Riecco “Cortez”, il più censurato “Grand-Opéra” della storia

Spontini, marchigiano di Maiolati, come tutti i conterranei, a cominciare da Pergolesi, studiò musica in uno dei Conservatorî napoletani. Era nato nel 1774; per un breve periodo seguì Ferdinando e Maria Carolina in Sicilia. Ma aveva entro di sé qualcosa di così epico e grandioso che la morente Opera italiana non bastava a contenerlo: Rossini era di là da venire. Ebbe il coraggio di trasferirsi a Parigi, come già aveva fatto Cherubini. Entrò nelle grazie di Giuseppina; meno di quelle di Napoleone. Di gusti passatisti (gli piaceva persino Zingarelli!), è probabile lo infastidisse anche il carattere altero del giovane Maestro, nemico di ogni compromesso. Certo, egli aveva il talento di suscitarsi ovunque nemici. Ma nel 1807, dopo lunga attesa, riuscì a far rappresentare La Vestale. Non saprei dire se essa sia già un Grand-Opéra o ancora una Tragédie Lyrique. Contiene dell’uno e dell’altro genere. Quel che è certo è ch’è l’emblema stesso dello stile neoclassico in musica; e infatti le affinità con Beethoven vi sono numerose e non superficiali. Insieme con l’Anacréon di Cherubini è la più bella Opera neoclassica mai composta.

Il successo fu insperato, immenso: e il capolavoro attirò l’ammirazione successiva di Wagner, Verdi, Berlioz. Ma due anni dopo Gaspare, che fu anche il primo inventore della moderna direzione d’orchestra, preparò qualcosa di autenticamente rivoluzionario. Il primo Grand-Opéra della storia: hanno un bel cianciare i francesi con La muette de Portici di Auber, ch’è di vent’anni dopo e tante altre cose che non possono esservi paragonate.

Robert le Diable di Meyerbeer è del 1831, e porta tutto il segno del cattivo gusto Luigi Filippo. Il Grand-Opéra è una formula con elementi fissi che vogliono pompose scene di massa, Balletto, grandiosità. L’Opera nacque in Francia sotto Luigi XIV con il fiorentino Lully, ma il Grand-Opéra è cosa tutta italiana: Cherubini, Spontini, Rossini, Donizetti, Verdi. Or un altro carattere assai gradito in questo genere di Opera era l’esotismo. E il Fernand Cortez (sottotitolo: La conquista del Messico) non solo per il luogo ove si svolge, ma per il fatto di contenere musica basata su scale musicali estranee all’europea, è davvero il primo saggio di esotismo. Poi, l’atmosfera barbara e feroce di che è fatta, non s’era ancor vista nella musica.

Ma Spontini non aveva fortuna. Cortez, simbolo di civiltà, i crudeli sacerdoti aztechi autori di sacrifici umani, dovevano simboleggiare Napoleone come portatore di pace, di cultura e religione cristiana, laddove i sacerdoti i fanatici preti spagnuoli che incitavano alla guerriglia contro i francesi. In Spagna, infatti, a Napoleone le cose andarono ancor peggio che in Russia, se possibile. L’argomento divenne inopportuno, a onta del fatto che il Cortez è un capolavoro musicale. Venne tolto dal cartellone dopo poche recite.

Spontini ne riscrisse una seconda, e migliore versione, sotto il tollerante Luigi XVIII, nel 1817. Le parti nuove non sono moltissime: ma rimescolò l’Opera come un mazzo di carte, sì da attribuirvi una coerenza drammatica, e anche musicale, superiore. Tanto più che questo rafforza i richiami tematici della Sinfonia rispetto all’Opera. Io conosco molto bene chi suggerì all’allora soprintendente dell’Opera di Firenze Chiarot la scelta di questo capolavoro ch’egli non aveva mai inteso nominare. Allora costui su Wikipedia lesse che il Cortez era stato diretto al San Carlo da Rossini. Fu nel 1820; nella seconda versione. Naturalmente a Firenze è andata in scena la prima (e stasera ci sarà l’ultima replica, ndr). Ma il fatto che uno dei giganti della musica italiana torni per una volta alla vita esecutiva aiuta a dimenticare la preferenza e dell’Autore e di Rossini. Questo Cortez fiorentino resterà, speriamo, un avvenimento d’importanza storica.

www.paoloisotta.it

Sprofondo Veneto: al cinema il declino industriale e umano

Un paesaggio di rovine: questo il Veneto nei film appena usciti dei due enfants terribles du pays, Andrea Segre (Il pianeta in mare) e Alessandro Rossetto (Effetto Domino). Il primo esplora i luoghi inaccessibili delle zone industriali dismesse di Porto Marghera, in attesa di bonifiche costose, e abbandonate all’incuria con i macchinari, le ampolle e le siringhe ancora in loco: se eccettuiamo i cantieri dove si fabbricano le Grandi Navi, un polo tecno-scientifico già in declino, e l’insano progetto di un porto crocieristico, gli sfasciumi contaminati tra i quali oggi vivono leprotti e cormorani sono ciò che resta del sogno industriale iniziato cent’anni fa.

La nostalgia di due ex lavoratori del Petrolchimico ovatta e diluisce la carica di morte della chimica margherina: le lavorazioni cancerogene fatali a tanti operai, la strage dimostrata in tribunale dal giudice Felice Casson, due volte candidato a sindaco e due volte rifiutato dalla sinistra dei benpensanti. Nel grande capannone delle assemblee operaie (oggi un vuoto museo esso stesso minacciato di demolizione) si misura, a distanza di anni, il fallimento di un sindacato e di una gauche che hanno stentato a proteggere i lavoratori, a immaginare un futuro industriale “sostenibile”, a formare l’embrione di una duratura coscienza di classe.

