“A Milano si investe in tangenti. Molti evasori nella moda”

La corruzione, l’evasione fiscale. Sono due dei campi d’azione della Procura di Milano a cui il procuratore della Repubblica, Francesco Greco, ha dedicato più attenzione nel presentare il “bilancio sociale” 2018. Ci sono, naturalmente, anche gli altri reati (“Il 99,9 per cento dei ladri di appartamento sono bianchi”, ha detto Greco, “a volte si ha un’idea un po’ strana del colore della pelle in relazione alla criminalità”). Ma ai reati dei colletti bianchi, il procuratore ha dedicato parole decise: “A Milano siamo pieni di procedimenti per corruzione internazionale e vediamo gli effetti negativi, sia nei confronti degli Stati vittime, sia nei confronti delle nostre imprese, che invece di investire in innovazione, investono in tangenti” (sono corso a Milano, a carico di Eni, un processo per corruzione in Nigeria e un’inchiesta per corruzione in Congo). Sui reati di natura tributaria, Greco ha chiamato “Modello Milano” quell’integrazione tra Procura, Guardia di finanza, Agenzia delle entrate e Agenzia delle dogane che ha permesso di recuperare negli ultimi anni 5,6 miliardi di euro da società i grandi dimensioni: sono circa 4,4 miliardi a cui vanno aggiunti altri 1,25 miliardi che Kering-Gucci si è impegnata a versare al termine di un’attività ispettiva.

Dal settore della moda proviene il 35 per cento delle cifre evase e recuperate (da aziende come Prada, Armani, Gucci, Loro Piana); il 26 per cento dal settore siderurgico (Riva, Ilva); il 16 per cento da imprese dell’economia digitale (Google, Facebook, Apple, Amazon, Paypal); il 10 per cento dal settore finanziario (Ubs, Credito Svizzero). Le violazioni più frequenti sono la “stabile organizzazione occulta” (43 per cento del totale, per circa 2,4 miliardi di euro), i reati economico-tributari (27 per cento) e la esterovestizione, cioè la fittizia localizzazione all’estero, per godere di un regime fiscale più vantaggioso, di aziende o persone che operano in Italia (18 per cento). Il “Modello Milano”, secondo Greco, ha permesso di intervenire in maniera efficace sulle mega-evasioni dei grandi gruppi italiani e stranieri. Ma anche di accelerare i processi penali derivanti da verifiche fiscali nei confronti di aziende o soggetti di piccole e medie dimensioni.

La collaborazione con Guardia di finanza e Agenzia delle entrate ha premesso alla Procura di Milano, anche grazie a una rinnovata organizzazione del lavoro, di portare a giudizio migliaia di procedimenti. Greco sottolinea che i risultati nella lotta all’evasione derivano non solo dalla repressione, ma anche dalla diffusione “di una cultura che indirizzi i soggetti verso una maggiore fedeltà fiscale”. Utile, secondo il procuratore, è stata la voluntary disclosure che dal 2015 ha incentivato la collaborazione volontaria di chi deteneva capitali all’estero e ha potuto regolarizzarli, dichiarandoli al fisco. Questo ha permesso di fare emergere quasi 60 miliardi di euro a livello nazionale, di cui il 45 per cento a Milano e in Lombardia, con un gettito fiscale di 3,8 miliardi, di cui 1,8 in Lombardia. Ma l’operazione voluntary disclosure (che non era anonima) ha anche permesso “di raccogliere una mole imponente di dati su attività finanziarie che in precedenza rimanevano occulte”.

Secondo il procuratore, “la Lombardia è storicamente un territorio caratterizzato da alti livelli di evasione fiscale, sia per ragioni di reddito, sia per la natura del tessuto imprenditoriale locale, con tante piccole imprese e professionisti”. Il “Modello Milano” è collaborazione tra Procura, Fiamme gialle, fisco e dogane, ma è anche “un grande sforzo di sensibilizzazione, attraverso il dialogo costante con il mondo dell’impresa e con la serietà e la coerenza con cui sono state gestite alcune fasi dei procedimenti, per esempio i patteggiamenti”, concessi alle aziende che accettavano di collaborare con la Procura e di trattare con il fisco.

 

I NUMERI
5,6 miliardi di euro di evasione fiscale recuperati negli ultimi anni dalla Procura di Milano
35% recuperati da aziende della moda (tra cui Prada, Armani, Gucci, Loro Piana)
26% recuperati da grandi aziende del settore siderurgico (Riva, Ilva)
16% recuperati dall’economia digitale (Google, Facebook, Apple, Amazon, Paypal)

“Stop al contante, punibilità e caccia alle tasse non pagate”

“Abbassare le soglie del contante è un segnale importante per chi ha già remore nell’utilizzo delle banconote ed è più esposto ai controlli dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza, ma influisce poco sui meccanismi della grande evasione sistematica e organizzata che teme molto più invece l’allargamento del raggio d’azione del sistema sanzionatorio penale”. Fabio Di Vizio ha una lunga esperienza alle spalle nel contrasto alla criminalità economica e finanziaria. Sostituto procuratore a Firenze, è stato componente del Comitato degli esperti dell’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia e ha condotto indagini transnazionali su riciclaggio, abusivismo bancario e finanziario, bancarotta, usura, violazioni fiscali e reati contro la pubblica amministrazione.

