Senato: la rivolta di intoccabili e indagati contro i tagli ai vitalizi

“Giaaacomo! Giacomino”. “Senatore bello, amico mio”. Giacomo (Giacomino) Caliendo è più omaggiato che mai a Palazzo Madama, manco le lancette dell’orologio fossero tornate indietro di un decennio quando era potentissimo sottosegretario alla Giustizia del governo Berlusconi. Lui gongola per i salamelecchi, per niente sorpreso: da quando la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati lo ha voluto come presidente dell’organismo di giustizia interna di Palazzo Madama, frotte di ex senatori che da gennaio si sono visti decurtare il vitalizio lo hanno elevato a nume tutelare. In vista della sua decisione sulla legittimità del ricalcolo con metodo contributivo degli assegni in vigore da gennaio cui gli ex onorevoli senatori si oppongono strenuamente.

La loro attesa, snervante, sta per finire: la camera di consiglio della Commissione contenziosa presieduta da Caliendo che deciderà sulla decurtazione degli assegni è stata fissata per il 4 novembre. Ne fanno parte oltre al forzista, anche Simone Pillon della Lega ed Elvira Evangelista dei Movimento 5 Stelle. Ma anche due membri “laici”, sempre indicati dalla presidente Casellati: l’avvocato Alessandro Mattoni e soprattutto una vecchia conoscenza dell’attuale capo di gabinetto della presidente Casellati Nitto Palma, ossia l’ex magistrato Cesare Martellino che è relatore dei 772 ricorsi sui vitalizi presentati a Palazzo Madama.

Ma cosa prevede questa delibera? Che dal 1° gennaio 2019 i vitalizi sono rideterminati moltiplicando il montante contributivo individuale di ciascun ex senatore per un coefficiente di trasformazione correlato all’età anagrafica. Ma ci sono meccanismi sia per scongiurare tagli troppo drastici sia per evitare che aumentino ancora assegni già assai alti. Proprio per questo sono sugli scudi anche i 78 ex senatori che dovranno accontentarsi di ricevere come prima. Non malaccio, comunque. Franco Bassanini, Alfredo Biondi, Emanuele Macaluso, Nicola Mancino, Beppe Pisanu, Clemente Mastella manterranno un vitalizio mensile lordo pari a 10.631,34 euro.

A quota 10 mila Anna Finocchiaro e Achille Occhetto seguiti da Franco Marini e Roberto Castelli (9.512,25). Mantengono lo stesso trattamento anche alcuni ex senatori che hanno ancora un conto aperto con la giustizia: a Luigi Grillo che in passato ha patteggiato una condanna per episodi corruttivi legati all’Expo di Milano tocca un vitalizio mensile di 10.382,6; Antonio D’Alì, a processo per concorso in associazione mafiosa continua a prendere 9.201,40 euro. Carlo Giovanardi su cui pende una richiesta di autorizzazione all’uso delle intercettazioni per l’inchiesta Aemilia continuerà a intascarne 9.387,91. Sempre meglio di Ottaviano Del Turco condannato in via definitiva a 3 anni e 11 mesi per induzione indebita nel processo sulla Sanitopoli abruzzese: il suo vitalizio scende a 5.507,72 euro contro i 6.590,19 precedenti. Antonio Azzollini, a processo per la presunta maxitruffa del porto di Molfetta, passa da poco più di 8 mila euro a 5.505.

L’elenco degli 830 vitalizi ricalcolati comprende anche l’ex sindaco di Catania Enzo Bianco (il suo assegno scende da circa 8 mila euro a 6.171 proprio come l’esponente storico dell’ultradestra Domenico Gramazio). Goffredo Bettini è dimagrito da 6.590 a 3.960 euro. Salasso pure per Mariapia Garavaglia da 9.200 a 4.150, mentre Luigi Compagna scende da 6.200 euro a 4.600. Stringe la cinghia il grande vecchio della finanza italiana Giuseppe Guzzetti: la sforbiciata ha toccato il suo assegno da 4.700 euro, ora ridotto a 2.395. Sacrifici per Pietro Ichino che per il ricalcolo contributivo passa da 4.352 a 2.668. A dieta anche Linda Lanzillotta (la moglie di Bassanini scende da 3.200 a 1.787), Nicola Latorre (6.200 oggi ricalcolati a 4.065), Luigi Manconi (4.725 oggi a 2.532). Alessandra Mussolini ha buoni motivi per essere nera: il suo assegno scende da 9mila euro a 5.200. Un altro arrabbiato è Francesco Rutelli che si è visto tagliare l’assegno da 9.500 euro e oggi ne percepisce solo 7.780. Nitto Palma, infine, è il più infuriato di tutti: nonostante il prestigioso incarico ottenuto al fianco di Casellati il suo vitalizio è sceso da 6.200 euro al mese a 5.400. Anche lui guarda con grande speranza alla decisione di Caliendo.

Un po’ di rivoluzione

Se è vero, come diceva Flaiano, che “l’unica rivoluzione in Italia è la legge uguale per tutti”, la riforma anti-evasione annunciata dal governo Conte ha un che di rivoluzionario. Non s’era mai visto nulla di simile nella storia repubblicana. Infatti gli house organ di B. & Salvini, il Giornale e Libero, sono letteralmente impazziti: “Conte e il suocero rischiano la galera”, “Il suocero di Conte condannato per evasione”. Si tratta naturalmente di fake news, come da tradizione della casa: il padre della compagna di Conte, gestore dell’hotel Plaza di Roma, ha patteggiato per peculato per aver dichiarato le tasse di soggiorno incassate, ma senza versarle al Comune; e il premier, quand’era solo avvocato, ebbe un contenzioso con Equitalia per non aver saldato due cartelle esattoriali recapitate a un indirizzo in cui non risiedeva. Nulla a che vedere con le nuove norme sui reati tributari. Ma facciamo finta che, eccezionalmente, Giornale e Libero scrivano la verità: dovrebbero felicitarsi col premier che punisce più severamente i reati di famiglia. Invece il contagio del berlusalvinismo è tale che accusano Conte di non farsi leggi ad (suam) personam, ma contra (suam) personam. Nessuno sdegno, anzi applausi, quando B. condonava o depenalizzava i reati suoi e dei suoi compari. E silenzio assoluto su Renzi, figlio di due arrestati e condannati in primo grado per frodi fiscali e false fatture, che contesta il carcere per frode fiscale e false fatture. Manca solo che qualcuno chieda le dimissioni di Conte perché non ha condonato né depenalizzato i suoi eventuali reati e quelli del suocero.

