Cade il Mondo di Mezzo: “Non era Mafia Capitale”

Mafia Capitale non è esistita. Il Mondo di mezzo di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi non è stato un’associazione mafiosa ma un’associazione di semplici criminali. Corruttori.

Lo ha stabilito, con sentenza definitiva, la Cassazione, sesta sezione penale presieduta da Giorgio Fidelbo. La Suprema Corte ha, dunque, annullato la sentenza della Corte d’Appello di Roma che a settembre 2018 aveva ribaltato il verdetto del tribunale e aveva riconosciuto l’associazione mafiosa, così come aveva chiesto la procura con i pm Cascini, Ielo e Tescaroli. L’ex ras delle coop rosse a Roma, Buzzi e l’ex Nar ed ex boss della banda della Magliana, Carminati, in appello erano stati condannati rispettivamente a 18 anni e quattro mesi e a 14 anni e mezzo. Carminati è finito pure al 41 bis. Con la decisione della Cassazione, invece, un nuovo collegio della Corte d’Appello dovrà rideterminare la pena perché Buzzi e Carminati restano condannati ma per aver fatto parte di due associazioni a delinquere semplici e autonome. Sono stati pure annullati in parte con rinvio e in parte senza rinvio alcuni reati cosiddetti “fine”, alcune estorsione, per esempio.

Per rendere comprensibile questa sentenza dal dispositivo complesso, si può dire che la Cassazione è come se avesse riportato il processo alla sentenza del tribunale di Roma che aveva inflitto condanne più severe per associazione a delinquere e corruzione ma aveva respinto l’impostazione della procura guidata da Giuseppe Pignatone secondo la quale Carminati, Buzzi e gli imputati a loro più vicini agivano come una struttura mafiosa. Una tesi che aveva sostenuto in Cassazione anche la procura generale, che aveva chiesto la conferma della sentenza d’appello. A parte l’associazione mafiosa cancellata, confermata la condanna anche per Luca Gramazio, ex capogruppo di Fi in Regione, unico politico con il 416 bis. Anche per lui, condannato a 8 anni e 8 mesi, dovrà essere rideterminata la pena. Stesso discorso vale per Franco Panzironi, ex Ad di Ama (azienda rifiuti di Roma) che aveva avuto il concorso esterno (8 anni e 4 mesi). Confermate, inoltre, le condanne per politici che anche in appello – a vario titolo – avevano avuto “solo” corruzione e turbativa d’asta, come Mirko Coratti, Pd, ex presidente del Consiglio comunale capitolino e Giordano Tredicine, ex consigliere comunale di FI. In Cassazione, per la lettura di questo verdetto, che farà molto discutere e di cui si attendono le motivazioni, c’era anche la sindaca Virginia Raggi: “Questa sentenza conferma comunque il sodalizio criminale. Lavoriamo seguendo un percorso di legalità e diritti”. Il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, che era con Raggi, è critico: “A Roma non c’era mafia, secondo la Cassazione. Le sentenze si rispettano, ma le perplessità, le ambiguità permangono tutte”.

Procura di Roma, secondo round al via

Si rientra nel vivo della nomina delle nomine al Csm, quella del procuratore di Roma che 5 mesi fa ha scatenato un putiferio istituzionale e giudiziario con 5 togati costretti a dimettersi così come il Pg della Cassazione Riccardo Fuzio, indagato a Perugia per rivelazione di segreto a Luca Palamara, pm sospeso perché accusato di corruzione.

La Quinta commissione, ha ascoltato 5 degli 8 magistrati candidati. Fra loro Marcello Viola, il procuratore generale di Firenze che aveva preso più voti (4) il 23 maggio scorso dalla vecchia Commissione e che – suo malgrado – è stato il candidato sponsorizzato anche da Palamara e dai parlamentari, allora entrambi del Pd, Luca Lotti e Cosimo Ferri, ora con Italia Viva. “Si vira su Viola”, disse Lotti all’incontro notturno del 9 maggio in un hotel romano con 5 ormai ex togati (Lepre, Criscuoli, Cartoni di Mi, come Ferri, magistrato in aspettativa; Spina e Morlini di Unicost). Ascoltati ieri pure Franco Lo Voi, procuratore di Palermo, di Mi come Viola, che a maggio aveva preso un voto e Michele Prestipino, procuratore aggiunto di Roma, non votato cinque mesi fa ma al momento dato per favorito dai rumors di palazzo dei Marescialli.

Che sia la nomina delle nomine lo testimonia la presenza, anche se silenziosa, del vice presidente del Csm David Ermini alle audizioni, prima tappa dopo la decisione, sempre della Quinta, di azzerare quel voto di maggio. Hanno partecipato ai lavori pure consiglieri che non fanno parte della Commissione. Nella seduta a porte chiuse si sono visti, infatti, Giuseppe Cascini, capogruppo di Area e procuratore aggiunto di Roma, che ha ascoltato in silenzio, i laici Emanuele Basile e Stefano Cavanna della Lega, Fulvio Gigliotti, M5s. Lo tsunami che questa estate si è abbattuto sul Consiglio aleggiava tra i consiglieri ma – secondo quanto risulta al Fatto – solo uno di loro, laico, vi ha fatto riferimento esplicito. È stato Cavanna, nel silenzio generale dei togati (alcuni perché giudici disciplinari) a chiedere a Viola che opinione si fosse fatto. Il pg ha ringraziato Cavanna per la domanda e poi ha assicurato che nulla sapeva degli intrighi emersi con l’inchiesta di Perugia. Che tutto è passato sulla sua testa e che ha appreso di quelle conversazioni esclusivamente dalla stampa. Al termine dell’audizione, il presidente Mario Suriano (Area) ha voluto precisare, quasi a voler rassicurare Viola, che le scelte della Quinta saranno prese solo su basi “oggettive”, senza influenze esterne.

