Quante menzogne sono necessarie per occultare una verità? Questo interrogativo non ha smesso di echeggiare dalle 14 alle 17:30 di domenica su La7, tanto è durata la ricostruzione del Caso Cucchi 2009-2019. La dinamica di una morte avvenuta dopo una settimana di custodia cautelare di cui abbiamo visto sgretolarsi la versione ufficiale fino alla condanna dei militari responsabili dell’omicidio di questo ragazzo di 31 anni. La storia parallela di una battaglia solitaria condotta dai familiari per avere giustizia (“Ogni giorno da dieci anni entro nella stanza di Stefano e parlo con lui”), che a un certo punto solitaria non è stata più. In questa terribile vicenda italiana fatta di abusi, menzogne, collusioni, depistaggi, ribaltamenti processuali, i media non sono rimasti a guardare. Si sono schierati dalla parte della ricerca della verità. Comprensibile che La7 abbia voluto ripercorrere tale ricerca con una maratona formata dalle diverse tessere del suo palinsesto (L’aria che tira, Tagadà, Propaganda live, e naturalmente il tg di Enrico Mentana). Un’evoluzione della specie del Blob, tematica, cronologica, civile in coerenza con la linea editoriale (colpo di scena: anche una rete può averne una). La scelta di utilizzare come luogo del ricordo la domenica pomeriggio, storico baluardo dell’oblio e del nulla, è un ulteriore gesto di coraggio, una lezione di servizio pubblico al servizio pubblico. Ci voleva il caso Cucchi per assistere a questo precedente. Grazie, Stefano
Mail Box
Grazie al “Fatto” riusciamo a leggere “dentro” la notizia
Fin dalla prima copia acquistiamo Il Fatto Quotidiano e il mensile Millennium. Vi leggiamo sempre con attenzione, interesse e piacere. Vogliamo esprimere il nostro apprezzamento e ringraziamento a tutti voi che ci aiutate a interpretare e a comprendere quanto e come alcune notizie possono condizionare le nostre vite. Con voi riusciamo a leggere dentro la notizia gli avvenimenti che non riscontriamo su alcuni quotidiani che pomposamente amano fregiarsi della qualifica di “veri organi di stampa”.
Grazie di cuore.
Mariella e Carlo Tancioni
Confronto Renzi-Salvini: esempio di politica-spettacolo
I contendenti hanno insistito nel confronto con i battibecchi, con la ricerca delle battute a effetto, mentre la politica, i problemi veri non sono stati minimamente affrontati. Il leader leghista e l’ex premier Renzi hanno con determinazione voluto il duello per occupare la scena e far parlare di sé: un esempio di politica-spettacolo di cui gli spettatori non sentono alcun bisogno. Non sarebbe meglio che la televisione pubblica desse spazio a programmi più utili, più formativi?
Domenico Mattia Testa
La corrida è una barbarie indegna della società civile
Un altro torero 57enne, Mariano De La Viña, è stato gravemente ferito da un toro durante una corrida a Saragozza. I medici parlano di “condizioni catastrofiche”. Io mi domando: fino a quando questa tradizione barbarica e scellerata, chiamata “corrida”, continuerà ad esistere? Il torero si è vista recisa l’arteria femorale e ha subito un trauma cranico. Fermo restando che non verserò alcuna lacrima per una persona che sceglie come professione di uccidere animali, in questo caso tori, qualche articolo riporta anche l’espressione “ferite barbariche”. Invece quelle inflitte al toro? Che viene fatto morire lentamente, tra umiliazioni e sofferenze, non sono barbariche? Le urla eccitate e sadiche degli spettatori che pagano per assistere a tali spettacoli non sono incivili? Una società civile non dovrebbe permettere queste dinamiche. Non deve morire né il toro e né l’uomo. Anche se quest’ultimo, inteso in senso lato e per il quale spesso non provo alcuna pena, è l’artefice di queste squallide tragedie.