Dato atto al governo di aver varato la norma più severa e coraggiosa mai vista in Italia contro frodi ed evasioni, va pure detto che l’obiettivo di una legge uguale per tutti resta un lontano miraggio. Le soglie di non punibilità rimangono, anche se vengono ridotte a una sola di 100 mila euro. Chi evade o froda meno di quella cifra è tutt’altro che un “piccolo evasore”: 100 mila euro l’anno d’imposta evasa corrispondono a 250-300 mila euro di imponibile occultato. Un’enormità. Ma, siccome in Italia gli evasori sono 11 milioni e non si possono aprire altrettante indagini (ma neanche un decimo) senza far collassare procure e tribunali, si ricorre alle soglie: sotto, l’evasore rischia solo il procedimento tributario in via amministrativa. Dal punto di vista dell’equità, è aberrante: salvo fissare analoghe soglie d’impunità per scippi, furti, rapine, truffe, peculati e altri reati predatori. Ma, con questa evasione di massa, bisogna scegliere. E le nuove soglie e le nuove pene sono un buon passo avanti rispetto alle attuali.

Cioè quelle introdotte nel 2016 da Renzi. I reati fiscali sono due: la frode (punita da 1 anno e mezzo a 6 anni) e l’evasione (da 1 a 4 anni). La frode, cioè la dichiarazione fraudolenta con artifizi e raggiri (fatture false, scritture contabili taroccate e altri trucchi), è reato quando ogni imposta evasa supera i 30 mila euro e i redditi non dichiarati superano quelli reali del 5% o comunque i 1,5 milioni (prima del 2016 era 1 milione). Sotto, non c’è reato, mentre se i passivi fittizi sono inferiori a 155 mila euro la pena scende a 6 mesi-2 anni. L’evasione si fa non presentando la dichiarazione dei redditi o dell’Iva ed è reato se l’imposta evasa supera i 50 mila euro (prima era 30 mila); o presentando una dichiarazione non veritiera e qui il reato scatta se l’imposta evasa supera i 150 mila euro (prima era 50 mila) e se i redditi non dichiarati superano il 10% del totale o comunque i 3 milioni (prima era 2 milioni); o ancora non dichiarando e non versando l’Iva oltre 250 mila euro (prima era 50 mila). Quindi non rischia nulla, se non una multa, chi froda il fisco occultando redditi fino a 1,5 milioni; e chi evade non pagando fino a 250 mila euro di Iva, o non dichiarando nulla mentre deve fino a 50 mila euro, o dichiarando meno mentre deve fino a 150 mila euro. Invece chi supera quei tetti commette reato, ma è quasi sempre graziato dalla prescrizione (5 anni per l’evasione e 7 e mezzo per la frode, che poi si riducono a 1 e a 3 e mezzo: gli accertamenti arrivano non prima di quattro anni dalla dichiarazione). E, se anche si fa in tempo a condannarlo, in carcere non va mai per l’evasione (la pena massima è 3 anni e in Italia le condanne fino a 4 si scontano fuori) e raramente per la frode (la pena massima di 6 anni, con le attenuanti, scende quasi sempre a 4, senza contare lo sconto di un altro terzo per patteggiamenti o riti abbreviati).

Nel 2017 i condannati per reati tributari sono stati 3.222, ma i detenuti sono appena 281 (0,5% della popolazione carceraria): 217 condannati e 64 in custodia cautelare, tutti per frode. Cosa cambia con la riforma Bonafede? Per l’evasione, il minimo di pena sale da 1 a 2 anni e il massimo da 4 a 5 anni: cioè sarà possibile la custodia cautelare, ma non le intercettazioni e, salvo rari casi di pena massima, niente carcere. Per la frode invece cambia tutto: la minima passa da 2 a 4 anni e la massima da 5 a 8, il che vuol dire galera assicurata anche con un giorno in più del minimo di pena. Sempreché si superino i fatidici 100 mila euro d’imposta evasa. E poi: anche le società risponderanno penalmente – in base alla legge 231 – per non aver adottato modelli organizzativi adatti a prevenire i reati tributari, come già avviene per quelli di mafia e di corruzione e per l’inosservanza delle norme di sicurezza sul lavoro. E chi verrà condannato, per frode o per evasione, non dovrà solo restituire il maltolto dell’anno incriminato, ma si vedrà confiscare “per sproporzione” tutti i beni che non riesce a giustificare con i redditi dichiarati in passato. Non è il massimo auspicabile, visto che resta fuori dal penale la gran parte degli evasori. Ma è il massimo possibile con questi politici. E questi elettori.

Il suono dell’acqua, esperienza “subsonica”

“Esperienza immersiva” è un modo di dire di cui spesso si abusa. Nel caso di Watermemories, il nuovo progetto di Max Casacci, chitarrista e fondatore dei Subsonica, è invece giustificato anche in senso letterale. Il musicista torinese, non nuovo alle avventure da rabdomante di suoni “ambient” (da quelli di una fornace di Murano in Glasstress, opera ideata per la Biennale di Venezia, ai rumori di Torino in The City, passando per il rombo da Formula 1 di una Tororosso e dello sferragliare della Tranvia di Firenze) ha reso disponibili in digital download e sulle piattaforme streaming due movimenti di una stessa “sinfonia naturale”. Quello più lungo ha a che fare appunto con la memoria musicale dell’acqua: un ritmo e un’intonazione ancestrale catturati registrando il flusso del torrente Cervo di Biella. La seconda traccia, più breve e composta con il duo di “sound healing” Hati Suara, si intitola Ta’ Cenc ed è stata assemblata con le registrazioni delle impercettibili note sonore (subsoniche, verrebbe da dire) prodotte dalla percussione su rocce calcaree dell’isola di Gozo. Pietre che, non a caso, conservano il ricordo dell’acqua. “L’elemento fondamentale della vita riporta inevitabilmente a un concetto di spiritualità – spiega Casacci –. Il suono di una sorgente o il ritmo delle gocce che cadono su un torrente racchiudono una sorta di sacralità primigenia che informa certi luoghi. Il mio compito era quello di andare alla caccia delle note, processo laborioso ma affascinante perché non sei tu a guidarlo, bensì la natura. Alla fine sono riuscito a fissarle anche con l’aiuto di strumenti come l’idrofono e addirittura di due opere d’arte: le barre d’aria di Giovanni Penone e i bollitori d’acqua dell’Orchestra di Stracci di Michelangelo Pistoletto, ispiratore del progetto. Poi si è trattato di lavorare sullo spettro armonico, sgrezzando il tutto e inserendo una grammatica musicale”. Un esperimento che riporta il musicista e produttore ad altri primordi, ovvero quelli della sua carriera e che, nel suo dialogo tra naturalità delle fonti sonore e artificio tecnologico “mi ha insegnato a riconnettermi con l’elemento naturale. In una parola: ad ascoltare”.