Il candidato che per diversi consiglieri ha dato più l’impressione di avere il polso della procura di Roma è stato Prestipino, l’uomo che da Palermo ha seguito Pignatone prima a Reggio Calabria e poi nella capitale, sempre come aggiunto. Ma anche Viola è stato ritenuto “brillante” così come Lo Voi “molto deciso”. Domani sarà ascoltato, tra gli altri, il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo (Unicost) che Lotti, imputato a Roma, voleva fuori dai giochi e pure da Firenze per le inchieste sui genitori di Renzi. A maggio aveva avuto un voto.

Bancarotta, i genitori di Renzi rischiano un altro processo

Tiziano Renzi e Laura Bovoli, i genitori dell’ex premier, rischiano un altro processo. La Procura di Firenze ha chiuso le indagini per i due coniugi e per altre 17 persone – tra amministratori delle società e imprenditori – nell’ambito dell’inchiesta sui fallimenti delle cooperative Delivery Service Italia, Europe Service e Marmodiv. È una nuova tegola giudiziaria che arriva ad appena 15 giorni dalla condanna a un anno e nove mesi di reclusione per l’accusa di aver emesso tramite la Eventi 6 e la Party Srl due fatture (dal valore totale, Iva inclusa, di 195.200 euro) per operazioni ritenute inesistenti. Ora i coniugi Renzi si ritrovano a dover affrontare la chiusura dell’indagine – atto che di solito prelude a una richiesta di rinvio a giudizio – che a febbraio li portò ai domiciliari, revocati dopo 18 giorni.

Coinvolto nella stessa inchiesta fiorentina Mariano Massone, l’imprenditore genovese che finì nell’indagine di Genova sulla bancarotta della Chil Post. Inizialmente era iscritto pure il padre dell’ex premier la cui posizione è stata archiviata, Massone invece ha patteggiato una pena di 2 anni e 2 mesi.

Ma questa è un’altra storia. Ora il genovese è accusato a Firenze di bancarotta fraudolenta: per i pm in passato era amministratore di fatto della Delivery Service Italia e della Europe Service fino al dicembre del 2012.

Le bancarotte delle due cooperative

La bancarotta fraudolenta è il reato contestato anche ai coniugi Renzi: per quanto riguarda la Delivery Service, secondo le accuse, con altri – tra cui Roberto Bargilli, l’autista del camper di Matteo Renzi per le primarie del 2012 e in passato nel Cda della cooperativa – avrebbero omesso di “versare gli oneri previdenziali e le imposte, così determinando, o comunque aggravando il dissesto”. Nel caso della Europe Service, invece, per i pm i Renzi con altri, “sottraevano, con lo scopo di procurarsi un ingiusto profitto e di recare pregiudizio ai creditori, i libri e altre scritture contabili”. In entrambe le cooperative i coniugi sono ritenuti, ma per gli anni passati, amministratori di fatto.

Le nuove contestazioni per la Marmodiv

E poi c’è il capitolo Marmodiv, dichiarata fallita a marzo scorso. In questo caso ai Renzi è stata contestata la dichiarazione fraudolenta mediante operazioni inesistenti e poi l’emissione di fatture per operazioni inesistenti per “consentire alla Eventi 6 l’evasione delle imposte sui redditi”. Inoltre secondo i pm, Renzi, Bovoli, Giuseppe Mincuzzi (presidente del Cda della Marmodiv fino al 15 marzo 2018) e Daniele Goglio (amministratore di fatto dal 15 marzo 2018) “correvano a cagionare il dissesto” della Marmodiv “esponendo, al fine di conseguire un ingiusto profitto, nel bilancio di esercizio al dicembre 2017, nell’attivo patrimoniale crediti per ‘fatture da emettere’ non corrispondenti al vero” per più di 370 mila euro. Ma c’è un’altra novità: al solo Tiziano Renzi viene contestata, sempre per la Marmodiv, anche una bancarotta semplice. Al centro c’è la cessione di un ramo dell’azienda alla Dmp Italia, società che si occupa di servizi pubblicitari e di cui è legale rappresentante il genovese Massimiliano Di Palma. Secondo le accuse “durante la procedura prefallimentare, Renzi Tiziano (coadiuvato da Massone e Mincuzzi) e Di Palma, stipulavano un contratto di cessione di ramo d’azienda della Marmodiv”, senza però dargli esecuzione: per esempio non sarebbero mai stati trasferiti i dipendenti all’acquirente, né saldati i debiti. Così “ritardavano la dichiarazione di fallimento della società, e i costi di gestione rimanevano a carico della Marmodiv, che addirittura forniva servizi alla Dmp Italia senza conseguire alcun ricavo”.

“Le fatture false: un favore per il lavoro ”

Tra gli indagati c’è Priyantha Punchihewa, 50enne dello Sri Lanka: avrebbe emesso false fatture da una sua società alla Marmodiv. È l’uomo che agli investigatori ha spiegato che le fatture per la distribuzione di volantini gli erano state richieste da un suo connazionale “quale favore per avergli trovato lavoro alla Marmodiv”. “Il fallimento (della Marmodiv, ndr) – spiegano i legali dei Renzi, Federico Bagattini e Lorenzo Pellegrini – non riguarda una società dei Renzi ma cooperative esterne per le quali la Procura ipotizza, per periodi circoscritti, una ingerenza nella gestione: ipotesi totalmente infondata”. Adesso gli indagati hanno 20 giorni per presentare memorie o rendere dichiarazioni. Poi i pm decideranno se archiviare o chiedere il processo.