Cristian Carbognani
Evasione, risultati impossibili senza uomini e mezzi
Sono un vostro abbonato da tanti anni e vorrei che il vostro giornale ponesse attenzione su un aspetto importante della lotta all’evasione fiscale: non si ottiene alcun risultato senza uomini e mezzi, è ora di smetterla con i proclami e le promesse. Bisognerebbe ampliare l’ottimo studio realizzato da Milena Gabanelli: la mancanza di migliaia di dipendenti negli uffici fiscali e nella Guardia di Finanza determina un fisco inappropriato. Mancano altresì indirizzi politici di un fisco giusto che avevano portato alla creazione dell’Agenzia delle Entrate con un modello organizzativo invidiabile volto alla lotta all’evasione fiscale per chi non dichiarava e collaborativo con i cittadini onesti con sanzioni umane. Quel disegno si è perso. Mancano dirigenti che correggono gli errori della stessa amministrazione finanziaria, si punta da anni a fare cassa con le false notizie sul recupero dell’evasione. Poveri i contribuenti che vengono accertati! Sono pochi ma costretti a presentare ricorsi. Tutto il contrario degli attuali annunci di un fisco giusto: nessuna organizzazione nei confronti di chi omette di dichiarare perché mancano risorse ma non controlli e pesanti sanzioni per chi dichiara. Gabanelli docet.
Angelo Capula
Apple e Amazon: invenzioni geniali o trovate di marketing?
La favola bella del giovane che inventa un pc Apple in un garage o di chi redige il business plan del progetto Amazon in viaggio su un fuoristrada, o, ancora, del ragazzo scanzonato che inventa Facebook dal nulla, non mi convince. Tre banali trovate di marketing. Mi chiedo come mai nessuno ha ancora inventato il cellulare senza fili che si carica al sole? Forse la favola bella è il caricatore colorato Apple? O la cover che ricarica da 150 euro? Adattatori e diavolerie varie ancora per un po’. Un giorno un surfista delle Hawaii sulla sua tavola sotto il solleone lo penserà. Io, intanto, seduto in garage, sto pensando.
Giovanni Negri
Una poesia contro la povertà e contro il mondo malvagio
Un povero.
Oggi
vedo un povero
bistrattato da tutti
con un pezzo di pane ammuffito:
il pane non lo ha nemmeno rubato,
lo ha trovato per terra
e ci ha buffato sopra.
Che lo rubasse a me il pane!
Lo guardo: sorride! Il povero
è la causa di ogni malessere,
il motivo fondante del male.
Domani
che io possa non svegliarmi più:
non sopporto questo mondo
irrimediabilmente malvagio;
preferirei vivere un sonno eterno.
Tommaso Franchini
Film Marvel. Scorsese e Coppola sparano sui cinefumetti: grandi registi, piccoli critici
Gentile redazione, dopo Martin Scorsese anche Francis Ford Coppola se la prende con i film della Marvel, definendoli addirittura “spregevoli”. Ma non è che i due veterani del cinema sono un po’ invidiosi dei colleghi più pop? Io non credo affatto che esistano film “minori” solo perché trattano di argomenti fantastici o fumettosi. Che dite voi?
Elvira Dondi
No, cara Elvira, non è questione di invidia. Non credo, in tutta franchezza, che mostri sacri della storia del cinema quali Scorsese e Coppola possano invidiare i film Marvel, ma questo non significa che non li possano fraintendere. Se non vilipendere. Del resto, non ammiriamo Martin e Francis Ford per l’acume critico, ma per le doti registiche: a ciascuno il suo, insomma. È pur vero, e parlo da critico, che raramente mi sono spellato le mani per un cinefumetto Marvel, in ogni caso l’ho fatto assai meno che per “Toro scatenato” o “Il Padrino”. Da qui a definirli spregevoli, però, ce ne vuole: possono non piacere, ma perché disprezzarli? Che cosa ne viene a Coppola? Invero, ed è triste constatarlo, è tornato a far parlare di sé: non da grande regista, purtroppo, ma da piccolo critico. Meglio l’apripista Scorsese, cui forse si può rimproverare di aver voluto confondere le acque – ha tirato in ballo la Marvel per sviare da Netflix che produce il suo nuovo film? –, ma non intaccare la libertà d’opinione: “Spero che i cinema continuino a sostenere film di narrazione come ‘The Irishman’, che ci siano sale dove vederli. Perché oggi – ha detto alla Festa di Roma – cercano i parchi di divertimento, come io chiamo i cinefumetti: si possono fare, ma non dovrebbero diventare ciò che i nostri giovani credono sia cinema”.
Sono dunque i film Marvel figli di un Dio minore? Può essere, ma che i grandi sacerdoti del maggiore si sentano in dovere di esibire il certificato di nascita va a loro esclusivo detrimento. Conviene dar retta a un altro regista, James Gunn (“Guardiani della Galassia”), che su Instagram ha messo qualche buona idea in fila: “I supereroi sono semplicemente i cowboy, gangster, avventurieri cosmici di oggi. Alcuni film di supereroi sono orribili, altri sono bellissimi. Come per i western e i film di gangster (e prima ancora, i FILM in generale), non tutti saranno in grado di apprezzarli, nemmeno alcuni geni. E va benissimo così”. Ah, dimenticavo: ma Scorsese e Coppola dei film Dc Comics che pensano?