Il governo punta a recuperare una bella fetta di evasione fiscale puntando molto su una maggiore tracciabilità dei flussi finanziari e un abbassamento delle soglie oltre il quale scatta il penale. Funzionerà?

Abbassare le soglie del contante non è senza significato, a patto che le misure siano articolate su più piani d’intervento e che facciano parte di una manovra organica e non dettate solo dalla necessità contingente di fare cassa.

La maggioranza si divide sull’abbassamento da 3 mila a 2 mila euro del tetto oltre il quale non è consentita una transazione in contanti.

L’attenzione alla quantità di contante in circolazione è utile se accompagnata dal potenziamento della tracciabilità dei flussi di denaro, abbiamo avuto in passato soglie molto basse e un’evasione sempre molto elevata ed è una misura più anti-evasiva in settori che sfuggono più facilmente ai controlli come il commercio e i servizi, che un provvedimento contro la criminalità e i grandi gruppi, che utilizzano l’elusione, la falsificazione dei bilanci e raffinati schermi societari per coprire i flussi finanziari.

Siamo ancora lontani da soluzioni?

Sono persuaso che l’abbassamento delle soglie sanzionatorie oltre le quali scatta il penale sia sicuramente più temuto, a maggior ragione se dal 1° gennaio 2020 avremo l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado; la riforma Monti estese la durata della validità del procedimento e prolungò di due anni i termini di prescrizione per la gran parte dei reati tributari. Poi la riforma Renzi ha innalzato le soglie. Siamo in attesa di una riforma vera, che mi pare questo governo ha annunciato. Vedremo.

Da destra e anche qualcuno da sinistra obietta che incarcerare gli evasori, perlomeno quelli più grossi, è eccessivo.

È una questione di cultura del diritto. La maggior parte dell’evasione viene dalla gente che dichiara e non versa; la sottrazione fraudolenta del patrimonio a garanzia del pagamento delle imposte è punita come l’emissione di una fattura per operazione inesistente, ma è più grave. Il credito dell’Erario è percepito come se appartenesse allo Stato vessatorio e non allo Stato comunità e il sistema si adegua, rendendo impossibile che il fisco possa andare a prendere quei soldi; l’evasione da versamenti si spiega solo così, l’esigibilità del credito è importante, ma non la vedo nei processi di riforma.

Si sperimentano sistemi di pagamento “social” come Libra e WhatsApp Pay mentre il mercato delle cripto-valute si espande: non si arriva sempre in ritardo?

Sono fenomeni che vanno intercettati, c’è una diffusione di questi strumenti anche in relazione a episodi delittuosi, come ci dice la Direzione nazionale antimafia e stiamo aspettando l’attuazione della quinta direttiva dell’Unione europea sull’antiriciclaggio. I problemi ci sono. Ad esempio, l’operazione di cambio tra cripto valute è esente da Iva e non è così ben definita, anche qui serve un intervento del legislatore e gli spostamenti di moneta virtuale non hanno confini: di fatto si può entrare in una piattaforma italiana e uscire tranquillamente da una in Cambogia senza che nessuno se ne accorga. Se poi dovessero diventare operativi nuovi mezzi di pagamento come Libra, sarebbe una rivoluzione copernicana: la velocità delle operazioni metterà in difficoltà qualsiasi tracciabilità delle transazioni e ogni battaglia attuale contro evasione e riciclaggio diventerà di retroguardia

“Luigi ho letto cose brutte”. “Giuseppe non ci siamo capiti”

Il presidente del Consiglio che dentro i Palazzi sente strane voci su altri premier incontra i partiti per delegazione separate, come se fosse un altro presidente, quello che sta al Quirinale. Invece Luigi Di Maio no, lo convoca da solo, di mattina, nel suo studio a Palazzo Chigi. Perché il capo dei Cinque Stelle è un’altra cosa, è l’avversario che Giuseppe Conte non si aspettava, o meglio non se lo attendeva così, apertamente ostile. Ergo, è il nemico a cui dopo un fine settimana di guerra deve dire di abbassare le armi, prima che sia già troppo tardi. A questo serve l’incontro di circa un’ora e mezza. E in qualche modo funziona, perché tra Conte e Di Maio arriva la tregua: armata, figlia della necessità di governo. Qualcosa di diverso dalla pace. “Tutto abbastanza tranquillo” dirà poi il ministro al suo ristretto giro. Sintesi per un confronto non così tranquillo e non così liscio. Perché Conte all’inizio guarda negli occhi con severità il suo giovane ministro, come farebbe un professore con uno studente troppo vivace.

