La formula anti-crisi degli eventi a 4 ruote?

Il Tokyo Auto Show che sta per iniziare sarà come un grande luna park, dove passi senza respiro da un’attrazione a un’altra come fanno i bambini. Anche chi lo visiterà per lavoro, faticherà a mantenere la concentrazione sui nuovi prodotti senza perdersi con la fantasia. Magari quest’anno con la coscienza più leggera vista l’annunciata autoreferenzialità verso il mercato domestico, che a noi europei interessa il giusto. Il che dovrebbe lasciare un po’ più di spazio proprio a quella dimensione ludica che ogni kermesse dell’auto dovrebbe avere. Largo dunque all’high-tech, alle macchine volanti, alle corse dei droni, a quelle dimostrazioni di drifting che ai giaponesi piacciono tanto, ai robot umanoidi che giocano a basket.

Chissà che non stia proprio nel tech-show la formula anti-crisi per i saloni dell’auto. Del resto, dopo lo spostamento di Detroit in giugno per la concorrenza spietata del Ces di Las Vegas e il mezzo fiasco di Francoforte, qualcosa ci si deve inventare. Lo sanno bene anche i giapponesi, che nelle ultime edizioni hanno sofferto un calo delle presenze al Big Sight, passando dai 902.000 visitatori del 2013 ai 771.000 dell’ultima edizione, quella di due anni fa. L’obiettivo di raggiungere quota un milione, complice il traino delle prossime Olimpiadi, rimane dunque proibitivo. Lo sa anche il numero uno di Toyota e dell’associazione giaponese dei costruttori (Jama): “Se non cambia la sua impostazione, il nostro Motor Show continuerà a contrarsi”.

Anche coi bimbi in auto non si rinuncia al cellulare

Con l’arrivo dei figli niente sarà più come prima: né lo stile di vita né le abitudini. Cambierà tutto, persino come si guida. A confermarlo è uno studio effettuato dall’Osservatorio di ConTe.it, il sito per la vendita di polizze auto e moto: la ricerca ha voluto indagare in che modo la presenza di bambini influenzi le scelte relative all’auto, prendendo in considerazione un campione di residenti nelle province di Bologna, Milano, Roma, Torino e Palermo. Secondo lo studio, la presenza di bambini in auto fa venire qualche scrupolo in più a chi è alla guida, così che il 42% dichiara di osservare sempre il Codice della Strada, il 38% afferma di ridurre la velocità solita di guida, e il 25% è attento che siano allacciate tutte le cinture di sicurezza. Zoccolo duro resta però l’uso del cellulare: solo il 10%, infatti, sarebbe disposto a non utilizzarlo in presenza di minori a bordo. Un dato allarmante che fa intendere quanto non sia ancora percepita la reale pericolosità di tale abitudine, nonostante le numerose campagne di sensibilizzazione e i dati Istat sugli incidenti che, ogni anno, la mettono al primo posto tra le cause di distrazione. Restando ancora sulla sicurezza, quasi il 70% degli italiani si è detto favorevole all’introduzione dell’obbligo dei seggiolini anti-abbandono: la legge, varata nelle scorse settimane, prevede che tutti i piccoli fino a 4 anni di età viaggino sui dispositivi dotati di sensori che avvertono nel caso in cui restino da soli in auto. Il mancato acquisto dei seggiolini prevede una multa da 81 a 326 euro. Le più favorevoli all’introduzione della legge sono le donne (75%).

Il futuro passa per Tokyo. Il salone tra spettacolo e hi-tech

Dopo il Salone di Francoforte di settembre, fra le principali vetrine europee delle quattro ruote, il Giappone dell’auto risponde col Tokyo Motor Show, rassegna dove i maggiori costruttori del Sol Levante presenteranno le loro ultime novità. L’evento, che ha cadenza biennale (inizierà il 25 ottobre e durerà fino al 4 novembre), dovrà fare i conti con la fisiologica carenza di marchi stranieri, che diserteranno l’appuntamento soprattutto al fine di contenere le spese. Senza contare che i saloni automobilistici tradizionali stanno progressivamente perdendo appeal in favore di manifestazioni meno “ingessate” e costose.

Pertanto, gli organizzatori del Salone di Tokyo, guidati da Akio Toyoda – presidente della Toyota, il primo costruttore del Paese – stanno facendo il possibile per attirare il pubblico e mantenere alto l’interesse sulla fiera: il loro obiettivo è innovarne l’organigramma, coinvolgendo pure aree esterne e includendo test-drive, spettacoli musicali e competizioni di e-sport, ovvero gare di videogiochi.

Per Toyota, poi, la kermesse in questione sarà un antipasto di ciò che vedremo alle Olimpiadi di Tokyo del 2020, quando il costruttore è pronto a stupire il mondo con i suoi ritrovati in termini di robotica ed elettrificazione della mobilità, ideati per amplificare lo spettacolo e supportare atleti e pubblico. I riflettori saranno puntati anche sulla Mirai Concept, un’anticipazione della seconda edizione dell’auto elettrica a idrogeno, ora dotata di trazione posteriore e capace di 650 km di autonomia.

