La patriota d’oltralpe: guerra contro la mafia dall’Università francese

Si chiama Charlotte ed è nata a Lione da genitori francesi. Ma in queste “Storie italiane” ci sta a pennello. Perché dell’Italia, e dell’Italia migliore, è ambasciatrice appassionata, più di tanti nostri connazionali che nulla ne sanno. L’amore per il nostro paese scoccò nel 2006, quando giunse in Erasmus a Venezia. Non era la sua meta preferita, giura. Ma il prezzo di antipatie superiori. Eppure arti e lettere sono sempre state il suo pane. “Mio padre insegnava alla scuola delle Belle Arti e mia madre faceva la stilista. Da piccola volevo dedicarmi all’egittologia, ma mi scoraggiai già al liceo perché sembrava una strada senza fine. Gli studi d’italianistica all’università li ho scelti perché da sempre ho saputo di voler fare l’insegnante. All’università di Lyon 3, i corsi sulla storia d’Italia mi hanno appassionato, insieme con la storia della lingua e della letteratura. Studi bellissimi”.

Grazie a quelli Charlotte, travolgente riserva di argento vivo, ha iniziato a venire spesso in Italia. Ha trovato amici a Bologna e lì “abbiamo fatto ‘la Bohème confortevole’ di Guccini, incontrando i mille accenti, le mille identità del paese. Quando poi con l’Erasmus mi hanno mandato a Venezia, passata la delusione iniziale mi sono immersa nella cultura veneta e da lì, come per una legge di gravità, nel favoloso dialetto veneziano. Abitavo a Mestre, dove ho incontrato Andrea, il mio compagno. E i suoi genitori mestrini, Mery e Berto, che mi hanno accolto come una figlia e con pazienza mi hanno insegnato il dialetto. Dopo sono tornata in Francia a preparare il concorso alla Normale di Lione e ho incontrato Jean–Claude (così chiama ora il professor Zancarini; ndr). Nella vita ci sono incontri che segnano una svolta. Lui è stato una svolta umana e intellettuale, mi ha insegnato la passione assoluta per la propria materia, la bellezza della ricerca e l’importanza di essere se stessi. È grazie a lui se ho potuto finalmente fare ricerca seriamente sulla mafia”.

Eccoci, dunque. Perché così arriviamo anche al primo incontro tra chi scrive e la allora ragazza francese. In una libreria di Bologna. Lei timida con una perfetta padronanza della nostra lingua e un coinvolgimento morale ed emotivo nella lotta alla mafia quasi totale. Sapeva tutto, era disposta al sacrificio. Una tesi di dottorato sulla memoria; tema che all’inizio, affrontando la sfera della politica, l’aveva un po’ delusa. “Ma appena mi sono messa a lavorare sulle vittime, ho capito l’importanza civile di un lavoro del genere. È una fortuna lavorare su persone che suscitano la nostra ammirazione ma è anche complicato. Oltre l’empatia provata e la difficoltà a tenere ‘a debita distanza’ l’oggetto di studio (per usare le parole della mia direttrice di tesi), l’impegno di quelle persone era stato così grande, così carico di senso, che sentivo il dovere morale di produrre, come per onorarle, un lavoro di qualità. Ce l’ho messa tutta. Volevo che il mio lavoro fosse un piccolo omaggio al loro operato”. Così ha conosciuto Palermo in lungo e in largo, nei quartieri popolari la chiamavano “la francisa”, una volta ci portò pure sua nonna. Ne è nato un lavoro monumentale e bellissimo.

Quanto a Mestre, a Venezia e tutto il resto, sarà stata una meta indesiderata. Ma con Andrea ha fatto la scelta di vita. L’ha seguita lui: ha imparato il francese, si è trasferito a Lione quando lei ha iniziato a insegnare, e ha trovato un lavoro. “Si è impegnato tantissimo e ne sono molto orgogliosa. Torniamo a Mestre tre, quattro volte all’anno. Per rivedere i suoceri che hanno già il frigo pieno di tutto quello che ci piace, e gli amici che hanno già l’elenco degli aperitivi da prendere ogni giorno”. Nel maggio dell’anno scorso, poi, è arrivato un piccolo ciclone di nome Giulia, che parla, balla e canta tra i gridolini di entusiasmo della suocera annunciante “ciò ! xe vanti sta putea !!! “.

Nel frattempo Charlotte è diventata ricercatrice e poi professore associato a Lyon 3, l’università dove ha studiato. Insegna italiano in un corso di lingue applicate al commercio. Ma non ha dimenticato gli eroi italiani, né Palermo e la lotta alla mafia. Promuove con il vecchio maestro Jean Claude incontri affollatissimi, dove chi arriva dall’Italia si riferisce a lei come alla “professoressa veneta”. Ora rappresenterà Lione in una rete internazionale di università contro il crimine organizzato. Vuole aprire un corso specialistico, le piacerebbe “Economia e legalità”. Della serie “conviene seguirli” sin da piccoli. Perché poi diventano famosi….