“Poor boy” Nick: quella “Luna rosa” se lo portò via

Lo trovò la madre Molly, sdraiato nella sua stanza, ormai senza vita. Notò la lunghezza delle gambe del figlio. Lì, i versi inquieti di Pink Moon si mutavano in una premonizione: “La Luna Rosa sta arrivando/E vi catturerà tutti/Nessuno è così alto da sfuggirle”. Nick Drake aveva 26 anni, il corpo come una betulla, l’anima di carta velina. La gente non poteva sapere quanto gli tremassero le ginocchia, aveva cantato in Poor Boy. Non conosceva l’amore, il pubblico lo terrorizzava, i discografici faticavano a gestirlo: tre album baciati dalla grazia e dalla sofferenza (Five Leaves Left, Bryter Layter e il capolavoro acustico Pink Moon) che vendettero poche migliaia di copie. Ma chiunque li abbia ascoltati è rimasto, poi, folgorato da questo cantautore inglese che in cinque anni, dal 1969 al ’74, trovò una strada inesplorata per la malinconia, tra buio e luce. Cercava nella sua chitarra (suonata con tecnica stregonesca, echeggiante) la cura per una depressione che sfociò in schizofrenia. Lo stroncò un’overdose di pillole, in casa dei genitori. Forse non un suicidio, di certo una resa. Drake era un Syd Barrett senza i Pink Floyd, ma altrettanto geniale e disperato nella propria solitudine.

A 45 anni dalla scomparsa, il 25 novembre Sky Arte manderà in onda il documentario Songs in a conversation, realizzato da due musicisti fans storici, Roberto Angelini e Rodrigo D’Erasmo, coautore Domenico Brandellero, per la regia di Giorgio Testi. Il film sarà presentato stasera alla Festa del Cinema di Roma, con un miniset dedicato alle perle di Drake. Angelini (attualmente nella band di Propaganda Live su La7) e D’Erasmo, violino degli Afterhours, sono alle prese con un tour celebrativo, (“Way to Blue”) già passato per Milano, e che approderà il 30 ottobre al Monk di Roma e il 14 dicembre al Miela di Trieste, con ospiti sul palco. Altri ne compaiono già in quello che Angelini definisce “più un’ode che un documentario”: Niccolò Fabi, Manuel Agnelli, Piers Faccini, Andrea Appino degli Zen Circus, Adele Nigro, Stefano Pistolini. E l’ingegnere del suono di Drake, John Wood, che rivela di come l’autore di Pink Moon non cambiasse mai le corde della chitarra e avesse registrato quell’album in sole due notti. Per Angelini e D’Erasmo è un viaggio iniziatico sulle tracce dell’eroe, che non viene mai mostrato ma solo evocato dalla camera di Testi nel cielo e nella natura. Erano l’aria e la terra, del resto, le radici e la fuga, gli elementi dei suoi incantesimi folk-jazz. L’approdo finale, per i due colleghi italiani, sarà il villaggio avito di Tanworth in Arden, nel distretto shakesperiano di Stratford-on-Avon, zona di poeti, dove il ragazzo si ritirò prima di morire. “Nella chiesa di Maria Maddalena”, racconta Angelini, “la famiglia Drake comprò un suono dell’organo in memoria di Nick. Abbiamo visitato il cimitero dove riposano le sue ceneri. E suonato sotto un albero, chiedendoci se fosse il suo ‘Fruit Tree’”.

Ancora tu. Già visto, si stampi: le copertine in serie

Quando il libro rosso di Michel Houellebecq è comparso tra gli scaffali in libreria – con la sua volpe grigia minacciosa, guardinga e allo stesso tempo arrogante sulla tavola imbandita appena conquistata, ideale allegoria della Francia che in Sottomissione è in balia del partito islamico vincitore delle Presidenziali – a qualcuno quell’immagine ne avrà riportato alla mente un’altra. Sempre animata da volpi, le stesse volpi grigie di Sandy Skoglund che Silvia Ballestra usa per il suo I giorni della rotonda: Bompiani sceglie Fox Games, l’installazione dell’artista americana per l’edizione italiana del romanzo di Houellbecq (2015), Rizzoli lo aveva fatto per il romanzo della Ballestra (2009).

Non siamo di fronte a un caso unico. E la cosa non sorprende, infatti, il lettore appassionato, che all’amore per la letteratura unisce un culto feticista per quegli oggetti fatti di carta e d’inchiostro, di cui sfoglia con piacere le pagine e rimira le copertine: ogni copertina rimanda a una storia. Alcune a più di una. E così l’elenco dei déjà vu è lungo. E come nel caso Ballestra-Houellebecq, coinvolge anche grandi nomi della letteratura italiana e internazionale, e le migliori case editrici. Sul palcoscenico di Rondini d’inverno. Sipario per il commissario Ricciardi di Maurizio De Giovanni, le luci regalano calore a una rosa rossa che ha perso i suoi petali, su quello de Il fantasma esce di scena di Philip Roth illuminano l’assenza. Il sipario è dello stesso rosso. La casa editrice è sempre Einaudi.

E ancora Einaudi si trova a condividere la donna ritratta da Lynsay Addario, premio Pulitzer per il fotogiornalismo, che compare su Neve di Orhan Pamuk (2004) con Nottetempo che la sceglie, nel 2006, per la copertina della Lettera a un’amica scomparsa in Iraq della giornalista tunisina Sihem Bensedrine.

