e paga con la carta l’importo preciso. E se vogliono lasciare una mancia, io non posso nemmeno segnarla, perché devo registrarla. I ragazzi sono arrabbiati, e non solo da me”.

Guerra nel M5S su Roma. Tutti contro Spadafora

Alle cinque della sera, nel Senato semivuoto, Gianluigi Paragone riassume lo stato delle cose nel M5S: “Ormai ci aggreghiamo per inerzia, oggi non ci siamo neppure sentiti prima di scrivere i post”. Non hanno dovuto organizzarsi tutti quei grillini che ieri hanno inveito contro il ministro dello Sport Vincenzo Spadafora, dimaiano di ferro, “reo” di aver bocciato la sindaca di Roma Virginia Raggi martedì a Omnibus: “L’amministrazione di Roma è un problema, la sindaca no, e siamo tutti corresponsabili, non solo lei: è un’esperienza da cui dovevamo aspettarci molto di più”.

Un giudizio che, con un giorno di ritardo, scatena una valanga di post pro Raggi. Tutti, o quasi, da big molto critici sulla gestione di Di Maio, che azzannano Spadafora anche per mordere il capo politico. E adesso nella mischia c’è anche l’ex ministro Danilo Toninelli, da tempo silente, ieri durissimo: “Difendere Virginia è difendere la legalità. Chi non lo fa o è colluso o non ha capito nulla”. Ergo, l’alluvione di ieri è un altro sintomo della fronda che si dilata e si coagula contro il leader. Ma Di Maio deve tappare la falla. Così telefona alla sindaca, per rassicurarla, e poi si espone: “Per far risorgere Roma bisogna dare poteri speciali al sindaco. Abbiamo pronto come M5S il disegno di legge per attribuire poteri speciali a Raggi”. Ma del ddl “non si è vista traccia nei tavoli di governo”, fa notare Dario Franceschini, capo delegazione di governo del Pd, che almeno assicura: “Pronti al confronto nelle sedi appropriate”. Il vicecapogruppo alla Camera del M5S Francesco Silvestri, mette ordine: “Presto arriverà un nostro disegno di legge”. Nell’attesa, è fuoco contro Spadafora. “Ha parlato a titolo personale” giurano subito dai vertici. Però non basta per placare Barbara Lezzi: “Spadafora non parla per mio conto, anche se ha la presunzione di esprimere le opinioni del M5S. La nostra sindaca ha ereditato lo scempio che gli altri partiti hanno commesso, glielo dobbiamo ricordare al ministro? La sua delusione è un gancio al PD, a Salvini o a chi?”. E tira in mezzo anche Di Maio: “Il capo politico dovrebbe mettere fine allo sproloquio del ministro”.

Ma ci va già duro anche Paragone: “Raggi è un problema solo per chi frequenta i salotti romani, ed è stata tradita dall’alleato Zingaretti, attuale presidente (fantasma) della Regione con cui Spadafora fa le cene”. Chiara l’imputazione di intelligenza con i dem. Certo, Spadafora prova a tamponare: “Le mie parole non erano un attacco a Virginia Raggi, pochi possono dire di averla sostenuta quanto me”. Ma irrompe ugualmente l’europarlamentare siciliano Ignazio Corrao: “Spadafora è passato dalla segreteria di Di Maio alle più alte posizioni di governo in un battibaleno, saltando tanti anni di battaglie, sacrifici, sogni e pesci in faccia”. Anche il veterano Corrao chiede da tempo un cambio di rotta. E al Fatto fa la sintesi: “Al Movimento serve una nuova primavera”. Con Raggi dentro. “Lei potrebbe essere un capo politico alternativo, per questo Di Maio e i suoi non la tollerano” sussurrano fonti di governo.

La certezza è che la difendono anche Paola Taverna e Max Bugani, suo attuale capo staff: “Avviso ai naviganti, Virginia non si tocca e finirà il suo mandato arrendetevi”. Domani dovrà reggere uno sciopero generale in città, e il M5S, assicurano, la sosterrà. Tutto.

