Commissari a peso d’oro e obbligazionisti tosati: così rischia il salvataggio Astaldi

Quasi 68 milioni di euro di spese in circa un anno di lavoro nella procedura di concordato di Astaldi. Più di un terzo, 25 milioni di euro, sono i compensi stabiliti per i tre commissari (Stefano Ambrosini, Vincenzo Ioffredi e Francesco Rocchi) che a loro volta potranno contare su un fondo spese incrementali da 21 milioni, per un totale di 46 milioni di euro. Lo stesso della precedente proposta di concordato della multinazionale romana delle grandi costruzioni che è stata ritoccata nei mesi scorsi ed è in attesa dell’approvazione dei creditori. Ma se i saldi sono invariati, altrettanto non si può dire delle proporzioni: in quella della scorsa primavera, per i compensi dei commissari erano appostati ben 45 milioni di euro, mentre il fondo spese era di soli 1,6 milioni.

Resta il fatto che anche dopo l’aggiustamento i numeri della proposta concordataria di Astaldi, che deve più di 7 milioni di euro all’Inps e oltre 21 milioni all’Agenzia delle Entrate, sono comunque ragguardevoli. Tanto da aver fatto saltare i nervi agli obbligazionisti, che sono pronti a scendere sul piede di guerra. Anche perché a loro viene chiesto di rinunciare al 62% del proprio credito, che significa un totale di 562 milioni su 907 che vanno in fumo, mentre il resto verrà incassato in carta e pagherò. Intanto il diretto concorrente di Astaldi, Salini Impregilo, comprerà il pacchetto di controllo (65%) della nuova società di costruzioni, ripulita e alleggerita dai debiti, per appena 225 milioni. Senza neanche dover fare un’offerta pubblica di acquisto (Opa). Tutto nell’ambito di “Progetto Italia”, il piano di Salini per trasformare il suo gruppo nel campione nazionale degli appalti con l’aiuto dei soldi pubblici di Cassa Depositi e Prestiti. Così il Comitato bondholders Astaldi, che riunisce circa 350 piccoli risparmiatori titolari di obbligazioni per 65 milioni di euro, ha deciso di contestare i numeri dell’offerta di Salini Impregilo e i termini di una proposta in cui i vincitori sono principalmente Salini e le banche creditrici Bnp Paribas, Unicredit, Bpm e Intesa. Con quest’ultima che è tra i maggiori finanziatori anche di Salini e tra i suoi consiglieri ha Corrado Gatti, firmatario dell’attestazione del piano concordatario di Astaldi, in conflitto di interessi e in contrasto con la legge fallimentare.

Anche se, interpellata dal Fatto Quotidiano, la banca milanese “fa presente di non ravvedere profili di conflitto di interesse rispetto al ruolo avuto da Gatti nell’ambito del concordato Astaldi. Ciò perché la richiesta di concordato Astaldi risale a ottobre 2018, ben prima della candidatura di Corrado Gatti nella lista di minoranza per l’elezione del consiglio di amministrazione di Intesa Sanpaolo, avvenuta il 30 aprile 2019”. Inoltre, “il CdA di Intesa Sanpaolo eletto ad aprile 2019 si è espresso rispetto all’operazione Progetto Italia e non rispetto al concordato Astaldi”.

Fatto sta che all’assemblea degli obbligazionisti attesa per gennaio voleranno gli stracci. E sarà solo il primo step. Se non si riuscisse a trovare un accordo nell’adunanza dei creditori del prossimo 6 febbraio, salterebbe tutta l’operazione. E con lei sfumerebbe anche anche Progetto Italia.

Entrando nel merito delle contestazioni, il Comitato bondholders Astaldi ritiene che “secondo le prime analisi preliminari, le valutazioni espresse nel piano non appaiono condivisibili”, come si legge nella bozza di una lettera che gli obbligazionisti intendono inviare ai commissari. Di qui la decisione di affinare “le nostre analisi (…), ma è certo che se queste valutazioni dovessero essere confermate la proposta concordataria difficilmente potrà essere accettata dagli obbligazionisti”, prosegue la nota. Da dove nascono le perplessità degli obbligazionisti per un progetto che ha già suscitato le ire dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance) per via dei potenziali effetti distorsivi della concorrenza? Per rispondere a questo interrogativo, bisogna fare un passo indietro, entrando nei dettagli dell’offerta. Nella proposta di concordato, Salini-Impregilo ha messo sul piatto degli obbligazionisti 38 euro per ogni 100 euro di credito, con una sforbiciata al debito del 62%. Questa cifra non verrà però pagata in contanti: 16 euro saranno quote della Nuova Astaldi che nascerà post-accettazione del concordato e altri 22 euro saranno restituiti agli obbligazionisti man mano che verrà attuato il piano di dismissione di alcuni specifici asset.