A un “incidente” simile non scampano neanche il maestro Andrea Camilleri e la “sua” Sellerio: il commissario Montalbano, impegnato a mantenersi lucido in una realtà che cede alle lusinghe dell’illusione, ne Il gioco degli specchi contende al Pretore di Cuvio di Piero Chiara, pubblicato da Mondadori per la collana Oscar, la Canzonettista di Antonio Donghi, opera del 1925. E ancora: Feltrinelli si affida a un’immagine di Luigi Ghirri per raccontare Una storia di amore e di tenebra (2008), l’autobiografia romanzata dello scrittore israeliano Amos Oz, la stessa immagine che Bompiani adotta per Posta prioritaria di Gianfranco Calligarich (2014). Altre copertine d’arte: La passeggiata di Marc Chagall illustra La lista di Lisette di Susan Vreeland per Neri Pozza e Ballata per la figlia del macellaio di Peter Manseau per Fazi. Mondadori mette sulla copertina de Il manifesto del libero lettore. Otto scrittori di cui non so fare a meno, di Alessandro Piperno, una delle creazione del pittore surrealista polacco Jacek Yerka, Bible Dam, usata anche da Skira per Il mondo visto dai libri di Hans Tuzzi.

Ma la lista è lunghissima e non vi sfugge quasi nessuna casa editrice. Ancora qualche esempio: stessa immagine per La vista da Castle Rock di Alice Munro (Einaudi 2014) e Aurora con mostro marino di Neil Jordan (Cavallo di ferro 2010); Aforismi e magie di Alda Merini (Bur 2013) e Nel vento di Emiliano Gucci (Feltrinelli 2013); È stata una vertigine di Maurizio Maggiani (Feltrinelli 2008) e Ogni contatto lascia una traccia di Elanor Dymott (Einaudi 2013).

Poi ci sono copertine “evocative”, quelle che per caso o per intenzione, si “richiamano” tra di loro: La straniera di Claudia Durastanti (La nave di Teseo), cappotto rosso, carré e il viso contro una parete rossa, sembra la stessa donna aggrappata alla finestra della stanza dalle pareti azzurre sulla copertina de Gli altri di Aisha Cerami (Rizzoli). Oppure i protagonisti di Persone normali di Sally Rooney (Einaudi) ricordano quelli di Un dolore così dolce di David Nicholls (Neri Pozza).

Che per le case editrici si tratti di incidenti o scelte pensate, per il lettore l’incontro con una copertina “già vista” può rivelarsi un’opportunità, quella di usare la curiosità innescata da un’immagine per andare alla scoperta di un altro autore e del nuovo mondo che ogni libro è in grado di svelare.

 

 

Confronto

Durastanti, “La straniera” e Cerami, “Gli altri”; Rooney, “Persone normali” e Nicholls, “Un dolore così dolce”; Houellebecq, “Sottomissione” e Ballestra, “I giorni della rotonda”; De Giovanni, “Rondini d’inverno” e Roth, “Il fantasma esce di scena”; Camilleri, “Il gioco degli specchi” e Chiara, “Il pretore di Cuvio”

Boom di escape room: lo stop al gioco horror che piace e costa tanto

Entrare in una stanzetta, spesso uno scantinato, sentire la porta chiudersi a chiave alle proprie spalle, muoversi magari al buio, tra sangue sui muri, bauli impolverati, scheletri e ragnatele, muniti solo di una torcia e iniziare una gara contro il tempo – ed evidentemente contro l’istinto di conservazione – per risolvere enigmi e indovinelli intricati. Superare i diversi livelli, scappare da attori travestiti che ti inseguono, urlano, cercano di spaventarti per non farti trovare proprio quella chiave che serve per uscire vittoriosi entro 60 minuti: benvenuti in una escape room, fenomeno che dal 2016 spopola in tutte le città. Sono centinaia, ognuna con un suo tema: horror, enigmatiche, piratesche, psicologiche, logiche, matematiche, a tema zombie. Ci sono pure quelle commestibili.

Il solo registro delle imprese, alla ricerca del termine “Escape room” in Italia, ne conta 117. Se si considera che alcune società ne gestiscono anche più di dieci, potenzialmente parliamo di migliaia di stanze più o meno claustrofobiche con una distribuzione capillare sul territorio. Si cerca il brivido, l’adrenalina, la paura, ma nella consapevolezza di essere in un posto sicuro e controllato. Ecco perché ieri, la notizia dell’annullamento a Milano di quello che è stato definito “l’evento horror più grande d’Italia” ha avuto tanta risonanza. Insomma, ai partecipanti può anche piacere essere terrorizzati ma la Procura di Milano ha deciso che in mancanza di norme di sicurezza adeguate non sia possibile organizzare eventi in stile escape room in palazzi in disuso della periferia. Almeno fin quando non ne siano accertate le condizioni.

Il gioco milanese, “Dentro l’abisso”, avrebbe dovuto svolgersi in quattro sessioni, quattro sabati consecutivi tra ottobre e novembre. Era tutto pronto: allestimenti nei minimi dettagli nei due piani di un edificio ex Enpam in via Medici del Vascello 26, affittato da una associazione sportiva per un mese, 600 biglietti venduti (quindi sold out), turni da 50 persone a gruppo, 25 attori assoldati per interagire con gli utenti durante il gioco, le liberatorie firmate. Il primo appuntamento era sabato scorso, il primo gruppo era già riunito. Poi, prima che i partecipanti (maggiorenni) iniziassero a vagare al buio armati solo di una torcia per affrontare le ‘creature delle tenebre’, compiere le missioni e risolvere gli enigmi segnati su un tabellone accumula-punti, il gioco, per il quale avevano pagato 44 euro a persona, è stato bloccato da agenti della Polizia, Vigili del Fuoco e personale della squadra di polizia giudiziaria in quota al dipartimento ambiente, salute, lavoro e sicurezza pubblica. L’ipotesi di reato è violazione delle norme antinfortunistiche e sono stati messi i sigilli perché la procura ritiene che negli stabili “abbandonati”, senza corrente elettrica, quindi senza telecamere e, secondo gli investigatori, con le uscite di sicurezza schermate, i pavimenti sconnessi e gli ostacoli fissi, sia a rischio l’incolumità di tutti. Mancherebbero anche le autorizzazioni per svolgere attività di pubblico spettacolo. Se tutto questo dovesse essere confermato, ci si potrebbe trovare di fronte al primo di una lunga serie di controlli e chiusure.