Così, nell’incurabile Marghera si è passati dai Veneti inurbati al lavoro sul letale Cvm ai Bengalesi in subappalto di Fincantieri che (a rischio della vita) costruiscono i mostri del mare destinati alle crociere dei ricchi occidentali. Solo nella trattoria di mamma Viola si prova ad aggregare le vite in transito, atomizzate e disperse: un operaio africano preoccupato dei soldi da mandare al suo Paese, ottuagenari che cantano al karaoke Se bruciasse la città, un camionista mestrino che dichiara – lui che il mondo l’ha girato – l’ammirazione per Erdogan, presidente concreto che mette in riga i suoi e rende prospero il Paese. Non dunque una reazione collettiva alle violenze sull’ambiente e il territorio, sui corpi e la dignità dei lavoratori; ma al contrario l’ansia di una soluzione semplice, tra l’autoritario e il fideistico, la stessa che porta ai plebisciti per il self-made sindaco Brugnaro (figlio di un operaio di Marghera, diventato tycoon), per il “pragmatico” Zaia e per il capitano Salvini.

Perché il Veneto profondo è rimasto quello delle piccole imprese a conduzione familiare, frustate dalla crisi e disperatamente alla ricerca di un’idea. “Avorar! avorar!” grida l’imprenditore edile protagonista del potente film di Rossetto, affidato a un cast di prim’ordine (Artuso, Ribon, Roveran), impreziosito dai camei di Trevisan e Paolini. Dopo l’epopea del mostruoso Hotel Antares che campeggiava nel capolavoro Piccola patria (2013), stavolta la scena si apre sui modesti alberghi di una località termale, fotografati sulle note di Vivaldi nella loro nuda obsolescenza prima di essere demoliti o stravolti per fare spazio a una catena di residence
extralusso dove andranno a morire gli anziani di mezzo mondo: “New Old”, il tamarrissimo business dell’ageing, tra hostess strafighe che danzano come meduse e pacchiane epigrafi da Isidoro di Siviglia alla reception. Quella che nasce come una scommessa contro la crisi e la stasi dell’edilizia (ma in realtà anche contro la morte), si trasforma nell’allegoria di una terra irrisolta, ipocrita e incattivita, pronta alla hybris e al tradimento, meglio se nascosto da un mazzo di crocefissi: in nome di una corsa agli schei che dipende sempre più da entità imponderabili e senza scrupoli – le banche, la globalizzazione.

Perché ciò che fa venir giù un domino di lavoratori senza più certezze né diritti (i piastrellisti del Padovano e i camionisti di Cosenza, i muratori albanesi e financo una supponente bancaria romana) è il fattore umano: l’improvviso venir meno della fiducia reciproca, della dignità stessa. Nella microrealtà perdente della provincia dell’impero, ormai mista di etnie le più varie, si continua a parlare in dialetto, appesi all’estrema illusione di essere “padroni a casa nostra”: ma è un dialetto bastardo e laconico, minato da termini ignoti, sempre più inadeguato a inalberare la fiera dignità di “gente che lavora”. In un universo che può capitolare in un battibaleno grazie a una palpebra che si chiude a Hong Kong, o a un sopracciglio alzato a Washington, la salvezza rimane forse solo negli occhi delle donne, dall’ostessa Lucia di Marghera alle giovani figlie dell’imprenditore fallito, capaci di racchiudere in uno sguardo l’inquietudine di una terra che non immagina il proprio futuro.

“Così papà smise di fare film. Con la scusa di B.”

L’indifferenza per i premi, confidata a Daniel Pennac: “’Tutti questi premi…’ mi disse. ‘Lo sai cosa ne faccio?’ Non lo sapevo. ‘Li metto sul terrazzo e li guardo ossidarsi con il tempo’”. Le battute che diventano “lessico familiare: andato dal dentista con un ascesso dolorosissimo, Totò trova invece del suo vecchio medico di fiducia, il di lui figlio fresco di laurea. Il ragazzo, palesemente incapace, annaspa, e Totò bofonchia: ‘Chiamiamo il babbo!’. Citazione che papà ogni volta che qualcuno si apprestava a fare qualcosa senza esserne all’altezza, faceva scattare puntuale: ‘Be’, chiamiamo il babbo’. E oggi ce lo siamo dette da sole”.

Il 19 gennaio del 2016 Paola e Silvia non perdono il regista di C’eravamo tanto amati, Brutti, sporchi e cattivi, La terrazza, ma il padre: Ettore Scola. Con Chiamiamo il babbo non si limitano a mettere su carta l’affetto, a riabbracciare il genitore cinefago e cinesenziente – di fronte a domande assurde ribatteva come l’Alberto Sordi di Riusciranno i nostri eroi?: “Ragioniere, io neanche le rispondo!” – e a rivivere le giornate particolari insieme. Fanno di più, anzi, di meno: levano il piedistallo, sgombrano gli altarini e si concedono il primo privilegio del testimone, la sincerità. L’hanno amato, ricambiate, ma le 288 pagine del memoir non sono riconciliate, non elidono né eludono chi fosse il loro illustre babbo: “Era a disagio sotto i riflettori e pativa enormemente la ribalta, così per mascherare l’imbarazzo mostrava solo i suoi lati peggiori (soprattutto nelle interviste), risultando arrogante, superbo e molto antipatico. Ma per fortuna non concedeva molte interviste”.