Federico Pontiggia
Mario Giordano, il “luogocomunista” che ama la caciara
Mario Giordano è un gran furbacchione. Conduce un programma di successo su Rete4, Fuori dal coro, in cui ci trolla dall’inizio alla fine. E lui se la ride, peraltro senza neanche nasconderlo troppo. La fredda cronaca. Un anno fa, Mediaset decide genialmente di trasformare Rete4 da TeleCasino in CheDuePalle. Il tentativo fallisce miseramente. Così Rete4 torna TeleCasino. Fine fredda cronaca. Giordano, tra i più efficaci opinionisti melon-salviniani, ha su Rete4 un programma tutto suo. Nato in sordina, sta avendo gran successo. Si intitola Fuori dal coro, e già qui c’è un parossismo di paraculismo, perché non esiste forse al mondo un programma più “dentro il coro” del suo. Giordano eleva infatti il “luogocomunismo” a cifra distintiva della sua conduzione, forte del suo eloquio-mitraglia e di una innegabile competenza in tema di sprechi, sovranismi e derivati. La sigla è Another Brick In The Wall Part 2 dei Pink Floyd, e se qualcuno lo dicesse a Roger Waters lui come minimo mitraglierebbe tutta Mediaset (ma credo che lo farebbe a prescindere).
Di cosa parla Fuori dal coro? Semplice: parla di Mario Giordano. E qual è la tesi di Fuori dal coro? Semplice: la tesi è Mario Giordano. Egli è al contempo narrante e narrato. La realtà si piega, neanche troppo riottosa, al suo volere. Un po’ one man show e un po’ sfogatoio, Fuori dal coro è una sorta di Sgarbi quotidiani post-contemporaneo, ovviamente molto meno patetico (ci vuol poco). Giordano, qui tribuno e monologhista, sceglie tutti gli argomenti più adatti a titillare la pancia e li ingigantisce ad arte, magari con servizi atti a dimostrare che alle Isole Tonga ci sono 7 impiegati pubblici pagati da noi, e loro ovviamente lì mica lavorano, e quindi rubano i nostri soldi, e dunque è colpa loro se in Italia siamo poveri, e allora invadiamo le isole Tonga e facciamogli un culo così (cazzo!). E qui parte l’applauso del pubblico presente, composto – lo si capisce anche solo dalle facce assai vigili – da assidui lettori di Kant, pensosi esegeti di Schopenhauer e fieri nostalgici dei simposi dell’Antica Grecia.
Giordano si muove garrulo in un’atmosfera da avanspettacolo orgogliosamente trash: un po’ Bagaglino, un po’ Propaganda Live di destra, un po’ Sagra della Roncola Fusa di Frascati. Gigione e vulcanico, Giordano esonda di continuo in arringhe che chiamano l’applauso facile. Anzi facilissimo. Non di rado il conduttore controlla però compulsivamente la cartellina, come se terrorizzato dal perdere un filo che in realtà non esiste. È qui che risiede la maggiore sbavatura tecnica dello show, perché Giordano dovrebbe assecondare la caciara più totale: anche qualche bel rutto a tradimento, per dire, non sarebbe male (magari prorotto da Salvini). Giordano in ogni caso si diverte e gode come un riccio, soprattutto quando cerca la telecamera à la Funari: la guarda, gli si avvicina, se la mangia. Per poi esplodere in uno dei suoi sfoghi: contro chi dice “lunch” invece di “pranzo”, contro chi fa entrare troppi migranti, contro i rom. O anche solo contro chi ordina gli involtini primavera al cinese.
Ubaldo Pantani ne fa un’imitazione strepitosa a Quelli che il calcio, ma Giordano è già oltre: è lui il primo ad auto-caricaturarsi. Il programma è così “estremo” che funziona: chi è d’accordo applaude, chi lo odia lo guarda per vedere l’effetto che fa. Certo, si avverte l’assenza colpevole della donna barbuta, dell’uomo che mangia i ciottoli di ghisa e del vecchiettino che intona Romagna mia con le ascelle, ma sono sicuro che Giordano ovvierà presto a tali lacune francamente inaccettabili.
Ma davvero ri-ri-rivolete voi Matteo Renzi?