Delrio in Antimafia: “Mai fatto comizi a Cutro”

Graziano Delrio, attuale capogruppo del Pd, non è mai andato in Calabria per fini elettorali. A portarlo nel comune crotonese di Cutro durante la festa del Santissimo Crocifisso nel 2009, quando era sindaco di Reggio Emilia, è stato l’invito degli amministratori che avevano stretto un “patto di amicizia” con la città che amministrava.

L’ex ministro è stato sentito ieri in commissione Antimafia e ha chiarito “il senso” delle visite erroneamente collegate alle vicende di Reggio oggetto del maxi procedimento contro la ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Ha premesso che la questione “è tornata all’attenzione in seguito alla sentenza del processo Aemilia: viene stigmatizzato il fatto che non bisognava compiere la campagna elettorale a Cutro”. Ma “agli atti – ha chiarito – ci sono le affermazioni dei pubblici ministeri che affermano che le mie posizioni sono nette e chiare contro il fenomeno ndranghetista”.

“La prima precisazione – ha dichiarato – è che non ho mai dato mandato né sono stati affissi cartelloni a Cutro, non c’è stata nessuna azione di propaganda elettorale durante il viaggio ma solo un’azione di rappresentanza che si è svolta esclusivamente insieme al sindaco con appuntamenti pubblici”.

A fronte di un “fenomeno radicato in tutto il nord e non solo” che “da decenni necessita una forte presa di coscienza da parte di tutta la politica e il settore pubblico”, Delrio ha elencato le proprie iniziative di contrasto alla ‘ndrangheta e alla criminalità: “C’era un gemellaggio con le cooperative reggiane e della Locride per la lotta alla ‘ndrangheta, con queste associazioni abbiamo mantenuto rapporti costanti con scambi di giovani, anche un mio figlio andò a fare volontariato in Calabria”. E ancora: “In assenza di un dibattito pubblico, da sindaco ho commissionato una ricerca al Prof. Ciconte per comprendere meglio con quali meccanismi e profondità si stava sviluppando il fenomeno mafioso dopo le risultanze di una serie di indagini e processi. Abbiamo firmato un protocollo nel 2005 con i sindacati per impedire infiltrazioni della criminalità nel territorio”.

Il deputato dem ha sfruttato la circostanza dell’audizione anche per censurare i vari tentativi di “speculazione” e “deformazione” di fatti “facilmente ricostruibili”. Allineato alle sue parole Franco Mirabelli, capogruppo Pd in commissione Antimafia: “La richiesta di audizione di Delrio non ha alcun fondamento se non una ragione strumentale dato che si voterà in Emilia Romagna. Delrio risulta del tutto estraneo a qualunque di queste vicende. Nonostante questo lo ringrazio per aver accettato di venire qui in Antimafia: ha dimostrato di avere un rispetto per il Parlamento che altri non hanno dimostrato: non l’ha dimostrato il precedente ministro degli Interni che si è sottratto a venire qui ad essere audito sulla sua presenza in alcuni luoghi e su alcune foto”.

Caos Libia, torna Manenti. Può saltare il vertice dell’Aise

Giovedì scorso, il generale Alberto Manenti, capo dell’Aise (i servizi segreti esterni) ai tempi di Marco Minniti e artefice degli accordi del 2017 con il governo provvisorio libico, è andato al Viminale con l’ambasciatore di Libia a Roma. Ha incontrato il ministro degli Interni, prefetto Luciana Lamorgese, e secondo alcune fonti anche il sottosegretario M5S, Vito Crimi. L’Italia sta valutando se e come rinnovare gli accordi con Tripoli, che scadono il 2 novembre e contengono una clausola di tacito rinnovo, in una situazione resa molto più drammatica. Negli ultimi mesi sono riprese le azioni militari guidate dal generale Khalifa Belqasim Haftar, che controlla la Cirenaica con il sostegno della Francia, contro il governo provvisorio di Fayez Al Serraj riconosciuto dalle Nazioni Unite. Nella polveriera libica, dove aumenta l’afflusso di profughi anche dalla Siria, è necessario individuare gli interlocutori giusti per tutelare al meglio gli interessi italiani e scongiurare il rischio di una nuova ondata di partenze.