“Noi eravamo come Davide contro Golia: su papà bugie ad arte”

Il 13 settembre del 2016 un’auto blu esce dal parcheggio dell’ospedale Busonera, l’istituto oncologico veneto di Padova. L’autista Angelo Faccini, commettendo un’infrazione, taglia l’incrocio, gira a sinistra e centra il motorino di Cesare Tiveron, un imprenditore di 72 anni che proveniva dalla stessa corsia. Cesare finisce sul cofano, muore poco dopo in ospedale. Sembra un incidente come tanti altri, ma non lo è. Alla guida dell’auto blu, infatti, c’era un autista e il suo passeggero era Domenico Mantoan, potentissimo direttore generale della sanità veneta, proprio pochissimi giorni fa nominato – su proposta della Regione governata da Luca Zaia – presidente dell’Aifa, l’agenzia italiano del farmaco.

Il corpo di Cesare è sul tavolo autoptico della medicina legale di Padova quando arriva il dottor Massimo Montisci, direttore dell’unità operativa ma anche dipendente di quella sanità veneta di cui Mantoan, l’uomo che sedeva dietro quell’auto blu, è direttore. E qui il primo fatto strano: Montisci non era di turno, ma si offre di eseguire l’autopsia lui stesso. Una solerzia ammirevole.

Dopo mesi e mesi il pm sollecita i risultati dell’autopsia. Il responso è sorprendente: Cesare Tiveron, cardiopatico, ha avuto un infarto mentre guidava il motorino, pochi istanti prima dell’impatto con l’auto blu, quindi la sua morte non è legata allo schianto. Lo confermerebbero vari esami e i dati del pacemaker di Cesare. Pacemaker che dopo un po’, curiosamente, non sarà più tra i reperti. Viene ritrovato per caso un anno dopo durante la perquisizione dell’ufficio di Montisci, finito sotto inchiesta della Procura di Padova per concorso in falso ideologico per delle analisi antidroga di due imprenditori a cui era stata sospesa la patente.

Il pacemaker di Cesare era lì, in fondo ad un cassetto della sua scrivania. E non è l’unico aspetto che negli ultimi anni ha insospettito i quattro figli di Tiveron: Montisci venne promosso a professore ordinario nell’Istituto di medicina legale proprio una settimana prima della consegna della perizia. Quella perizia contenente la tesi surreale dell’infarto in motorino, che di fatto scagionava l’autista dell’uomo più potente della sanità veneta. Elementi che ad un certo punto hanno portato il pm Cristina Gava ad estromettere la perizia medico legale di Montisci e a chiedere il rinvio a giudizio dell’autista. Successivamente, come ricostruito da L’Espresso, il giudice delle indagini preliminari ha nominato dei periti dell’Università Federico II di Napoli. Concordi, una settimana fa, hanno dichiarato in aula di non avere alcun dubbio: Cesare Tiveron è morto a causa dello schianto.

Uno dei quattro figli di Cesare, Stefano Tiveron, decide di raccontare per la prima volta a nome della sua famiglia la battaglia condotta per arrivare fin qui. Una battaglia che è parsa fin da subito impari per i nomi schierati dall’altra parte. “Questa storia ci è parsa strana fin dalle prime ore dall’incidente”. Perchè? “Mio padre era morto da poco e i giornali già sapevano che era cardiopatico tanto da ipotizzare una morte per un infarto, e non per un incidente stradale”. Come facevano i giornali a sapere che era cardiopatico? “Bella domanda, qualcuno li avrà informati. Fatto sta che partendo dai problemi di cuore di mio padre, sembrerebbe quasi che abbiano formulato una teoria che giustificasse l’incidente”. Poi? “Quando abbiamo saputo chi c’era in quella macchina, ovvero il direttore della sanità veneta e non un impiegatuccio, abbiamo mandato un nostro perito ad assistere all’autopsia e a scattare delle foto. E per fortuna, perché poi la foto più importante, quella da cui si deducevano le cause della morte di mio padre, dal fascicolo di Montisci è sparita”. Come mai quell’autopsia l’ha fatta Montisci se non era di turno? “È arrivato in ospedale e ha detto: ‘Questa autopsia la faccio io’. Noi non lo avremmo saputo che non era di turno se non lo avesse scoperto una giornalista”.

Secondo Montisci suo padre era morto per “shock emorragico da dissecazione aortica”. “Era impossibile, c’erano i segni di una lunga frenata e la rottura dell’aorta è dolorosissima, non avrebbe alcun controllo sui freni”. Cosa avete pensato? “Ce lo aspettavamo. Il pm sollecitava i risultati dell’autopsia e non arrivavano. Abbiamo aspettato sei mesi”. E la storia del pacemaker? “Tiene traccia di tutti gli eventi, come fosse una scatola nera. Gli esami sono di natura complessa, non si è neppure capito cosa dicesse la perizia di Montisci sul pacemaker. Poi perché se lo sia imboscato non lo so, fatto sta che ora è saltato fuori che forse alcuni esami sono stati effettuati con macchinari che nell’istituto di medicina legale di Padova non ci sono”.