È letteralmente cinéma de papa (da pronunciarsi come i francesi facevano con il cognome, Scolà), ma la famiglia è allargata: da Sergio Amidei, che “una volta schiaffeggiò pubblicamente la moglie di un grande regista perché aveva detto che la politica italiana era ‘tutto un magna magna’” a Vittorio Gassman, “nei suoi occhi neri – ricorda Silvia, che ne era segretamente innamorata – si intuiva un grande amore per la vita ma anche una forte vena di malinconia, la stessa che poi lo ha portato alla disperazione”, passando per Marcello Mastroianni e Sophia Loren, cui “papà aveva lo scapriccio, si direbbe a Trevico, di dare ruoli che fossero il più possibile lontani da loro”.

Ma Chiamiamo il babbo va oltre, ha l’ardire di cristallizzare una certa tendenza del cinema italiano tutto, sottotitolo – nostro – “Più dell’antiberlusconismo potè la stanchezza”. Nato sceneggiatore, restio alle riprese “che lo affaticavano”, Scola “ogni tanto chiamava in causa anche la Chiesa: ‘Adesso possono ritirarsi a vita privata anche i papi’”. Dopo Concorrenza sleale, Paola e Silvia stavano scrivendo con lui un altro film prodotto da Medusa: Un drago a forma di nuvola. Da girarsi tra Parigi e Cinecittà, con Gerard Depardieu e Nastassja Kinski: “Sarebbe stato l’ennesimo Kammerspiel, quel teatro da camera che papà tanto amava”. Ma un po’ l’età, un po’ la fatica, un po’ “non so chi ha detto che ogni regista fa un film di troppo, e allora basta non lavorare a quello”, Ettore non aveva voglia, e trasformò l’occasione fornitagli su un “piatto d’argento da Silvio Berlusconi, all’epoca imprenditore cinematografico con Medusa e proprietario di Mediaset oltre che presidente del Consiglio, che in risposta a quanti lo accusavano di imporre in Italia un regime oligarchico, un giorno dichiarò che la propria democraticità si poteva misurare con il fatto che produceva film di ‘registi come Scola’”. Era il 2002, diciassette anni dopo le figlie squarciano il velo: “A Ettore non parve vero e controdichiarò subito, chiamando l’Ansa, che interrompeva all’istante la lavorazione (…). La pesantezza di quel conflitto di interessi era insostenibile: ‘Quando Berlusconi smetterà di fare politica, io ritornerò a fare film con lui’”. Il conflitto d’interessi, invero, era anche del regista: “Senza più alcun senso di colpa poté godersi la poltrona, i classici greci da rileggere e da tradurre, e i suoi nipoti con i quali finalmente poteva passare molto tempo”. Già, il tempo: “A un certo punto il discorso cadde lì, dove il dente duole, e col cuore in mano Ivano (il regista De Matteo, ndr) disse: ‘Ettore, ma te posso chiede ’na cosa? Perché non vuoi più fare film?’. ‘Ho cambiato orari’”.

 

Una rivoluzione globale contro i sempre più ricchi

Mentre in Medio Oriente grandi e medie potenze giocano a fare la guerra con grande giubilo dei loro governanti che hanno così il pretesto di armarsi o riarmarsi e con altrettale giubilo di quelle che, restate fuori dal conflitto, possono rimpinzare le prime di armi, arricchendosi, senza spendere una goccia di sangue (Stati Uniti, Francia, Germania, Cina, il cui export in questo campo si è diretto principalmente in Medio Oriente), in altre aree del mondo, molto diverse fra di loro, rinasce la contestazione giovanile: in Cile, in Ecuador, in Libano, in Iraq, in Francia.

Tutte sono nate da ragioni economiche apparentemente di poco conto: in Francia dall’aumento delle tasse sul carburante, in Cile dall’aumento del biglietto della metro, in Ecuador dall’aumento della benzina, in Iraq dalla disoccupazione, in Libano dall’aumento delle tasse in rete, ma si sono poi allargate a una contestazione generale ai governi e alla politica.

Sul Giornale, Gian Micalessin, inviato di lungo corso, individua due cause principali di queste rivolte: “La totale disconnessione con i grandi media e l’informazione tradizionale, e la totale mancanza di speranza nella politica corrente esibita da chi scende in piazza”. La prima causa individuata da Micalessin mi pare la meno rilevante: ormai l’informazione, soprattutto per i giovani che sono i protagonisti di queste rivolte, passa, come una corrente carsica, al di sotto dei grandi media. La mancanza di speranza è più convincente. Chiunque abbia un minimo di attenzione, giovane o adulto che sia, può vedere che mentre “la ricchezza delle nazioni”, per dirla con Adam Smith, in linea di massima aumenta in tutto il mondo, contemporaneamente la gente si impoverisce. E questo sia nei Paesi più solidi del mondo occidentale sia, e ancor più, in quelli nel cosiddetto Terzo Mondo (un esempio fra i tantissimi che si potrebbero fare: la Nigeria è il paese africano più ricco, ma ha il massimo numero di poveri).

Questa contraddizione fra sviluppo e povertà era già stata notata da Alexis de Tocqueville nei primi decenni della Rivoluzione industriale. Scrive Tocqueville nel suo libro Il pauperismo, del 1835: “Allorché si percorrono le diverse regioni d’Europa, si resta impressionati da uno spettacolo veramente strano, e all’apparenza inesplicabile. I Paesi reputati come i più miserabili sono quelli dove, in realtà, si conta il minor numero di indigenti, mentre tra le nazioni che tutti ammirano per la loro opulenza, una parte della popolazione è costretta, per vivere, a ricorrere all’elemosina dell’altra”. Col progredire dello sviluppo questa divaricazione, economica ma anche sociale, invece di diminuire è andata aumentando. Marx aveva ipotizzato che a un certo punto di questo percorso i ricchi sarebbero diventati sempre più ricchi, ma in numero così ristretto che per cacciarli non ci sarebbe stato bisogno di nessuna rivoluzione: sarebbe bastata una pedata nel sedere. Non è andata esattamente così. I ricchi diventano sì sempre più ricchi, anzi ricchissimi, ma anche un poco più numerosi, sono i poveri a diventare sempre più poveri e molto più numerosi. In poche parole: è il ceto medio che prima lentamente, oggi in modo vertiginoso, tende a scomparire, perché fra i suoi ranghi alcuni, pochi, salgono nell’Empireo dei ricchi, ma tutti gli altri scendono negli inferi della povertà. E il ceto medio è sempre stato il collante indispensabile di uno Stato, di una Nazione, perché tiene insieme, occultandola, la differenza di classe.