Non ha gradito certi toni e certe parole nel duello sulle misure anti-evasione, ovvero sull’abbassamento della soglia per il contante e le multe per chi non accetti pagamenti elettronici. Norme che per il premier erano pilastri e per Di Maio proprio no, al contrario “misure che criminalizzano” piccoli commercianti e artigiani. “Luigi, ho visto sui giornali troppi retroscena contro di me, pieni di accuse” si lamenta (in sostanza) il presidente del Consiglio. E l’appunto al capo del Movimento è chiara, quella di aver ordinato una contraerea in via mediatica. Ma Di Maio non mette la gamba, tenta di smussare: “Diciamo che non ci siamo capiti, ci sono state incomprensioni presidente, ma io non ho ispirato alcun retroscena”. Non dice ciò che pensa, il ministro, ossia che la stilettata di Conte di sabato da Perugia, quella sui grillini che “all’inizio gridavano onestà onestà” è stato un colpo sotto la cintura. Non è questo il momento dello scontro, ha deciso Di Maio.

Lo aveva assicurato a qualche big anche prima di iniziare il colloquio: “Riproporrò a Conte le nostre richieste sulla manovra, tutto qui”. E su quello insiste, strappando molto di quanto chiede, a cominciare da una frenata sulle sanzioni per chi non si sia dotato di Pos. Prima, promette il premier, arriverà l’abbassamento delle commissioni bancarie. Però si parla anche di politica, di alleati, cioè di Pd e di Renzi. E Conte e Di Maio arrivano alla conclusione che non c’è altra scelta: “bisogna fare asse” per reggere, per far sì che il governo giallorosso resti a galla. Qualche ora dopo si rivedono nell’incontro tra il premier e la delegazione dei Cinque Stelle, con Di Maio accompagnato dai ministri Federico D’Incà (Rapporti con il Parlamento) e Stefano Patuanelli (Mise), dal sottosegretario Riccardo Fraccaro e dalla viceministra all’Economia Laura Castelli. Circa un’ora di colloquio con diversi sorrisi, in cui i 5Stelle chiedono innanzitutto di tenere le norme per il carcere per i grandi evasori dentro il decreto fiscale. Conte annuisce, in attesa di vedere gli altri partiti e del Consiglio dei ministri, in tarda serata. Ognuno recita sua parte per non far affondare la nave. Ma dubbi e sospetti restano sospesi come corvi sopra il patto di giornata. Perché la contesa sulle misure fiscali è stato anche un pesarsi, tra il presidente e il ministro.

Con Di Maio che ha ricordato in ogni forma a Conte che a Palazzo Chigi è arrivato grazie al Movimento, convinto che l’avvocato sia ormai schiacciato sul Pd. E il premier che ha indirettamente rinfacciato al capo dei 5Stelle la sua attuale fragilità. Non è un caso che Conte, sempre sabato, abbia invitato a farsi avanti chi “vuole restare nella squadra”. E non parlava solo ai partiti di maggioranza, si rivolgeva anche a tutti quei parlamentari del Movimento che contestano il capo. Diversi dei quali in queste ore hanno inviato messaggi al presidente: “Siamo con te”.

Di Maio lo sa benissimo, vede il lavorio dietro le quinte. E ha alzato la voce anche per ribadire internamente che il capo è lui, pure per mancanza di alternative. Però i gruppi parlamentari vanno ormai per conto proprio. In Senato, dove gli eletti del M5S hanno fatto muro quasi all’unanimità al ripristino di una parziale immunità per Arcelor Mittal, il colosso che ha rilevato l’acciaieria Ilva a Taranto. E di fatto anche alla Camera, dove oggi i deputati si vedranno in assemblea perché non riescono a eleggere un capogruppo. Troppe divisioni. Tanto più che ora ai due candidati in campo, l’attuale vice capogruppo Francesco Silvestri e Raffaele Trano, membro della commissione Finanze, potrebbe aggiungersi l’ex sottosegretario Davide Crippa. Un altro veterano che descrivono come molto arrabbiato nei confronti di Di Maio. Pesa anche questo, nella dialettica tra il leader e Conte: un punto di riferimento per tanti parlamentari del Movimento. Proprio lui, presidente sempre più terzo.

Franceschini per adesso fa il pontiere, Renzi & C. vogliono modifiche alle Camere

L’atteggiamento è diverso, ma l’obiettivo è lo stesso per Pd e Italia Viva: chiudere gli incontri con Giuseppe Conte (e poi il vertice di maggioranza, dove erano presenti anche Federico Fornaro e Maria Cecilia Guerra di Leu) tenendo fermi i propri paletti, ma senza strappare. Lasciandosi però una serie di fronti aperti, dalla soluzione incognita. Prima di tutto, il carcere agli evasori. Fonti del nuovo partito di Renzi ci tengono a dire che del tema nell’incontro di Teresa Bellanova e Luigi Marattin con il premier non si è proprio parlato. Però, i renziani sono contro allo strumento del decreto in materia e proprio su inserire nel dl fiscale stanno discutendo Pd e M5S. Tanto è vero che nel successivo vertice tra le delegazioni, il muro è venuto fuori. Soluzione rimandata, scontro finale pure.