Fra le novità più attese figurano la nuova Honda Jazz, la piccola monovolume che, per la prima volta, sarà proposta con motorizzazione ibrida: annovera un’unità a benzina che fa da generatore e, a seconda delle situazioni, fornisce energia alla batteria a litio o al motore elettrico, l’unico a essere congiunto alle ruote.

Da non perdere lo stand Mazda, che toglierà i veli alla sua prima vettura elettrica di serie: sfrutterà un pacco batterie da 35,5 kWh abbinato a un propulsore a emissioni zero da 143 CV. Successivamente, dovrebbe arrivare anche una variante con range extender, cioè con motore a benzina (di tipo rotativo) chiamato a fare da generatore di elettricità per estendere l’autonomia complessiva.

Spazio pure per un prototipo Nissan: si chiama Imk ed è una piccola elettrica a guida autonoma ispirata alle kei car, le microvetture pensate per le congestionate metropoli giapponesi. Infine, la concept Mi-Tech di Mitsubishi, studio per un Suv biposto compatto ibrido plug-in con tetto targa, e la nuova Levorg, la station wagon della Subaru giunta alla seconda generazione.

Il complicato (e parziale) addio ai prezzi calmierati di luce e gas

Il conto alla rovescia verso la fine del mercato tutelato di luce e gas fissato al primo luglio 2020 potrebbe subire un ulteriore slittamento. In un documento di consultazione in scadenza il 28 ottobre, è l’Arera (l’Autorità di regolazione sulle reti) che consiglia al governo di attuare uno rinvio almeno di natura progressiva. La soluzione sarebbe, infatti, quella di far entrare prima le aziende (tre milioni) e rinviare a un secondo momento l’entrata forzata di oltre 16 milioni di famiglie, sul totale di 30 milioni. Secondo l’ultimo “Monitoraggio dei mercati retail 2018” diffuso dall’Authority, è infatti il 54% delle famiglie a trovarsi nel mercato tutelato, mentre sono 13,5 milioni (il 46% del totale) quelle passate al libero, con picchi superiori al 50% in Umbria, Emilia Romagna e Piemonte e un’altissima incidenza nelle fasce d’età dai 20 ai 40 anni.

Un passaggio delicato per cui è in corso un braccio di ferro al ministero dello Sviluppo economico tra M5s e Pd sull’assegnazione della delega sull’energia. Vorrebbe tenersela il ministro Stefano Patuanelli su pressing dell’ex sottosegretario Davide Crippa (entrambi M5s) che lo scorso anno si è battuto per far slittare da luglio 2019 a luglio 2020 la fine del regime di maggior tutela. Ma ci sono i dem – nel 2015 il regalo alle aziende energetiche fu deciso dal premier Renzi – che scalpitano affinché la delega vada allo zingarettiano Gianpaolo Manzella. Non solo. Il Mise deve ancora scrivere il complicato decreto attuativo, dove spiegare le misure per garantire il passaggio automatico al servizio di salvaguardia o, in alternativa, allo stesso fornitore che opera nel libero, con delle aste che dovrebbero scattare tra i vari fornitori per “spartirsi” i clienti che non sono passati al mercato libero.

Vanno, insomma, affrontate e risolte ancora diverse incognite che, nel frattempo, continuano a generare solo molto confusione. Nonostante quello italiano sia già un mercato libero – dal 2003 per il gas e dal 2007 per la luce è possibile scegliere il proprio fornitore (come si fa per la telefonia) o restare nel regime tutelato dove l’Arera ogni tre mesi stabilisce il prezzo – la stessa Autorità chiede se sia ragionevole prendere “una gran quantità di consumatori” serviti dalla tariffa base e con “una certa resistenza a passare al mercato libero” e scaraventarli proprio dove non vogliono andare, in balia di 554 rivenditori di elettricità – a fronte dei 507 del 2017 – che si contendono i clienti in un mercato nebuloso, almeno dal punto di vista della consapevolezza. Secondo la recente indagine di Research Hub per conto di Arera, più della metà degli italiani non conosce infatti la realtà del mercato libero e l’82% non ha mai cercato di capirne qualcosa. Tanto che per l’Autorità il limite del 1° luglio 2020 “appare fortemente critico non soltanto rispetto al tempo che sarebbe necessario per l’assegnazione e l’attivazione di un servizio in cui saranno verosimilmente riforniti milioni di clienti finali, ma anche rispetto alla capacità degli operatori di adeguare, così rapidamente, le proprie strutture operative”.

Nel frattempo quello che accade è sotto gli occhi di tutti: ogni giorno sedicenti addetti al servizio elettrico o simile si infilano nelle casa, si fanno mostrare la bolletta (sulla quale leggono il Pod, ossia il codice necessario per “migrare” da un fornitore all’altro) e fanno firmare una non ben nota richiesta di preventivo che altro non è che il modulo per passare dal mercato tutelato a quello libero senza che il sottoscrittore se ne accorga. Con la conseguenza più diretta: non controllando mai la bolletta, al termine della scadenza della promozione riservata ci si ritrovi a pagare più di prima. Ed è proprio la scarsa informazione ad alimentare il diffuso timore tra chi ancora non è passato nel mercato libero che la fine delle tutele possa portare a un aumento dei prezzi.