Malattie mentali, l’ignoranza e l’amore: “Mio marito bipolare abbandonato dalla famiglia”

Cara Selvaggia, poco meno di due anni fa mi sono innamorata di un uomo straordinario, simpatico, intelligente oltre misura, sensibile, bellissimo, ironico e speciale in ogni modo possibile. Quell’uomo, che oggi è mio marito, soffre di sindrome bipolare (e poiché la natura è anche un po’ matrigna è anche affetto da sclerosi multipla). Sapevo ognuna di queste cose sposandolo ma sapevo anche che il suo cuore e la sua anima meritavano la possibilità di essere coccolati. È un’avventura complessa, un equilibrio funambolico che ogni giorno comporta piccoli aggiustamenti di tiro. È una girandola di medici e medicine che ho imparato a dosare, calibrare e preparare come una provetta infermiera. È stata anche una full immersion in un mondo di abusi lontano anni luce da me, un mondo di “automedicazioni” (non sarò mai abbastanza grata al suo psichiatra per averle definite così, permettendomi di avere una chiave di lettura diversa, nuova, non ignorantemente colpevolista rispetto all’uso di sostanze o alcolici) che non è stato facile comprendere e che stiamo lottando con successo per allontanare. Mio marito è un uomo forte e coraggioso che ha deciso di riprendere in mano la sua vita dopo anni di oblio e desiderio di una quiete eterna dal baccano della sua mente. L’ignoranza in questo ambito è devastante, nel suo caso è stata anche la culla del suo malessere poiché i suoi genitori non l’hanno capito e accettato, e nemmeno con la diagnosi tardiva (arrivata a 34 anni) sono riusciti a smettere di colpevolizzarlo. Il giudizio delle persone è sempre dietro l’angolo, carico di inconsapevolezza, disprezzo e gratuita malignità. Ognuno guarda alla pagliuzza nell’occhio altrui senza vedere la trave nel proprio, facendoci vivere sotto la lente di ingrandimento perché fuori dai canoni standard di questa società ipocrita. Nonostante tanto calvario, il mio eroe, è riuscito però a costruirsi una vita e mettere al mondo tre splendide creature adorate ed innamorate di lui, che arricchiscono part-time anche la mia vita (che ho rivoluzionato passando da manager in carriera a manager in carriera-moglie-supportabimbe-casalinga-cuoca-aiutoinfermiera e chi più ne ha più ne metta). Ed oggi sorridiamo, sapendo che ci saranno giorni bui, momenti di paura, ignorando anche la sclerosi che si è rimostrata il giorno in cui avremmo dovuto partire per il viaggio di nozze presentando il conto di nuove lesioni encefaliche, perché lo stringerci nel letto accoccolati la sera, prenderci la mano in un cammino fatto di alti e bassi ci basta, ci riempie di una forza sovrumana che va oltre gli insulti di chi non capisce, oltre la pochezza di chi minimizza, oltre lo sguardo di chi pensa di aver diritto di sentenza. Ma per noi che lottiamo insieme, ci sono tanti altri che affrontano in solitudine la disperazione del non avere radici in sé stessi, del confuso dolore che dà la malattia mentale, subdola e distruttrice con l’aggravante dell’accanimento sociale. Quindi grazie per aver toccato un tema tanto delicato con la tua solita grazia e intelligenza, hai fatto sentire meno soli tanti, da chi è affetto da questi disturbi a coloro che amano questi lottatori incompresi. Di cuore.

Federica

 

Cara Federica, lettere come questa spiegano esattamente cosa provo quando vedo questioni così dolorose affrontate come fenomeni da baraccone. Storie come questa, invece, mi fanno commuovere alle lacrime. Quindi grazie a te.

 

Traduttrice di Trump? “Mica era allibita, solo concentrata”