“L’incontrocon Conte è andato molto bene. L’impianto della manovra va difeso”, fanno sapere i Dem subito dopo l’incontro della delegazione (composta da Dario Franceschini e Antonio Misiani) con il premier. D’altra parte, a ricevere il Pd c’è il “loro” ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Tanto più che la linea scelta da Nicola Zingaretti è quella di difendere l’esecutivo fino alla fine, a meno che non diventi del tutto evidente che non si può andare avanti. Cosa che in realtà il segretario dem ha detto a Conte e che molti nel partito pensano. Ma questo non vuol dire in nessun modo intestarsi la rottura. Anche se l’impressione al Nazareno è che procedere con un vertice di maggioranza dopo l’altro sia il segnale di una situazione non è del tutto recuperabile.

In attesa di capire dove si andrà a parare, il Pd ha avanzato le sue proposte, a partire dal reintegro del fondo Imu-Tasi (che chiedono i Comuni), il taglio delle commissioni bancarie sui Pos e lo stop alle comunicazioni trimestrali Iva. Da vedere come tutto questo sarà declinato. Pesano intanto i rapporti tesi e la sfiducia nei confronti del neonato partito di Renzi. Anche se in questa fase, Franceschini si è intestato il ruolo di pontiere, di quello che cerca di evitare scontri: è tanto vero che ieri pomeriggio ha incontrato a Palazzo Chigi Luigi Di Maio sbloccando l’impasse sulle norme anti-evasori.

I renziani hanno iniziato a indicare il ministro della Cultura come possibile sostituto di Conte. Le ambizioni del capo delegazione dem sono note pure nel suo partito e c’è un fatto che accredita quanto meno la volontà di essere determinante negli equilibri della maggioranza: Franceschini ha scelto come consigliere per i Rapporti col Parlamento (casella inedita per uno che sarebbe titolare del Mibact) Paolo Aquilanti, oggi consigliere di Stato, già capo dei Rapporti del Parlamento con Maria Elena Boschi e segretario generale di Palazzo Chigi con Matteo Renzi. Il capo delegazione Dem da sempre ci tiene a tessere rapporti con tutti.

Per quel che riguarda la manovra, Italia Viva si è ritagliata il ruolo di guastatore: “ Sono gli altri, soprattutto Di Maio e Conte, a litigare in maniera furibonda: noi siamo tranquilli e fuori da tutto”, dicono loro. Peraltro, ieri nell’ultima bozza della manovra sono spuntati 30 milioni per l’Innovazione in Agricoltura: un modo per cercare di andare incontro alle lamentele di Teresa Bellanova, che aveva detto più volte che il suo era il più penalizzato tra i ministeri. La realtà è che sulla scia di quanto affermato nel weekend alla Leopolda, Luigi Marattin e Bellanova hanno presentato a Conte una soluzione sulla Sugar tax, sulle partite Iva, ma anche sulla casa per evitare l’aumento dell’aliquota della cedolare secca.

Se non le accolgono oggi, le accoglieranno in Parlamento: “Su quota 100 – aggiungono da Iv – presenteremo un emendamento che sarà respinto in aula, ma che noi depositeremo lo stesso”. Tutto spostato alle Camere, insomma, che verrà considerato una specie di tribuna elettorale.

Evasione: carcere, confische e responsabilità delle società

L’inferno, si sa, è lastricato di “salvo intese”. E salvo che non ci sia sfuggito qualcosa, a una settimana dalla loro approvazione “salvo intese”, ancora non si vedono né il decreto fiscale, né la legge di Bilancio: volgarmente, la manovra economica per il 2020 è ancora in stato di bozza. Ieri Giuseppe Conte e il ministro del Tesoro Gualtieri si sono sottoposti a un ciclo di incontri coi singoli partiti per ascoltarne idee e richieste: s’è raggiunto qualche accordo di massima, politico si dice in questi casi, ma il diavolo – il re del “salvo intese” – com’è noto vive nei dettagli e quelli non li conosce nessuno, neanche gli interessati.

Intanto, entro domani, il Tesoro troverà il modo di rispondere alla “lettera di chiarimenti” arrivata da Bruxelles su alcuni punti del progetto di bilancio inviato dall’Italia: una formalità, nessuno crede che la Ue voglia aprire una guerra sui numeri con l’Italia. Quanto al resto, questo è lo stato dell’arte sui contenuti più controversi.

Evasori. Per i 5 Stelle punirli con le manette è una questione di vita o di morte e pare che tra i giallorosé ieri si sia trovato un accordo – politico, ovviamente – sul “pacchetto Bonafede”. Problema: non è ancora chiaro quanta parte delle norme volute dal Guardasigilli, e in che forma, finirà nel decreto Fiscale e cosa diventerà invece un emendamento parlamentare. L’intervento totale è in quattro mosse: 1) si abbassano le soglie di non punibilità dell’evasione in vigore dal 2015 (Renzi le aveva portate da 50mila a 150mila euro per le ritenute, a 250mila per l’Iva, eccetera), anche se non è chiaro dove verrà fissata l’asticella; 2) la pena per dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti oggi va dai 18 mesi ai sei anni: diventerebbe da quattro a otto anni; la dichiarazione infedele sarà punita da tre a cinque invece che da uno a tre anni; la soglia di punibilità passa da 150mila a 100mila euro; risultato: se si verrà condannati, un passaggio in carcere è probabile; 3) una grossa novità è l’introduzione anche per gli evasori condannati in primo grado della confisca per sproporzione (tra tenore di vita e reddito dichiarato), finora riservata a criminalità organizzata, riciclaggio e simili; 4) ancor più dirompente l’estensione ai reati tributari della responsabilità della società e dei suoi amministratori (il cosiddetto “modello ex 231”, dal nome del dlgs che introdusse questa nuova fattispecie nel 2001). I renziani, però, restano contrarissimi.