Che idea vi facevate della situazione mentre accadeva? “Non faccio accuse, ma sapevamo chi avevamo davanti. La nostra controparte non era il signor Rossi. Difficile che un autista potesse scomodare un luminare come Montisci per un’autopsia e stonava che un Montisci potesse giocarsi la carriera per un semplice autista”. Allora la domanda è: perchè qualcun altro avrebbe dovuto esporsi per un autista? “Gli autisti sentono e sanno tanto. Cosa dico al telefono, dove mi porti. Parlo in generale”. Come vi siete difesi? “Serviva l’esperto più autorevole sulla piazza e ci siamo rivolti al numero uno della cardiologia, Gaetano Thiene, quello che ha fatto l’autopsia ad Astori. Ci ha detto: io non vi dirò quello che vi piace, vi dirò la verità”. Che era? “È morto a causa dell’incidente, la tesi di Montisci è fantasiosa e illogica”.

Anche i nuovi periti del giudice lo hanno confermato: “Noi avevamo chiesto solo che questi nuovi periti fossero scelti fuori regione, hanno smontato anche loro la perizia di Montisci, compreso l’esperto di pacemaker”. Cosa farete ora? “Che la perizia sia stata fatta con dolo o che quel giorno Montisci abbia preso una cantonata, ora si va verso il processo all’autista. Aspettiamo la condanna, poi vogliamo sapere perché la ricerca della verità è stata così faticosa. Se sono stati eseguiti degli esami ma se i macchinari per eseguirli non c’erano, lo vogliamo sapere”.

Il presidente del Veneto Luca Zaia ha dichiarato: rimuovere il direttore di medicina legale Montisci non è di mia competenza. “Non lo invidio. Sa bene che se si accerta il dolo in questa storia non può aver fatto tutto un autista”. Cosa pensavate voi quattro fratelli mentre affrontavate tutto questo? “Che eravamo Davide contro Golia, ma potevamo farcela. Il ritrovamento del pacemaker nel cassetto è stato la svolta, ci ha confermato che eravamo sulla strada giusta. Quando ci si affida alla giustizia e alla medicina si mette nelle mani di altri la propria vita. E si può sbagliare, ma non si può mentire”.

Veneto, la fronda anti-leghista: “Zaia ha tradito il referendum”

Un giapponese, un cinese, un peruviano, un veneto… Un americano, un tedesco, un inglese, un veneziano… Seppur per pochi intimi, confusi tra i turisti che affollano Venezia, spirano dal Ponte di Rialto i venti della fronda nei confronti della Lega Nord e del governatore Luca Zaia. Perché dopo due anni, nonostante un governo amico come quello di Salvini e più di due milioni di voti, la richiesta di autonomia del Veneto non si è concretizzata.

Nel giorno del secondo anniversario del referendum (22 ottobre 2017) i veneti si sono dati appuntamento nel cuore di Venezia, su chiamata di Marino Finozzi, ex assessore regionale di fede leghista. Sono venuti appena un centinaio, ma si consolano spiegando che “al martedì i veneti lavorano per pagare le tasse”. Però devono ammettere: “In Catalogna hanno manifestato molti, ma molti di più”. Colpa anche della tiepidezza con cui la Lega ha accolto l’evento, che pure dovrebbe marcare un’identità e una richiesta non ancora esaudita.

È vero che Zaia ha mandato un pugno di consiglieri, per non restare isolato da quello che l’avvocato Alessio Morosin, venetista di lungo corso, definisce “un giorno di tristezza, non di festa, perchè non abbiamo raccolto nulla”. Ma è altrettanto indubbio che la piazza chiede fatti concreti e le bandiere con il Leone di San Marco vengono sventolate a Rialto tre giorni dopo la benedizione, avvenuta sabato a Padova, del Partito dei Veneti. Praticamente, un’anti-Lega, il partito dell’orgoglio di chi – come è stato detto durante una convention affollatissima – “non vuole scendere a patti con i partiti romani”. E tra i partiti contaminati ha diritto a un posto anche la Lega per Salvini premier, accusata di guardare troppo all’Italia e troppo poco al Veneto.

L’assemblea di Padova era piuttosto rappresentativa, tra nostalgici della Serenissima e delusi della Lega. In prima fila c’era Silvia Nizzetto, assessore allo sport del Comune di Treviso, il cui sindaco Mario Conte è un fedelissimo di Zaia. Ma c’erano anche gli ex parlamentari del Carroccio Paola Goisis, Paolo Franco, Corrado Callegari ed Emanuela Munerato. Presenze che non passano inosservate. Attorno a loro tante sigle che disegnano la geografia di un venetismo pronto ad andare allo scontro elettorale con la Lega. Il Partito dei Veneti raccoglie Grande Nord, Indipendenza Veneta, il Gruppo Chiavegato (dell’ex leader dei “forconi”, l’imprenditore Lucio Chiavegato), Rete 22 ottobre, Bard-Belluno Autonomo Regione Dolomiti, Progetto Veneto Autonomo e Siamo Veneto di Antonio Guadagnini, il consigliere regionale che vuole sfidare Zaia la prossima primavera.

Si sono già messi pancia a terra per preparare liste e candidati in tutto il Veneto. Il portavoce Giacomo Mirto: “Ora comincia il lavoro capillare sul territorio. Andremo in tutti i Comuni del Veneto a far capire come la partitocrazia italiana abbia fallito e come nel 2020 i veneti hanno la possibilità di voltare finalmente pagina”.

Sarà difficile che riescano a intralciare l’avanzata di Zaia verso la riconferma, ma che siano una spina nel fianco è fuor di dubbio. “Avremo liste di peso, con persone conosciute, preparate e pronte a prendere in mano il governo regionale”. E la Lega? “È a Roma, con la Meloni e con gente che con noi non c’entra nulla. Anche la Lega è diventato un partito nazionale, di quel tipo che abbiamo sempre contestato”.