Secondo le prime analisi del Comitato, i numeri della proposta di Salini non quadrano: la valutazione della componente azionaria consentirebbe agli obbligazionisti di recuperare non il 16% dichiarato nell’offerta, bensì una percentuale inferiore al 5. Inoltre, a parer loro, la nuova Astaldi, ripulita dai debiti, vale ben più dell’offerta depositata da Salini: il gruppo di costruzioni romano pagherebbe 225 milioni per il 65% della nuova azienda che nell’ipotesi più conservativa avrebbe un valore complessivo di almeno un miliardo. Senza contare i dubbi sul piano di dismissioni. Su quest’ultimo punto, i titolari delle obbligazioni Astaldi temono che ci sia un eccessivo ottimismo sulla valorizzazione e la vendita di alcuni asset come le attività in Venezuela (121 milioni) o la quota di Astaldi nella società concessionaria del Terzo Ponte sul Bosforo (300 milioni).

Secondo le stime degli obbligazionisti, azzerando anche solo il valore delle attività in Venezuela e includendo la parte azionaria, i creditori non recupererebbero il 38% come dichiarato nell’offerta, bensì appena il 23%. Quanto basta, nei termini di legge, per offrire agli obbligazionisti la possibilità di una proposta concorrente per rilevare Astaldi.

Mezzo miliardo per i media: così Google silenzia le critiche

La newsletter mattutina di Politico.eu, PlayBook, è una lettura obbligata per tutti quelli che seguono le attività di Bruxelles, in particolare le guerre di lobbying più sotterranee. Nel 2015 gli attenti lettori di PlayBook hanno notato un dettaglio sorprendente: la newsletter risultava “sponsorizzata da Google”. Guarda caso, proprio in quell’anno, Google iniziava a combattere una violenta battaglia con la Commissione europea, in particolare con il commissario Antitrust Margrethe Vestager. Finora non è andata benissimo a Google, nel 2017 è stata multata per 2,4 miliardi per abuso di posizione dominante nei motori di ricerca, nel 2018, con 4,3 miliardi per pratiche illegali su Android, nel 2019 un’altra sanzione da 1,5 miliardi. In questa guerra per il mercato europeo, Google ha deciso di combattere anche sul campo della comunicazione e ha iniziato a pagare giornali e siti web.

Nel 2015, in coincidenza con l’attacco dell’Antitrust, i “premi” (grant) elargiti da Google a media europei sono passati da zero a 260. Ora che negli Stati Uniti si accende la discussione su come ridurre il potere dei giganti del web, con la candidata democratica Elizabeth Warren che vuole costringere le grandi società a vendere interi rami d’azienda, Google sposta l’attenzione e i soldi verso l’America, dove pure già investe 6,7 milioni in attività di lobbying a Washington. Ora è la versione americana della newsletter di Politico a risultare “sponsored by Google”.

Una campagna di attivisti americani, Google Transparency Project, ha analizzato 16 diversi programmi con cui Google sovvenziona i media con un investimento complessivo tra i 567 e i 569 milioni di dollari, divisi tra 1.157 progetti in giro per il mondo. Google ha cominciato nel 2010 con uno stanziamento da 5 milioni di euro messo in palio per chi presentava “nuovi approcci al giornalismo nell’era digitale”. Poi ha continuato con tanti programmi diversi, inclusa la formazione individuale per i giornalisti, e l’ambiziosa Google Digital Initiative che vuole aiutare start up e giornali con progetti innovativi.

Mentre elargiva questi contributi, Google distruggeva il settore dei media. Per anni ha penalizzato le testate che si ribellavano alla regola del one click free (se vuoi apparire sui motori di ricerca almeno il primo articolo deve essere visibile senza abbonamento), trasformava Google News in un aggregatore di contenuti prodotti da altri senza pagare un euro. E soprattutto, insieme a Facebok, impediva ai giornali di essere sostenibili in digitale, competendo direttamente con loro per la vendita della pubblicità online. Con la piccola differenza che nessun giornale potrà mai offrire agli inserzionisti i servizi di profilazione dei consumatori garantiti da Google grazie anche a pratiche invasive come la raccolta di informazioni direttamente da Gmail o dagli altri servizi che offre solo all’apparenza gratis.

Quando nel 2012 gli editori francesi hanno iniziato a fare pressione sul governo perché li sostenesse contro Google, la società ha reagito iniziando a dare soldi ai media, con un progetto da 60 milioni di cui i principali beneficiari sono stati Le Figaro e Le Monde. Stesso approccio in Germania nel 2014, quando il governo di Angela Merkel ha spostato le sue attenzioni sul web, indicando anche Günther Oettinger come commissario europeo proprio per il digitale.

Non poteva mancare l’Italia dalla lista dei Paesi irrorati di denaro da Google: pesiamo meno a livello europeo, ma possiamo essere comunque utili, e poi le frequenti ipotesi di web tax anti-Google sono comunque spiacevoli per l’azienda guidata oggi da Sundar Pichai e Larry Page. Soltanto negli ultimi due anni, il gruppo Gedi (Repubblica, Espresso, Stampa) ha ricevuto almeno un milione di euro in quattro diversi progetti, il Corriere della Sera altrettanti per tre progetti, ma anche il Sole 24 Ore ha preso 739.000 euro nel 2018 per sviluppare un nuovo giornale digitale, Royalty. L’agenzia di stampa AdnKronos ha avuto un grant tra i 300.000 euro e il milione per una specie di archivio intelligente chiamato News Juice.

