Diversamente da quanto si potrebbe pensare, il conflitto nordirlandese non si può considerare acqua passata. E non stiamo parlando dei murales, graffiti e bandiere che ornano tuttora le strade di Belfast. Né parliamo del muro che divide le comunità cattoliche nazionaliste da quelle protestanti unioniste e che attraversa ancora alcune zone della città come una ferita che non si è mai del tutto cicatrizzata. No, stiamo parlando di violenze e di attentati. La polizia nordirlandese ha registrato lo scorso anno 68 sparatorie e bombe esplose che per fortuna non hanno fatto vittime, ma che mostrano quanto i militanti di entrambi i campi rimangano ancora attivi e armati. A fine agosto, nella tranquilla località di Newtonbutler, in campagna, alla frontiera tra Irlanda e Irlanda del Nord, il quotidiano locale ha ricevuto una telefonata anonima in cui si segnalava la presenza di una bomba in un luogo ben preciso. La polizia si è recata subito sul posto, ma si trattava di un finto allarme. Però, mentre si ispezionavano i luoghi, una bomba è esplosa davvero a poca distanza da lì. Neanche questa volta ci sono state vittime. Il modus operandi è però quello tipico di molti gruppi terroristici: si fa esplodere un primo ordigno (oppure no), richiamando sul posto forze dell’ordine e soccorsi, e poi viene fatto esplodere un secondo ordigno, questa volta quando il maggior numero di persone possibili si è riunito sul posto. “Questi fatti non finiscono più sulla copertina dei giornali al di fuori dell’isola, ma per noi la violenza del conflitto non si è mai assorbita completamente – racconta Andy Neelsum, che gestisce un’associazione per l’integrazione dei giovani di Belfast –. Alcuni estremisti di entrambi i campi non hanno ancora deposto le armi come era richiesto dagli accordi, oppure se ne sono procurate altre e aspettano il minimo pretesto per usarle”.
Gli accordi di cui parla Andy Neelsum sono quelli del Good Friday, il Venerdì Santo del 1998, che hanno sancito la fine del conflitto nordirlandese. Il trattato concluso, con la benedizione di Bill Clinton e del suo emissario, George Mitchell, era valso il Nobel per la pace ai suoi principali fautori, John Hume e David Trimble. I risultati sono stati notevoli. Omicidi e attentati sono quasi scomparsi, è sparito il confine con le torri di avvistamento, le porte di separazione lungo il muro di Belfast sono state aperte, è stata creata un’assemblea regionale (anche se sono due anni che non riesce a riunirsi) e da 21 anni, bene o male, si mantiene la pace. Tuttavia, per la maggior parte degli irlandesi del nord, basterebbe poco per far scoppiare di nuovo il conflitto, e il “pretesto” di cui parla Andy potrebbe proprio essere la Brexit. “Le tensioni tra le due comunità non sono mai state così forti dal 1998 – osserva Edna Avery, responsabile di un piccolo museo di Belfast che espone le opere di artisti dedicate al conflitto –. È ovvio che è la Brexit ad averle ravvivate: in qualunque modo finisca questa faccenda, ci saranno dei vincitori e dei vinti e lo status quo, che ha permesso finora di conservare la pace, si è ormai fratturato”.
Dopo faticosi mesi di trattative, giovedì scorso, un deal tra Regno Unito e Ue sulla Brexit è stato raggiunto: con la scomparsa del contestato meccanismo del backstop, il nuovo accordo prevede che l’Irlanda del Nord resti nel territorio doganale britannico, ma ancorata ad alcune regole europee in materia agrolimentare, per esempio, o alle norme sull’Iva e le accise. È stato inoltre aggiunto un nuovo meccanismo di “consenso” che permette al parlamento nordirlandese di avere voce in capitolo sull’applicazione delle leggi Ue. Sabato scorso, però, mentre migliaia di persone manifestavano nelle strade di Londra, e il Parlamento britannico si riuniva per ufficializzare l’uscita dall’Ue, un emendamento del conservatore moderato Oliver Letwin è stato adottato dalla Camera dei Comuni, imponendo nuovo rinvio della Brexit. “Si possono dire tante cose sull’Unione europea, sulla sua mancanza di trasparenza o i suoi regolamenti esigenti, ma essa ha rappresentato un fattore di pace mai conosciuto prima nella storia dell’Europa – dice sospirando un funzionario dell’Ue che si trova a Dublino –. I politici britannici l’hanno dimenticato e hanno giocato agli apprendisti stregoni sul loro stesso territorio. Nel promuovere la Brexit, non hanno pensato nemmeno per 30 secondi alle conseguenze che sarebbero scaturite l’Irlanda del Nord”.
A Dublino si ripete la storia di quando Boris Johnson, primo ministro di sua maestà, è sembrato cadere dalle nuvole nel momento in cui, durante l’incontro di settembre con il collega irlandese, quest’ultimo gli ha spiegato tutto ciò che l’uscita dall’UE avrebbe comportato non solo sul piano economico ma anche sul piano di una potenziale ripresa del conflitto in Irlanda del Nord. Downing Street ha negato le voci in arrivo da Dublino, ma senza convincere troppo. “Esistono piantagrane e individui pronti a tutto nei due campi in Irlanda del Nord – afferma Neelsum -. Sono persone, spesso di una certa età, che hanno dedicato gran parte della loro vita alla lotta e hanno dovuto accettare di forza, sotto la pressione popolare, gli accordi del Venerdì Santo. Aspettano solo il momento giusto per riprendere la lotta armata”.