Avete presente i film dell’orrore? Quelli in cui il protagonista riesce faticosamente a sopravvivere e, dopo mille peripezie e colpi di scena, finalmente torna a casa, scioccato, sporco, ferito, per calmarsi fa una doccia, si asciuga, indossa abiti puliti, prova a scacciare i cattivi pensieri, abbozza anche un sorriso, ma quando fa per buttarsi esausto sul letto… annidata nell’ombra c’è la sagoma dell’assassino!
Ecco, un po’ come un film dell’orrore – ovviamente si fa per dire, è una metafora, un’iperbole, mica orrore vero con morti e feriti, non scherziamo, ché qui le querele piovono a catinelle… vero che ormai quasi non puoi dirti giornalista se non hai una querela da Rignano, manco fosse un test d’ammissione all’Ordine, ma con tutto quello che già dobbiamo tirar fuori per bollette, mutuo, tasse e poi il caldo, il freddo, le cavallette, ci manca pure il bonifico a Pontassieve – insomma pensavamo che i gloriosi, entusiasmanti, elettrizzanti tempi renziani fossero andati e invece è ri-ri-ritornato Lui: Matteo. Dall’ombra ha riconquistato la luce accecante della Leopolda 10 (già 10 anni sul groppone? Come passa il tempo quando ci si diverte…). Con una copertura mediatica – dirette, talk, tg, social, paginate e paginate su quotidiani, settimanali, mensili, annuali – che mai si era vista per un partito sondato al 4 per cento (eh ma crescerà, forse, dicono), ha inondato la scena pubblica. Qualunque cosa dicesse o facesse, esaltasse i risultati del “suo” Palazzo Chigi o ammettesse di aver sbagliato qualcosa (inezie beninteso, e sempre per colpa di altri), o ancora menasse a destra o a manca (soprattutto a manca, all’indirizzo del governo, Conte, Pd e 5S) erano ovazioni. A prescindere. Lui è ri-ri-ritornato per la gioia dei fan e di quella capillare rete mediatica che, costretta a rimanere dormiente per qualche tempo, ora può risaltare in piedi solerte: comandi!
Resta da capire quanto questo ri-ri-ritorno sia apprezzato dagli italiani: davvero non vedevano l’ora di rivederlo all’opera? Davvero possono cessare le loro notti insonni, perché hanno di nuovo il loro leader di riferimento e un simbolo con le ali su cui apporre la preziosa X? O confidavano di averci messo una croce sopra? Qui tocca cambiare genere, abbandonare l’horror e passare alla commedia romantica, con la più classica delle formule: quella del matrimonio.
Cari italiani, volete voi di nuovo… chi vi ha tolto l’art. 18 e dato contratti di lavoro a tutele crescenti (ovvero calanti)? Chi ha trattato con l’Ue l’accoglienza dei migranti in cambio di flessibilità nei conti pubblici con cui elargire (anche) bonus elettorali? Chi ha escogitato la riforma costituzionale che avete bocciato nel referendum e la legge elettorale bocciata dalla Consulta? Chi ha stretto il Patto del Nazareno con Berlusconi e ora cerca di conquistare gli elettori di Forza Italia e invita alla Leopolda il “mussoliniano” Lele Mora (il quale offre una succosa definizione dell’affinità tra i due: “Silvio diceva che era il suo nuovo galoppino. È il suo erede”)? Ri-volete voi chi ha licenziato il Salva Banche? La Boschi, il giglio magico, la bellanova star Bellanova e “Ciaone” Carbone, redivivo alla kermesse renziana dopo la tranvata alle elezioni? E un altro quotidiano diretto da Andrea Romano? Comprereste un’auto usata (o un aereo) da chi aveva promesso di lasciare la politica?
Nel buio della vostra stanza stasera chiedetevelo: volete voi (ancora) Matteo Renzi?
Per salvare il mare va salvata la legge
Inizia in questi giorni alla Camera la discussione per l’approvazione del ddl della cosiddetta “legge salvamare” che, in sostanza, si occupa di due questioni: i (tanti) rifiuti che restano accidentalmente impigliati nelle reti dei pescatori e le campagne di pulizia delle acque dai rifiuti. Ma il suo testo, pur prescindendo da considerazioni giuridiche, andrebbe snellito e reso operativo in tempi brevi, tenendo conto anche delle osservazioni delle associazioni ambientaliste come il Wwf e Greenpeace.