Cara Selvaggia, campeggia da giorni su ogni sito l’esilarante video della traduttrice di Trump che, “allibita” (scrivono proprio così) dai discorsi del presidente non trattiene espressioni di esplicito e imbarazzato sbalordimento. Ho cliccato, e mi sono accorto che il caso non esiste e che le “smorfie” dell’eroina involontaria del web sono solo di concentrazione (tant’è che le riserva anche alle domande dei giornalisti). In verità, ho cliccato solo perché mi ha ricordato brutte sperienze. Natale 2017, festa aziendale, cena dove tutti fingono di essere pari e uniti, pure se stagisti e megadirettrice galattica a malapena si salutano; e ovviamente open bar. Ho bevuto qualche bicchiere di troppo, il che mi rendeva più ilare e divertito. Finito il dessert, ecco il discorso della megadirettrice: uno di quei momenti con la colonna sonora di Rocky grazie alla quale ti senti al centro di un movimento globale pure se produci estrusi di polistirolo. La megadirettrice chiama sul palco alcuni degli elementi più virtuosi dell’azienda, tra i quali figuravo anch’io. Applausi, cenni di assenso, grandi slogan e poi tutti a nanna. Qualche giorno dopo, nella casella mail, sono arrivate le foto della serata ed eccomi lì, sul palco, con una faccia tra l’allibito e l’imbarazzato durante il discorso della direttrice. Per giorni negli uffici non si è parlato d’altro, la megadirettrice mi ha convocato, l’ufficio del personale pure, i colleghi mi trattavano da appestato. Vuoi sapere com’è andata? Il discorso non l’avevo neppure sentito, sul palco non c’era l’audio e il rimbombo della sala copriva le parole. Ero soltanto un ubriaco alla festa di Natale, come tutti gli altri, ma nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Marco

 

Caro Marco, ci sono passata anch’io: le mie facce inorridite durante le esibizioni di Antonio Razzi a Ballando con le Stelle sono state assolutamente fraintese. Giuro. Ero sinceramente ammirata.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com

Fratelli d’Italia e di loggia: il migrante massone ora si candida con la Meloni

Da decenni l’Umbria, come la Toscana, è terra di grandi tradizioni per il connubio tra politica e massoneria, ma alle Regionali di domenica prossima la sorpresa del candidato in grembiule e compasso arriva dal partito più anti-massonico in circolazione. Cioè, i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, difensori della fede fascioclericale e nemici assoluti del diavolo laicista rappresentato da teoria gender, aborto e politiche migrazioniste.

In lista con la formazione meloniana in Umbria c’è infatti un commercialista di Perugia che si chiama Paul Dongmeza, come ha rivelato La Nuova Bussola Quotidiana. E qui la sorpresa è doppia. Innanzitutto perché Dongmeza è un africano di origini camerunensi, da 37 anni in Italia, che si batte per l’inclusione dei migranti. E poi, appunto, perché è stato qualche anno fa il primo maestro venerabile nero del Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del Paese.

Iscritto alla loggia “Tiberi” di Perugia oggi Dongmeza non è più maestro ma continua a frequentare i lavori della loggia. “Sono camerunense, vengo da una cultura sincretica e iniziatica”. Ma come si concilia tutto ciò con il tradizionalismo dell’estrema destra che vede ovunque complotti demo-pluto-giudaici-massonici? Ha risposto il senatore Franco Zaffini, che è anche coordinatore umbro di FdI: “Non abbiamo preclusioni”.

In realtà è da un po’ di tempo che il partitino della Meloni – che aspira a scavalcare Forza Italia nel nuovo centrodestra sovranista – dimostra continue affinità con l’universo esoterico dei fratelli in grembiule. All’ultima Gran Loggia di Rimini, il raduno annuale del Goi, un deputato siculo di FdI, Antonio Catalfamo, ha ricevuto la “Galileo Galilei”, la più alta onorificenza che il Grande Oriente dà ai non massoni. Il motivo? Catalfamo si è battuto nella sua regione contro la legge Fava, che impone ai componenti dell’Assemblea regionale siciliana (Ars) di dichiarare la loro appartenenza alla massoneria.

In fondo per i postfascisti e postmissini della Meloni è un ritorno alle radici massoniche del fascismo sansepolcrista (la massoneria come “madre nutrice” dei fasci), prima che lo stesso Duce nel 1923 si pronunciasse per l’incompatibilità tra Pnf e logge.

Whirlpool incassa denaro pubblico, poi licenzia tutti. E lo Stato che fa?