Questa scomparsa del ceto medio, che un tempo poteva riguardare questo o quello Stato, oggi, se guardiamo al Cile, all’Ecuador, al Libano, all’Iraq, alla Nigeria, all’europeissima Francia, è globale perché tutto sta diventando globale. E quindi le previsioni di Marx e di Trotsky (“la rivoluzione o è permanente o non è”) potrebbero, sia pur con qualche secolo di ritardo, avverarsi.

Insomma una rivoluzione globale contro un’arrogantissima ricchezza che, anche solo a guardarla da lontano, è diventata intollerabile per ciascuno di noi.

Il ceto medio impoverito sulle barricate dei diritti perduti

Il mondo brucia, compresa l’Europa. Il 2019 verrà ricordato dai libri di storia come uno dei più caldi e ha contribuito a evidenziare l’incapacità e/o la mancanza di volontà della classe politica di affrontarne le conseguenze. Lo ha dimostrato la reazione “negazionista” del presidente del Brasile, Bolsonaro di fronte alle proteste della gente scesa in piazza durante il catastrofico rogo dell’Amazzonia. Da un mese a questa parte, da un capo all’altro del pianeta, non solo i più poveri, ma anche il ceto medio è sceso in piazza, quasi sempre in modo pacifico. Sia che si tratti di rivendicazioni di carattere politico, come quelle dei catalani a Barcellona e degli abitanti di Hong Kong in Cina, sia che la rabbia popolare si scagli contro la corruzione della classe dirigente, come nei mesi scorsi a Praga e oggi in Libano e Iraq o contro l’insipienza e arroganza dei politici in Cile e prima in Ecuador e Venezuela, il potere prima tenta di convincere la gente a trattare, poi manda le forze dell’ordine a manganellarla.

Europa, da Barcellona agli ambientalisti inglesi

Migliaia di catalani sono nelle strade di Barcellona per chiedere la scarcerazione dei leader indipendentisti condannati a molti anni di carcere e nel tentativo di ottenere da Madrid il via libera all’indipendenza. In Gran Bretagna manifestano sia i cittadini contrari alla Brexit sia gli attivisti di Extinction Rebellion che bloccano le strade di Londra per sensibilizzare l’opinione pubblica sugli effetti devastanti delle emissioni di gas serra e spingere la classe dirigente a ricorrere a misure strutturali per frenare l’aumento della temperatura dell’atmosfera.

In America Latina tornano le barricate contro i presidenti

Dopo il Venezuela, i cui problemi sono ancora tutti da risolvere e per questo 4 milioni di persone sono fuggite nei paesi confinanti, ora è il Cile a bruciare. La goccia che ha fatto traboccare il vaso della frustrazione popolare è stato l’aumento del biglietto della metro. I trasporti pubblici, specialmente nella capitale che è molto vasta, sono utilizzati non solo dalla classe lavoratrice ma anche dal ceto medio a causa dei continui rincari del prezzo del carburante. Ma da Santiago, la protesta si è diffusa in tutto il paese dopo la pubblicazione di un video in cui si vede il presidente della Repubblica Piñera al ristorante con famiglia e amici mentre la polizia tirava i gas lacrimogeni sulla folla nelle strade. L’indifferenza del presidente conservatore nei confronti della cittadinanza esasperata dall’inflazione, dai salari congelati da anni e dalla disoccupazione a fronte di una macro economia in crescita, ha convinto ancora più persone a ribellarsi nonostante il congelamento dell’aumento. Solo dieci giorni fa anche gli indigeni ecuadoriani si erano scagliati contro nuove tasse e lo sfruttamento dei territori un tempo protetti dove vivono da secoli. Il blocco delle misure per ora ha placato la rabbia degli ultimi. Per quanto tuttavia non è prevedibile. Anche in Bolivia e Perù, a causa dei candidati alle imminenti elezioni, sono nate delle proteste. L’economia boliviana è in crescita, ma non la qualità di vita dei meno abbienti. La decisione del presidente Morales di far cambiare la Costituzione per poter ottenere un quarto mandato inoltre ha convinto i moderati che l’ex cocalero, rimasto l’unico vero portabandiera della sinistra latinoamericana si stia trasformando in un presidente a vita, con tutte le conseguenze del caso. Il timore è che diventi un despota come il presidente venezuelano Maduro e l’attuale presidente del Nicaragua, l’ex leader sandinista Ortega contro il quale all’inizio dell’anno scesero in piazza migliaia di persone. Lui e la moglie Rosario, nominata dal marito vice presidente, sono accusati di essersi arricchiti a dismisura con i soldi pubblici e di aver reso il paese un feudo di loro proprietà. In Colombia stanno invece risorgendo le Farc per le mancate promesse del governo in ambito economico.