L’importante è sancire la equiparazione dei rifiuti giacenti in mare a quelli giacenti sulle aree pubbliche, perché, a questo punto, si tratta di rifiuti urbani e spetta a Regioni e Comuni occuparsene; ed è meglio lasciare loro piena autonomia operativa a seconda delle situazioni locali.
Là dove serve una legge al più presto è, invece, su come incentivare i pescatori a portare a terra, e non a ributtare a mare, i rifiuti “pescati” accidentalmente. Risultato che certamente non si ottiene se, invece di premiarli, si gravano i pescatori di nuovi obblighi. Occorre, quindi, eliminare immediatamente dal ddl l’inutile e fuorviante richiamo al “deposito temporaneo di rifiuti”, che obbligherebbe, tra l’altro, i pescatori, a tenere un registro dei rifiuti accidentalmente pescati e di raggrupparli per categorie omogenee. Mentre bisognerebbe ricordare e ribadire, da un lato, che già oggi la legge vieta la immissione (non autorizzata) di rifiuti di qualsiasi genere nelle acque pubbliche (anche se è re-immissione di rifiuti prodotti da altri). E dall’altro bisognerebbe concedere ai pescatori “virtuosi” un vantaggio monetario (anche come sgravi fiscali) immediato, commisurato alla quantità di rifiuti portati a terra. Il contrario, insomma, di quanto propone il ddl che rinvia eventuali e indeterminate “misure premiali” a un decreto futuro e incerto del ministro delle Politiche agricole di concerto con il ministro dell’Ambiente. Con l’aggiunta della previsione di un “riconoscimento ambientale attestante l’impegno per il rispetto dell’ambiente marino e la sostenibilità dell’attività di pesca svolta”, con procedure, modalità e condizioni da determinare anche questa volta con futuro e incerto decreto interministeriale. Peraltro, con il rischio, giustamente paventato da Greenpeace, di certificare come sostenibile un’attività di pesca solo perché i pescatori hanno recuperato rifiuti in mare, anche quando ricorrono, come spesso accade, alla pesca a strascico intensiva che distrugge tutto (e pesca più rifiuti); o, peggio, a sistemi micidiali di pesca come le spadare.
Appare, così, evidente che, in realtà, questa “legge salvamare” è ben poco operativa perché tutto è rimesso a futuri decreti e concerti ministeriali: per pulire uno specchio d’acqua, ci vuole una apposita istanza presentata all’autorità competente dal soggetto promotore della campagna secondo le modalità individuate con decreto del ministero dell’Ambiente di concerto con il ministero dell’Agricoltura, da adottare, acquisito il parere della Conferenza Stato- Regioni… E anche per promuovere campagne di sensibilizzazione a difesa del mare ci vuole, prima, un decreto dettagliato del ministero dell’Ambiente “sentiti il ministero delle Politiche agricole, il ministero dell’Istruzione e il ministero dei Trasporti”, peraltro, dopo aver “acquisito il parere della conferenza Stato-Regioni”. È vero che, anche grazie alla commissione Ambiente, la legge pone termini temporali (di 4, 6 o 12 mesi) entro cui emanare questi decreti ma si tratta di termini “politici”, che non vengono quasi mai rispettati, specie quando interessano più organi. Con il rischio che la prossima estate, in attesa dell’operatività della legge, non si possano neppure più promuovere le lodevoli e numerose iniziative che abbiamo visto nell’estate appena trascorsa.
Meglio sarebbe, quindi, semplificare drasticamente il ddl in esame, aggiungendo, invece innanzi tutto una adeguata e immediata copertura finanziaria.
E sarebbe meglio cambiargli nome e chiamarlo, più onestamente, “legge puliscimare”.
Purtroppo, infatti, per salvare il mare dalla morte per rifiuti occorre ben altro. Soprattutto occorre intervenire a monte della pulizia, sui prodotti e sulle scelte di produzione, dando attuazione, anche parziale, al principio comunitario secondo cui il miglior rifiuto è quello che non viene prodotto. Il divieto di imballaggi monouso, ad esempio, sancito dalle nuove direttive e già anticipato da molti Comuni ma annullato dai Tar per mancanza, in Italia, di idonea base legislativa, che potrebbe essere fornita subito con la legge salvamare.