“Ho cinquant’anni, se chiude la fabbrica dove vado?”. “Amo questa città, ma se perdo il lavoro devo andarmene e ricostruire la vita altrove”. “Ci vogliono spingere nelle mani della camorra…”. Vanno ascoltate le voci degli operai della Whirlpool di Napoli per capire quali drammi individuali e sociali si nascondano dietro parole a volte astruse come ristrutturazione, delocalizzazione, etc. Stiamo parlando della più grande fabbrica di elettrodomestici al mondo, e dei suoi 400 operai. I vertici dell’azienda hanno deciso che il 1 novembre si chiude, i cancelli di Napoli saranno sbarrati e le lavatrici verranno costruiti altrove. Dove? In quei paradisi della delocalizzazione situati nell’Europa dell’Est o alle porte dell’Oriente. Ovviamente la decisione dei vertici della multinazionale arriva dopo aver incassato sostanziosi finanziamenti pubblici. E allora che fare? Buttare in mezzo ad una strada 400 famiglie, un migliaio se si considera l’esteso indotto, o intervenire? L’altra sera in un dibattito televisivo il giovane ministro per il Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano, ha naturalmente abbracciato la linea dell’intervento, il professor Cottarelli, invece, ha fatto il benaltrista parlando dell’economia italiana che non cresce con la conseguenza che gli investitori stranieri scappano. Tutto giusto, ma nel frattempo, qui ed ora, che si fa? La strada di un intervento dello Stato, attraverso Invitalia col concorso in nuovi investimenti di privati e istituzioni locali, è l’unica percorribile. Gli operai ci stanno, i sindacati pure. La destra peggiorista, quella antimeridionale e con la bava alla bocca, ovviamente no. Ieri un quotidiano di area evocava la “lavatrice di stato”. Immagine suggestiva che rimanda alle Partecipazioni statali e ai pelati e panettoni di Stato. Bene, questa ironia andate a farla davanti ai cancelli della fabbrica napoletana con operaie e operai che rischiano di perdere lavoro e futuro. Vi prenderanno a “pummarole” (non di Stato) in faccia. E faranno bene.

Vicini spioni, il metodo Stalin piace alla Lega e all’on. Bazzaro

Faccio parte del gruppo Nextdoor di Porta Vigentina, a Milano. Siamo 466 “vicini”. L’altro giorno, caro Fierro, ci è arrivata una mail firmata da Leonardo Campanale, presidente dell’Associazione Nazionale Controllo Di Vicinato. Ci invita a mettere “i nostri occhi e le nostre orecchie a disposizione delle Forze dell’Ordine”, a diventare “i custodi naturali del proprio ambiente”, per promuovere la cultura della prevenzione, della solidarietà sociale e della partecipazione dei cittadini a progetti di “sicurezza partecipata”. Insomma, a fare i vigilantes. Ma che bisogno c’è di una associazione così, quando ogni cittadino è tenuto a denunciare i reati cui assiste o di cui è vittima? L’associazione mette le mani avanti, dice di essere “apartitica e apolitica”, composta da volontari “provenienti da diverse esperienze”, “aperta alla collaborazione con privati cittadini, associazioni locali, aziende ed enti pubblici e privati in diverse modalità e forme”. Diffido per natura di chi si dichiara neutrale politicamente. Navigando nel web, ho rintracciato un allegato al protocollo d’intesa per “coordinatori” in cui si sottolinea che “a nessuno viene chiesto di fare eroismi, ronde o chissà cosa di speciale”. Mentre “a tutti è richiesto di prestare maggiore attenzione a chi passa per le strade nonché alle situazioni anomale che possono saltare all’occhio o generare apprensione ed allarme”. Lo pretendeva Stalin, per esempio. I suoi sgherri di quartiere, i custodi e i guardiani che sorvegliavano i pianerottoli, spiavano l’andirivieni degli inquilini, e li denunciavano se gli parevano sospetti… Poi ho scoperto che lo scorso aprile il deputato leghista Alex Bazzaro, quello del fotomontaggio in cui si vedono banchettare deputati Pd e giornalisti su un gommone con la scritta “gita Sea Watch con pranzo a bordo”, ha presentato un progetto di legge per riconoscere a livello nazionale il “fenomeno sociale del controllo del vicinato”, i cui gruppi, attivi dal 2009 specie al Nord, sono nati come reazione alla percezione di insicurezza: cavallo di Troia della propaganda salviniana.

“Lei mi ha insegnato come certe battaglie le combattiamo sole”

“Mi chiamavano audacia. Se mi piaceva qualcuno ero capace di fargli la danza del ventre in piazza Navona. Loro ridevano e così li conquistavo”. Marcella Di Folco è stata tante cose. Ma è stata soprattutto la sua grande gioia di vivere, la sua risata fragorosa (inconfondibile), la sua anima a colori capace di invadere le stanze in cui entrava. E, scorrendo le pagine dell’ultimo libro di Bianca Berlinguer Storia di Marcella che fu Marcello, eccola Marcella – nata all’anagrafe come Marcello – prendersi tutto lo spazio. Lei, la sua infanzia, il rapporto con la madre, Federico Fellini e quel Satyricon girato per caso, l’operazione a Casablanca (nel 1980) “fra le braccia della mitica infermiera Batoulle”, il marciapiede, Bologna. E il Mit, le lotte politiche, sempre all’insegna della dignità e dei diritti da riconoscere a tutti: trans e non, indistintamente.

Come nasce questo libro, intimo e diretto nel racconto di una vita così straordinaria?