Google è molto attenta a finanziare eventi e think tank dove si analizza il settore e si costruisce una specie di opinione condivisa tra gli esperti. Tra i primi beneficiari di sussidi c’è infatti il Reuters Institute for the Study of Journalism presso la Oxford University, che ha ricevuto 5,5 milioni di sterline in totale. Ma anche lo European Journalism Centre di Bruxelles. E pure il Festival del giornalismo di Perugia (il Google Transparency Preoject non è riuscito a ricostruire l’entità complessiva dei finanziamenti dal 2014 a oggi).

Google si aspetta riconoscenza, o almeno indulgenza, come ovvio. Il Google Transparency Project pubblica una mail di Madhav Chinnappa, direttore del News Ecosystem Development di Google che il 14 giugno scrive agli “amici” della Google Digital Initiative, direttori e capi azienda nel settore dei media, e chiede esplicitamente di “contattare i parlamentari europei” per sensibilizzarli sulla direttiva sul

copyright cui Google si è a lungo opposta, per poi dichiarare che non ha intenzione di rispettarla.

Come ha scritto Emily Bell, direttore del Tow Center for Digital Journalism alla scuola di giornalismo della Columbia University, “Facebook, Apple e Google fanno cose su cui i giornalisti dovrebbero investigare, non trarre benefici”. Nessun giornale americano ha rilanciato il report del Google Transparency Project, tranne BuzzFeed e ProMarket.org. Tutti quei soldi, come è evidente, sono serviti a qualcosa.

Quegli ingrati dei greci e il monumento a Juncker

Certo, l’ultima visita di Jean-Claude Juncker all’Europarlamento da presidente della Commissione Ue, ieri mattina, non ha avuto la stessa eco dell’addio di Mario Draghi alla Bce: nessuno, ci scommettiamo già, sui giornali userà per il simpatico lussemburghese affetto da sciatica, ma comunque sempre ben lubrificato, i superlativi spesi per “l’uomo che ha salvato l’euro” (ma non ha fatto alzare l’inflazione, che poi era il suo unico compito). Peccato perché in quest’ultima performance il nostro s’è fatto, tra i molti altri, i complimenti per la gestione della crisi greca: “Abbiamo ridato a quel Paese la dignità che merita”, aiutato a lenire “le sofferenze della popolazione” e questo nonostante “volessero impedire alla Commissione di agire: mi ricordo le telefonate di diversi leader che mi dicevano ‘fatti gli affari tuoi’, della Grecia si occuperanno i governi. Ma noi abbiamo agito”. E chi non se lo ricorda come ha agito la Commissone? Ogni tanto, dopo aver dato un altro giro di garrota, Juncker diceva -commosso – “forse c’è troppa austerità…”. In attesa che gli venga innalzato il giusto monumento, magari equestre o forse al bar, nel Paese a cui ha ridato dignità – sì, quella Grecia che ha un terzo del Pil in meno di dieci anni fa, il doppio dei poveri e il doppio del debito pur avendo svenduto il patrimonio pubblico, il 17% di disoccupazione nonostante la sua popolazione attiva sia emigrata in massa – in attesa del monumento, dicevamo, ci par di capire da Google translate che l’espressione “faccia come il culo” sia intraducibile.

Eliminato il paradosso dei precari Anpal che ricollocano i disoccupati

Per la stabilizzazione dei precari dei servizi per il lavoro è stato compiuto un altro passo avanti che sembra decisivo. Un emendamento al decreto imprese, frutto di un accordo di maggioranza, ha spianato la strada per quasi tutti i dipendenti a termine dell’Anpal Servizi. Si tratta della società pubblica che svolgerà un ruolo fondamentale nel reddito di cittadinanza, il braccio operativo dell’Agenzia per le politiche attive del lavoro: i suoi operatori assistono i disoccupati nella ricerca di un impiego, ma i primi a non avere tutele sono proprio loro. Per superare questo paradosso ci saranno due diverse vie verso il contratto a tempo indeterminato. I 134 che hanno un rapporto di lavoro subordinato potranno essere inseriti automaticamente in pianta stabile. Per gli altri 520 legati da un contratto di collaborazione servirà passare da una selezione interna che premierà 400 persone. È una soluzione che ancora non accontenta tutti, ma poco ci manca.

Nelle scorse settimane, il presidente dell’Anpal Mimmo Parisi aveva proposto un piano da 400 assunzioni, ma solo per metà provenienti dall’interno. I sindacati e il Coordinamento del lavoro autonomo e precario (Clap) lo hanno giudicato insufficiente. Dopo scioperi e sit-in, è arrivato l’emendamento di lunedì, ben più gradito dai rappresentanti dei lavoratori. Le stabilizzazioni saranno completate nel corso del triennio.