“Cavallerizza, il rogo si poteva evitare”
Le fiamme sono divampate ieri mattina, intorno alle 7:20, a due passi dalla Mole antonelliana. Un incendio ha danneggiato ancora una volta la Cavallerizza reale, una struttura vicina al Palazzo reale dei Savoia, a lungo abbandonata e diventata nel 1997 patrimonio Unesco. Appartiene al Comune e alla Cassa Depositi e Prestiti, da anni è oggetto di piani di riqualificazione mai veramente partiti per via di un’occupazione. L’amministrazione di Piero Fassino voleva cederla ai privati, ma un collettivo di artisti e militanti dei centri sociali l’ha occupata nel 2014 per farne un bene pubblico autogestito e aperto alla cittadinanza.
Quello di ieri è il terzo incendio in pochi anni. Le fiamme hanno bruciato il tetto e le ex stalle, chiamate pagliere. “In quello spazio – ha spiegato un occupante – ci sono due laboratori di artisti e un magazzino dove sono raccolte alcune masserizie di legno. Qualche volta ci dorme qualche disperato”. I vigili del fuoco sono intervenuti delimitando i danni ed evitando che il fuoco investisse anche il vicino Auditorium della Rai. “Fa male vedere un edificio storico tra le fiamme – ha detto la sindaca Chiara Appendino –. Se l’Auditorium e l’archivio non sono stati intaccati dobbiamo ringraziare l’impegno dei vigili del fuoco”. Sulle cause, al momento, non si esprimono. Incolumi gli occupanti, una sessantina di persone, tra cui ci sarebbero alcuni pusher. I danni non sono ancora quantificati e l’area è stata posta sotto sequestro.
La scorsa settimana la procura, che indaga per occupazione abusiva, ha fatto staccare gli allacciamenti abusivi alla rete elettrica per ragioni di sicurezza. “Bisogna mettere mano alla Cavallerizza. Tutti hanno capito che nessuno gestisce quella situazione e l’incendio prova che possono accadere episodi pericolosi”, ha spiegato il questore Giuseppe De Matteis, secondo il quale “si tratta di una situazione che produce tanta criminalità”. Al suo interno “ci sono persone che non hanno nulla a che vedere con gli occupanti originari del 2014”, ha aggiunto ricordando alcuni recenti fatti di cronaca.
Si poteva intervenire prima. “I segnali d’allarme erano tanti, gli impianti sono vecchi, la soprintendenza ha richiamato più volte la proprietà – ricordava ieri mattina la soprintendente Luisa Papotti –. Ci vorrebbe una destinazione che consenta a tutti di apprezzarne la bellezza, magari un grande distretto culturale. La Cavallerizza non può essere sottratta all’uso pubblico”. A fine mese la città dovrebbe approvare un piano di riqualificazione “che sta ridefinendo la destinazione d’uso del complesso”, ha detto l’assessore all’Urbanistica di Torino, Antonino Iaria.
Notre-Dame, si studia ancora: “La rinascita non prima di 5 anni”
L’organo di inizio 900 a cinque tastiere della Cattedrale di Notre-Dame di Parigi ha suonato per l’ultima volta durante la funzione di domenica 14 aprile 2019, alla vigilia di quell’incendio che ha ingiuriato la chiesa simbolo della cristianità occidentale e le cui immagini hanno fatto il giro del mondo. “Già alle 19 del 15 aprile ero corsa lì davanti e alle 20 ero entrata. È stato un incendio dantesco, credevo fosse un incubo”, racconta Charlotte Hubert, achitecte en chef dell’ufficio monumenti storici dal 2017, che ha seguito i lavori da subito. Oggi, a circa sei mesi dall’incidente, l’abbiamo incontrata a Palazzo Farnese in occasione di “Notre-Dame sei mesi dopo”, un incontro-bilancio sui lavori avviati lo scorso aprile, insieme a Carlo Blasi, ingegnere che si occupa nel cantiere della stabilità delle strutture murarie. “Ho appreso la notizia il giorno dopo e ho provato una grande rabbia, come di fronte ai disastri di una guerra”, ha raccontato. La cattedrale è completamente isolata dalle barriere in un cantiere blindatissimo. Impalcature sovrastano la navata, enormi archi sostengono le volte, le reti avvolgono torri e pennoni e i teli proteggono i vetri che non sono esplosi con le fiamme. “Dentro – spiega Blasi – è stato pulito per terra, non ci sono più macerie, però non si può lavorare sotto la volta centrale perché sopra la navata centrale ci sono ancora molte macerie, ma soprattutto c’è la cenere con il piombo.