Medio Oriente, a Beirut rivolta sulla tassa Whatsapp

Questo venerdì sono attese due grandi proteste a Beirut e a Baghdad. Da quasi una settimana centinaia di migliaia di libanesi, di tutte le confessioni religiose e di tutte le età, si sono uniti per chiedere le dimissioni del governo e di tutto il parlamento. Il fatto inedito è che le manifestazioni sono in tutto il paese e in tutta Beirut. Ciò significa anche nel sud della capitale rigidamente controllato, come il sud del paese, dal partito armato sciita Hezbollah, longa manus dell’Iran. La scintilla è stata la decisione del governo di mettere una tassa sulle conversazioni via whatsapp. Si tratta di pochi centesimi ma alla popolazione in miseria che confida molto nelle rimesse finanziarie dei milioni di libanesi all’estero (una delle diaspore più cospicue creatasi a causa della lunga guerra civile) è sembrata l’ennesima ingiustizia. Il Libano è uno dei paesi più corrotti del mondo dove ci sono servizi e infrastrutture da paese africano. Anche nella capitale la corrente elettrica non è garantita tutto il giorno. I cittadini iracheni di tutte le religioni protestano anche loro tutti assieme per la prima volta chiedendo servizi di base, infrastrutture e lavoro. L’Iraq è uno dei paesi con più risorse energetiche , eppure l’elettricità e l’acqua potabile, specialmente durante le estati torride, sono un miraggio.

Egitto, al Sisi usa il pugno di ferro, il Sudan respira

Al Cairo si sono registrate le proteste contro il governo di Al Sisi più massicce da quando l’ex generale ha preso il potere. Anche in questo caso la scintilla è stata una provocazione in video di un imprenditore che ha accusato il potere di arricchirsi alla faccia dei poveri. In Sudan il movimento popolare contro Bashir ha portato alla sua destituzione dopo 30 anni di dittatura.

Gantz, governo con il Likud ma senza Bibi

È ottimista Benny Gantz, leader del partito Blu e Bianco, eppure, anche per un generale navigato come lui, la sua appare come una mission impossible. Aspetta la convocazione del presidente Reuven Rivlin per cercare di formare una nuova maggioranza nella Knesset, dopo sei mesi di vuoto politico. Lunedì sera Benjamin Netanyahu ha gettato la spugna dopo 26 giorni in cui ha cercato di farlo lui il governo, uscendone sconfitto. Un secondo fallimento in meno di sei mesi. Così, per la prima volta negli ultimi 12 anni gli israeliani si trovano davanti alla concreta prospettiva di poter chiudere un’epoca, quella di “King Bibi” che ha segnato profondamente lo Stato ebraico.

“È una sensazione eccezionale”, ha detto alle telecamere che lo aspettavano, un allegro Gantz mentre lasciava la sua casa a Rosh Ha’ayin diretto a Gerusalemme. “Ho fatto un po’ di allenamento mattutino e ora vado in ufficio per il lavoro della giornata. Tutto bene. Siamo sempre ottimisti, è uno stile di vita”. L’orientamento di serenità che ha avuto per tutta la sua campagna elettorale, senza gli eccessi e le nevrastenie del suo diretto avversario. Perché sono falliti i negoziati per un governo con il Likud? “Perché Netanyahu non avrebbe accettato altro che rimanere primo ministro. Non era nemmeno disposto a iniziare a negoziare”, rispondono oggi gli spin doctor del leader di Kahol Lavan (Blu e bianco). Ma anche le possibilità per Gantz – nonostante la sua professione di ottimismo – appaiono al momento ancora più scarse di quelle di Netanyahu.

I numeri restano gli stessi. Non bastano le intese a sinistra che Gantz può trovare con il Labour e il Meretz. I nazionalisti di Israel Beitenu con il
loro leader Avigdor Lieberman sono decisivi con i loro 8 seggi, così come i 13 seggi della Joint Arab List che potrebbero astenersi al voto di fiducia e abbassare così la soglia della maggioranza nella Knesset. Ne uscirebbe però un esecutivo debole, con il fiato sospeso ad ogni votazione nel Parlamento. Non c’è alcun dubbio che – anche se nessuno lo dice apertamente dentro Kahol Lavan – il procuratore generale Avichai Mandelblit potrebbe togliere tutti dall’imbarazzo e decidere al termine delle udienze preliminari che riprendono in settimana di mandare Benjamin Netanyahu a processo nei tre casi di frode, corruzione, abuso di potere.

Un’incriminazione aprirebbe nel Likud la strada a una – ancora modesta – fronda per sostituire Netanyahu alla guida del partito. La scorsa settimana – quando si è fatto sfuggire via twitter che stava considerando l’ipotesi di nuove primarie nel partito per consolidare la sua leadership – subito Gideon Saar ha replicato: “Sono pronto”. Saar, ex ministro di Netanyahu qualche anno fa, tornato solo l’anno scorso alla politica attiva è l’astro nascente del Likud. Senza Netanyahu l’intesa di governo Gantz-Saar si troverebbe in 24 ore, con buona pace dei nazionalisti e dei partiti religiosi.

Tutti gli occhi sono puntati sul bianco palazzetto della Procura Generale nel cuore di Gerusalemme. Qualunque sia la decisione che uscirà da quell’aula rimescolerà le carte. Il prossimo mese non sarà noioso per gli israeliani.

Siria, Putin farà lo sceriffo: via al protettorato russo

Putin batte Trump 150 a 120. Al borsino di Erdogan, Putin vale 150 ore di tregua sul fronte curdo, più delle 120 concesse al presidente Usa. Ieri a Sochi, Turchia e Russia hanno raggiunto un accordo per una nuova tregua nel Nord-Est della Siria, fino al 29 ottobre: obiettivo, completare l’evacuazione delle milizie curde dello Ypg da una fascia di 30 km dal confine tra Turchia e Siria.