Partite Iva. Il governo ha bloccato l’estensione del regime della tassazione forfettaria a chi guadagna tra 65mila e 100mila euro, prevista dalla legge di Bilancio dell’anno scorso; anche per chi guadagna sotto 65mila euro, però, ci sono parecchie complicazioni e una parte della platea non potrà più accedere al regime agevolato (15%). L’unica cosa su cui tutti sono d’accordo è l’esclusione di chi abbia redditi da lavoro dipendente superiori ai 30mila euro l’anno, il resto è un inferno. Le intenzioni del ministero dell’Economia sono oggettivamente autolesioniste: complicazioni per chi guadagna più di 30mila euro, complicazioni pure per chi ne guadagna meno, incremento dei costi di gestione a partire dal conto in banca dedicato. Problema: a grillini e renziani far innervosire centinaia di migliaia di partite Iva non piace, ma dietro alle norme che puntano a impedire a quanta più gente possibile di accedere ai regimi agevolati (flat tax) ci sono gli incassi extra per l’erario stimati in 250 milioni nel 2020, quasi 2 miliardi nel 2021 e 1,4 miliardi l’anno a regime. Una rinuncia non indolore per una manovra poco solida.

Contante. Anche qui grillini e renziani mugugnano. La bozza datata ieri del decreto fiscale ancora prevedeva l’abbassamento della soglia per i pagamenti cash da tremila a duemila euro nel 2020 e 2021 per passare a mille euro (com’era fino al 2015). Un provvedimento che, insieme all’incentivazione della moneta elettronica, ha come primo effetto quello di regalare un aumento esponenziale delle commissioni alle banche. Conte ieri s’è impegnato ad accelerare gli accordi con gli istituti per abbassare i costi delle transazioni e, in cambio, ha spostato di sei mesi il primo gradino: la soglia passerà a 2mila euro solo a luglio 2020.

Web Tax. Donald Trump ha detto chiaramente che non vuole che l’Italia approvi la tassa del 3% sui ricavi delle multinazionali del digitale: non si sa se si tratta di un segnale agli Usa, ma la norma è sparita dal decreto fiscale e finirà nel ddl Bilancio (difficile rinunciare, però, visto che vale 600 milioni di incassi).

Il caso Mattei

Fra le analogie che accomunano i due Mattei, ce n’è una che li accomuna a B.: ne hanno fatte troppe perché la gente se le ricordi tutte. E, visto che è impossibile ricordarle tutte, non ne ricorda nemmeno una, aiutata dai giornaloni che han ripreso a pompare il Cazzaro Verde e il Cazzaro Rosa come salvatori della patria. Due casi esemplari. Partiamo dal Matteo minor. A parte le mirabolanti imprese degli specchiati genitori e le visite alla Leopolda di gentiluomini tipo Lele Mora, dovrebbe dire qualcosina sull’Air Force Renzi. Che marcisce in un hangar dopo che Etihad l’aveva comprato dalla società-fantasma Uthl per 6 milioni e l’Alitalia l’aveva preso in leasing per ben 168 (spendendo, per affittarlo, 26 volte il prezzo d’acquisto). Ecco: Renzi può spiegare i dettagli di quell’affarone, capolavoro ineguagliabile di buona amministrazione? E qualcuno dei suoi fortunati intervistatori glielo può gentilmente domandare?

E ora il Matteo maior. L’altro giorno finisce a Regina Coeli il celebre Casimiro Lieto, autore della Isoardi, il cui allora fidanzato Salvini lo voleva addirittura direttore di Rai1: è accusato di corruzione giudiziaria per aver promesso un posto di lavoro al figlio del giudice che doveva aggiustargli la sentenza su un accertamento fiscale di 230 mila euro. La storia fa il paio con quella di Siri, Arata e Savoini. Il primo è indagato per corruzione da parte del secondo. Il secondo lo è pure in quanto socio occulto di Nicastri (appena condannato a 9 anni per mafia per i suoi legami con Messina Denaro). Il terzo lo è per corruzione internazionale per la mazzettona da 65 milioni di dollari chiesta all’hotel Metropol di Mosca. Grazie a Salvini, Siri era sottosegretario ai Trasporti; Arata doveva diventare presidente dell’authority dell’energia e il figlio stava a Palazzo Chigi accanto a Giorgetti; Savoini era membro ufficiale della delegazione di Salvini nel bilaterale di un anno fa con l’omologo ministro dell’Interno russo. Ora, il Cazzaro Verde è perseguitato dalla sfiga o non riesce proprio a nominare una persona perbene? E, visto che ogni giorno rilascia due o tre interviste, cosa impedisce ai valorosi colleghi di domandargli di questo suo fiuto da rabdomante nel selezionare sempre il peggio? I due Mattei intimano quotidianamente alla Raggi, pericolosa incensurata, di dimettersi da sindaca di Roma (ieri il trust di cervelli Gasparri-Schifani strillava contro Rai1 che osa financo intervistarla senza chiedere il permesso). E lasciano intendere di avere pronto il salvatore della Capitale. Che, visti i precedenti dei due Mattei, potrebbe presto rimpiangere i Lanzichenecchi.