Un incremento del resto c’è già stato, a dispetto delle condizioni meteo non favorevoli, anche con il terribile naufragio del 6 ottobre che ha visto morire diverse decine di persone tra cui donne e bambini, ad appena sei miglia da Lampedusa, a conferma di qualche problema perfino nella gestione del soccorso in acque italiane. Piccoli sbarchi si sono susseguiti a Lampedusa (dove l’hotspot è strapieno) e altrove, Matteo Salvini attacca ogni giorno e il governo dovrà rispondere a breve alla nave Ocean Viking delle Ong Medici senza frontiere e Sos Méditerranée, che ha 104 naufraghi a bordo da tre giorni. Lamorgese ha anche annunciato procedure semplificate per le richieste d’asilo e misure per alleviare la tensione a Lampedusa. Anche l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati che opera in Libia, ha fatto sapere che la situazione è difficile: si contano 650 mila migranti nel Paese, di cui almeno 4.500 nei centri di detenzione e 45 mila registrati come richiedenti asilo, ma anche 300 mila sfollati libici. L’Italia ha puntato molto sulla Guardia costiera di Tripoli, che però non offre sufficienti garanzie per i migranti riportati indietro. Tant’è che proprio l’Unhcr ha aperto ieri una investigazione su Malta, che avrebbe chiesto ai guardacoste libici di intervenire per un soccorso nella sua zona di competenza.

Degli accordi con Tripoli si occupano il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e naturalmente la Farnesina, anche nell’ottica di una “deviminalizzazione” del tema dopo due ministri, Minniti e poi Matteo Salvini, che pur essendo molto diversi tra loro – uno studia e l’altro meno, uno evita la propaganda e l’altro ne vive, uno conosce gli apparati e l’altro li teme e ne solletica gli ambienti peggiori – hanno accentrato la politica libica agli Interni. Ma il ministro Lamorgese fa la sua parte ed è comprensibile che abbia chiamato Manenti, al Sismi dal 1980 e poi direttore dell’Aise, nato in Libia e profondo conoscitore del Paese, per farsi un’idea più precisa della situazione. La stessa Lamorgese proprio ieri ha ricevuto il suo omologo libico, Fathi Ali Basha Agha, con il quale hanno discusso – fa sapere il Viminale – in particolare della possibilità di procedere a nuove evacuazioni umanitarie in stretto coordinamento con le organizzazioni internazionali (sinora l’Italia è stato l’unico Paese a farle: 859 dal 7 dicembre 2017). Che gli accordi con Tripoli vadano rinnovati quanto prima l’ha detto chiaramente Minniti, giorni fa, in un’intervista a Repubblica. Conte però martedì ha mostrato più dubbi: “Faremo delle riunioni governative per valutare nel merito del proseguo di quello che lei chiama l’accordo con la Libia – ha risposto a un cronista –. Poi valuteremo in trasparenza come comunicarlo e confrontarci con il Parlamento”.

Il ritorno in campo del suo predecessore Manenti, sia pure per un semplice scambio di opinioni, non poteva esser gradito all’attuale numero uno dell’Aise, il generale Luciano Carta, ex ufficiale della Finanza che gode della stima di tutti, ma non è così addentro alle vicende libiche. Anche perché il governo, a quanto risulta al Fatto Quotidiano, starebbe perfino valutando l’ipotesi di sostituire Carta con il generale Gianni Caravelli, ufficiale proveniente dall’Esercito, attuale vicedirettore dell’Aise che era già a Forte Braschi con Manenti e oggi come allora segue il delicato dossier libico. Il generale Carta potrebbe passare al Dis, il Dipartimento per l’informazione e la sicurezza della Presidenza del Consiglio a cui fanno riferimento Aisi e Aise. Lì al momento c’è Gennaro Vecchione, altro generale ex Guardia di Finanza, molto vicino a Conte. Che però potrebbe spostarlo per affidargli la delega ai Servizi, rimasta alla Presidenza del Consiglio, nonostante la scelta non convinca gran parte della composita compagine governativa.