È il principale risultato del colloquio, che è stato “lungo” e “complesso”, tra i presidenti russo Vladimir Putin e turco Recep Tayyip Erdogan, alla ricerca d’una via d’uscita dal conflitto scatenato nel Nord-Est della Siria dall’invasione turca scattata il 9 ottobre. Quasi contemporaneamente, si completava il ritiro dalla zona di sicurezza alla frontiera turco-siriana delle forze curdo-siriane, previsto dall’accordo di tregua turco-americano.

La scorsa settimana, ricevendo ad Ankara il vice-presidente Usa Mike Pence, il segretario di Stato Mike Pompeo e il consigliere per la Sicurezza nazionale Robert O’Brien, Erdogan aveva accettato una tregua di 120 ore. Ora, le armi continueranno a tacere sul fronte, anche se il cessate-il-fuoco non è mai stato rispettato al 100 %. Putin ed Erdogan hanno pure convenuto che, a partire dalle 12 di oggi, Russia e Turchia pattuglino insieme fino a 10 km dentro il territorio siriano, senza però toccare Qamishli, principale città curda dell’area. Le posizioni raggiunte dall’operazione turca Fonte di Pace tra Tal Abyad e Ras al Ayn resteranno congelate, fino a 32 km di profondità dentro il territorio curdo.

A fine incontro, Putin non nasconde la soddisfazione: parla di decisioni “di rilievo” per la Siria, sente che il ritiro degli americani dalla zona di guerra deciso da Donald Trump e l’esito dell’incontro con Erdogan rafforzano la posizione della Russia in Siria e nel Medio Oriente, mentre gli Stati Uniti s’eclissano. Eppure, la posizione di partenza russa, spiegata dal vice ministro degli Esteri Oleg Syromolotov, era che l’offensiva turca anti-curdi viola l’integrità territoriale della Siria: “Solo Russia e Iran – spiegava Syromolotov – mantengono una presenza militare legale in Siria, con l’autorizzazione siriana”. Anche la posizione di partenza turca era ferma: “Se i curdi non se ne vanno, li elimineremo”.

Russia e Iran, insieme alla Turchia, sono protagonisti del processo di pace di Astana, un percorso per una soluzione politica del conflitto siriano, che è finora sfociato nell’individuazione di zone d’influenza in Siria per ciascun Paese. Accogliendo l’ospite, Putin aveva osservato che la situazione nell’area è “molto critica”, auspicando che “il livello raggiunto nelle relazioni tra Russia e Turchia” servisse a “risolvere tutte le questioni difficili oggi esistenti nella regione”. Secondo il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov, la Russia voleva “discutere la situazione nel Nord-Est della Siria in modo da capire meglio gli eventi, avere informazioni sui piani della Turchia e confrontarli con i programmi generali per la promozione d’una soluzione politica” della crisi siriana.

Il Cremlino non bocciava neppure la proposta della Germania per una zona di sicurezza nel Nord-Est della Siria controllata dalle forze internazionali, con il coinvolgimento di Russia e Turchia. Ci sono stati finora 775 curdi “neutralizzati”, secondo l’ultimo bollettino di guerra turco.

Una preoccupazione di Putin è che “terroristi, compresi quelli del sedicente Stato islamico, l’Isis, non profittino delle azioni delle forze armate turche”. I miliziani integralisti catturati e disarmati sono prigionieri dei curdi e, negli ultimi dieci giorni, hanno cercato d’evadere dalle loro carceri, talora con successo.

Politiche “verdi”, perché valutare costi e benefici

Un muro verso il quale l’umanità corre velocemente. Dobbiamo fare tutto quanto necessario per evitare di andare a sbattere e farci molto male. Considerata la velocità con la quale stiamo procedendo, è necessaria una rapidissima frenata. L’ostacolo è rappresentato dalla soglia di incremento di temperatura media della Terra di 1,5 °C che, a detta di moltissimi, non dovrebbe essere superata, whatever it takes. Ma è davvero così? A leggere i documenti dell’Ipcc così non parrebbe. Nel Rapporto di valutazione pubblicato nel 2014, gli effetti negativi dei cambiamenti climatici per un incremento di temperatura di 2,5- 3 gradi sono stimati pari a una quota della ricchezza mondiale inferiore al 3%. Come termine di paragone, gli effetti negativi di un secolo di cambiamento climatico sono equivalenti a quelli di un anno di recessione economica. Nel più recente Rapporto del 2018 si sostiene che in uno scenario di no-policy al 2100 si registrerebbe un incremento di temperatura di 3,66 gradi in corrispondenza della quale l’impatto negativo risulterebbe dell’ordine del 2,6% del Pil mondiale.

Si dirà che il Pil non è tutto. Vero, non è tutto ma è molto. La crescita della ricchezza è strettamente correlata con l’evoluzione positiva di una serie di parametri che determinano le condizioni di vita. Non a caso, negli ultimi 30 anni nel mondo sono stati compiuti progressi notevolissimi sull’aumento della speranza di vita e sulla riduzione della mortalità infantile, sull’accesso all’istruzione e, sul fronte ambientale, di disponibilità di acqua non contaminata e di miglioramento della qualità dell’aria. Ma non solo non vi è alcuna solida evidenza di un aumento della frequenza dei fenomeni estremi ma, da decenni ormai, grazie alla crescita della ricchezza e delle conoscenze scientifiche, il numero di persone che muoiono a causa di tali fenomeni si è drasticamente ridotto in termini assoluti e ancor più, considerato l’aumento della popolazione, è diminuito il rischio individuale. Per comprendere come la capacità di difenderci dal clima sia oggi nettamente superiore al passato è sufficiente confrontare gli effetti di due uragani di uguale intensità in un Paese ricco e in uno povero. Il fatto che la fine dell’umanità non sia alle viste non è ragione sufficiente per non intervenire (Ue e Usa da anni stanno riducendo le emissioni) soprattutto come “copertura assicurativa” degli esiti più negativi, seppure improbabili, dell’evoluzione del clima. Va fatto con ragionevolezza e non in preda al panico; diversamente c’è il rischio che la brusca frenata porti fuori strada e arrechi danni superiori a quello che intendiamo evitare.