Eppure, se il passaggio avvenisse con cognizione di causa – proprio come avviene con la telefonia mobile – i vantaggi del mercato libero sono notevoli: a tariffe concorrenziali si aggiungono sconti, regali e benefit che le compagnie propongono ai nuovi clienti.

Secondo l’indagine di SosTariffe.it che ha analizzato la media del risparmio che ciascun gruppo di tariffe consente di ottenere in rapporto ai prezzi praticati nel servizio di maggior tutela, sul fronte dell’energia elettrica, le tariffe con buoni regalo fanno risparmiare fino a 55,86 euro. Meno vantaggiose le tariffe che propongono sconti in bolletta o sui consumi. In questi casi, il risparmio effettivo è di 32,86 euro per il primo anno di sottoscrizione. Il vantaggio economico garantito dalle tariffe luce che propongono sconti sul prezzo dell’energia scende invece a 25,85 euro, mentre con l’estrazione di un premio il risparmio annuale rispetto alle tariffe Arera è di appena 14,77 Euro. Per quanto riguarda il gas, il risparmio massimo è di 27 euro.

Madeira, l’isola portoghese del povero (allora) Ronaldo

“È lì”. Puntando l’indice verso il bronzo l’autista dell’autobus Paulu risponde prima che i turisti terminino la domanda. Da anni chiedono sempre la stessa cosa: “Dove sta il busto di Cristiano Ronaldo? È il primo interrogativo degli stranieri arrivano sull’isola. Siamo la sua pequena patria, piccola patria, siamo fieri”. È l’inizio dell’osanna di Funchal che risuonerà in ogni picco di Madeira e fa eco tra le palme di un aeroporto che si chiama come lui. Ronaldo, professione: dio dell’isola.
La portoghese Madeira è il piedistallo da 300mila abitanti del calciatore, adibita a set della culla del mito.
Più delle parole, riferiscono i petti gonfi d’orgoglio degli abitanti. Una veronica a Manchester e una rovesciata a Madrid fino a Torino, “Cristiano ha girato il mondo ma alla fine torna sempre qui”.

Spenti gli schermi delle partite domenicali, storditi da una rete dopo l’altra, gli abitanti tornano alle loro, quelle da pesca. Non è importante se non è presente adesso, “è come Dio in chiesa: a Madeira lui c’è sempre” dice Juau al ristorante Trigal. Questione di fe, fede e di fado, destino. Nella sala da biliardo di fronte hanno visto le sue lacrime in diretta al programma tv inglese Good Morning Britain mentre ricordava suo padre morto prima di contare i suoi goal: “Era sempre ubriaco”. Barcollando per queste strade, morì di bottiglia a 52 anni nel 2005 Jose Dinis Aveiro. E se il padre di Ronaldo aveva sempre sete, sua madre aveva sempre fame.

Riferiscono le agiografie orali che l’alcol è stato la spada di Damocle di Ronaldo da quando i calci li dava ancora solo in pancia. Para sobreviver, per sopravvivere alla povertà, sua madre Maria Dolores voleva terminare la gravidanza e i vecchi le consigliarono di bere birra calda. Il feto sopravvisse all’etilismo e nel 1985 nacque qui, battezzato in onore dell’attore presidente Ronald Regan, Cristiano Ronaldo dos Santos Aveiro. È il “c’era una volta dell’isola”, leggenda pulviscolare che ognuno, in decine di bar, declina con i particolari che nelle sale traboccano di aneddoti e biografie non autorizzate, come i bicchieri di poncha e vino. Ronaldo dogma indiscutibile, fagocitato dalle pubblicità di se stesso, laccato come i suoi capelli. Una cornice dove se provi a nominare le accuse di stupro mosse al calciatore, i ragazzi si allontanano all’istante indignati sputando a lato, con espressione dettata da machismo schifato.

Ronaldo, patrono di questo scoglio atlantico che ha deciso di essere cassaforte della sua infanzia. Volto e divisa dell’ego isolano. Se ora la terraferma lusitana tifa la Madeira remota grazie a lui, Ronaldo continua a tifare l’isola. Ha costruito il Cristiano Ronaldo futebol campos di fronte l’estadio da Madeira. Poi la sua palla di cuoio ha rimpiazzato quella del mappamondo e lui ha preso il posto di Cristoforo Colombo, che in quest’isola si fermò prima di raggiungere l’America. Messe in un angolo le caravelle, il governatore Miguel Albuquerque ha deciso di ribattezzare tutto al calciatore chiosando: “Ronaldo significa boom turistico”.