Il governatore leghista, che finora sul fronte dell’autonomia ha raccolto solo parole, ieri ha reagito con apparente distacco sia alla sparuta manifestazione veneziana, che alla ben più nutrita assemblea padovana, durante la quale è stato tirato in ballo più volte con l’accusa di un’inconcludenza supina al volere di Salvini. Invece di andare sul Ponte, ha preferito la cornice istituzionale e più protetta di Palazzo Balbi dove, circondato dagli assessori, ha celebrato l’anniversario. Non ha citato i venetisti, ma ha mandato loro un messaggio, segno di un certo nervosismo: “Dopo due anni, i veneti non devono fare un errore: se il fronte non è unito, Roma ride. Roma sogghigna, Roma si gratta l’ombelico dalle risate”. Vuoi vedere che, se l’autonomia non arriva anche stavolta, la colpa diventa loro?

Ma quelli di Rialto gli hanno risposto per bocca di Morosin: “Attenti! Salvini sta facendo fuori Zaia, perché gli interessa solo il partito nazionale. E se fa fuori Zaia, si mangia anche il Veneto”.

Savona arruola la “sua” società Consob va a lezione da Euklid

Al vertice della Consob ci sono due parole che da mesi risuonano come un mantra: Intelligenza Artificiale. Il presidente Paolo Savona, nominato a marzo, le ripete ogni volta che può, le fa mettere a verbale nelle riunioni, ricorda con frequenza che ha preso un impegno di fronte al Parlamento per portare l’authority dritta nel gotha delle nuove tecnologie con l’utilizzo della blockchain per tutelare gli investitori e i cittadini e per scovare i cattivi che imbrogliano con gli ultimi ritrovati della tecnofinanza. E fin qui nulla di male, salvo il prevedibile e ragionevole scontento di chi, in Consob, ritiene ci siano problemi ben più importanti a cui dedicare maggiore attenzione o, anche solo per restare in tema, fa notare che andrebbero prima di tutto riorganizzate le banche dati, oggi esternalizzate e non abbastanza rifinite per riuscire a dare risultati ottimali.

Meno naturale, invece, è che qualche settimana fa l’alta dirigenza Consob, sostanzialmente capi divisione e direttori ma anche i commissari, sia stata invitata a partecipare a un corso di formazione insieme alla Guardia di Finanza tenuto dal presidente e dall’amministratore delegato della londinese Euklid Ltd, società che gestisce l’omonimo fondo speculativo lussemburghese. Euklid ha tre caratteristiche non di poco conto che la rendono inopportuna in questa vicenda: è la società di cui Paolo Savona è stato presidente almeno fino al 19 maggio 2018, quando ha presentato le sue dimissioni per “sopraggiunti impegni politici”, cioè la sua imminente nomina a ministro degli Affari Ue (dimissioni registrate solo 5 mesi dopo dalla Companies House inglese per quello che è stato poi comunicato come un errore materiale di notifica); è la società di cui Savona risulta possedere almeno 50mila azioni (del valore di 56.355 euro) nel 2019 ed è il fondo in cui risulta come “Brand Director” il figlio Pierfrancesco Savona.

La comunicazione della nuova iniziativa voluta da Consob è stata rapida: l’11 ottobre agli alti dirigenti arriva una mail che annuncia che ci sarà la presentazione di una modifica del protocollo di Intesa tra Consob e Guardia di Finanza, stretto nel 2013, e l’avvio di un corso di formazione che sarà poi inaugurato nella sede centrale della Guardia di Finanza a Roma poco dopo, il 15 ottobre. Il corso prevede 14 appuntamenti e nella comunicazione sono inseriti i curricula di entrambi i relatori, il presidente di Euklid, Elio Stocchi, e l’ad, Antonio Simeone, che arrivano da Londra per tenere le lezioni. Effettivamente, il 15 ottobre si svolge una cerimonia inaugurale, c’è la Guardia di Finanza, c’è Paolo Savona, ci sono dirigenti Consob e qualche commissario. Il corso si avvia, gli incontri scadenzati ogni martedì, nessuna delibera viene fatta da parte dei commissari che sono stati semplicemente informati dell’iniziativa senza dettagli. I due vertici di Euklid, spiega Consob, non ricevono alcun compenso né alcun rimborso spese. Ma, chiaramente, si tratta di una grande opportunità per il fondo e la società, sia di immagine che di contatti. Soprattutto se si considera che sulla ricerca e lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale, in Consob pare sia già circolata l’idea di creare un consorzio con i privati (che potrebbero prendervi parte con una quota, per dire, di due milioni di euro). Lo stesso Savona, intervistato a giugno, aveva dichiarato di aver già preso contatti con l’università da cui arriva e a cui ha dato lustro, la Luiss: “C’è stato un primo contatto – aveva detto -. Abbiamo scelto un’università privata perché quelle statali hanno gli stessi vincoli della Consob, sia di spesa sia normativi”. Concetto ribadito poi a settembre anche ai dipendenti Consob in un incontro a Milano.

“Sui temi dell’intelligenza artificiale Consob, in linea con i più recenti indirizzi europei, è impegnata da tempo in programmi di formazione volti ad aggiornare il patrimonio di competenze dell’Autorità e tenere il passo con l’evoluzione continua dei mercati – ha replicato ieri l’authority – . Nella primavera scorsa è stata avviata, nell’ambito di un progetto comunitario, un’iniziativa di formazione sull’intelligenza artificiale in collaborazione con l’Università di Pavia e il Politecnico di Milano”.