“Non era una vera e propria escape room – spiega al Fatto Dario Balzano, 31 anni, uno dei due titolari della società “The Game” che ha organizzato l’evento e che gestisce una escape room a Pero, in provincia, da tre anni –. Era un evento. L’anno scorso lo abbiamo fatto nello stesso posto, replicato per dieci volte, e non c’è stato alcun problema. E neanche un graffio”. Balzano spiega che nel 2018 i partecipanti sono stati mille, sui social la pubblicità ha raggiunto un milione di persone. “Siamo cresciuti tantissimo, facciamo contratti regolari, abbiamo rispettato le indicazioni che ci ha dato un ingegnere chiamato su suggerimento del Comune, abbiamo preso in affitto regolarmente un immobile, ci siamo dovuti accordare con la proprietà per le date dell’evento proprio perché non siamo gli unici a organizzare cose in questo stabile”. O in quelli vicini, dove in uno dei quattro palazzi che costituiscono l’intero complesso di edifici c’è un’altra escape room, 3 piani e 4mila metri quadrati.

“Ho prenotato hotel e treno per tre persone, chi mi risarcisce?” si chiede uno degli utenti che ha acquistato il biglietto. “Io mi sono vista annullare l’evento 30 minuti prima dell inizio – spiega Roberta –. E vengo dalla Toscana”. Evento al buio, staccata anche la corrente elettrica. “Ma lo sapevamo – spiega un altro utente – e durante la presentazione ci hanno anche detto che era vietato correre per non farci male”. Gli organizzatori assicurano che fosse tutto in regola, dalla cartellonistica agli estintori. Ora sarà il dibattimento a stabilirlo. “Noi vogliamo coinvolgere le persone con le emozioni, in questo caso era la paura – spiega Balzano –, ma in sicurezza. Gli attori, 25 per ogni gruppo da 50 persone, sono pronti per intervenire. Le porte di sicurezza sono aperte, fissate con i chiodi. Ci dicono che erano coperte da teli, vero, ma solo nella fase iniziale. Si può andare via in qualsiasi momento. Spero davvero che vada tutto per il meglio, che la magistratura faccia quello che deve fare” La loro difesa è che se c’è stato un errore, non è stato con dolo. “Facciamo ammenda e paghiamo. Ma sospendere l’evento significa far fallire la nostra società”. Di sicuro, incardinare queste manifestazioni o le escape room in un regolamento non è semplice. Fenomeno nuovo: difficile trovare norme adeguate. “Siamo e attività ludiche, non c’entra il pubblico spettacolo”. La sicurezza, però, è un prerequisito per entrambi.

 

 

Uscite d’emergenza. Le morti in Polonia
A gennaio di quest’anno, in Polonia, cinque ragazze di 15 anni sono morte in una escape room a Koszalin, sul Mar Baltico. Stavano festeggiando il compleanno di una di loro quando è scoppiato un incendio: sono rimaste intrappolate in una stanza minuscola senza finestre, senza uscita di emergenza e senza chiave. Le indagini preliminari hanno mostrato che la casa non soddisfaceva nemmeno le più elementari norme di sicurezza e in seguito le autorità hanno ordinato ad almeno altri 26 luoghi simili di sospendere le attività, predisposto centinaia di ispezioni e dopo soli tre giorni hanno rilevato oltre 1.100 violazioni di cui circa 400 hanno a che fare con le uscite di emergenza. Secondo le informazioni raccolte, nell’edificio in cui le ragazze sono morte, le finestre erano state murate in modo improvvisato. Non c’era modo di evacuare la stanza e non esisteva nemmeno un sistema per affrontare un’emergenza. La casa dove era stata aperta la escape room non era mai stata ispezionata: era una casa privata divisa in sette stanze e quattro sale facevano parte del gioco. A ognuna era assegnato un tema: “Crime”, “Darkness”, “Workshop” e “Party”. La permanenza in ciascuna stanza avrebbe dovuto richiedere fino a 60 minuti. L’incendio, secondo gli investigatori, è stato causato dalla perdita di una bombola riempita con una miscela di propano e butano utilizzata per il riscaldamento

In Cile c’è una rivolta come i gilet gialli: “ed è soltanto l’inizio”

Appena una settimana prima che il Cile subisse i peggiori disordini civili da quando è cessata la dittatura di Augusto Pinochet negli anni 80, il presidente Sebastián Piñera – in un’intervista peraltro ottimista sulle prospettive del suo Paese – aveva lanciato un avvertimento: “Dobbiamo fare un grande sforzo per includere tutti i cileni”, ammetteva l’ex uomo d’affari miliardario, pur sottolineando che il Paese stava “guidando la classifica della crescita in America Latina”.

Ma Piñera non si aspettava una dimostrazione così rapida e violenta causata dal rischio della diseguaglianza. Santiago del Cile è stata sconvolta da rivolte, saccheggi e incendi dolosi, innescati da un aumento del 3% delle tariffe della metropolitana che il governo è stato costretto a sospendere. Le proteste hanno messo in luce una rabbia molto radicata tra i cileni, che un sistema disuguale ha escluso dalla straordinaria performance economica del Paese negli ultimi decenni.

“A voi politici doveva succedere davvero tutto questo perché la smetteste di rubare soldi alla gente?” chiedeva una donna davanti a una telecamera mentre aiutava a ripulire una delle stazioni della metropolitana di Santiago vandalizzata dai manifestanti.

“Qualcosa di profondo sta accadendo in Cile”, spiega Marta Lagos, sondaggista e analista politica. Una parte enorme della popolazione si è sentita lasciata indietro: “Questo non è solo un gruppo di bambini violenti, è molto di più. Siamo solo alla punta dell’iceberg. E questo produce una situazione molto instabile che tutti stavano ignorando”.