Ronaldo l’invincibile, che viveva d’hamburger d’elemosina. Ronaldo la statua, marchio supponente. Ronaldo l’albergo, l’uomo teca dei trofei. Ronaldo fallo dorato. Di fronte al suo museo e il suo hotel, il Pestana Cr7, la sua statua bruna fuori scala si è scolorita solo in un punto delle parti basse, dove turiste russe e asiatiche si affollano allungando le mani più dei mariti perché “dicono porti fortuna”. Il percorso sulle orme della leggenda del bambino prodigio non è lineare ma concentrico, va dal basso verso l’alto, da riva a montagna, pagina dopo pagina, strada dopo strada, un libro della sua infanzia all’indietro.

Non sul mare, dove si affaccia la borghesia madeirense, ma in alto: è cresciuto tra le case povere e diroccate di Quinta Falcao, quartiere Santo Antonio. Tra ruderi e casali abbandonati, salite e discese che forgiano i muscoli dei polpacci, ci sono facce scure di sud, occhi ardenti che ritrovi nei partenopei con cui condividono la terra vulcanica. Come quasi tutte le leggende del calcio, ha cominciato a brillare tra la melma delle vie non asfaltate, spolverando qui l’inizio del suo riscatto.

Per culto epidemico e idolatria al re dei campi verdi, Madeira è pari solo a Napoli che continua a venerare il suo numero dieci argentino, ma Ronaldo sembra il gemello inverso, narcisista complementare di quel giocatore irripetibile e disgraziato che è stato Maradona.

Ronaldo il posticcio, muscoli umanoidi illuminati dalla boria con cui inonda il mondo. Sorriso perennemente identico bianco gesso, palesemente falso, indistinguibile da quello del pupazzo digitale Playstation. Ma in salumerie e tabaccherie c’è però il suo reliquiario infantile, immagini di quando era un pubescente smarrito, con acne e denti storti. Sul muro un vecchio guarda la sua foto da bambino povero con la maglia bianco nera della squadra di Funchal, il National, gli stessi colori del club più blasonato d’Italia in cui gioca oggi.“Ha avuto la stessa determinazione delle onde del nostro oceano. Si è allenato sempre, si è arreso mai, ha palleggiato fino alla vetta dell’isola, fino a quella del mondo”.

Nord irlanda: Brexit riaccende la miccia del conflitto

Diversamente da quanto si potrebbe pensare, il conflitto nordirlandese non si può considerare acqua passata. E non stiamo parlando dei murales, graffiti e bandiere che ornano tuttora le strade di Belfast. Né parliamo del muro che divide le comunità cattoliche nazionaliste da quelle protestanti unioniste e che attraversa ancora alcune zone della città come una ferita che non si è mai del tutto cicatrizzata. No, stiamo parlando di violenze e di attentati. La polizia nordirlandese ha registrato lo scorso anno 68 sparatorie e bombe esplose che per fortuna non hanno fatto vittime, ma che mostrano quanto i militanti di entrambi i campi rimangano ancora attivi e armati. A fine agosto, nella tranquilla località di Newtonbutler, in campagna, alla frontiera tra Irlanda e Irlanda del Nord, il quotidiano locale ha ricevuto una telefonata anonima in cui si segnalava la presenza di una bomba in un luogo ben preciso. La polizia si è recata subito sul posto, ma si trattava di un finto allarme. Però, mentre si ispezionavano i luoghi, una bomba è esplosa davvero a poca distanza da lì. Neanche questa volta ci sono state vittime. Il modus operandi è però quello tipico di molti gruppi terroristici: si fa esplodere un primo ordigno (oppure no), richiamando sul posto forze dell’ordine e soccorsi, e poi viene fatto esplodere un secondo ordigno, questa volta quando il maggior numero di persone possibili si è riunito sul posto. “Questi fatti non finiscono più sulla copertina dei giornali al di fuori dell’isola, ma per noi la violenza del conflitto non si è mai assorbita completamente – racconta Andy Neelsum, che gestisce un’associazione per l’integrazione dei giovani di Belfast –. Alcuni estremisti di entrambi i campi non hanno ancora deposto le armi come era richiesto dagli accordi, oppure se ne sono procurate altre e aspettano il minimo pretesto per usarle”.

Gli accordi di cui parla Andy Neelsum sono quelli del Good Friday, il Venerdì Santo del 1998, che hanno sancito la fine del conflitto nordirlandese. Il trattato concluso, con la benedizione di Bill Clinton e del suo emissario, George Mitchell, era valso il Nobel per la pace ai suoi principali fautori, John Hume e David Trimble. I risultati sono stati notevoli. Omicidi e attentati sono quasi scomparsi, è sparito il confine con le torri di avvistamento, le porte di separazione lungo il muro di Belfast sono state aperte, è stata creata un’assemblea regionale (anche se sono due anni che non riesce a riunirsi) e da 21 anni, bene o male, si mantiene la pace. Tuttavia, per la maggior parte degli irlandesi del nord, basterebbe poco per far scoppiare di nuovo il conflitto, e il “pretesto” di cui parla Andy potrebbe proprio essere la Brexit. “Le tensioni tra le due comunità non sono mai state così forti dal 1998 – osserva Edna Avery, responsabile di un piccolo museo di Belfast che espone le opere di artisti dedicate al conflitto –. È ovvio che è la Brexit ad averle ravvivate: in qualunque modo finisca questa faccenda, ci saranno dei vincitori e dei vinti e lo status quo, che ha permesso finora di conservare la pace, si è ormai fratturato”.