Secondo Consob, è in questo contesto che va inquadrato il corso di Roma “tenuto da alcuni dei massimi esperti italiani della materia, la cui competenza ha trovato riconoscimento anche in ambito internazionale”. Aggiungono poi che “i programmi di formazione continua del personale non interferiscono in alcun modo con le attività istituzionali della Consob”. L’authority ricorda che Euklid è un fondo di diritto lussemburghese, gestito da una società di diritto britannico e quindi sottoposta alla supervisione della Fca, la Consob del Regno Unito. È la stessa motivazione con cui l’Autorità di Borsa non riscontrò un conflitto di interessi nella nomina di Savona a presidente lo scorso marzo.

In sitesi: Euklid Ltd ha sede a Londra ed è la compagnia che fornisce gli algoritmi che analizzano i dati, leggono l’andamento dei mercati e aiutano a indirizzare gli investimenti. In Lussemburgo, invece, operano i fondi di investimento veri e propri, l’Euklid Master Fund e l’Euklid Feeder Fund, gestiti dalla società londinese. “Non è, quindi, un soggetto vigilato da Consob – si giustificano dall’autorità – di cui il presidente Savona è socio minoritario e, dal maggio 2018, non ricopre alcuna carica sociale”. L’authority sottolinea poi che “sul punto il Presidente ha già fornito ampi chiarimenti nella sede istituzionale del Parlamento”. Era il 6 marzo del 2019: “Ho seguito il fondo Euklid perché ero incuriosito sull’applicazione, quando si è delineato questo cambio di vita e mi è stata data la possibilità di battermi per un’Europa diversa, più forte e più equa, io ho subito dato le dimissioni”. Salvo poi proporre, dopo sette mesi, proprio Euklid per istruire la Consob.

Gli incontri con i Servizi e la “trappola” della Link

Da oggi tutti i media torneranno a parlare del ‘Russia-Gate 2 la vendetta’, come abbiamo ribattezzato questo giallo al confine tra spionaggio e polemica politica che rimbalza da mesi sulle due sponde dell’oceano.

Le domande dei membri del Copasir a Conte verteranno sulle due visite romane del ministro della giustizia Usa William Barr nell’ambito della sua ‘contro-indagine’ a scoppio ritardato sul primo Russia-Gate: di qui, ‘Russia-Gate2 la vendetta’ appunto.

Entrambi gli incontri sono avvenuti a Roma negli uffici del Dis di piazza Dante: il primo il 15 agosto con il direttore del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza, Gennaro Vecchione; il secondo incontro, il 27 settembre, alla presenza anche dei generali Mario Parente e Luciano Carta, rispettivamente direttore dell’AISI e AISE.

Conte dovrà chiarire i molti punti oscuri della vicenda.

Cosa si sa finora? A entrambi gli incontri c’erano per gli Usa l’Attorney General William Barr, (ministro della Giustizia ma anche vertice dell’ufficio dell’accusa) e il procuratore John Durham, Attorney del Connecticut ma da maggio su scelta di Barr, procuratore speciale dell’indagine sull’indagine sul primo Russia-Gate. Se nel 2016 a puntare il dito sulla presunta collusion tra lo staff della campagna di Trump e i russi erano i democratici, ora sono i repubblicani a incalzarli mettendo all’angolo i metodi usati dall’ex accusatore Robert Mueller, allora procuratore speciale per l’amministrazione Obama e oggi possibile preda del novello segugio Durham, sguinzagliato da Barr.

Perché l’Italia rischia di restare invischiata in questa rappresaglia Usa?

Il Link con la L maiuscola è il professore maltese Joseph Mifsud. Il misterioso esperto di relazioni internazionali, in ottimi rapporti con russi e americani, professore a Stirling e direttore del London Centre of International Law a Londra, è diventato famoso quando l’allora collaboratore della campagna di Trump, George Papadopoulos (dopo averlo negato ed essere stato arrestato per false dichiarazioni dal Fbi) lo ha accusato nell’ottobre 2017 di avergli spifferato l’esistenza delle mail imbarazzanti di Hillary Clinton, captate dai russi.

Mifsud nella vecchia indagine aveva quindi il ruolo del bugiardo che prendeva il volo nell’ottobre 2017 quando, dopo avere nascosto il suo ruolo al FBI che lo interrogava a sorpresa nella hall di un hotel a Washington nel febbraio 2017, era stato scoperto grazie alla confessione tardiva di Papadopoulos. Nel nuovo canovaccio che Barr sta imbastendo Mifsud dovrebbe diventare una sorta di agente provocatore degli occidentali che ha usato l’ingenuo Papadopoulos (ora riabilitato da Trump perché ha scritto un libro nel quale sposa la tesi che Barr vorrebbe dimostrare e che non perde occasione di fare endorsement per Trump 2020) per creare il profumo di collusion taroccato tra i russi e lo staff di Trump.

Mifsud va bene per entrambe le trame perché ha il phisique du role per qualsiasi parte in commedia. Era amico di russi come Ivan Timofeev del Russian International Affairs Council o Yuri Sayamov dell’Università Statale di Mosca. Allo stesso tempo era accreditato nelle accademie occidentali come East Anglia.