Il governo non è riuscito a valutare l’impatto che gli alti livelli di disuguaglianza e precarietà occupazionale hanno avuto sulla società, secondo Lagos: “Piñera pensa che le proteste siano un problema di sicurezza, un problema di violenza e saccheggio. Non si rende conto che esiste un profondo malessere sociale che persisterà. Non può essere risolto con un coprifuoco”, ha detto, riferendosi alle misure di emergenza adottate per controllare le proteste durante il fine settimana. A causa dei disordini finora ci sono stati tre morti. Una persona è stata colpita dalle forze di sicurezza e altre due sono morte in un incendio mentre saccheggiavano un supermercato ai margini di Santiago.

Ora, il governo di centrodestra di Piñera – a cui la mancanza di una maggioranza al Congresso ha impedito di attuare molte delle sue riforme a favore del mercato – potrebbe incontrare ostacoli ancora maggiori da parte dell’opposizione. “Il governo Piñera è un’anatra zoppa. Non sarà in grado di portare avanti le sue riforme al Congresso”, sostiene Patricio Navia, politologo alla New York University. Mentre alla fine può essere approvata un’importante riforma delle pensioni, aggiunge, ciò è dovuto al fatto che il disegno di legge di Piñera sarà annacquato a tal punto che probabilmente assomiglierà molto a una proposta del precedente governo di centrosinistra.

Eugenio Tironi, consulente politico a Santiago, ha confrontato le proteste della scorsa settimana con il movimento dei Gilet gialli scoppiato in Francia l’anno scorso, innescato da un aumento dei prezzi del carburante. “In Cile non si è trattato esattamente di un aumento sproporzionato delle tariffe. Sembra piuttosto quel tipo di aumento avvenuto regolarmente in passato. Ma oggi si somma alla sensazione generalizzata che gli stipendi non siano al passo con l’aumento del costo della vita, soprattutto quando aumentano gli oneri del debito”, ha detto. “È tutt’altro che esaurito. È enorme”.

“Sebbene negli ultimi giorni anche gli ecuadoriani si siano ribellati alle misure di austerità, le proteste in Cile sono diverse”, afferma Tironi. “In Ecuador ci sono almeno chiari movimenti contro il governo. Qui non c’è nulla di tutto ciò. Come nel caso dei Gilet gialli, sostiene Tironi, le proteste cilene sono più spontanee e decentralizzate. Ciò ha reso più difficile per le forze di sicurezza prevenire la violenza, anche se Navia afferma che è stato un errore non rafforzare il potere dei militari, dando loro la possibilità di usare la forza necessaria dopo aver dichiarato lo stato di emergenza. Ciò potrebbe aver esacerbato il saccheggio, che invece il governo di Michelle Bachelet era stato in grado di controllare dopo la sommossa del 2010.

Navia traccia un parallelismo tra il Cile di oggi e il Venezuela di trent’anni fa, alla vigilia delle rivolte del Caracazo causate dagli aumenti dei prezzi del carburante che facevano parte del piano di austerità del Fmi. Questi hanno spianato la strada all’ascesa di Hugo Chávez e alla sua “rivoluzione bolivariana”, economicamente disastrosa. Come allora il Venezuela, oggi il Cile è “l’economia più stabile dell’America Latina, ma ha tre problemi: elevata disuguaglianza, elevata dipendenza da una sola merce e una classe politica sempre più distante e corrotta”.

Mentre le sfide di oggi potrebbero non essere così gravi come quelle del Venezuela di 30 anni fa, Navia mette in guardia dalla promozione del Cile nel club delle nazioni ricche dell’Ocse: “In realtà – spiega – il Cile ha ancora problemi di tipo molto latinoamericani”.

 

 

Cacerolazos a Santiago: “Via Piñera e l’esercito”

Anche ieri è stata una giornata carica di tensioni: migliaia di manifestanti si sono raccolti nella centrale Plaza Italia a Santiago del Cile al grido di “Fuori Piñera” – il presidente contestato – e “Fuori l’esercito”. Altri gruppi hanno improvvisato una marcia vicino al palazzo presidenziale della Moneda, presidiato dai mezzi militari. A dare manforte agli slogan contro il governo anche i cacerolazos, forma di protesta tipica dell’America Latina in cui i manifestanti scandiscono i cortei battendo su pentole e padelle. Se alcune manifestazioni sono rimaste pacifiche nella Capitale, altre sono state violente, come a Concepción. I numeri sono quelli di una rivolta sociale: secondo la polizia, ci sono stati 11 morti, 1.500 gli arresti, la maggior parte nella Capitale. Proprio a Santiago si sono viste lunghe code dinanzi ai negozi di generi alimentari, stazioni di servizio e fermate dei bus, mentre solo una delle sette linee della metropolitana ha ripreso a circolare. Sempre a Santiago, molti uffici sono rimasti chiusi così come scuole e università. Resta in vigore lo stato d’emergenza.

L’esumazione di Franco, tra il figlio del golpista e il priore ex falangista

“Salve, chiamo per chiedere se è possibile prenotare un pernottamento”. “Certo, non ci sono problemi, per quando?”. “Da mercoledì a venerdì di questa settimana”. “Va bene, l’unica cosa è che non sono sicura che giovedì sia possibile, sa…”. “Già, proprio questo era il mio dubbio”. “Guardi, giovedì siamo pieni, ma potrebbe prenotare mercoledì e venerdì senza problemi”. Quello su cui la telefonista della Foresteria della Valle de los Caidos, San Lorenzo del Escorial, Madrid, prova a glissare è in realtà l’evento del secolo: il trasferimento del corpo del dittatore Francisco Franco dal monumento che si è fatto costruire dai prigionieri politici della Guerra civile spagnola nella Valle e nel quale è sepolto dal 1975, alla tomba di famiglia del cimitero di Mingorrubio nella tenuta del Pardo, dove è già sepolta sua moglie Carmen Polo.