Donald ora è inguaiato per le pressioni su Kiev

Pochi americani, e pochissimi fra gli elettori di Donald Trump, sanno che cosa vuol dire e da dove viene Quid pro quo. Ma ormai l’espressione è sulla bocca di tutti o almeno sta sulle prime pagine di tutti i giornali: è l’elemento portante dell’istruttoria della Camera statunitense sulla procedura d’impeachment lanciata per iniziativa dei democratici.

L’incaricato d’affari degli Stati Uniti in Ucraina William Taylor ha testimoniato davanti alle commissioni della Camera che conducono l’indagine che il magnate presidente subordinò aiuti militari all’Ucraina, già decisi dal Congresso, all’accettazione da parte del presidente Volodymyr Zelensky della richiesta di aprire un’inchiesta su un suo rivale politico interno, Joe Biden. La deposizione di Taylor, molto dettagliata e articolata in sei punti, viene giudicata dal New York Times “il resoconto di gran lunga più dannoso per il presidente Trump finora divenuto pubblico”.

Le testimonianze che si susseguono di fronte alle Commissioni della Camera fanno emergere ulteriori elementi e fanno così sfumare l’obiettivo di votare alla Camera entro fine novembre: c’è troppo lavoro da fare. George Kent, sottosegretario al Dipartimento di Stato in carica per l’Ucraina, racconta che Vladimir Putin e il premier ungherese Viktor Orban contribuirono a convincere Trump che Kiev tentò di minare la sua corsa alla presidenza nel 2016.

Trump ha sempre negato il “quid pro quo”, nella telefonata con Zelensky del 25 luglio o altrove. Ma la circostanza era stata ammessa, giorni fa, da un suo stretto collaboratore, il capo dello staff della Casa Bianca ad interim Mick Mulvaney, come se fosse prassi normale (“cose che accadono”). Nella sua testimonianza a porte chiuse, Taylor ha anche raccontato che Trump rifiutò d’incontrare alla Casa Bianca il leader ucraino finché questi non avesse accolto la richiesta di indagare sul figlio di Joe Biden, Hunter, in affari con una società energetica ucraina, e su presunte mene democratiche nel 2016.

L’incontro fra Trump e Zelensky, a fine settembre, avvenne a New York, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite; solo dopo l’attore soddisfò la pretesa dello showman. Ma l’ucraino era preoccupato delle pressioni della Casa Bianca da mesi: secondo Associated Press, già il 7 maggio, due mesi prima della telefonata incriminata, Zelensky convocò i suoi collaboratori per discutere delle pretese di Trump.

Per il presidente, si sa, è tutta una “caccia alle streghe”, una “campagna coordinata da sinistra e burocratici non eletti”. Prima che Taylor deponesse, il presidente aveva twittato: “L’indagine sull’impeachment è un linciaggio contro di me”, lanciando l’ennesima bordata contro i dem e invitando i repubblicani a schierarsi a sua difesa. Ma il termine “linciaggio” evoca pagine buie della storia Usa, una scia di sangue lasciata da un razzismo brutale, e ha suscitato reazioni indignate: 4.743 persone sono state linciate negli Stati Uniti tra il 1882 e il 1968, fra cui 3.446 afroamericani.

Le testimonianze sul “quid pro quo” s’accumulano e le contraddizioni del presidente creano disagio fra i repubblicani. Mitch McConnell, leader della maggioranza al Senato e stretto alleato di Trump, smentisce il magnate che lo chiama in causa: nega di avere mai discusso con lui della telefonata a Zelensky; una precisazione che suona presa di distanza.