È una mossa importante per l’applicazione della fase due del reddito, che vedrà i beneficiari impegnati nella ricerca di un’occupazione. Secondo l’ultima rilevazione, il sussidio ha raggiunto all’8 ottobre 2,2 milioni di persone, quindi circa in 735 mila saranno obbligato a firmare il patto per il lavoro. Le Regioni hanno finora censito 200 mila convocazioni già effettuate nei centri per l’impiego (su oltre 700 mila percettori “avviabili”), ma è una cifra che sta crescendo in fretta. Il Piemonte viaggia bene: ha convocato 22 mila persone su 30 mila. Buone le performance di Sicilia, Toscana, Emilia Romagna e Basilicata, sopra il 50%.

Il problema però è rappresentato dalle tante persone che non si presentano ai colloqui, anche perché i centri per l’impiego non sempre hanno i giusti contatti telefonici. Sarà compito dei tre mila navigator (anche loro assunti con contratti precari dall’Anpal) recuperare quei recapiti. In Sicilia, per esempio, sono stati fissati 106 mila colloqui da qui a dicembre; sugli oltre 31 mila appuntamenti già passati, si sono presentati in 25.400. Nelle Marche sono stati chiamati in 655 e ben 522 hanno disertato l’invito. Per ora nessuno viene punito, ma le Regioni vogliono partire con le sanzioni entro qualche settimana.

Il voto agli anziani Breve apologo da Sofocle a oggi

Qualche giorno fa Beppe Grillo ha lanciato una provocazione (ma forse non lo era del tutto): togliere il voto agli anziani. L’idea nasce dal presupposto che una volta raggiunta una certa età, i cittadini saranno “meno preoccupati del futuro sociale, politico ed economico, rispetto alle generazioni più giovani, e molto meno propensi a sopportare le conseguenze a lungo termine delle decisioni politiche”. In realtà quella della vecchiaia negletta è una vecchia storia. Anzi vecchissima. E risale a quando, in epoca preistorica, gli anziani venivano proprio fatti fuori, spesso con la scusa di qualche sacrificio rituale: secondo Timeo – si legge ne I supplizi capitali di Eva Cantarella – i Sardi inseguivano gli ultrasessantenni con il bastone, fino a farli precipitare dall’alto di una roccia nel mare. Presso gli Sciti, i vecchi, stanchi della vita, si gettavano spontaneamente. Idem, secondo Silio Italico, per i Cantabri, gli attuali Baschi. A Roma, anche se Ovidio dice di non volerci credere, i sessantenni erano chiamati “depontani” perché probabilmente in età antica li buttavano nel Tevere (non per nulla c’era il detto Sexagenari de ponte). E comunque a sessant’anni si perdeva il diritto di partecipare alla vita politica. Nell’Atene di età classica le cose non andavano meglio. Poveri vecchi: il poeta Mimnermo in un frammento addirittura spera di morire entro i sessant’anni. In un altro dice che la “dolorosa vecchiaia” rende l’uomo bello simile al brutto, odiato dai fanciulli e disprezzato dalle donne. Nell’Edipo a Colono, che è la tragedia della vecchiaia, Sofocle definisce quell’età della vita “spregiata”. Detto da lui fa sorridere e non perché sia morto novantenne, ma perché veniva preso in giro dai suoi concittadini per essere stato beccato ad amoreggiare, fuori le mura, con un giovanotto quando lui era invece troppo in là con l’età: a sessant’anni si perdeva anche il diritto all’amore!

Venendo a epoche più vicine alla nostra il percorso storico del suffragio è stato, al contrario di quanto vorrebbe Grillo, verso l’universalità, da quando nelle prime elezioni politiche del 1861 furono iscritti nelle liste elettorali circa 400 mila cittadini (l’1,90% della popolazione). Poi la battaglia è stata per l’inclusione, non verso l’esclusione. E il voto è stato una conquista. Prima poterono votare i cittadini italiani (naturalmente maschi) che avessero compiuto il 21esimo anno d’età, sapessero leggere e scrivere, avessero superato l’esame di seconda elementare. Per un certo periodo è stato necessario superare il tema per l’ammissione alle liste elettorali. Ma l’italiano non è mai stato uguale per tutti e molti tra quelli che si sottoponevano alla prova venivano respinti. Poi furono ammessi (dal 1912) anche gli analfabeti, maschi, che avessero compiuto i 30 anni o fatto il servizio militare. Da ultime sono state ammesse le donne, nel 1946.

Ora, non è ben chiaro a cosa miri Grillo con il restringimento della platea dei votanti: semmai avrebbe senso allargarla, visto l’allarmante tasso di astensionismo che segna un pericoloso e progressivo impoverimento della democrazia. Una volta l’astensione dal dovere elettorale era sanzionata (e in alcuni Paesi del mondo lo è ancora): difficile pensare che ripristinarla aumenti l’interesse al voto. Però ridurre il numero dei votanti ha un sapore amaramente antidemocratico, quali che siano le motivazioni. E a Grillo si può ricordare il saggio Solone, che alle lamentele di Mimnermo rispondeva: “Invecchio imparando sempre nuove cose”.