In più c’è un grande ponteggio che è fuso e dunque non può essere smontato, andrà tagliato e smontato a pezzi. Ma per fare questo va prima messo in sicurezza perché non sappiamo se potranno esserci delle coazioni. Dunque stiamo, con un sistema di centine, mettendo in sicurezza tutti gli archi rampanti e la parte dell’abside. Dopo si potrà lavorare al ponteggio e all’estradosso delle volte, e si potrà ripulire dal piombo”. “Se a luglio i lavori si sono come fermati, è per riflettere – precisa Hubert – proprio per via del piombo, per il quartiere tutto attorno, per i bambini nelle scuole. Ma adesso, al rientro a settembre la situazione è rientrata”. I primi lavori, a ben sentire Hubert, riguarderanno il piazzale e le mura laterali.
La fase di studio, allo stato attuale, non è ancora finita. Quindi non si può ancora dire se i lavori di ricostruzione saranno volti alla pura fedeltà o alla modernizzazione, termini che non piacciono a Blasi, che più filologicamente ribatte: “Il restauro, o conservazione, deve affrontare molte questioni. La forma, la tecnica costruttiva, la scelta dei materiali e anche, in modo ragionevole, tenere conto del desiderio delle persone”. Ed è stato davvero forte l’impatto sul mondo del fuoco di Notre-Dame.
“Ci ha insegnato che l’eternità – commenta Hubert – cioè quell’abitudine a ritenere i monumenti storici come eterni, può avere fine”. Ma è anche un altro il polso dell’urto culturale: “Le donazioni economiche che ci sono giunte – dice quasi commossa Hubert – partono da 5 euro a centinaia di migliaia di euro, e questo equivale a dire che la partecipazione è stata davvero ecumenica. Si parla all’incirca di ottocento milioni di euro.”
Sui tempi di riconsegna al pubblico di questo simbolo culturale, la risposta è corale e diplomatica “Cinque anni, come ha detto il presidente Macron”. Al che Blasi, più pratico, si pronuncia così: “È una risposta diplomatica, certo, ma non ci sono ragioni al momento per pensare che non bastino. Per la messa in sicurezza, invece, possiamo contare sei mesi”.
Il porto di Genova si mobilita contro il Jobs act
Genova
Tremila per uno. Tanti sono i lavoratori del porto di Genova che il 31 ottobre potrebbero incrociare le braccia per protestare contro il licenziamento di un collega. È un dipendente della biglietteria assunto nel 2016 a cui Grandi Navi Veloci (gruppo Msc) ha dato il benservito dall’oggi al domani adducendo “motivi economici e organizzativi”, come prevede il Jobs act. Il licenziamento è stato impugnato dalle segreterie locali di Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti e i portuali genovesi hanno deciso di appoggiare la protesta.
A rendere pubblica la notizia del licenziamento a media e lavoratori è stata una nota diramata da Lup e Calp (Lavoratori per l’Unità Porto e Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali), sigle che raccolgono lavoratori dello scalo di diversa o nessuna appartenenza sindacale, sostenitori fra i portuali delle posizioni meno accomodanti. “I terminalisti hanno cominciato a sostituire il lavoro stabile con contratti precari, in una corsa al ribasso di salari e condizioni di lavoro. Gnv sta facendo una prova di forza, vuole vedere se i lavoratori sono capaci di reagire con la lotta, anche con lo sciopero”. Una prova che tutti i portuali genovesi, non solo i dipendenti della compagnia armatoriale, hanno deciso di affrontare insieme.
A fianco del lavoratore di Gnv ci saranno i colleghi, ma anche i camalli, i portuali dei terminal privati, i guardiafuochi e i manovratori ferroviari. E potenzialmente gli impiegati. Circa 3.000 persone non direttamente coinvolte per difenderne una. Una mobilitazione che non si vedeva da tempo.
Sullo sfondo c’è una trattativa a rilento per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro. Lo sciopero unitario del 31 ottobre, se si svolgerà o verrà revocato in caso di ritiro del licenziamento (la mediazione fra Gnv e sindacato non ha per ora dato esito), rappresenterà comunque un precedente tale da mettere in dubbio l’applicabilità del Jobs act nel primo porto italiano. Gli equilibri del confronto contrattuale potrebbero risentirne. Qualcosa sembra già cambiato: ieri è bastata l’allerta rossa meteo per indurre il sindacato a proclamare altre 24 ore di fermo, dopo che da più di un anno mancano le linee guida in materia promesse dall’Autorità portuale che è responsabile delle problematiche lavoristiche, visto che le imprese operano su demanio tramite concessioni o autorizzazioni. Sull’allerta meteo, l’Authority è intervenuto quando la perturbazione era già passata, mentre sul resto tutto tace. Il piano dell’organico, lo strumento con cui gestire flussi occupazionali e relative criticità, è deficitario secondo i lavoratori: “L’ente non ha preteso dalle imprese i dati utili e previsti dalla legge. Nel settore traghetti nel 2019 si parla di incrementi dei lavoratori. Chi mente, l’Autorità o Gnv?”, incalzano i portuali, forti dopo molto tempo di un’unità che può diventare formidabile strumento negoziale. La pace sociale sulle banchine genovesi è tornata in discussione.