Dovremmo valutare, come per qualsiasi altra politica, quali sono i costi e i benefici. E i costi di politiche di radicale riduzione delle emissioni in un breve arco di tempo sono senza dubbio elevati. Un recente studio stima al 4% l’incremento delle persone che vivono in condizioni di povertà come conseguenza delle azioni necessarie per rispettare l’accordo sul clima di Parigi.

L’incertezza relativa ai benefici di politiche di riduzione delle emissioni può portare a valutazioni diverse in merito a quello che debba essere il sentiero ottimale da percorrere. Tutti, invece, dovremmo convenire che le risorse impiegate dovrebbero essere allocate in modo tale da massimizzare i risultati. Se non seguiamo questo banale principio gli esiti non possono che essere due: a parità di risorse impiegate, una minore riduzione delle emissioni oppure maggiori costi a parità di risultato. Eppure, spesso ci comportiamo in questo modo. L’approccio finora perseguito sia a livello europeo che italiano è quello di definire obiettivi di riduzione per settore e poi implementare una pletora di misure di incentivo e divieto. Questo approccio, assai apprezzato da burocrati e portatori di interessi – che grazie ad esso possono conseguire elevati profitti sulle spalle dei contribuenti – fa sì che il costo sopportato per tonnellata di Co2 evitata sia diverso da caso a caso. È questa la ragione per cui sarebbe auspicabile l’adozione di una carbon tax omogenea per tutti i settori e la contemporanea soppressione di tutte le altre forme di regolazione. Sarebbero in questo caso produttori e consumatori a modificare le proprie scelte in modo efficiente.

Occorre peraltro ricordare che le modifiche di comportamento non potranno che avere un impatto molto limitato sull’evoluzione del clima. La quota parte di emissioni riconducibile all’Ue è scesa nell’ultimo quarto di secolo dal 20% al 10%. Provvedimenti “locali” sono quindi quasi irrilevanti. E, a maggior ragione lo sono, quelli con effetti marginali come, ad esempio, le misure volte a favorire lo spostamento della domanda di mobilità dal trasporto su gomma a quello su ferro. Una politica perseguita da almeno tre decenni senza risultati di rilievo. Aumentare ulteriormente in nome della sostenibilità, come ha deciso di fare la Germania nel giubilo dell’ex monopolista pubblico e leader incontrastato del settore, l’ingente flusso di risorse per il settore significa non avere compreso quali sono i termini del problema. O, più probabilmente, averli chiari ma considerare la protezione del clima non un fine quanto un mezzo per poter tassare di più e spendere di più. Anche quando, come nel caso dell’auto, il prelievo fiscale è già elevato. Per ogni tonnellata di Co2 generata dal consumo di benzina lo Stato introita oltre 400 euro a fronte di un costo esterno che ammonta a meno di 40 euro secondo le stime dell’Agenzia della protezione dell’ambiente statunitense e a 100 per l’Ue.

Destinando un decimo degli introiti per il finanziamento di interventi di riduzione delle emissioni in altri settori, l’impatto netto dell’intero settore della mobilità terrestre sarebbe azzerato.

Unicredit, violate le norme antiriciclaggio in Cordusio Sim

La notizia, al momento, gira solo nei corridoi di Unicredit, ma rischia di mettere in forte imbarazzo il colosso bancario italiano. Nelle scorse settimane si è infatti conclusa un’ispezione della Banca d’Italia che avrebbe riscontrato un situazione assai anomala in Cordusio Sim, la controllata del gruppo dedicata alle gestioni patrimoniali dei clienti di peso.

Gli ispettori di Bankitalia sono entrati nella società – che ha sede a Milano – a maggio scorso, uscendone solo alla fine di agosto. Da quanto risulta al Fatto, l’ispezione ha evidenziato diverse irregolarità nella gestione delle procedure cosiddette Aml (Anti money laundering), cioè le normative antiriciclaggio. In sostanza, buona parte dei clienti non avrebbero sottoscritto i moduli obbligatori per certificare la provenienza del patrimonio dato in gestione. È un adempimento previsto dalle normative nazionali (in Italia codificate dal decreto legislativo 231/07), e serve per fare una prima verifica, per così dire, a monte che i soldi dati in gestione non abbiano provenienza sospetta.

Di fatto è un’autocertificazione, ma che ai fini antiriciclaggio ricopre un ruolo importante visto il tipo di clientela. Cordusio Sim non è una piccola società. È nata nel 2016 ed è oggi al terzo posto tra gli operatori specializzati, con una quota di mercato del 14% e asset che ammontano a circa 25 miliardi di euro. Si occupa del Wealth management, una gestione patrimoniale dedicata ai clienti con un certo patrimonio finanziario, gli High net worth individuals (Hnwi), dai 5 milioni di euro in su. Parliamo di grandi portafogli che possono arrivare a decine di milioni. A guidarla fin dagli esordi è Paolo Langé, numero uno dell’associazione italiana del private banking. Da marzo 2020 verrà sostituito da Stefano Vecchi, entrato nelle scorse settimane in Unicredit come capo dell’area Wealt management italiana e in Cordusio Sim come conigliere delegato. Langé assumerà la carica di Presidente.

Una situazione simile a quella riscontrata in Cordusio Sim, si sarebbe verificata, a quanto risulta, qualche mese fa anche in un’altra banca del gruppo guidato da Jean Pierre Mustier, Schoellerbank.