Le dicevo sempre: “Dobbiamo scrivere un libro insieme”. È il frutto delle confidenze e degli incontri negli ultimi suoi mesi di vita, quando tutte e due ormai sapevamo che, da lì a poco, sarebbe morta di tumore. La storia di Marcella è la storia di una donna eccezionale, con una vita tutta dedita – con determinazione ma anche tanta gioia – al perseguimento del suo obiettivo: diventare donna.

Come iniziò il vostro rapporto?

Ci siamo incontrate nel 1997, al Gay Pride di Venezia. Pioveva a dirotto, e lei avvicinandosi con un ombrellino mi disse: “Vuoi un po’ di riparo?”. Da quel momento iniziammo a frequentarci. Veniva spesso a casa nostra a Roma. Mia figlia Giulia aveva quattro anni quando la incontrò la prima volta e le chiese: “Ma tu sei maschio o femmina?”. Marcella scoppiò a ridere. A lasciare perplessa Giulia era la sua voce inconfondibilmente maschile.

Marcella Di Folco è stata la prima trans eletta al mondo in un Consiglio comunale. Attivista storica del movimento trans, anche grazie a lei arrivammo, nel 1982, a una delle leggi più avanzate per il riconoscimento dell’identità di genere e il cambio di sesso. Che Paese era quello?

Arretrato. E continua ad esserlo. Come diceva Marcella, le transessuali sono ultime tra gli ultimi. Per tutta la sua vita ha perseguito un fine fondamentale: l’autodeterminazione della propria identità sessuale. Oggi forse c’è più tolleranza, ma i problemi restano.

“Essere all’avanguardia significa essere libera”, diceva Marcella.

Lei lo era nel profondo, libera. È questo che le ha permesso di affrontare tutto: il dolore, gli ostacoli… arrivando alla fine a vincere la sua battaglia.

“La vagina non dà la felicità, ma almeno può darti la serenità”.

Voleva essere desiderata come donna. Non è un problema anatomico, ma di identità. Perché il tuo sentirsi donna, o uomo, prescinde dall’aver fatto un intervento chirurgico.

L’istanza delle persone transessuali mette in crisi, da una parte, il sistema binario dei generi, ma dall’altra, penso alle critiche di un certo femminismo, lo ripropone nel modo più classico: sei donna e per farti riconoscere come tale ti rappresenti secondo i canoni dominanti.

Una persona trans fa tutta quella fatica per cambiare sesso e io non mi sento assolutamente di rivolgerle alcuna critica. È un percorso dolorosissimo… E la complessità del transessualismo non può essere incasellata in un genere.

Dagli anni di Marcella a oggi, cosa è cambiato per le persone trans?

Grazie a una sentenza della Corte costituzionale, il cambio di identità sui documenti è possibile anche senza che vi sia stato un intervento chirurgico. Ma ancora siamo fermi a un certo stereotipo della persona transessuale. E non esiste una possibilità vera di inserimento lavorativo: l’alternativa resta ancora tra prostituzione e mondo dello spettacolo.

Con Vladimir Luxuria anche la politica è sembrata farsi carico, per una stagione, dei diritti delle persone trans.

La verità è che le battaglie delle minoranze è sempre difficile farle diventare battaglie di tutti. Vladimir è stata importante, lo diceva sempre Marcella, perché ha dato un’immagine diversa delle transessuali. La leader che aveva conosciuto personalmente e di cui mi parlava bene era Mara Carfagna: si era battuta, da ministro per le Pari opportunità, per introdurre l’aggravante della transfobia nella Legge Mancino contro l’incitamento all’odio. Non ci riuscì, ma almeno ci aveva provato.

Mentre la sinistra è sempre stata timida sul tema.

La battaglia per i diritti delle persone trans l’hanno combattuta prima di tutto i radicali. Come in tanti altri casi, sono stati loro a cominciare. I partiti della sinistra, poi, hanno seguito.

“L’equilibrio tra i diversi diritti è una delle condizioni più importanti per lo sviluppo di un Paese civile”, diceva Marcella.

Lei lo disse proprio durante l’incontro con Mara Carfagna. Ancora non comprendo come, secondo una certa destra, riconoscere più diritti e più libertà possa fare male alla società.

A proposito di diritti a rischio e di un certo dibattito pubblico, per molti è in atto un tentativo di riportare le donne indietro…

La cosa fondamentale, per non tornare indietro, è non farsi rinchiudere in casa. Lavorare e avere un ruolo sociale. Il nostro nemico, più ancora della politica reazionaria, è la crisi economica. Sono molte le donne che hanno dovuto rinunciare alla loro indipendenza. Ma certe battaglie dobbiamo comunque combatterle da sole. Quelle di noi che occupano posti di responsabilità sono ancora molto poche. Direttrici al Tg1 non se ne sono mai viste, come al Tg5.

Cosa le ha lasciato questa amicizia speciale?