Ma l’Italia? Il punto è che dopo aver mentito al FBI a febbraio 2017, secondo il rapporto Mueller almeno, Mifsud alloggiava in una casa della Link Campus di Roma, e presenziava alle conferenze dell’università. Si apprestava a iniziare un vero corso dopo una serie di seminari quando lo scandalo è esploso. Trump e Barr puntano a dimostrare che Mifsud, sia stato l’innesco di una trappola ordita da un giro vicino ai nostri servizi.

Il presidente di Link Campus, Vincenzo Scotti in fondo conosce Mifsud, da lui detto Joe, da 20 anni, ed è pur sempre un ex ministro dell’Interno. Poi alla Link insegnano o fanno conferenze molti ex ministri e parlamentari. Il capo del Dis, Gennaro Vecchione, ha tenuto una lectio magistralis nel marzo scorso.

Tutti ingredienti che non dimostrano un bel nulla ma che potrebbero tornare utili per una campagna mediatica dopo che il ministro Barr presenterà alla fine dell’investigazione il suo rapporto.

Le domande a Conte verteranno sul versante italiano del caso ma vanno inserite in questa cornice a stelle e strisce. Conte potrebbe essere chiamato a spiegare le richieste Usa e le regole di ingaggio impartite ai due direttori dei Servizi per tutelare la nostra sovranità. La domanda che tutti aspettano è: “C’è stata una conversazione sul tema in agosto sul tema tra Conte e Trump, prima dell’endorsement in favore di ‘Giuseppi’?”. Conte potrebbe cogliere l’occasione per precisare o addirittura smentire l’esistenza di un simile colloquio diretto prima degli incontri di Barr a Roma. Quel colloquio con Trump è stato dato per scontato da molti ma non è mai stato confermato da Palazzo Chigi.

Ilva, a Taranto meno acciaio (e anche meno lavoratori)

Lunedì notte è arrivato il voto nella commissione del Senato – abrogata l’immunità penale per i nuovi proprietari dell’Ilva di Taranto – e conseguentemente ieri mattina la vicenda è esplosa in faccia al governo. I metalmeccanici di Cgil, Cisl e Uil hanno chiesto subito un incontro al ministro Stefano Patuanelli, l’ingegnere grillino che ha sostituito Luigi Di Maio allo Sviluppo economico: temono che, bene che vada, ArcelorMittal si prepari a diminuire ancor di più i lavoratori nello stabilimento pugliese dopo la messa in cassa integrazione unilaterale di 1.300 dipendenti a luglio. La cosa era talmente scontata che già nel Consiglio dei ministri, lunedì sera, la discussione s’era bloccata sull’acciaieria per quasi un’ora: un’ora in cui è apparso evidente che il governo si sta muovendo a tentoni, senza alcuna strategia su come gestire le conseguenze di quanto accaduto in Parlamento.

Per capire perché il timore dei sindacati non sia affatto infondato bisogna ripercorrere i fatti. A luglio ArcelorMittal aveva fatto sapere che, visto che sarebbe rimasta senza “immunità penale” dal 6 settembre per effetto di un decreto firmato da Di Maio, valutava l’ipotesi di chiudere l’ex Ilva di Taranto. La reazione dell’allora ministro dello Sviluppo era stata cedere: il decreto Imprese del 3 settembre, scritto però mentre lui era ancora al Mise, reintroduceva l’immunità, seppure solo per quanto riguarda l’applicazione del Piano ambientale. Lunedì i “ribelli” dei 5 Stelle in Senato hanno, però, ottenuto l’abrogazione della norma scritta dal loro capo politico e, in cambio, hanno votato un ordine del giorno all’acqua di rose del Pd e dei renziani in cui si dice che l’Ilva deve restare aperta e si parla di “decarbonizzazione”, cavallo di battaglia del governatore Michele Emiliano e un po’ meno di ArcelorMittal. Una boutade senza contatti con la realtà, che ha però trovato eco anche nelle parole dette dal ministro Patuanelli ieri in Senato: “Un punto di equilibrio si può trovare attraverso una ritecnologizzazione degli impianti”.

Al momento, Arcelor non ha commentato pubblicamente, ma fonti di governo rivelano che la multinazionale aveva già fatto sapere al ministero dello Sviluppo in queste settimane che intendeva rivedere il piano industriale: in sostanza, aveva già deciso di abbassare ancora la produzione e ora ha il perfetto motivo per giustificare quella scelta agli occhi dell’opinione pubblica, cioè non andare in galera per aver superato il limite di emissioni. In questo senso appare più chiaro il recente cambio al vertice di ArcelorMittal Italia. La nuova numero uno, Lucia Morselli, è infatti nota – oltre che per aver guidato la cordata sconfitta nella corsa ad Ilva, quella tra gli indiani di Jindal e Cdp – anche per essere una “tagliatrice di teste” e proprio nel siderurgico, come ricordano bene a Terni.

Insomma, i timori di Cgil, Cisl e Uil non sono campati in aria e affondano nel peccato originale della vendita alla multinazionale basata in Lussemburgo, il cui più rilevante interesse nel comprare Ilva era che non finisse a un concorrente: l’attuale piano industriale è portare la produzione dalle attuali 4,5 milioni di tonnellate l’anno a 8 milioni una volta conclusa “l’ambientalizzazione”. Per il futuro le previsioni più pessimistiche sono che Arcelor possa decidere di fissare la produzione a 2 milioni di tonnellate: continuerebbero a perdere soldi a Taranto, ma la sua sola esistenza consente ai proprietari di fissare il prezzo dell’acciaio in Europa. Certo, il gioco funziona a patto che i dipendenti passino dagli attuali 10.700 a molti, molti meno.