Il furto degli “idoli”: la saga della chiesa meglio di Dan Brown

Lo dico in latino per adeguarmi all’argomento: Dan Brown gli fa una pippa. E poi lo dico anche da lettore stupefatto di cronache e giornali: ma guarda che razza di storia.

Vabbé, prima la cronaca. In una meravigliosa alba dell’ottobrata romana, alcuni tizi entrano in una chiesa molto importante (Santa Maria in Traspontina, 90 secondi a piedi dalla cattedrale di San Pietro), rubano alcune sculture in legno, escono e le buttano nel Tevere. Filmano tutto e diventano più o meno eroi dell’ala destra della Chiesa, quelli che fanno la guerra a Francesco, che apre troppo, esagera, fa casino, rinnova di corsa, stai calmo, amigo. Oggetto del contendere, il sinodo dell’Amazzonia, convocato dal papa, dietro il quale si combattono una guerra politica e una guerra di religione, il tutto all’interno della stessa religione. Si mettano nel conto anche dissesti economici, sgambetti, dossier, accuse di qua e di là, dispute teologiche, frizioni politiche, fino al furto in chiesa (Dan Brown, come sopra).

In soldoni: il sinodo dell’Amazzonia si occupa di cose toste come la difesa del pianeta, il fatto che quei milioni che vivono là, accanto alla foresta, sono un po’ seccati che gli taglino il posto in cui vivono allo scopo di coltivare mangime per futuri hamburger. Naturalmente (mea culpa) non ho nemmeno la più pallida idea di come funzioni un sinodo, discuteranno tra loro, credo. Ma intanto, nelle cerimonie di apertura, le popolazioni indigene hanno portato in dono queste statue di legno, che raffigurano la Pachamama, cioè una donna incinta, cioè, per loro, la Madre Terra, da cui viene tutto, eccetera eccetera. Insomma, un dono simbolico, un pezzo consistente della cultura india, un buon auspicio per il dialogo. Finché un commando di aspiranti Templari ruba le statue e le butta nel fiume (notevole la zoomata mistico-turistica su Castel Sant’Angelo).

Ora viene il bello, perché uno pensa: cazzo, furto di opere d’arte in una chiesa! È una cosa per cui puoi prenderti qualche annetto come niente, se oltre ai testi sacri leggi anche il Codice Penale. Invece pare sia tutto un po’ in sordina, già i ladri che si filmano è bizzarro, poi compaiono qui e là delle simil-rivendicazioni. Cioè analisi e cronache che giustificano il gesto.

È vero che un giro esplorativo nella galassia internet degli ultra-cattolici è sempre istruttivo (tipo andare a cena con Bonifacio VIII), ma stupisce lo stesso di trovarsi di fronte al ragionamento tipico delle guerre di religione. Simboli nemici, sacrilegio. Il furto è definito “Autodifesa”, oppure “Cattolici gettano gli idoli nel Tevere”, o “Non è furto ma legittima difesa”, poi via con citazioni, versetti, pezze d’appoggio, sacre scritture per dire che gli idoli pagani, eccetera eccetera, guai vade retro, pussa via, buttamolo ar fiume.

Disputa dal sapore vagamente ztl-medievale, d’accordo, ma attenzione che la curvatura farsesca non faccia velo alla sostanza. Non solo all’interno della Chiesa e contro questo papa ci sono pressioni e fronde e dispetti a non finire, ma si agisce anche con azioni che travalicano un pochino il codice penale. Chiunque abbia mai frequentato uno stadio sa che comincia così, prima ci si ruba le bandiere e poi finisce a botte (si perdoni il paragone).

Disputa teologica, ma anche segno di fortissima pressione e di scontro ideologico, tipo la ragazza Greta che avverte il mondo dell’emergenza (in questo caso il papa), contro i suoi insultatori e denigratori professionisti à la Feltri (in questo caso i ladri di statue). È una serie che va avanti da duemila anni, quindi attendiamo le prossime puntate e i prossimi secoli, ma intanto si registra, sempre per la cronaca, un’impennata mediatica dei tradizionalisti. Così tradizionalisti, da mettere le loro gesta su Youtube. Dai, cazzo, un po’ di coerenza! Giovanna d’Arco non l’avrebbe mai fatto.

Quanto dura il governo? Renzi non fa prigionieri…

Ma sto’ governo quanto dura? È la spiccia domanda che l’autore di questo diario si sente rivolgere sempre più spesso, in quanto giornalista, e alla quale, in quanto giornalista, tenta di rispondere borbottando frasi confuse, intrise di condizionali e subordinate mentre l’interlocutore sicuramente pensa: mah, questo ne sa meno di me.