L’inchiesta sull’impeachment, partita in sordina e fra molte titubanze dei leader democratici, si fa sempre più complicata per il presidente, che continua a perdere pezzi della sua Amministrazione. Dopo il segretario all’Energia Rick Perry, anch’egli rimasto impaniato nell’Ucrainagate, ha ieri lasciato Ann Shaw, vice-direttore del National Economic Council e consigliere per gli affari economici internazionale.

Trump e i suoi si lamentano spesso dell’esistenza di un “deep State” che lavorerebbe loro contro. Qualcosa di vero c’è: l’alto funzionario della Casa Bianca, di cui il New York Times pubblicò un anno fa una lettera anonima su una resistenza sotterranea all’Amministrazione Trump, ha ora scritto un libro, che uscirà a novembre. Il titolo è A Warning.

Salvini tace sul Metropol. E attacca Report in Cda

Vietato parlare di Russia, Savoini e presunti finanziamenti alla Lega. Questo, almeno, vorrebbero gli uomini del Carroccio e di Fratelli d’Italia nel consiglio d’amministrazione della Rai, che ieri hanno protestato contro l’inchiesta di Report sullo scandalo Russiagate. La puntata di lunedì è tornata sull’incontro del Metropol di Mosca del 18 ottobre 2018, quando Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo Salvini, insieme ad altri due intermediari italiani avrebbe incontrato una delegazione russa con l’obiettivo di ottenere una tangente da 65 milioni per la campagna elettorale della Lega. Tesi sempre smentita, in maniera piuttosto vaga, proprio da Salvini, che ieri ha potuto contare sulle barricate nel cda di Viale Mazzini: Igor De Biasio (consigliere indicato dalla Lega) e Giampaolo Rossi (indicato da FdI) hanno contestato l’inchiesta in nome della par condicio in vigore per le elezioni regionali. Secondo i due consiglieri, contrastati da Rita Borioni (Pd), Riccardo Laganà (rappresentante dei dipendenti) e pure dall’ad Fabrizio Salini, Report sarebbe stato “apertamente finalizzato al condizionamento del dibattito politico” in vista del voto in Umbria di domenica. E poco importa se la Commissione di Vigilanza indichi l’obbligo di parità di trattamento solo sui temi che riguardano il territorio in cui si vota. A preoccupare Lega e Fratelli d’Italia, poi, c’è un ulteriore elemento, perché nelle ultime ore Report ha annunciato una seconda puntata per lunedì prossimo: “Parleremo di nuovi collegamenti inquietanti – rilancia il conduttore Sigfrido Ranucci– tra esponenti leghisti e la Russia, continuando a raccontare come si è costruita una macchina per fabbricare paura”. Senza il timore di aver violato le leggi: “Le norme sulla par condicio sono costretto a studiarle e so che non c’entra nulla. Ma aggiungo che faccio il mio mestiere per chi paga il canone: se c’è una notizia che riguarda la salute della democrazia, la do a prescindere”. Nonostante lo scontro in cda, comunque, Ranucci conferma la fiducia nell’azienda: “In Rai mi sento e mi sono sempre sentito libero”.

Intanto però il caso non è soltanto televisivo. Ieri due parlamentari del Pd, Dario Parrini e Franco Mirabelli, hanno presentato una interrogazione al premier Conte per far luce sullo scandalo: “La ricostruzione dei rapporti intessuti dalla Lega da quando Salvini ne diventò il segretario mostra l’esistenza di un disegno finalizzato alla nascita di un asse internazionale tra forze estremiste di destra”. Di qui la richiesta su “quali iniziative urgenti il governo intenda adottare” per fare chiarezza su fatti “allarmanti”.

In attesa che Conte risponda in aula, il premier non ha nascosto l’irritazione nei confronti dell’ex ministro: “Quel che mi sorprende è come Salvini non avverta la responsabilità di chiarire. Sono andato al Senato a riferire al suo posto, per altro senza avere informazioni da lui”. E ancora: “Qui non c’è sensibilità istituzionale. Forse dovrebbe chiarire cosa faceva con Savoini negli incontri istituzionali con le autorità russe”.