Conte arriva al Copasir, la Lega gli fa il processo

Scambio di informazioni tra Paesi alleati o scambio di favori per esigenze politiche? Palazzo San Macuto, ore 15 in punto. Ecco l’audizione che Giuseppe Conte ha richiesto al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, in sigla Copasir, per spiegare la doppia visita in Italia e gli incontri autorizzati con i vertici dei servizi segreti dell’americano William Barr, ministro della Giustizia e procuratore generale nonché inviato di Donald Trump per ribaltare la prospettiva del Russiagate – altro che collusione con i russi, semmai vittima di un complotto, spera The Donald – e ghermire il secondo mandato alla Casa Bianca. Ecco il luogo appropriato, istituzionale, riservato. “Dopo il Copasir sarò più libero di parlare”, ha detto il premier. Non sarà una passeggiata di salute.

Il leghista Raffaele Volpi, già sottosegretario alla Difesa nel governo Conte 1 appena nominato presidente del Copasir, e i colleghi di partito e di comitato – più di opposizione che di maggioranza – hanno preparato una gragnuola di domande per l’avvocato. Il premier avvierà la discussione con la relazione semestrale sull’attività degli 007, se ritiene potrà introdurre la vicenda Barr e poi dovrà rispondere ai quesiti dei parlamentari del Copasir.

Questi gli argomenti più delicati che il comitato intende affrontare.

1. Quali ragioni hanno indotto il premier a mobilitare l’intelligence a ferragosto mentre il suo governo era più che traballante per assecondare le ricerche del ministro Barr – che va ricordato è pure responsabile dell’Fbi – sul maltese Joseph Mifsud, il controverso professore, irreperibile da tempo, che viene reputato una matrice del Russiagate e che i Repubblicani considerano una carta preziosa e vincente per le elezioni del novembre 2020?

2. Perché Conte ha subito allertato Gennaro Vecchione, il capo del Dis – il Dipartimento che coordina le agenzie di intelligence – senza consultare l’omologo di Barr, il ministro Alfonso Bonafede o altri componenti dell’esecutivo?

3. Dopo il colloquio tra Vecchione e il ministro americano del 15 agosto, in assenza di una specifica inchiesta (da trattare con rogatoria) e convinto che sarebbe assurdo pensare a interferenze dell’intelligence italiana nell’ultima campagna elettorale americana, perché Conte ha approvato il faccia a faccia del 27 settembre tra William Barr, lo stesso Vecchione e i direttori degli 007 “convocati per iscritto”, cioè il prefetto Mario Parente (Aise, servizi interni) e il generale Luciano Carta (Aise, servizi esteri)?

4. Tra il 15 agosto e il 27 settembre, muore il Conte 1 e nasce il Conte 2: al G7 di Biarritz in Francia oppure in altre circostanze, Trump ha toccato con Conte il tema Russiagate?

4. Perché Conte non ha coinvolto il Copasir né la diplomazia italiana?

5. Cosa ha riferito Conte a Vecchione, Parente e Carta nelle riunioni preparatorie al viaggio di Barr del 27 settembre?

6. Perché l’ufficio stampa del presidente del Consiglio, a differenza dei collaboratori di Sergio Mattarella, non ha smentito le ricostruzioni giornalistiche che attribuivano al Quirinale una dettagliata conoscenza delle missioni in Italia di William Barr?

Il Copasir vuole approfondire il ruolo di Conte e di Vecchione, uomo di assoluta fiducia del premier, e tutelare l’ottimo lavoro di Parente e Carta, trascinati – per i leghisti – in una faccenda impastata più nella politica che nella sicurezza nazionale.

Sono solo 10 i condannati senza assegno

Finora le vittime sono pochine. Dal 2015 quando l’allora presidente del Senato Piero Grasso decise di revocare il vitalizio ai condannati per reati di particolare gravità (con pene superiori a due anni) i casi arrivano appena a 10.

Gli ultimi a perderlo sono stati Roberto Formigoni condannato in via definitiva a 5 anni e ora ai domiciliari dopo 5 mesi di carcere e l’ex rettore dell’Università dell’Aquila, Ferdinando Di Orio, condannato a due anni e sei mesi di reclusione inflitta dalla corte di Appello di Roma con l’accusa di induzione indebita.

La prima vittima eccellente della revoca del vitalizio è stato Silvio Berlusconi che, bontà sua, ne può fare tranquillamente a meno. Vittorio Cecchi Gori invece ha fatto ricorso contro la decisione di Palazzo Madama e rivuole l’assegno nonostante la condanna divenuta definitiva a suo carico nel 2012 per la bancarotta della Fiorentina che gli è valsa una condanna a 3 anni e 4 mesi. Lo chiede indietro anche Ottavia Fusco, la vedova del regista Pasquale Squitieri condannato per via di una vicenda legati ad alcuni assegni di quando faceva il bancario nel ’65 prima di diventare regista e poi esponente di An. Anche a lui il Senato lo aveva tolto nel 2015, quando aveva lasciato a secco anche Marcello Dell’Utri per la condanna in via definitiva a sette anni che gli ha inflitto la Cassazione per i suoi rapporti con Cosa Nostra. E pure l’ex senatore democristiano Vincenzo Inzerillo dopo la condanna a 5 anni e 4 mesi di carcere per concorso esterno in associazione mafiose.

Dal 2015 chiusi i rubinetti anche a Antonio Franco Girfatti (morto nel 2017) condannato per lo scandalo finanziario legato alla Banca Massicana, a Giorgio Moschetti (scomparso nel 2016) e Franco Richetti.