In un pub della periferia di Belfast, in un quartiere dove i graffiti pretendono ancora che “gli inglesi tornino a casa loro!”, un attivista nazionalista, che ci dice di essere un ex membro del Sinn Fein, il braccio politico dell’Ira, ha accettato di parlarci. “Non ti nascondo che il ripristino della frontiera fisica sarebbe un favoloso strumento di reclutamento per la causa. Alcuni non aspettano altro. Sono pronti a sparare addosso al primo ufficiale doganale o alla prima guardia di frontiera che gli si piazzerà davanti, e non si sa cosa succederà dopo”. Gli chiediamo se lui è pronto a ricominciare la lotta per la riunificazione irlandese. “No, ormai io sono un dinosauro. Ma conosco delle persone della mia età che sarebbero felici di riprendere servizio, anche come guida per i giovani. Il grande mistero restano loro, i giovani. La maggior parte dei giovani irlandesi conosce solo la pace e ci vivono bene. Ma esiste una minoranza povera e delusa, che non ha tratto alcun beneficio dagli accordi e che potrebbe essere tentata di lottare per una causa che dia un senso alla vita”.
Nel campo opposto, tra gli unionisti, prevale lo stesso sentimento, forse ancora più acuto. Molti hanno la sensazione di essere stati “abbandonati”. Anche se la maggioranza dei protestanti ha votato per la Brexit nel 2016, l’Irlanda del Nord nel suo insieme ha votato contro al 56%. Da allora, i politici unionisti hanno fatto di tutto per far sì che l’Irlanda del Nord segua il Regno Unito fuori dall’Ue. Ma con l’opposizione di Bruxelles e Dublino, i rinvii senza fine di Londra e la cristallizzazione delle recenti discussioni sul backstop, hanno capito che le loro ambizioni probabilmente non si sarebbero mai realizzate. “Il futuro degli unionisti non è roseo” ammette Liam, un giovane imprenditore “protestante ma non lealista”, precisa. “Oggi, i nordirlandesi possono scegliere liberamente il proprio passaporto, irlandese o britannico, e i due hanno lo stesso valore. Ma domani, in caso di Brexit, il passaporto irlandese sarà più interessante, perché permetterà di spostarsi ovunque in Europa. Ciò significa che persone che vivono nello stesso posto avranno diritti diversi. E questo scaverà delle diseguaglianze. La tentazione di scegliere il passaporto irlandese sarà forte, anche per chi è favorevole al Regno Unito”.
Un’altra preoccupazione, e non da poco, per chi è per il mantenimento dei legami con la Corona è la seguente: la prospettiva di un border poll, un referendum di confine. Questa ipotesi è inclusa negli accordi del Venerdì Santo del 1998. È stabilito che se i sondaggi di opinione registrano in modo ricorrente che una maggioranza di nordirlandesi è favorevole alla riunificazione con l’Irlanda, le autorità sono tenute a organizzare un referendum. Finora la possibilità di ricorrere al border poll sembrava scartata. Ma dal voto sulla Brexit del 2016, i sondaggi d’opinione hanno cominciato a registrare un aumento significativo del numero di nordirlandesi favorevoli all’unificazione dell’Irlanda. “Non avrei mai pensato di conoscere un border poll durante la mia vita. Ho sempre pensato che sarebbe stato per i miei figli o per i miei nipoti – afferma Mary Stanforth, docente di scienze politiche all’università di Belfast -. Ma ora, dal momento che la demografia dei cattolici è leggermente superiore a quella dei protestanti e che la Brexit minaccia di tagliarci fuori dall’Europa e di risvegliare il conflitto, la prospettiva di un referendum tra qualche anno non è più inimmaginabile”.
Così come la Brexit ha rilanciato gli appelli in Scozia per un nuovo referendum sull’indipendenza dopo quello (perso) del 2014, l’idea di un’Irlanda unificata e della disgregazione del Regno Unito non è più fantascienza. Una tale prospettiva farebbe la gioia dei nazionalisti, dell’Ira e di altri, ma gli unionisti non lascerebbero di certo correre senza resistere, con la possibilità, quindi, ancora una volta, di risvegliare il conflitto. “Tutte le strade della Brexit portano all’Irlanda del Nord, come abbiamo visto da mesi – conclude Mary Stanforth – È una questione di guerra o di pace che non interessa solo Dublino, Londra o Bruxelles, ma tutto il mondo, dal momento che molti Paesi, alla fine del Ventesimo secolo, si sono impegnati nel processo di pace dell’Irlanda del Nord. Ed è per questo che Boris Johnson, per quanto impulsivo possa essere, non ha prospettive di successo imponendo il no deal”. Tranne a voler rilanciare una guerra che era sostanzialmente spenta nonostante i tizzoni che ardono ancora sotto le ceneri.
(traduzione di Luana De Micco)