Tre giorni prima di morire mi disse: “Io non rimpiango nulla, la mia vita è stata bellissima”. Ecco cosa mi ha lasciato: la sua gioia di vivere, anche le piccole cose. “Bianca, tesoroooo…”, mi sembra di sentirla ancora.

Marcella Di Folco è morta nel 2010. Perché aspettare nove anni per il libro?

Non volevo sovrapporre le mie idee e le mie inibizioni alla sua storia… Questo è il racconto di Marcella con le sue stesse parole. Lei era molto più libera di me e di noi tutte. Io non so se al suo posto ce la avrei fatta.

L’arte finisce come la Rai: nelle grinfie della politica

Chi ha letto i giornaloni italiani e anche gran parte della stampa straniera, ha probabilmente potuto capire assai poco della disputa sul prestito dell’Uomo Vitruviano: che non ha nulla a che fare né col nazionalismo coltivato dalle destre, né con l’elitarismo degli storici dell’arte. Con la consueta professionalità, è stato il New York Times a permettere ad uno dei contestatori di quel prestito (si tratta di chi scrive queste righe) di chiarire il vero punto della questione: “Italy’s patrimony is no longer the purview of scientists and technicians, but is in the hands of politicians, as it had been during the time of Mussolini”. Cioè il “patrimonio storico e artistico della nazione” (così l’articolo 9 della Costituzione) non viene più governato dalla comunità scientifica, ma è oggi nelle mani della politica. I musei, in altri termini, stanno facendo la fine del servizio pubblico della Rai.

È stato così per secoli, lo sappiamo: nell’antico regime le opere d’arte si spostavano come pedine sulla scacchiera della politica. Sovrani, papi, cardinali usavano arte e artisti a loro piacere: e la storia dell’arte nell’età moderna è anche la storia dell’attrito tra arte e potere, e del suo lento affrancamento. In Italia questa lunga tradizione ha conosciuto il suo momento estremo sotto il fascismo: Mussolini ha organizzato le più spettacolari mostre politiche della nostra storia, mettendo “Botticelli al servizio del fascismo” (è il titolo di un celebre saggio di Francis Haskell). Nel 1930 il duce in persona celebrò la stupefacente mostra di Londra (che aveva esportato capolavori di Michelangelo, Leonardo, Giorgione, Raffaello…) scrivendo sul Corriere della sera che “la mostra alla Burlington House è un segno portentoso dell’eterna vitalità della razza italica, che le ha reso possibile di essere sempre e ovunque all’avanguardia, lasciando agli altri solo la possibilità di imitare”. Se sostituite a ‘razza italica’ espressioni come ‘brand Italia’, i vari Franceschini potrebbero usare le parole di Mussolini.

Con la Costituzione, che legava strettamente all’articolo 9 la ricerca e la tutela del patrimonio, si sperò di chiudere per sempre con questa strumentalizzazione politica della nostra arte, ma il vizio era troppo antico. Nel 1952 Roberto Longhi si doveva ancora augurare che lo Stato “ponesse un fermo a questa stolida e spesso servile mania esibizionistica dell’Italia all’estero. Mania che, ove non venisse ormai stroncata, finirebbe, oltre agli irreparabili danni materiali, per revocarci stabilmente dal novero delle nazioni culturalmente più progredite”. Perché, pensava Longhi, e pensa ancora la comunità internazionale degli storici dell’arte, il progresso coincide con la sottrazione alla logica effimera del consenso politico di un patrimonio delicatissimo, che dovrebbe semmai servire a sviluppare la nostra umanità. Ma non c’è stato nulla da fare, e così il governo Monti ha portato il Rinascimento a Pechino e Caravaggio a Belo Horizonte, il governo Renzi ha spedito Raffaello a Mosca per ringraziare Putin di un accordo sul gas, e oggi Dario Franceschini e il suo omologo francese hanno firmato un accordo politico per la mostra di Leonardo al Louvre (che, duole dirlo, non ha una sola novità scientifica, ed è un’umiliante parata di trofei di Stato). La prestigiosa Tribune de l’art ha parlato di “protocollo ridicolo, perché regola qualcosa che non è né dovrebbe essere al livello del potere politico, ma nelle mani dei musei e dei loro responsabili. Il ministro italiano, che pareva assai poco a proprio agio, ha voluto precisare ai giornalisti che ‘il prestito è competenza solo dei musei e delle autorità scientifiche’, ma aveva appena dimostrato il contrario con questo accordo politico tra Italia e Francia”.