Malagò e Miccichè al passo d’addio

E fu così che il Commissario finì per essere commissariato. Nel baraccone del calcio italico gli imbrogli sono ormai all’ordine del giorno; e ora che la notizia dell’inchiesta aperta sull’elezione di Miccichè a presidente di Lega, avvenuta come pare nella più totale illegalità, è diventata ufficiale, lo scenario più probabile appare il seguente: Giovanni Malagò, il presidente del Coni che il giorno dell’elezione (19/05/18) vestiva i panni di Commissario della Lega, rischia il commissariamento del Coni e la perdita della poltrona su cui siede da sei anni; Gaetano Miccichè, presidente di Lega, rischia di essere dichiarato decaduto (o di recitare la parte dell’offeso giocando d’anticipo e dimettendosi); e in quanto ad Andrea Agnelli, presidente Juventus, e a Mauro Baldissoni, vice presidente Roma, sul loro capo pende la spada di Damocle di una squalifica.

Il tarocco della nomina di Miccichè porta in bella evidenza anche la loro firma. Come forse non tutti sanno Miccichè, proposto ai club da Malagò, era ed è ancora presidente di quella Banca Imi che ha come debitori molti presidenti ed era ed è ancora membro del cda di RCS (leggi Urbano Cairo, presidente del Torino). Essendo il conflitto di interessi di evidenza lampante, a norma di statuto avrebbe dovuto essere eletto non a maggioranza ma all’unanimità. Cosa successe invece?

Successe che Agnelli, con la benedizione di Malagò, ne propose l’elezione non a scrutinio segreto (come previsto dallo statuto) ma per acclamazione; la manovra venne sventata dai garanti Mastrandrea e Simonelli che richiamarono tutti al rispetto delle regole; venne quindi effettuato il voto segreto al termine del quale, come da verbale dell’assemblea, Baldissoni rilanciò la proposta di elezione per acclamazione; molti si dissero d’accordo e Malagò, che dell’assemblea era presidente, dichiarò eletto Miccichè e ordinò che i voti non fossero scrutinati ma sigillati in un plico e chiusi a doppia mandata nella cassaforte della Lega. Un vero e proprio scasso delle regole. Ebbene. Sia pure fuori tempo massimo, i peones della serie A che non si riconoscono nella banda che fa capo ad Agnelli–Cairo–Baldissoni (leggi la cricca Lotito–Preziosi & company) ha denunciato alla Procura Figc l’irregolarità; a farlo è stato il presidente del Genoa Preziosi che sarà il primo ad essere interrogato da Pecoraro (dopo di lui toccherà a Malagò).

Domanda: secondo voi che nome aveva scritto Preziosi sul suo foglietto nel segreto dell’urna? Noi escluderemmo Miccichè. E in ogni caso, un solo biglietto senza quel nome avrebbe reso impossibile la nomina del sodale di Cairo a presidente. Pecoraro ha chiesto di ascoltare i file audio dell’assemblea–truffa e farà, alla fine, quel che Malagò si è rifiutato di fare in sede di votazione, chiederà di togliere il sigillo al plico dei voti e li andrà a leggere: per vedere se il nome di Miccichè figuri su tutti e 20 i biglietti. Non fosse così, il castello di sabbia crollerebbe miseramente. Oggi i presidenti si riuniscono in assemblea per decidere se accettare o meno la ricca offerta di Mediapro per i diritti tv del triennio 2021-2024, che poi è il vero motivo del contendere. Sarà guerra senza esclusione di colpi tra i filo–Sky (Agnelli) e i filo–Mediapro (Lotito). Col golpe–Miccichè, il coltello dalla parte del manico sembrano averlo ora i peones. Chi vivrà vedrà.

Cure psichiatriche: il manicomio piace alla Lega di Salvini

Ci sono immagini talmente potenti che ti entrano dentro per non uscirne più, come il cumulo di scarpe abbandonate, spaiate, senza lacci, rosicate dai topi, che hanno indossato le donne, gli uomini e i bambini che sono stati rinchiusi nel “Santa Maria Maddalena”, il primo e più grande manicomio del Sud. Un’immagine che ha spinto il ricercatore, Antonio Esposito, a scrivere Le scarpe dei matti (Ad est dell’equatore), interessante e corposo libro che ripercorre la storia della psichiatria e della follia in Italia, ovvero le “Pratiche discorsive, normative e dispositivi psichiatrici in Italia (1904–2019)” come precisa il sottotitolo del libro. Un lavoro che nasce dalla ricerca, promossa dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, sui 40 anni della legge Basaglia.