Nella Valle è già tutto pronto per l’esumazione e dopo l’annuncio della data ufficiale da parte del premier Pedro Sanchez ieri mattina – giovedì alle 10,30, appunto – e l’inizio dei preparativi tecnici, l’aria rarefatta dei 1.000 metri di altitudine si è andata surriscaldando. “Alle 14:50 sono entrati nella Valle con i macchinari pesanti per procedere alla profanazione”, chiariva un post su Instagram dell’account della Foresteria a corredo di un video che riprendeva un’escavatrice accusata anche “di bloccare il traffico e di impedire così agli avventori” di pranzare al ristorante in santa pace (è il caso di dirlo). In realtà gli avventori della Valle hanno l’obbligo di stare lontani sia dalla Basilica che lì accoglie i fedeli dal 1953, sia dal cimitero e dalla Foresteria già dall’11 ottobre, ordine che da ieri la Guardia civile spagnola fa rispettare rimandando indietro anche chi ha già prenotato, figuriamoci prendere nuove prenotazioni. Questo perché domenica otto monaci e un giornalista vestito come loro – e subito arrestato – si sono calati nella tomba del dittatore di nascosto con tanto di corde e telecamere. “Non vogliono testimoni”, “Siamo a una nuova persecuzione dei cristiani: non siamo lontani da una nuova guerra civile”, “Non ci permettono di scattare foto”: anche l’account Twitter della Foresteria è un rullo di accuse in aggiornamento continuo, dopo che il priore dei benedettini, l’ex militante falangista Santiago Cantera – colui che l’ha giurata a Sanchez per l’esumazione di “Cuelgamuros” (così lo chiamavano i prigionieri) provando a ricorrere la decisione del governo – ha minacciato in una lettera all’esecutivo che “non autorizza l’esumazione” la quale, secondo lo storico già candidato alle politiche nel 1993 e alle Europee nel 1994 per Falange spagnola indipendente, va contro “l’inviolabilità dei luoghi di culto e la res sacra cattolica”.

Nel mentre la Fondazione Franco si è data appuntamento a Mingorrubio “per omaggiare chi tanto ha fatto per la Spagna e la sua grandezza. Riempiamo il pantheon di fiori e preghiere”, recita l’annuncio diffuso dai suoi membri con tanto di effigie del Caudillo che già ringrazia la folla esultando a mani giunte. E – come se non bastasse la coreografia – la famiglia del generalissimo fa sapere di aver scelto proprio il priore Cantera e il sacerdote figlio del golpista Tejero per officiare la cerimonia. A niente è servito dunque l’annuncio del governo – che per l’esumazione spenderà 63 mila euro – che sia “l’esumazione che lo spostamento che la sepoltura si svolgeranno nell’intimità, alla presenza dei familiari di Franco e in condizioni di dignità e rispetto” “in ottemperanza alla legge della Memoria Storica del 2007” e secondo gli accordi adottati dall’esecutivo di Pedro Sanchez nel 2019 basati sul “principio che i resti del dittatore non potevano restare in un mausoleo pubblico che esalta la sua immagine”. “Per il governo – si legge ancora nel comunicato – si chiude simbolicamente il cerchio della democrazia spagnola”. Oppure si apre un altro fronte nella già annunciata tempesta perfetta che vive la Spagna.

Da una parte l’inasprimento del conflitto catalano, con le proteste violente di Barcellona contro le condanne dei leader indipendentisti e la spaccatura interna alla Generalitat di Quim Torra e tra questi e il governo centrale. Dall’altra la campagna elettorale per il voto (il quarto in quattro anni) del 10 novembre, con i sondaggi che danno i socialisti al governo fermi e i Popolari in ascesa, mentre Vox, il partito di ultradestra che a Franco si ispira, erode voti al centro di Ciudadanos. In mezzo la Storia. “Un evento atteso da 40 anni”, ha spiegato al Fatto lo scrittore Juan José Millas.

 

La scheda

Francisco Franco – dittatore spagnolo dal 1939 al 1975, anno della sua morte – si fece seppellire nel mausoleo del Valle de los Caidos. Nel monumento, fatto erigere da Franco dai prigionieri comunisti per il fondatore della Falange spagnola, Primo de Rivera, sono sepolti anche 3000 combattenti di entrambi gli schieramenti dalla Guerra Civile. È dal 1982 che la Spagna discute dell’esumazione del dittatore

Bercow non si commuove, Brexit ancora rimandata

Lo speaker della Camera dei Comuni, John Bercow, ha respinto la richiesta del governo Johnson di votare, ieri, sul suo piano di uscita dall’Unione europea, il Withdrawal Agreement, concordato a Bruxelles giovedì scorso. Formalmente, la decisione è ineccepibile: il Parlamento si era già espresso sabato sul piano Johnson, decidendo di rimandare il voto finale al termine dell’iter legislativo collegato, chiamato Withdrawal Agreement Bill, e la procedura parlamentare non prevede che si dibatta due volte la stessa identica questione. Politicamente, però, è esplosiva: nel fine settimana, Johnson sembrava aver convinto un numero sufficiente di parlamentari a sostenere il suo piano: insomma, se si fosse votato ieri, probabilmente, sarebbe stato approvato e la prima fase della Brexit, finalmente archiviata. Invece, ora, si rischia di ricominciare daccapo, in una battaglia parlamentare all’ultimo emendamento: oggi inizia il dibattito sul Bill, che a questo punto potrebbe essere modificato dalle opposizioni, ancora decise a indirizzare la Brexit verso una uscita soft. Tanto che il Labour ha aperto la porta agli unionisti del Dup. Fino a sabato i nordirlandesi erano alleati del governo: ora lo accusano di averli scaricati negoziando un confine fisico nel mar d’Irlanda, che di fatto tiene l’Ulster nella sfera economica e doganale europea, invece che in quella britannica, e cioè minaccia la loro stessa esistenza politica. Se riescono a costruire una alleanza trasversale, le opposizioni tenteranno si giocarsi una carta decisiva: approvare l’accordo Johnson solo se stravolto. Fra gli emendamenti probabili, restare nell’unione doganale o andare a un secondo referendum che preveda l’opzione del Remain. Ovvero, riapertura dei negoziati con l’Ue e una estensione che a questo punto dovrebbe essere più lunga dei tre mesi già richiesti nella farsa di sabato sera, quando Boris Johnson, per la costernazione delle istituzioni europee, ha inviato a Bruxelles tre lettere: una anonima, con la richiesta di rinvio fino al 30 gennaio 2020, al presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk; una per chiarire che la prima era un atto obbligato a cui lo costringe la legge Benn approvata dal Parlamento; una terza, di suo pugno, per chiarire che lui e il suo governo quella estensione non la vogliono. A Bruxelles, ormai, hanno mangiato la foglia e, prima di esprimersi su una eventuale estensione, aspettano di capire se e quando il Parlamento britannico prenderà finalmente una decisione definitiva. E poi c’è sempre l’incognita Boris, che in un nuovo braccio di ferro con il Parlamento avrebbe due opzioni: portare avanti il suo piano anche se pesantemente emendato, cercare un’approvazione definitiva entro il 31 ottobre, la data entro la quale si è impegnato a portare a casa la Brexit, e poi tentare di andare a elezioni anticipate. Oppure rifiutare ogni compromesso e cercare elezioni subito.