Anche il M5S si è esposto contro l’ex alleato, pubblicando sul blog le “quattro domande a Salvini”. I grillini ricordano come il leghista sia “scappato dal Parlamento” già in passato e incalzano con la prima delle quattro domande : “Perché Salvini ha fatto credere di non conoscere Savoini nonostante fosse il suo ex portavoce?”.

Per il momento, Salvini non replica né in Parlamento né in tv. Eppure proprio Report gli aveva offerto la possibilità di rispondere: “Glielo abbiamo chiesto tre volte – assicura Ranucci –, una al suo ufficio stampa, una via mail e una ripresi dalle telecamere, come si vede nella puntata. Non so perché non ci abbia voluto rispondere, di domande da fargli ce ne sarebbero parecchie”.

Russiagate, la versione di Conte: “Non potevo dire no agli Stati Uniti”

Questa è la versione che Giuseppe Conte ha consegnato al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica e poi agli italiani in conferenza ufficiale a Palazzo Chigi della doppia visita in Italia del ministro William Barr sulle tracce di una rivisitazione del Russiagate. Alla fine di giugno, per canali diplomatici, cioè all’ambasciatore italiano Armando Varricchio di stanza a Washington, l’americano Barr, ministro della Giustizia nonché procuratore generale e responsabile dell’Fbi, ha fatto pervenire al governo la richiesta di avere informazioni sull’operato degli agenti Usa in Italia durante la campagna elettorale del 2016. “Non era agosto: falso. Era giugno”. Il premier ha precisato con zelo, più volte, il tempo del contatto iniziale con gli americani per smentire chi sostiene che abbia agito per assecondare una battaglia politica di Trump e poi ricavarne un beneficio dopo la fine del Conte 1 a tinte gialloverdi.

Il contesto è importante. Su mandato di Donald Trump, il ministro Barr ha compulsato i Paesi che da sempre ruotano nell’orbita di amicizia e di influenza degli Stati Uniti – l’Italia, ma anche la Gran Bretagna e l’Australia (vengono citati pure da Conte) – per scoprire e semmai dimostrare che il Russiagate non fu una manovra di Mosca per danneggiare la candidata Hillary Clinton, ma un complotto dei servizi segreti americani e occidentali, all’epoca guidati dai democratici, per creare ad arte la “collusione” con la Russia dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Ribaltare la prospettiva del Russiagate per Trump vuol dire marciare in trionfo verso il secondo mandato con il voto nel novembre del prossimo anno. E l’Italia è un tassello necessario, perché a Roma è scomparso il presunto professor Joseph Misfud, l’innesco della prima inchiesta sul Russiagate – affidata al procuratore speciale Robert Mueller – che ha tormentato Trump sin dal primo giorno alla Casa Bianca.

Armando Varricchio, che fu promosso a Washington da Matteo Renzi, proprio nel periodo che Barr e colleghi scandagliano, ha inoltrato il messaggio a Giuseppe Conte. Il premier ha dato seguito all’istanza del ministro della Giustizia e autorizzato due incontri con i servizi segreti: sempre alla sede degli 007 in piazza Dante a Roma; il 15 agosto tra Barr e Gennaro Vecchione, il capo del Dis, il dipartimento che coordina l’intelligence; il 27 settembre tra Barr e il procuratore John Durhan, ancora Vecchione e i direttori delle agenzie operative, il prefetto Mario Parente (Aisi, interni), il generale Luciano Carta (Aise, esteri). Il premier ha ribadito di non aver mai ricevuto indicazioni sul Russiagate da Trump e di non aver mai parlato – né di persona né al telefono – con il ministro Barr di questa “indagine preliminare”.

Il ministro di Trump era a caccia di indizi sugli agenti americani e, passaggio delicato, Conte ha puntualizzato che non c’erano sospetti sugli 007 italiani: “La richiesta di informazioni da parte degli Usa è avvenuta sul presupposto di non voler mai mettere in discussione l’operato delle autorità italiane”.