Un libro che coinvolge con la forza della narrativa senza rinunciare al rigore scientifico. Si parte dalle previsioni di internamento dei “pericolosi e di pubblico scandalo” contenute nella legge del 1904 al superamento dei manicomi determinato dalla 180 del 1978, passando attraverso le esperienze di psichiatria critica e l’utopia della realtà basagliana, fino all’attuale organizzazione dei servizi psichiatrici territoriali. Esposito approfondisce la spinosa questione del Tso (Trattamento Sanitario Obbligatorio) e pone domande sulla persistenza di pratiche come l’elettroshock e la contenzione; o sul superamento degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) e le Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). Per l’autore, lo smantellamento progressivo del welfare ripropone, anche nel discorso pubblico, il fascino del manicomio. “Basti pensare – spiega l’autore – che la senatrice leghista Raffaella Marin ha presentato un disegno legge che punta a creare nuove strutture con più di 30 posti letto per Tso protratti. In pratica nuovi manicomi”.

Per Salvini, del resto, è in atto una “esplosione di aggressioni” da parte di “pazienti psichiatrici”. Durissima la reazione su Facebook della Società italiana di psichiatria: “Una notizia senza fondamento, il 95% dei reati violenti commessi nel nostro Paese è attribuibile a persone cosiddette ‘normali’. È più probabile che una persona che soffre un disturbo mentale sia vittima, non carnefice”.

L’autore mette in guardia sui rischi del taglio dei servizi, del personale, dei luoghi pubblici di cura. Il risultato è il silenziamento farmacologico dei sintomi, un’assistenza quotidiana a carico solo dei familiari. Se è importante denunciare la scarsità di fondi per la salute mentale, soprattutto al Sud, per Esposito è necessario indagare anche come si utilizzano le risorse. “Bisogna ritornare – conclude l’autore – alla dimensione pienamente politica della salute mentale. La chiusura dei manicomi è stata una vera e propria rivoluzione, una delle più importanti riforme operate in questo Paese. Ma è ancora lungo il cammino che le scarpe dei matti devono fare per realizzare il pieno riconoscimento dei diritti di cura e cittadinanza del sofferente psichico”.

Laurea da influencer: tutta teoria e retta salata. Silenzio al ministero

Che saranno mai 3.900 euro all’anno, tanto ammonta la retta, se poi c’è la possibilità di diventare nientemeno che un potentissimo influencer, uno di quelli che, semplicemente cambiandosi d’abito su Instagram, è in grado di guadagnare milioni di euro? A promettere questa fulgida carriera arriva un vero e proprio corso di laurea dell’Università telematica eCampus, che assegna proprio il titolo di laurea in Influencer. L’ateneo spiega che il nuovo percorso fornisce le competenze per affrontare “il nuovo marketing, quello social, ‘influenzale’” andando a colmare “il vuoto formativo attuale”, anche per evitare “mancanza di rigore e utilizzo di cattive pratiche che penalizzano chi aspira al ruolo di influencer”. L’idea, che ha scatenato varie polemiche – oltre a spingere il Codacons a chiedere al Ministero dell’Istruzione di capire se questo corso di laurea sia davvero tale – non è in realtà nuova, visto che già l’Università Autonoma di Madrid aveva lanciato l’anno scorso un corso in Intelligence Influencers: Fashion and Beauty. E proprio qui sta il punto. Ammesso che abbia senso una laurea per diventare “influenzatore” – d’altronde in Italia esiste la laurea in Verde ornamentale, Tropical rural development, Scienze dell’Allevamento, Igiene e Benessere del Cane e del Gatto, comunque infinitamente più sensate – e ammesso che il successo dei più noti influencer venuti dal nulla derivi da preparazione e correttezza e non dal contrario (vedi l’abuso di marchette nascoste), ci si aspetterebbe almeno che il corso portasse dritto all’obiettivo.

E infatti all’università madrilena si apprende soprattutto a ottimizzare il proprio blog e la pagina Instagram, a creare il proprio personal branding, a difendersi da troll e hater; così come si impara a pensare in maniera creativa, evitare di diffondere stereotipi, fare foto e video per renderli commerciali e artistici, produrre contenuti editoriali, fare storytelling; infine gestire la propria reputazione online, monetizzare i propri contenuti e molte altre cose altre cose concrete.

Invece cosa troviamo nel corso dell’ateneo, sponsorizzato da Cristiano Ronaldo? Esami come Semiotica e filosofia dei linguaggi, Sociologia dei processi economici, Etica della comunicazione, Organizzazione di eventi e ufficio stampa: un minestrone psico–socio–giuridico che tanto assomiglia, infatti, ad altri corsi della stessa Facoltà, Scienze della Comunicazione (messa tra l’altro, chissà perché, dentro Giurisprudenza, come d’altronde Biologia è inserita in quella di Psicologia).

Il tutto però venduto come il percorso per diventare influencer di successo (e alto reddito). Insomma, c’è di che dubitarne e anzi, è probabile che si imparerebbe più marketing a studiare, piuttosto, come l’università eCampus (finanziata da una Fondazione presieduta dal fondatore del CEPU e Grandi Scuole) vende i corsi ai suoi iscritti. Anzi, meglio non dirlo. Non sia mai che il prossimo anno arrivi un corso di laurea, a pagamento, per “diventare esperto di marketing lavorando per noi”. Con il sonno del Miur, tutto è possibile.