Dopo faticosi mesi di trattative, giovedì scorso, un deal tra Regno Unito e Ue sulla Brexit è stato raggiunto: con la scomparsa del contestato meccanismo del backstop, il nuovo accordo prevede che l’Irlanda del Nord resti nel territorio doganale britannico, ma ancorata ad alcune regole europee in materia agrolimentare, per esempio, o alle norme sull’Iva e le accise. È stato inoltre aggiunto un nuovo meccanismo di “consenso” che permette al parlamento nordirlandese di avere voce in capitolo sull’applicazione delle leggi Ue. Sabato scorso, però, mentre migliaia di persone manifestavano nelle strade di Londra, e il Parlamento britannico si riuniva per ufficializzare l’uscita dall’Ue, un emendamento del conservatore moderato Oliver Letwin è stato adottato dalla Camera dei Comuni, imponendo nuovo rinvio della Brexit. “Si possono dire tante cose sull’Unione europea, sulla sua mancanza di trasparenza o i suoi regolamenti esigenti, ma essa ha rappresentato un fattore di pace mai conosciuto prima nella storia dell’Europa – dice sospirando un funzionario dell’Ue che si trova a Dublino –. I politici britannici l’hanno dimenticato e hanno giocato agli apprendisti stregoni sul loro stesso territorio. Nel promuovere la Brexit, non hanno pensato nemmeno per 30 secondi alle conseguenze che sarebbero scaturite l’Irlanda del Nord”.

A Dublino si ripete la storia di quando Boris Johnson, primo ministro di sua maestà, è sembrato cadere dalle nuvole nel momento in cui, durante l’incontro di settembre con il collega irlandese, quest’ultimo gli ha spiegato tutto ciò che l’uscita dall’UE avrebbe comportato non solo sul piano economico ma anche sul piano di una potenziale ripresa del conflitto in Irlanda del Nord. Downing Street ha negato le voci in arrivo da Dublino, ma senza convincere troppo. “Esistono piantagrane e individui pronti a tutto nei due campi in Irlanda del Nord – afferma Neelsum -. Sono persone, spesso di una certa età, che hanno dedicato gran parte della loro vita alla lotta e hanno dovuto accettare di forza, sotto la pressione popolare, gli accordi del Venerdì Santo. Aspettano solo il momento giusto per riprendere la lotta armata”.

In un pub della periferia di Belfast, in un quartiere dove i graffiti pretendono ancora che “gli inglesi tornino a casa loro!”, un attivista nazionalista, che ci dice di essere un ex membro del Sinn Fein, il braccio politico dell’Ira, ha accettato di parlarci. “Non ti nascondo che il ripristino della frontiera fisica sarebbe un favoloso strumento di reclutamento per la causa. Alcuni non aspettano altro. Sono pronti a sparare addosso al primo ufficiale doganale o alla prima guardia di frontiera che gli si piazzerà davanti, e non si sa cosa succederà dopo”. Gli chiediamo se lui è pronto a ricominciare la lotta per la riunificazione irlandese. “No, ormai io sono un dinosauro. Ma conosco delle persone della mia età che sarebbero felici di riprendere servizio, anche come guida per i giovani. Il grande mistero restano loro, i giovani. La maggior parte dei giovani irlandesi conosce solo la pace e ci vivono bene. Ma esiste una minoranza povera e delusa, che non ha tratto alcun beneficio dagli accordi e che potrebbe essere tentata di lottare per una causa che dia un senso alla vita”.

Nel campo opposto, tra gli unionisti, prevale lo stesso sentimento, forse ancora più acuto. Molti hanno la sensazione di essere stati “abbandonati”. Anche se la maggioranza dei protestanti ha votato per la Brexit nel 2016, l’Irlanda del Nord nel suo insieme ha votato contro al 56%. Da allora, i politici unionisti hanno fatto di tutto per far sì che l’Irlanda del Nord segua il Regno Unito fuori dall’Ue. Ma con l’opposizione di Bruxelles e Dublino, i rinvii senza fine di Londra e la cristallizzazione delle recenti discussioni sul backstop, hanno capito che le loro ambizioni probabilmente non si sarebbero mai realizzate. “Il futuro degli unionisti non è roseo” ammette Liam, un giovane imprenditore “protestante ma non lealista”, precisa. “Oggi, i nordirlandesi possono scegliere liberamente il proprio passaporto, irlandese o britannico, e i due hanno lo stesso valore. Ma domani, in caso di Brexit, il passaporto irlandese sarà più interessante, perché permetterà di spostarsi ovunque in Europa. Ciò significa che persone che vivono nello stesso posto avranno diritti diversi. E questo scaverà delle diseguaglianze. La tentazione di scegliere il passaporto irlandese sarà forte, anche per chi è favorevole al Regno Unito”.