Allora perché l’esigenza di una duplice visita in Italia di una delegazione guidata da Barr? “Nel corso della seconda riunione, quella del 27 settembre, è stato chiarito che, alla luce della verifiche fatte, la nostra intelligence è estranea a questa vicenda. Abbiamo rassicurato gli americani sulla nostra estraneità e questo ci è stato riconosciuto”.

Conte ha spiegato le motivazioni che l’hanno spinto ad accogliere le domande degli americani: “Se tornassi indietro non farei e non potrei fare diversamente, perché questa indagine preliminare che conduce un nostro alleato è una tipica attività di intelligence. Se ci fossimo rifiutati di sederci a un tavolo, avremmo recato sì un danno alla nostra intelligence, oltre a produrre una grave slealtà nei confronti di un alleato storico”.

La sostanza è che il ministro Barr ha cercato invano in Italia appigli a una rilettura del Russiagate e nel 2019 l’Italia ha confermato che nel 2016 l’intelligence non ha interferito in faccende politiche degli Stati Uniti.

Esauriti gli aspetti tecnici, il premier s’è lanciato all’offensiva di Matteo Salvini e lo scandalo Metropol che coinvolge l’ex portavoce leghista Savoini: “Salvini deve rispondere: cosa ci faceva con Savoini con le massime autorità di Mosca, il ministro dell’Interno, il vertice dell’intelligence? Deve rispondere per dire se è idoneo o no a governare un Paese”. Russiagate, vecchi e nuovi. Non finisce qui.

Sanno quello che fanno

Siccome non c’è limite al peggio, la Corte costituzionale ha seguito quelle europee e ha deciso che in Italia l’unico ergastolo possibile è quello finto. In tutto il mondo, da che mondo è mondo, l’ergastolo significa “fine pena mai”. Da noi invece “fine pena forse”. Tant’è che nel 1992, dopo Capaci e di via D’Amelio, si dovette escogitare la ridicolaggine dell’“ergastolo ostativo” per affermare un principio che dovrebbe essere ovvio: l’ergastolo è incompatibile con permessi, sconti di pena e altre scappatoie, per tener dentro a vita almeno qualcuno, cioè i criminali più pericolosi, irriducibili e irredimibili (mafiosi e terroristi). L’8 ottobre i giudici di Strasburgo avevano bocciato questa norma di puro buonsenso e tutti avevano spiegato che, essendo provenienti perlopiù da Paesi immuni dalla mafia, non sanno che un mafioso è per sempre, salvo che parli o muoia. E ritenere l’ergastolo vero come una negazione del principio di rieducazione della pena è una doppia fesseria: intanto perché uno può rieducarsi restando in carcere (ci sono svariati casi di ergastolani che lavorano, studiano, si laureano senza mettere piede fuori); e soprattutto perché per redimersi davvero il mafioso deve innanzitutto recidere i legami col suo clan, e può farlo solo se collabora.

Ma questi elementari principi sembrano sfuggire anche ai giudici costituzionali italiani, che un’idea della cultura e della prassi mafiosa dovrebbero averla. Quindi sanno quello che fanno. Perciò la loro sentenza è ancor peggio di quella europea: perché non può essere giustificata neppure con l’ignoranza. Affidare alla discrezionalità dei giudici la decisione pro o contro un permesso premio a un mafioso irriducibile li espone a lusinghe, minacce e vendette mafiose: se oggi nessun ergastolano “ostativo” ottiene permessi premio è perché la legge li vieta; domani gli ergastolani “ostativi” (tipo i fratelli Graviano, condannati per tutte le stragi del 1992-’94) chiederanno permessi e, se non li otterranno, sarà “colpa” del giudice che li ha negati pur potendoli concedere. Dunque proveranno a comprarlo e a intimidirlo e, in caso di diniego, a punirlo. L’accesso ai permessi premio è la prima breccia nel muro finora impenetrabile del decreto Scotti-Martelli (41-bis, ergastolo vero e benefici ai pentiti) battezzato 27 anni fa col sangue di Falcone, di Borsellino e delle altre vittime delle stragi. Un muro che i boss provano da allora a scalfire con le buone (la trattativa) e con le cattive (le bombe, le minacce e i ricatti). Dopo Capaci e via D’Amelio, il Ros domandò a Riina, tramite Ciancimino, cosa volesse per una tregua.