Gli schiavi dell’Agro Pontino in piazza: “Mai più 4 euro l’ora”
“I prodotti che raccogliamo tutti i giorni nelle campagne sono il frutto della nostra fatica”. Non si arrendono i braccianti sikh della provincia di Latina. A tre anni dallo storico sciopero dell’aprile 2016 contro lo sfruttamento nei campi, ieri gli operai agricoli sono tornati a rivendicare il diritto a un lavoro e a una vita degna, in quella stessa piazza a Latina. Nelle campagne dell’Agro Pontino, dove lavorano circa 30 mila lavoratori sikh, la macchina dello sfruttamento continua a macinare vittime, ma alcuni hanno scelto di alzare la testa. Lo sanno bene alcuni braccianti indiani che poche settimane fa hanno denunciato il loro “padrone”. In un’azienda agricola di Terracina, Alessandro Gargiulo – ora agli arresti – li avrebbe costretti a lavorare in condizioni indegne, minacciandoli con un fucile a pompa per spronarli a lavorare di più.
“In Italia siamo trattati come schiavi. Lavoriamo tutti i giorni senza pause per guadagnare 1.000 euro al mese”, si lamenta Parag Singh in un inglese che solo a tratti diventa italiano. Vorrei che la mia famiglia mi raggiungesse, ma se continuo a prendere così poco, è meglio che stiano lontani”. In piazza al fianco dei lavoratori, i sindacati nazionali di categoria Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil. “Grazie a loro, ho imparato a leggere una busta paga e a capire che quasi mai il mio capo dichiarava le ore effettive che lavoravo”, spiega Ari Singh.
Una pratica abusata dalle aziende pontine, che dichiarano quasi sempre la metà delle giornate lavorate dai braccianti, utilizzando a proprio vantaggio le scarse conoscenze linguistiche dei braccianti. È l’attuazione complessiva della legge 199 anti-caporalato che consentirebbe di migliorare le precarie condizioni di vita di migliaia di lavoratori, come chiedono i sindacati.
Ma dal 2016, anno di approvazione della legge, si sono susseguiti tre ministri dell’Agricoltura e i nodi del provvedimento – trasporto, collocamento pubblico e accoglienza dei lavoratori – restano ancora da attuare. “Un ritardo che abbiamo fatto presente più volte alla direzione provinciale dell’Inps, che dovrebbe convocare da tempo la sezione territoriale per il Lavoro agricolo di qualità prevista dalla legge”, spiega Stefano Morea della Flai-Cgil Frosinone-Latina.
Una questione spinosa che ieri una delegazione di braccianti e sindacalisti ha portato al prefetto di Latina, che ha fissato la convocazione per il prossimo 30 ottobre. Su questi nodi la Regione Lazio sembra muoversi più in fretta. Per far fronte alla piaga del caporalato, la Regione ha infatti siglato a gennaio 2019 un protocollo d’intesa “Per un lavoro di qualità in agricoltura” con le organizzazioni sindacali e datoriali. I punti cardine sono il trasporto gratuito per i braccianti con contratto e l’incontro di domanda e offerta. Questo dovrebbe essere garantito dall’apertura di nuovi centri per l’impiego nella provincia di Latina e dall’app Fair Labor, dove tramite un cellulare il lavoratore che cerca un lavoro può iscriversi agli elenchi di prenotazioni digitalizzati.
“Come Regione, dobbiamo andare oltre anche quello che è il nostro ambito di interesse. Ci sono sussidi alle aziende preziosi, come il Psr (piano sviluppo rurale, ndr), ma questi progetti non possono andare disgiunti dalla questione dell’etica del lavoro”, dichiara Daniele Ognibene, consigliere regionale LeU.
“La nostra paga oraria si aggira intorno ai 4 euro per 10-12 ore al giorno. Non conosciamo domeniche, né riposi settimanali. Siamo venuti in Italia per diventare schiavi, ma noi è qui che vorremmo restare”, sorride nervoso Aalok Singh abbracciando una bandiera.