Franceschini in tutto questo ha un ruolo particolarmente grave. Perché la sua scellerata riforma ha affidato i grandi musei italiani a direttori autonomi che hanno ricevuto un potere immenso dopo una selezione farsesca basata su colloqui di 15 minuti. Il fatto che, secondo la riforma, il ministro stesso possa confermare o meno in ruolo i direttori, li ha totalmente asserviti alla politica: così come sono asserviti i consigli scientifici dei musei, di nomina pure largamente politica. L’apparato centrale del ministero si è tolto quasi ogni possibilità di controllo sostanziale. La Direzione generale dei musei non si occupa di tutela, e il suo comitato scientifico è quello per l’economia della cultura: tanto per chiarire che per Franceschini i musei sono dei bancomat.

E la Direzione per le Belle Arti, che pure potrebbe e dovrebbe intervenire, lo fa solo per aderire ai prestiti decisi localmente, senza consultare il suo comitato tecnico scientifico (presieduto da chi scrive): così è avvenuto per l’Uomo Vitruviano.

Il massacro dell’alta dirigenza Mibac compiuto al tempo di Bondi e Berlusconi (i cui beneficiari sono ora tornati al potere con il ritorno di Franceschini), ha lasciato il patrimonio culturale in mano a “grandi equilibristi – per usare le parole sempre attuali di Antonio Cederna – disposti sempre all’obbedienza verso i pezzi più grossi di loro, sulla cui mancanza di carattere e di convinzioni generali i vandali sanno di poter contare”.

Il paradosso è molto amaro: in uno Stato con la nostra Costituzione, la ragion di Stato dovrebbe coincidere con le ragioni della tutela e della ricerca. Ma dove Renzi non è riuscito, Franceschini ha avuto pieno successo: nel governo del patrimonio culturale ormai la Costituzione è un lontano ricordo.

Vita da doppiatori: da arte a “catena di montaggio”

“La più grande soddisfazione per noi è quando ci dicono: non ti avevo riconosciuto”, assicura Manuel Meli. “Più scompaio e meglio è”, sorride Massimo Lodolo. Forse credete di non conoscerli, eppure li avete sentiti parlare, ridere, amare. Li avete lasciati entrare nelle vostre case. Perché Manuel e Massimo sono doppiatori, quegli attori senza volto che si esprimono con l’elemento meno fisico e più inafferrabile del nostro corpo: la voce.

Manuel ha 24 anni ed è uno dei nomi emergenti; ha lavorato in Aladin e Il Trono di Spade. Massimo, oltre ad aver recitato come attore con Mauro Bolognini e Gabriele Lavia, sta dietro i microfoni da 37 anni. Sua è la voce in alcuni film di Kevin Costner, poi tra gli altri di Andy Garcia, John Turturro e Daniel Day Lewis. Eppure guai a cercare somiglianze tra questo signore con i capelli bianchi, scompigliati, e il sigaro tra le dita e i divi di Hollywood. Guai a chiedergli di fare la voce di Costner, perché ti fulmina con lo sguardo.

Oggi tutti vogliono comparire e invece loro cercano di restare nascosti. Voci nell’ombra, appunto, come si chiama il Festival internazionale del doppiaggio (direttore artistico in passato era il critico Claudio G. Fava) che si è svolto nei giorni scorsi. Decine di doppiatori sono arrivati a Genova e Savona. Ascoltandoli si scopriva un lavoro che ci ha dato tanto anche se fa di tutto per nascondersi; venivano fuori i timori per una professione che sta cambiando rapidamente. Il rischio, in tanti ripetevano questa espressione, è ‘la catena di montaggio’: “Una volta si faceva un episodio a turno (l’unità di lavoro settimanale, ndr), oggi siamo arrivati a due o tre”, racconta Federica Bensi, doppiatrice e cantante, perché la voce è la sua vita. È l’alluvione delle serie tv straniere, decine e decine di episodi. E bisogna fare presto: “Una volta potevi provare, oggi invece arrivi davanti al microfono senza aver letto il copione. Senza sapere nulla del personaggio, del suo carattere. Sai a malapena com’è fatto fisicamente. In un giorno ti tocca interpretare persone diverse, cambi stanza e devi cambiare voce”.