Quindi, come per il foglietto mostrato nel film da Joker agli interdetti passanti – dove sta scritto che la sua disturbante risata è malattia non insulto – invece di impappinarmi sul nulla distribuirò le brevi note che seguono a chi ne farà gentile richiesta. Anzi, sarò il più possibile conciso: Matteo Renzi non fa prigionieri. Partendo dalla leggenda degli Orazi e Curiazi, così come mi è stata riferita a proposito delle intenzioni (politicamente) omicide dell’ex statista di Rignano.

Dunque, come ricorderà chi è stato attento a scuola, racconta Tito Livio che nel VII secolo a. C., per evitare inutili spargimenti di sangue Roma ed Albalonga decidono di affidare le sorti della guerra rispettivamente ai tre figli di Publio Orazio e ai tre gemelli Curiazi. Per farla breve, in seguito all’uccisione dei fratelli l’Orazio superstite astutamente finge di scappare verso Roma in modo da affrontare i tre nemici, che lo inseguono tra loro distanziati, così da eliminarli uno alla volta e di tornare vincitore.

Più o meno, mi dicono gli esperti del ramo, questa sarà la strategia renziana per trasformare Italia Viva, da partitino guastafeste a centro di gravità della politica italiana. Domanda: e chi sarebbero i Curiazi soccombenti? Lo stralunato Pd di Zingaretti? I resti di Forza Italia? Anche. Ma soprattutto i grillini: per essere più precisi Renzi scommette sulla crisi progressiva del movimento 5stelle, alla cui implosione vorrebbe contribuire fattivamente per poi incamerarne i consensi. Secondo le analisi sulla composizione del voto, infatti, il piccolo IV gravita nello stesso bacino elettorale del M5S: più di centro che di sinistra, più moderato che progressista.

In fondo, potrebbe pensare l’ex premier, buona parte di queste persone provengono dal Pd dove però, sondaggi alla mano non intendono ritornare, ed eccoci qua noi. Peccato, si potrebbe chiosare che scappavano proprio dal partito personale dell’arrogante Matteo Renzi ed è difficile che ripetano due volte lo stesso errore.

Sia come sia nella sua caccia alla volpe Renzi ha messo nel mirino Giuseppe Conte che (leggiamo da giorni su Repubblica, Corriere della Sera, Foglio) cerca di logorare (a cominciare da domenica sera se in Umbria dovesse vincere il gemello diverso Matteo Salvini), così da farlo cadere all’inizio del prossimo anno, frollato a puntino. Per poi favorire, sempre con l’attuale maggioranza, la nascita di un nuovo governo ma questa volta a guida Luigi Di Maio (e con la possibile conseguente diaspora dei 5stelle).

Sì, Di Maio lui pure da mettere a rosolare sulla graticola fino alle elezioni del nuovo capo dello Stato, all’inizio del 2022. Per poi abbatterlo. Troppo cervellotico? Forse, ma è la stessa tecnica che Renzi adoperò nel 2013 quando fece fuori, uno dopo l’altro i Curiazi, Pierluigi Bersani, Romano Prodi, Enrico Letta.

Non è detto però che la “volpe” Giuseppi si faccia impallinare così facilmente dal bracconiere Matteo. Anche perché il presidente del Consiglio forte della popolarità tra gli italiani intende agire sul piano delle cose da fare per il paese, possibilmente alla larga dai giochi di palazzo.

Vedete cari amici che chiedete lumi sul futuro del governo come è complicato fare una qualsiasi previsione di senso compiuto? Con una sola certezza però: Renzi non fa prigionieri. Come l’Orazio della leggenda che fece uccidere pure la sorella Camilla, promessa sposa di uno dei Curiazi trafitti, dopo le rimostranze di lei. Ma qui mi fermo con i paragoni storici per evitarmi un’altra querela.

Mail box

Erika, morta in discoteca: la responsabilità è di tutti

Erika Lucchesi, originaria di Livorno, aveva 19 anni. In un locale notturno di Sovigliana, frazione di Vinci (Firenze), si è accasciata al suolo per non rialzarsi più. La morte, quasi certamente, è avvenuta a seguito di un fatale mix di cocaina, droghe sintetiche ed alcool. Si può puntare il dito verso molti risvolti della vicenda: i locali notturni. La musica techno. Gli assolutamente condannabili droga ed alcool e gli spacciatori, locali e stranieri. Rimane il fatto che una ragazza, poco più che una bambina, è morta. Verrà ora appurata la dinamica della tragedia. Ma credo che la responsabilità sia di tutti. Degli amici che non l’hanno fatta desistere. E della società, partendo dalle persone a lei più vicine passando dalla scuola fino ad arrivare ai mezzi d’informazione.

Che non sono riusciti a farle capire quanto possano essere pericolosi certi atteggiamenti. Poi c’è il libero arbitrio: a volte si sceglie di compiere determinate azioni senza pensare alle conseguenze. Ci vuole più controllo ed informazione. Soprattutto nelle scuole dove gli insegnanti dovrebbero riprendere in mano la situazione. Rimane il fatto che non si può e non si deve morire in questo modo. Perché è una sconfitta per tutti.