Un’altra preoccupazione, e non da poco, per chi è per il mantenimento dei legami con la Corona è la seguente: la prospettiva di un border poll, un referendum di confine. Questa ipotesi è inclusa negli accordi del Venerdì Santo del 1998. È stabilito che se i sondaggi di opinione registrano in modo ricorrente che una maggioranza di nordirlandesi è favorevole alla riunificazione con l’Irlanda, le autorità sono tenute a organizzare un referendum. Finora la possibilità di ricorrere al border poll sembrava scartata. Ma dal voto sulla Brexit del 2016, i sondaggi d’opinione hanno cominciato a registrare un aumento significativo del numero di nordirlandesi favorevoli all’unificazione dell’Irlanda. “Non avrei mai pensato di conoscere un border poll durante la mia vita. Ho sempre pensato che sarebbe stato per i miei figli o per i miei nipoti – afferma Mary Stanforth, docente di scienze politiche all’università di Belfast -. Ma ora, dal momento che la demografia dei cattolici è leggermente superiore a quella dei protestanti e che la Brexit minaccia di tagliarci fuori dall’Europa e di risvegliare il conflitto, la prospettiva di un referendum tra qualche anno non è più inimmaginabile”.

Così come la Brexit ha rilanciato gli appelli in Scozia per un nuovo referendum sull’indipendenza dopo quello (perso) del 2014, l’idea di un’Irlanda unificata e della disgregazione del Regno Unito non è più fantascienza. Una tale prospettiva farebbe la gioia dei nazionalisti, dell’Ira e di altri, ma gli unionisti non lascerebbero di certo correre senza resistere, con la possibilità, quindi, ancora una volta, di risvegliare il conflitto. “Tutte le strade della Brexit portano all’Irlanda del Nord, come abbiamo visto da mesi – conclude Mary Stanforth – È una questione di guerra o di pace che non interessa solo Dublino, Londra o Bruxelles, ma tutto il mondo, dal momento che molti Paesi, alla fine del Ventesimo secolo, si sono impegnati nel processo di pace dell’Irlanda del Nord. Ed è per questo che Boris Johnson, per quanto impulsivo possa essere, non ha prospettive di successo imponendo il no deal”. Tranne a voler rilanciare una guerra che era sostanzialmente spenta nonostante i tizzoni che ardono ancora sotto le ceneri.

(traduzione di Luana De Micco)

Occhi azzurri su un trucco che cola giù

È mattina presto, fa freddo, c’è un gran temporale e io sono in vespa. Cerco riparo sotto la pensilina di McDonald’s. Una donna di spalle contro la vetrina trema, mi avvicino e le chiedo se ha bisogno di qualcosa. Si volta verso di me, è bellissima, nonostante le lacrime che le impastano il filo di trucco intorno agli occhi azzurrissimi. Si scusa, si asciuga il viso e mi sorride. Dopo un cheeseburger so quanto basta di lei. Insegnante precaria alle scuole medie, condannata ai margini delle graduatorie, supplente a cinquant’anni e senza incarico. Un figlio adolescente da mantenere, un marito latitante, una madre anziana e malata da accudire. Non me lo dice, conserva un suo decoro, ma vedo che proprio non ce la fa più. È la prima volta che incontro tanta disperazione e allo stesso tempo, tanta dignità. Stona nel clima godereccio dei nostri tempi, fatto di intrattenimenti a tutti i costi. “Sa qual è il costo ?” mi dice… “non ci accorgiamo di essere al tramonto, siamo ubriachi di esempi e di modelli idioti, superficiali e mortificanti. Ci abituiamo a credere che il dolore riguardi sempre qualcun altro. Forse un giorno ci risveglieremo senza risorse, senza futuro, senza dignità. Specialmente noi donne… guardi quel manifesto lì fuori…” E mi indica il culo di Roberta sei per tre, che sovrasta il traffico assordante di Roma: “È bellissima, ma quante promesse improbabili!”. Guarda la pioggia con rabbia e poi sorride appena e mi dice: “Non so più come andare avanti. A volte vorrei mandare al diavolo tutto e tutti, gridarlo forte, magari solo per sfogo un bel vaffanculo! Ma poi rifletto e mi dico, a cosa serve e cosa posso aspettarmi da un vaffanculo? Quale speranza, quale rinnovo?”. Si alza, paga lei. Io rimango in silenzio, non so cosa dire, mi ringrazia di averla ascoltata e mi saluta con un abbraccio.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Roma, “Peccati immortali” Cronaca con effetti speciali

Che Roma sia governata con fatica e disordine è un parere diffuso, quasi un proverbio. Che Roma abbia una sua originale e cinematografica malavita (“Roma mafia capitale”) lo hanno detto, smentito e poi confermato persino i giudici. Che ci sia un reticolato di legami non conosciuti e non spiegati, fra Chiesa romana e città di Roma è dimostrato da fatti clamorosi e opposti come la scomparsa (tanti anni fa) della giovanissima Emanuela Orlandi (cittadina vaticana ) e – in questi giorni – la nomina improvvisa a capo della Giustizia Vaticana del capo della Giustizia romana, ovvero il più alto magistrato di Roma, appena pensionato dalla Repubblica italiana. Tutto ciò ha ispirato e sta ispirando libri, film e serie Netflix come non era mai avvenuto prima. Eppure Aldo Cazzullo e Fabrizio Roncone, due giornalisti con gran seguito e libri di successo, cambiano il gioco del thriller “Roma Capitale”.