Il ritiro della vergogna. Curdi, frutta marcia sui blindati americani

Frutta marcia e sassi. Mai prima di ieri gli americani erano stati accolti così dal popolo curdo. E non solo nel nord-est della Siria, ma anche nel Kurdistan iracheno. Tutti contro il ritiro. “Traditori” è tra le frasi più gentili che le decine di persone sulle strade hanno urlato al lungo convoglio di blindati arrivato a Erbil, appunto in Iraq.

Le operazioni di ritiro sono cominciate nel pomeriggio di domenica. E sono continuate fino alla mattina di ieri. Gli elicotteri hanno sorvolato le città, facendo tremare i vetri delle case per quasi tutta la notte. Durante le operazioni di smantellamento, i soldati americani hanno indossato sulle uniformi i badge verdi dell’Ypj – le Unità di Protezione delle Donne – nonostante il divieto del Pentagono fin dalla battaglia di Raqqa due anni fa. Un segnale forte, non capita spesso che i militari disobbediscano a un ordine così platealmente. Forse per dimostrare il loro dissenso a un ritiro che per tutti è un tradimento. Quella della Casa Bianca è stato un cambio di rotta così repentino che ha lasciato tutti sconvolti, compresi loro.

Ma questi segnali non sono stati abbastanza per la popolazione che si trova sotto attacco dalla Turchia. Così quando la carovana di mezzi color sabbia con la bandiera a stelle e strisce è passata per le strade di Qamishli, la popolazione non c’è l’ha più fatta. E ha dato sfogo alla sua rabbia.

“Abbiamo sbagliato a fidarci di loro. Dovevamo fare i nostri interessi non quelli degli americani. Ora siamo ridotti così male che il regime è l’unica nostra salvezza”, spiega Raman, 34 anni, soldato ferito nella battaglia di Serekanye, Rais al Issa. Domenica la città al confine con la Turchia è caduta in mano alle bande jihadiste scatenate dal presidente turco Erdogan che le ha appoggiate con l’aviazione e ibombardamenti. Le Forze Democratiche Siriane non hanno potuto far altro che ritirarsi, strette da tutti i lati dalle Tfsa, la fazione delle Free Syrian Army addestrate in Turchia e di stampo islamico radicale.

“Ero già dovuta scappare da Serekanye nel 2012 quando ci hanno invasi la prima volta”, spiega Fatima Jaz Ahmed in una scuola diventata rifugio per le migliaia di persone fuggite dalla guerra. “Siamo andati via giovedì dopo che una incursione aerea ha colpito la casa dei vicini. Mio figlio più grande aveva troppa paura. Siamo andati in un villaggio vicino ma le bombe ci hanno seguiti anche li”, continua la donna mentre abbraccia una delle figlie. Oggi la famiglia vive in un’aula di una scuola ad Hasakah. I materassi colorati sono impilati da un lato, mentre una stuoia di plastica blu copre il pavimento. Hasakah ha accolto la maggior parte dei 190,000 profughi causati dall’operazione “Sorgente di pace” cominciata il 9 ottobre scorso sul confine tra la Turchia e il nord est della Siria.

“La situazione è molto difficile. Mancano acqua, cibo e servizi”, spiega Nasrin Abdullah Siz, da ieri a capo del rifugio che è stato aperto martedì. Persino il pane è diventato un bene prezioso.

Il fabbisogno è passato da 35 tonnellate al giorno a 50, in meno di una settimana, e continua a crescere. “Non abbiamo abbastanza fornai, quelli che ci sono lavorano giorno e notte”, continua la donna seduta alla scrivania. Dietro di lei ci sono i poster del Rojava Film Festival che si doveva tenere nelle prossime settimane in tutte le città tra cui Serekanye. Sarebbe stata la terza edizione. Intanto, nonostante il cessate il fuoco di 120 ore annunciato dal vicepresidente americano Mike Pence in accordo con Ankara, continuano i combattimenti. La tregua è servita solo a far evacuare le Forze Democratiche Siriane dalla città, ed è durata poche ore. Dal fronte continuano ad arrivare notizie preoccupanti. Saccheggi, violenze sui civili. Poi incursioni aeree e bombardamenti nelle campagne di Ain Issa, Tal Abyad, Kobane. Sembra evidente che la Turchia non vuole fermarsi davanti a niente, e si teme il massacro, un bagno di sangue. “Non abbiamo bisogno di tanto, ma ci deve essere la copertura aerea. Deve essere implementata una no-fly zone”, dice una combattente raggiunta al telefono e impegnata nelle campagne di Tal Abyad. “Abbiamo già sconfitto i jihadisti sul terreno ma così è una battaglia impari”. La Turchia è accusata di usare armi chimiche. Le bruciature riportate da civili e soldati lascia perplessi i medici. “Non ho mai visto cose così, non sappiamo come curarli e alleviare le loro pene”, spiega Fares Hammu, medico “all’ospedale della Gente” di Hasakah dove sono stati trasferiti la maggior parte dei civili. I campioni sono stati mandati nel Kurdistan iracheno per delle analisi approfondite. Ma intanto monta la rabbia per le strade.

“Ci hanno traditi: gli Stati Uniti, la Francia, l’Inghilterra. Tutti ci hanno voltato le spalle. Una coltellata alla schiena dopo che noi abbiamo combattuto lo Stato Islamico anche per voi”, grida Merwan con le lacrime agli occhi. Per anni ha combattuto Daesh. Sperava che fosse finita. E invece una nuova guerra l’ha strappato da casa. La notizia delle ultime ore scuote ancora gli animi. Il presidente Trump lascerà 200 soldati a guardia dei pozzi di petrolio. “Vogliono solo quello, e intanto noi veniamo massacrati”.