Lo show politico fa audience, ma il dibattito decade a fiction

Crisi di governo ma non di ascolti quest’estate. In pieno agosto, l’audience delle dirette tv e la partecipazione social rispetto a quanto stava accadendo sia nei palazzi che fuori testimoniano che il dibattito politico, in piena estate è riuscito a guadagnare un pubblico più ampio di quello tradizionalmente attento a questi temi; un pubblico che, non tanto nella politica, quanto nello spettacolo della politica, ha trovato un motivo di attrazione. La politica infatti in questo frangente ha ampliato la sua tradizionale platea guadagnando un pubblico che, nel racconto di quanto si stava dipanando sotto i propri occhi, ha riconosciuto un linguaggio familiare. È il linguaggio della fiction che riprende gli stilemi tipici della narrazione seriale, ovvero del racconto a puntate, costruito per tenere lo spettatore incollato alla storia, in attesa di sapere come va a finire.

Due gli ingredienti fondamentali della politica fiction: in primo luogo una trama piena di colpi di scena ed eventi “decisivi”, come lo sono gli scontri al vertice tra fazioni o, ancora di più, gli scontri personali, i duelli. In secondo luogo personaggi con identità fortemente connotate (il buono, il cattivo, l’anziano capo, il giovane rampante…) e con una propria causa per cui combattere in cui lo spettatore possa trovare motivi di identificazione. In questo senso, quanto accaduto quest’estate ci fornisce esempi più che calzanti: l’accordo tra i due giovani “rivoluzionari” Salvini e Di Maio, che in Conte vedeva il “garante”, che si rompe; lo strappo di Salvini e lo scontro diretto con Conte; il ritorno in scena di Renzi che coglie l’occasione per diventare di nuovo protagonista e la conseguente rivalsa di Di Maio, tutto questo agito in prima persona dagli stessi protagonisti. Non ultima la sorpresa della scissione di Renzi. In questa crisi infatti un ruolo centrale, non solo politicamente, lo ha avuto il Parlamento che nelle varie fasi del dibattito, seguite in diretta tv, ha offerto una ribalta ideale per poter assistere sia alle dichiarazioni dei leader che alle reazioni degli avversari, permettendo così il consolidamento delle identità dei personaggi nell’immaginario collettivo. Il discorso di Conte e la replica di Salvini in questo senso hanno rappresentato un momento topico nella narrazione che, per il pubblico che vi ha assistito, è diventato preludio e giustificazione del cambio di equilibri successivamente verificatosi.

Nella fiction infatti, quando diventa serie, ovvero dispiegandosi sul lungo periodo, può accadere che la coerenza sia sacrificata sull’altare della trama. Per creare un motivo di interesse alla storia può capitare ad esempio che due personaggi, fino a qualche puntata prima acerrimi nemici, da un momento all’altro possano diventare i migliori alleati. Da un punto di vista strutturale il colpo di scena serve a mantenere la tensione narrativa e a non far calare l’attenzione del pubblico. Questa logica, nella soap opera, che della fiction è l’antesignana, può arrivare anche ad estreme conseguenze: reiterare ad esempio un matrimonio (quante volte si sarà sposata Brooke?) o addirittura resuscitare morti senza che ciò crei nel pubblico dubbi di credibilità o coerenza della storia.

Ritornando pertanto alla situazione vissuta quest’estate, la velocità e la “astoricità” di una politica sempre più schiacciata sul presente sono elementi non estranei ad un pubblico che ha introiettato questi meccanismi narrativi e che quindi non vive in maniera problematica l’incoerenza o la velocità dei cambi di posizione cui abbiamo assistito. In questa chiave è facile accettare il repentino cambio di segno del governo o, per arrivare ad una più stretta attualità, il nuovo ruolo di Renzi che si può immaginare inaugurerà un nuovo capitolo della saga, essendo passato nel giro di pochi mesi ad essere da acerrimo nemico a promotore di un accordo di governo tra il PD e il Movimento 5 Stelle a leader di una nuova formazione politica nata in antitesi al PD.

Chi da tutto ciò trarrà vantaggio in termini di consenso nel momento in cui si tratterà di andare al voto non è ancora chiaro. È da registrare però un allargamento della platea degli interessati a questo “spettacolo”. Dal dibattito–fiction si sentono emarginati coloro che cercano nella politica una comunicazione di contenuti; mentre sempre più sono attratti coloro che hanno dimestichezza con queste dinamiche narrative, funzionali ad un sistema non solo politico ma economico e sociale nuovo, che nei social e nella velocità di comunicazione ha un ideale strumento di affermazione.

Per i politici dei tempi nuovi pertanto trovare il modo di imporsi in questo scenario da fiction rimane e, sia che lo si contesti sia che lo si cavalchi, sarà sempre più difficile, per chi intende candidarsi a raccogliere il consenso, prescindere dal tema del racconto di sé e della propria “causa”, che vorrà dire sempre di più utilizzare la prima persona nella comunicazione, pena l’invisibilità e quindi l’irrilevanza.

*Responsabile Team Analisi Politiche dell’Istituto Noto Sondaggi