Cristian Carbognani

 

Avevano ragione i giapponesi: siamo un popolo stupido

Sono passati molti anni da quando i giapponesi decretarono in un sondaggio che il popolo italiano è il più stupido al mondo, eppure mi capita spesso di pensare a quella pesante sentenza, soprattutto guardando agli ultimi vent’anni.

Per evitare di occupare dieci pagine di giornale, potrei citare un solo grosso esempio di imbecillità: le mille cattedrali nel deserto costruite per tener su il Pil e per soddisfare le richieste dei re del cemento.

Ma se volete gonfiare il Pil rendete più sicuro il territorio, sistemate i ponti, le strade, le scuole! In trent’anni l’unico che è riuscito a far calare di poco il debito pubblico è stato l’incredibile Prodi! Poi, via di corsa fino all’incredibile Salvini che vorrebbe farlo raddoppiare per risanare l’Italia.

Per non apparire presuntuoso devo confessare che anch’io penso di essere un po’ cretino: non riesco a capire perché milioni di italiani si coprono di debiti pur di farsi tatuare anche nelle parti più intime e per mettersi un anello al naso.

Angelo Casamassima Annovi

 

I nostri politici sono esempi di maleducazione

Possibile che ai giorni nostri i dirigenti politici ci possano dare esempi di così alta maleducazione, possibile che siamo arrivati al punto che i nostri eletti si sentano padroni dell’universo, buttando nel fango la nostra dignità e la loro educazione solo perché li abbiamo eletti? Prima Berlusconi diventato presidente del Consiglio negli anni passati si è permesso di sbeffeggiare la cancelliera Merkel in una visita ufficiale nella Germania Federale, secondo me offendendo tutta la Germania e tutti noi italiani. Poi, in un’altra foto, fece il furbo mostrando fieramente le corna con la mano. In casa nostra Umberto Bossi offese tutta l’italia gridando a più non posso nei suoi comizi che la bandiera nazionale, il tricolore, gli serviva per pulirsi il sedere. Lo copiò Salvini gridando le stesse frasi, poi da ministro degli Interni si è permesso in una visita ufficiale al Quirinale di aspettare il presidente tranquillamente seduto col telefonino in mano, mentre tutti gli altri erano in piedi in segno di rispetto.

Andando all’estero, ho visto foto del premier britannico Boris Johnson mentre discute con Emmanuel Macron coi piedi sul tavolino all’Eliseo. Dunque, queste persone nominate nelle alte sfere nazionali e internazionali devono o hanno il potere di comportarsi sfacciatamente da padroni anche in casa d’altri come vogliono e dove voglliono? Quale esempio vogliono dare ai nostri figli?

Poveri ragazzi con questo futuro, spero che riprendano la loro dignità sperduta da questi quattro burloni.

Silvano D’Orba

 

Gli elettori di Salvini vivono di dogmi e non vedono la realtà

Ormai la Lega e Matteo Salvini vanno a “ruota libera’’ e “senza freni’’. Mentre i loro fedeli elettori vivono di dogmi.

Ad esempio: Salvini avrebbe abbassato le tasse con la flat tax unica al 15%; Salvini avrebbe piegato l’Europa; Salvini ha fermato gli sbarchi di migranti; Salvini avrebbe concesso l’autonomia finanziaria alle regioni del nord…

Lo credo che lui bacia i santini, si sente un “santino in pectore” pronto a fare i miracoli. E per i suoi sostenitori che lui faccia i miracoli è un dogma, non si sa come ma li fa.

I suoi elettori non lo giudicano razionalmente su quello che realmente fa o sulle promesse realizzate ma solo su quello che appare, su quello che la loro fantasia dogmatica già traduce in realtà.

E di fronte al dogma salta qualsiasi confronto politico. Ma bisogna stare attenti a non degradare la politica in “guerra dei dogmi’’, che si sono tramutati in ogni tempo in guerre cruente e crudeli con milioni di vittime. L’unico confronto possibile è stato quello con Matteo Renzi che si è subito tramutato in rivendicazioni personali da entrambe le parti. Si sono comportati come avrebbero fatto due lavandaie alla fonte a metà dell’800.

Francesco degni

Lingerie in pelle d’agnello: pestare uno “scarto” ai tempi di Greta

Buongiorno, sto seguendo sui social le polemiche contro l’azienda Intimissimi, che ha appena lanciato una linea di lingerie in pelle d’agnello, attirandosi le critiche del mondo veg: a Milano, addirittura, c’è stato anche un blitz animalista davanti a un negozio della catena. Io non sono vegana, né animalista, ma quest’operazione commerciale mi sembra inutile, se non anacronistica.