Il perché non siano stati fatti firmare ai clienti i moduli antiriciclaggio non è chiaro. Contattata dal Fatto Unicredit non ha voluto rilasciare commenti. L’ispezione, a quanto risulta, è stata chiusa agli inizi di settembre scorso e la notizia è finita in diversi esposti recapitati sia alla Consob che ai sindacati. Una situazione del genere mette in imbarazzo il gruppo, a maggior ragione visto che Cordusio è una società giovane. Circostanza che di sicuro avrà spinto i vertici del colosso di piazza Gae aulenti ad avviare una verifica interna per cercare di capire come sia stato possibile arrivare a uno scenario simile e cercare di correre ai ripari. A breve, peraltro, sono attese le determinazioni finali di Bankitalia, che potrebbero anche tradursi in multe o una scadenza entro il quale mettersi rapidamente in regola.

“Berlino è ossessionata dal debito ma viola le regole: spenda di più”

C’è uno spettro che si aggira per l’Europa: è la recessione in Germania. Ma è dietro l’angolo come sembra? Quali sono le misure che potrebbero contenerla? L’abbiamo chiesto a Marcel Fratzscher, professore di macroeconomia all’università Humboldt di Berlino e presidente dell’Istituto economico Diw (Deutsche Institut fuer Wirtschaft).

Il ministro dell’Economia tedesco ha abbassato le previsioni di crescita in Germania, quanto è probabile una recessione?

Il governo prevede una crescita dello 0,5% nell’anno in corso e un +1% nel 2020 ma è interessante notare che la maggior parte dei tedeschi non realizzano affatto che è in atto una flessione dell’economia e che il Paese è in recessione tecnica, cioè con due trimestri di crescita negativa. Questo perché la debolezza si è registrata nella riduzione dell’export, mentre il mercato interno è ancora buono, i consumi sono forti e la disoccupazione non è aumentata. La difficoltà della situazione è questa: l’economia è debole ma le persone non se ne accorgono. L’altro punto altrettanto importante è che la previsione di crescita dell’1% per il 2020 è estremamente incerta. Raramente l’incertezza è stata maggiore anche a causa del conflitto commerciale Usa-Cina, della Brexit e del prezzo del petrolio. Questo 1% di crescita potrebbe essere troppo ottimista. In questa ipotesi la Germania potrebbe entrare in recessione.

Come ha reagito il governo alla flessione economica?

Il governo non ha reagito affatto. Questo è il problema. Continua a tenere la rotta, come in passato. “Terremo fede al pareggio di bilancio” è stato l’annuncio del ministro dell’Economia tedesco. Questo non significa che la Germania non spenderà, perché ha aumentato le prestazioni sociali e ha promesso la riduzione delle tasse, ma per la congiuntura economica non basta.

Perchè il governo ci tiene così tanto al pareggio di bilancio?

Le persone non prendono sul serio questa flessione. La politica si orienta su quello che vuole e che percepisce la gente per conservare il voto degli elettori. E se questi non si accorgono della crisi, la politica è poco stimolata a cambiare. È più popolare rimanere attaccati al pareggio di bilancio, anche se è sbagliato.

Perchè è sbagliato?

In Germania abbiamo grandi problemi di infrastrutture – trasporti, digitali, educazione ed energia – e avremmo bisogno di una grande trasformazione industriale, degli investimenti pubblici importanti per i prossimi 15 anni. Ma un innalzamento degli investimenti dello Stato avrebbe effetti positivi sul breve termine per stabilizzare l’economia. Come Diw abbiamo chiesto al governo un programma di crescita di circa 30 miliardi all’anno, circa l’1% del Pil per questi investimenti pubblici aggiuntivi. Insomma il pareggio di bilancio non è solo un feticcio, è una politica sbagliata perché porta, sul lungo termine, a non avere più debiti pubblici.

E perché dovrebbe essere un male?

Abbiamo già un rapporto debito/Pil straordinariamente basso e non c’è niente da continuare a ridurre. Se ci si indebita per abbassare le tasse o per le prestazioni sociali, questo non ha un effetto positivo sul lungo termine. Ma se si investe in formazione, in infrastrutture migliori e innovazioni allora si genera crescita e quindi più entrate fiscali. Francia e Italia chiedono investimenti europei alla Germania.

Sono richieste giuste?

Sì, perché il problema non è solo tedesco, ma globale. Gli scarsi investimenti della Germania si riflettono a specchio sull’eccessivo avanzo primario nel commercio, per cui la Germania esporta molto più di quanto importa. Se investisse di più, allora importerebbe di più e questo significa che le imprese italiane, spagnole francesi potrebbero aumentare il loro export. Il surplus commerciale tedesco è di oltre 200 miliardi di euro, oltre il 6% della sua produzione economica. Una seria violazione delle regole europee, anche se ai tedeschi non piace sentirselo dire.

La Germania si convincerà a fare più investimenti?

No, solo quando ci sarà una profonda recessione, come ha detto il ministro delle Finanze. Ma allora sarà troppo tardi. Se un’economia cade in recessione, poi è difficile risollevarla. I programmi di investimento hanno bisogno di tempo per dare risultati. Sarebbe intelligente per la politica tedesca agire adesso, mentre l’economia non è ancora in profonda recessione.

Il pacchetto salva-clima del governo tedesco è anti-recessione?

No, avrà un impatto scarso, pari quasi allo zero nei prossimi 2 anni. Ci sono poche misure di effetto limitato, eccessivamente caute e troppo diradate nel tempo. Non porteranno a grandi investimenti nei prossimi anni. Il programma è senza coraggio e per questo ha suscitato delusione. Si punta soprattutto a generare investimenti privati, non pubblici, per non violare il pareggio di bilancio.