Dopo avere attratto il lettore con la promessa che non saranno da meno nel teatro della corruzione, nelle tre versioni, politica, religiosa e perversa (“Peccati immortali”, Mondadori ) i due autori seguono un percorso due volte diverso.

Prima di tutto qui, in questo libro,non è il mistero che si scopre ma la realtà, che svela e mantiene i suoi segreti, a seconda delle necessità di proteggere altre realtà e altri misteri. Rendetevi conto che Cazzullo e Roncone, bravi ed esperti come sono, stanno scrivendo mentre due giovani americani che hanno ucciso due mesi prima un carabiniere a Roma (c’è il corpo, il coltello, la modalità, le telecamere, sequenza per sequenza) sono in prigione senza imputazioni e gli avvocati tacciono. Secondo, ai due autori, come non accade mai nel thriller di avventure e delitti, interessano i dettagli delle scene come interesserebbero a un regista, non a un detective. E per loro importa ritrovare il percorso mentale e lo stato morale di ha compiuto o compirà certi atti, ha subito o subirà certe conseguenze, o se la caverà senza ansie e senza rimorsi. Ai 2 autori interessa poco la trama, sapendo con quale facilità trovi o ti fanno trovare l’incredibile. Invece hanno voglia di sostare con il lettore sulla scena, dosando luci, riflessi, gesti, dettagli, mentre c’è tutto il tempo e l’agio, per il lettore, di immaginare ed esplorare il mondo a cui quella scena appartiene, i fatali antecedenti, le inevitabili conseguenze. Per gli autori la trama èuno spunto. A loro interessano personaggi e interpreti nella scena giusta che racconta tutto. Dico “personaggi e interpreti” come nel cartellone di un evento teatrale. Dico “evento teatrale” perchè la trovata di Cazzullo e Ronconi è questa: un cardinale, in scena, è davvero un cardinale e se uccide o muore, uccide o muore davvero. Il teatro, forma millenaria di narrazione, è una cosa seria. E serio, dunque è anche “Peccati immortali” che sembra uno scherzo, esibisce anche la nebbia spettacolare e disorientante di scena negli spettacoli rock. Gira un lieve buon umore nella narrazione che evita o attenua il tragico e lascia un buon sapore di leggerezza. In questa narrazione così ricca di effetti speciali (psicologici e sorprendenti) l’intenzione apparente dei narratori sembra essere: “Siediti, ti racconto una storia”. Però a volte il mestiere prende la mano ai 2 autori che in realtà sembra che stiano per dire: “Fermati a dare uno sguardo. Perché così vanno le cose”.

Il furto tragicomico, meglio di Totò: ora la Biga di Morgantina torna a casa

Io me li vedo Salvo Ficarra e Valentino Picone alle prese con la Biga di Morgantina. Ben più che un remake di Operazione San Gennaro, il capolavoro di Dino Risi con Nino Manfredi, Senta Berger, Mario Adorf e Totò alle prese col furto dei furti: il tesoro di San Gennaro. Con un carro e due cavalli a farne bottino se ne ricava una pellicola di geometrica commedia. È “un monumento scultoreo bronzeo del 450 avanti Cristo”. Così si legge nella didascalia del video diffus dai carabinieri. Avete presente la vicenda dell’incredibile furto? L’opera – grande più dei famosi Bronzi di Riace, tanto per capirsi – vede la luce a metà dell’Ottocento negli scavi di Morgantina, ad Aidone, in Sicilia.

Così ancora si legge nella didascalia di cui sopra nell’annunciare, venerdì scorso, il ritrovamento di carrozza e destrieri, smontati e separati. La prima ad Aci Catena. Mentre i secondi sono a Piazza Armerina, nascosti in una stanza segreta. Ci sono 17 indagati e con loro c’è anche un collezionista tedesco pronto a sborsare un milione e mezzo di euro rimasto a bocca asciutta con l’operazione dell’Arma giunta a buon fine. E chissà per quali traversie della storia e dei capricci, la scultura, non in un museo, bensì sul tetto di una cappella funeraria va a trovare collocazione.