E il boss rispose con un papello di richieste: via l’ergastolo, il 41-bis, i pentiti, le supercarceri di Pianosa e Asinara. Nel ’93 il 41-bis fu ammorbidito, con la cacciata del capo del Dap Niccolò Amato e la revoca del carcere duro a 334 mafiosi. Nel ’94 B. tentò col decreto Biondi di abolire l’arresto obbligatorio per i reati di mafia, poi la norma fu bloccata da Bossi e Fini (perché liberava anche i mazzettari di Tangentopoli); ma nel ’95 fu approvata da destra e sinistra insieme. Nel ’97 il centrosinistra chiuse Pianosa e Asinara, nel ’99 abolì l’ergastolo per due anni, poi nel 2001 ci ripensò, ma in compenso introdusse i benefici e aumentò i limiti ai pentiti. Poi tornò B. e i suoi uomini al Dap aprirono alla “dissociazione” dei boss irriducibili (benefici senza confessare nulla né denunciare nessuno), ma furono bloccati. Il 12 luglio 2002 Leoluca Bagarella, cognato di Riina, prese la parola in un processo, collegato dal carcere dell’Aquila, e lesse un comunicato a nome degli altri detenuti in sciopero della fame contro i politici che non mantenevano “le promesse” sul 41-bis: “Siamo stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche”. Con chi ce l’aveva? Lo svelò il Sisde: Cosa Nostra minacciava di tornare a sparare, stavolta senza “fare eroi”: “L’obiettivo potrebbe essere una personalità della politica percepita come compromessa con la mafia e quindi non difendibile a livello di opinione pubblica”. Chi? Il Sisde mise subito sotto scorta Dell’Utri e Previti.

Il 19 dicembre 2003 il governo B. riformò il 41-bis, rendendone più facili le revoche. Ma i mafiosi lo volevano proprio abolito. Il 22 dicembre allo stadio di Palermo, durante la partita fra la squadra di casa e l’Ascoli (il club della città dov’era detenuto Riina), comparve un mega-striscione: “Uniti contro il 41-bis. Berlusconi dimentica la Sicilia”. La risposta arrivò nel 2006, in campagna elettorale, quando B. esaltò Mangano come “eroe”. Ma evidentemente le promesse erano ben altre. Ancora nel 2016-2017 Giuseppe Graviano si sfogava col compagno d’ora d’aria Umberto Adinolfi: nel 1992 “Berlusca” gli aveva chiesto “una cortesia” (le stragi?) perché aveva “urgenza di scendere” in campo e “lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa”. E accusava B. di ingratitudine: “Pigliò le distanze e ha fatto il traditore… 25 anni fa mi sono seduto con te, giusto è?… Traditore… pezzo di crasto… ma vagli a dire com’è che sei al governo… Ti ho portato benessere. Poi… mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi… Dice: non lo faccio uscire più e sa che io non parlo perché sa il mio carattere e sa le mie capacità… Mi sono fatto 24 anni, ho la famiglia distrutta… Alle buttane glieli dà i soldi ogni mese. Io ti ho aspettato fino adesso… e tu mi stai facendo morire in galera…”. Graviano affidava poi ad Adinolfi – in procinto di uscire – un messaggio ricattatorio per un misterioso intermediario col mondo berlusconiano a Milano2. E discuteva col compare dell’opportunità o meno di dire ai magistrati tutto ciò che sa. Ma sbagliava destinatario. Bastava aspettare le due Corti. Quod non fecerunt berluscones, fecerunt ermellini.