Carlotta Petroni

 

Gentile Carlotta, la prima reazione a questa campagna ricorda il vecchio dubbio “Mi si nota di più se mi adeguo all’ambientalismo/veganismo dilagante o se rompo l’asse dei buoni e faccio parlare comunque di me?”. Se il principio da cui sono nati reggiseni e perizomi di pelle d’agnello fosse questo, saremmo di fronte a una campagna di marketing. Il “purché se ne parli”, come tutti sanno, funziona alla grande. Anche perché, rispetto alla maggioranza di donne ormai consapevoli e responsabili nei consumi, c’è sempre una minoranza (abbondante) che se ne frega e preferisce vestirsi di pelle piuttosto che di cotone di dubbia provenienza (del resto: dove è coltivato? E da chi? Siamo sicuri che non utilizzino “schiavi” o bambini?). Ho paura, però, che questa risposta sia troppo semplice. In alcune mail inviate alle consumatrici arrabbiate, l’azienda avrebbe tentato di mettere una toppa che è peggio del buco e, come la pelle d’animale sotto il sole delle ottobrate romane, puzza dalla testa. Care amiche, avrebbero risposto da Intimissimi, non vi preoccupate per i poveri cuccioli: abbiamo utilizzato solo “pelle di scarto”, ovvero la pelle di quegli animali portati al macello per fini alimentari. Gli arrosticini nel piatto, il tessuto epiteliale sotto le tette, perché dell’agnello, come del maiale, non si butta via niente. Ora, al di là dell’avversione che desta una simile affermazione (ma la sensibilità è personale e lungi da chi scrive giudicare), resta il fatto che nel 2019, dopo che Greta ha solcato l’Atlantico per puntare il dito contro i grandi della Terra, tornare alla pelle animale e per di più per l’intimo è decisamente anacronistico, come scrive lei. Sono tantissime le aziende che – seppur cavalcando l’onda animal-ambientalista – hanno immesso sul mercato prodotti “veg” (vedi i jeans Carrera, credo ultimi in ordine di tempo). Allora decisamente non c’è motivo per utilizzare nemmeno gli scarti animali, né per convenienza né per marketing. E se proprio non ci rassegniamo al modello “Jessica” di “Viaggi di nozze”, beh, lo si può fare strano anche in ecopelle.

Silvia D’Onghia

“Era la nuova tangentopoli ma non ci hanno creduto”

Quando era stata emessa la sentenza d’Appello – che a differenza di quella di primo grado riconosceva l’esistenza della mafia a Roma – Alessandro Diddi, legale di Salvatore Buzzi, non usò mezzi termini: “È una bruttissima pagina per la giustizia del nostro Paese”. Percezione completamente ribaltata ieri dopo la decisione della Cassazione. “Ora posso dire che si tratta forse di una delle più belle pagine. La Suprema Corte ha sigillato definitivamente con un annullamento senza rinvio quello che noi abbiamo sostenuto fin dalle prime battute del processo: non si può parlare di mafia”.

Lei ha difeso Buzzi fin dal suo arresto, nel dicembre 2014. In Appello è stato condannato a 18 anni e 4 mesi. Ora la sua linea difensiva ha avuto la meglio.

Noi sostenevamo già davanti al Tribunale delle libertà che l’accusa di mafia non esisteva e che al massimo bisogna ricostruire due tipi di associazione semplice.

Eppure alcuni testimoni in aula hanno ritrattato, altri hanno detto di avere paura: questo è segno di un’intimidazione mafiosa?

È una versione estremamente caricata. Inoltre nessuno ha mai detto di essere stato minacciato da Buzzi. Questa è la grande opera che abbiamo fatto nel processo di primo grado: abbiamo cercato di dimostrare che il gruppo di Corso Francia riferibile a Massimo Carminati – che io non definisco neanche associazione – non ha mai varcato la soglia di via Pomona, sede della coop 29 giugno.

Una versione completamente opposta a quella dei pm capitolini, che hanno ribadito, anche nel ricorso contro la sentenza di primo grado, l’esistenza della mafia a Roma.

La Procura ha sostenuto che la mafia era uno strumento che si aggiungeva all’intimidazione, sostenendo così la cosiddetta riserva di violenza. Abbiamo dimostrato che non c’era alcuna riserva di violenza in via Pomona.

Insomma la capitale è corrotta ma non mafiosa?

Certo. Buzzi nel corso di cinque interrogatori ha elencato le tangenti che gli sono state richieste da destra a sinistra tra il 2011 e il 2014. L’unica critica che faccio alla procura di Roma, che ha condotto il processo con grandissima professionalità, è quella di non aver creduto a Buzzi. Se avessero seguito le decine di filoni investigativi che si aprivano dalle sue dichiarazioni oggi avremmo scritto una nuova pagina di Tangentopoli. Non c’è mai stata inoltre una corruzione che non abbia preso le mosse dall’iniziativa del pubblico ufficiale.

Ora chiederà la sostituzione della misura cautelare?

Penso si possano mettere in campo delle richieste per la revoca o la sostituzione della misura cautelare. Con i reati per i quali era stato condannato non c’era via d’uscita per un uomo di più di 60 anni. Con la pena inflitta a 18 anni si poteva aspettare il giorno del suo decesso. Adesso le cose cambiano.