Esattamente al cimitero di Catania, sul tetto della tomba gentilizia della Famiglia Sollima, da dove, a seguito di un rocambolesco audace colpo, il complesso equestre è rubato. Imbracato di cavi, staccato dall’alto con un elicottero e poi caricato su un camion, l’ingombrante reperto archeologico (“d’inestimabile valore”) sparisce. Tutto questo succede nel giugno 2017. Come possa alzarsi in volo un velivolo, di certo non silenzioso, come nottetempo al camposanto si adoperino dei tombaroli così ingegnosi – per poi mettere in vendita il tutto al mercato nero – è già sceneggiatura. In una terra dove non c’è verso di coprire le buche nella strada un’operatività così efficiente non può che risultare ammirevole. Tutto questo ha il retroterra della specialissima Sicilia.

È una sepoltura privata – il dio della commedia ci assista – che fa pensare al barone Zazà–Totò in Signori si nasce, quando per fare un dispetto al fratello Pio degli Ulivi–Peppino de Filippo dissemina di puttini un erigendo fercolo funebre… E ce li vedo Ficarra e Picone, in questa storia di tombaroli e tombarolati, per farne un grande romanzo comico. Tanto per cominciare i reperti sono in perfetto stato di conservazione, meglio di quanto potrebbe fare qualunque soprintendenza. La criminalità è sempre sensibile all’arte. La voluttà del godimento estetico rimanda ad atmosfere criminali – dai romanzi di 007, fino al James Tont di Lando Buzzanca – ed è ben più charmant che un anonimo deposito di anticaglie.

Ecco, Salvo e Valentino ne faranno un film – o uno spettacolo teatrale – ma mentre ogni autorevole testata giornalistica dà notizia si scopre che la suddetta Biga non è un originale dell’età classica bensì una riproduzione. Se ne accorgono Antonella Privitera, archeologa e consulente giudiziaria, Luisa Fucito, storico dell’arte, e il professor Dario Palermo. Come i falsi Modì, la Biga è una copia di una scultura in marmo conservata nei Musei Vaticani. Una copia realizzata dalla premiata ditta “Fonderia Chiurazzi in Napoli”.

Ecco, solo Ficara e Picone potranno farne un’epica, com’è tipico del genio. Da Operazione San Gennaro all’immenso Maestro Scorcelletti – il falsario d’arte per amore dell’arte – di Totò, Eva e il pennello proibito.

Il dilemma della Bce e la voragine che ingoia le banche di Eurolandia

L’amministratore delegato di Unicredit Mustier probabilmente non puntava a scalare vette di popolarità annunciando che la sua banca dal 2020 potrebbe imporre interessi negativi sui depositi superiori a centomila euro (soglia rettificata successivamente a un milione). Ma quale che sia, la soglia rappresenta il proverbiale dito. La Luna splendente in cielo invece è il tasso sottozero mantenuto dalla Banca centrale europea per quasi 5 anni e mezzo.

La Bce fronteggia un dilemma: stimolare l’economia senza annichilire gli intermediari bancari. In circostanze normali quando la Banca centrale abbassa i tassi le banche godono un duplice beneficio: minor costo dell’input (i depositi) e maggiore domanda dell’output (i prestiti). Per di più i debitori in difficoltà ne traggono sollievo e le sofferenze diminuiscono. Ma quando le circostanze, spinte al limite, diventano eccezionali il mondo si capovolge. Se i tassi negativi non possono essere scaricati sui clienti (i quali preferirebbero detenere contanti in cassaforte) e i tassi a lunga (in base ai quali vengono remunerati mutui e prestiti) sono rasoterra, le banche vengono lentamente asfissiate e lo stimolo di politica monetaria si incaglia. Inoltre le regole farneticanti di Basilea 2 e 3 hanno trasformato le banche in aziende di stampo sovietico. I commissari del popolo in veste di compliance officer e risk manager decidono di fatto le strategie in base ad un Gosplan ispirato al “Processo di Kafka”. L’esternazione spazientita di Mustier stigmatizzava questo contesto, rompendo con una sonora deflagrazione, il fronte del silenzio finora osservato dai colleghi. Senza dubbio la Bce durante le crisi succedutesi dal 2007 ha imbastito gigantesche operazioni di supporto mirato alle banche (le varie Ltro), ma senza cogliere frutti apprezzabili nell’attività economica. Se il settore privato in Europa ha tanta voglia di investire quanto i panda in cattività di accoppiarsi non è certo per il costo del debito, bensì per gli irrisolti nodi strutturali fatti di pastoie burocratiche, mercato del lavoro rigido, mercati dei capitali segmentati su basi nazionali, settori pubblici obsoleti, tasse inique, infrastrutture antiquate. E da due anni si è aggiunta la guerra dei dazi.

La misura dalla voragine in cui sono piombate le banche lo fornisce l’indice EuroStoxx del settore bancario in Eurolandia. Da fine agosto 2007, quando le prime avvisaglie della Grande Recessione si stagliarono all’orizzonte, ha perso circa i quattro quinti del valore. Negli Usa invece l’analogo indice S&P bancario nello stesso periodo ha perso meno del 20%. Inoltre da quando i tassi sono diventati negativi l’indice EuroStoxx bancario ha perso oltre il 40%. È inutile intestardirsi a frustare un cavallo agonizzante sperando che si trasformi nel Ribot 2.0.