L’essenziale è la trama. Il doppiatore rischia di finire proprio nel buio; si perdono la precisione della traduzione, la finezza dell’interpretazione. Il rischio è anche quello della giungla, perché esiste un contratto nazionale. Sono previsti turni e retribuzioni, ma c’è la tentazione delle scorciatoie: ridurre tempi e costi. Mettere una voce, purché sia, intanto sono le immagini che contano e alla peggio si mettono i sottotitoli. Resta sempre meno per il doppiaggio e l’arte sorella: l’adattamento. Essere fedeli alla sceneggiatura, ma trovare parole che si muovano al ritmo delle labbra. “Bisogna rispettare il ritmo del personaggio, le pause. E poi prendete una parola come ‘home’, mica puoi tradurla semplicemente con ‘casa’. Al massimo ‘casa mia’, sennò la bocca si muove a un ritmo diverso”, così l’adattatrice Enrica Fieno rivela i suoi segreti. Ogni lingua richiede trucchi diversi. La più difficile? Lo spagnolo, forse. Così come certi attori, vedi Tim Roth con quel recitare giullaresco, fanno impazzire. Servono preparazione, talento. Tempo. Il doppiaggio rischia di essere liquidato, magari con la scusa che ormai si parla inglese. Anzi, è accusato di essere un simbolo del provincialismo nostrano che non conosce le lingue: “È falso che gli italiani non abbiano imparato l’inglese perché vedevano film tradotti. Anzi, se tanti spettatori, anche gente comune, hanno visto film impegnativi come quelli di Stanley Kubrick è stato grazie al doppiaggio che glieli ha resi accessibili”, è convinta Stefania Patruno che a Savona è stata premiata per aver interpretato Maria Callas in un radiodramma. Opera da far tremare i polsi, anzi, le corde vocali: dare la voce alla Divina. Imparare l’inglese, ma difendere l’italiano, la battaglia passa anche dal doppiaggio: “Perché la lingua è la nostra identità, non c’entra niente con nazionalismi e sovranismi”. E mentre ascolti Stefania istintivamente cerchi qualche somiglianza tra questa donna alta, distinta nei tratti come nelle vocali, e la cantante lirica più famosa della storia. Ma stai sbagliando. Dietro il microfono il doppiatore davvero si spoglia del corpo, diventa solo voce.

Ma in una manciata di anni è cambiato tutto. Certo, la tecnologia aiuta a risparmiare tempo: sbagli una scena e riprovi. Tagli. E via. “Ma una volta le scene si recitavano insieme”, Lodolo mette l’accento su questa parola, recitare, “mentre oggi il doppiatore è solo davanti alla colonna del microfono”. Provate a immaginare. Sparatorie, scene di guerra, soprattutto d’amore, recitate chiusi in una stanza da soli: “È richiesta una capacità di immedesimazione centuplicata. E ci vuole una mimesi anche fisica. Dovreste vederci mentre davanti al leggio ci sbracciamo, ci agitiamo, baciamo l’aria”.

Ma come si sceglie la voce giusta? “Per prima cosa – rivela Meli – cerco di capire il carattere del personaggio; se è timido scelgo un tono più flebile, se è cattivo più graffiante. Però è importante anche adattarla all’aspetto fisico, ai tratti del viso”. Vengono in mente le parole dello scrittore Paolo Giordano: “Nel buio le voci hanno più carattere”. Davvero a volte il doppiatore è meglio dell’attore. Un esempio? “Tom Cruise ha una voce terribile”, dicono i doppiatori, “E Gassman all’inizio aveva una voce quasi da eunuco. Quella che l’ha reso famoso se l’è creata lui con studio e sforzi enormi”.

Manuel è il compagno di Federica. Così come Lodolo è partner anche nella vita di Benedetta Degli Innocenti (che doppia Lady Gaga ed è stata anche lei premiata a Savona): “Mi sono innamorata prima della sua voce”, confida lei. Quella vibrazione del respiro e delle corde vocali che, come dicevano i greci, fa incontrare l’anima e il corpo.

Desalinizzatori: via rischiosa per l’indipendenza idrica

Vi siete mai chiesti come in alcune zone senz’acqua del mondo, come in Arabia Saudita, siano possibili fantasmagorici giochi d’acqua, campi da golf e grattacieli? La risposta è una: acqua di mare desalinizzata. Una realtà di cui si parla ancora poco, ma destinata ad avere un peso sempre maggiore in un mondo sempre più assetato. Ad oggi, in realtà, ci sono già quasi 16.000 impianti in 177 paesi del mondo, che producono 95 milioni di metri cubi di acqua al giorno. La metà si trovano in Paesi ad alto reddito, Arabia Saudita, Emirati, Kuwait (ma anche Usa, Spagna e Cina). E ci sono Stati, come Israele, che grazie all’uso di dissalatori hanno scongiurato drammatiche crisi idriche.

La buona notizia è che la desalinizzazione è un’alternativa praticabile. Ma non mancano i problemi, a partire dallo smaltimento della salamoia prodotta dal processo, ben 1,5 litri per ogni litro d’acqua dolce (i valori variano a seconda delle tecnologie). Secondo un importante studio pubblicato su Science of the Total Environment da un gruppo di ricercatori della United Nations University del Canada, gli impianti attuali producono 142 milioni di metri cubi di salamoia, tanta da coprire in un anno l’intera Florida. Nelle zone dove viene scaricata, si registra un innalzamento della salinità dell’acqua che rischia di alterare, insieme alle sostanze tossiche utilizzate nel processo, gli ecosistemi marini.

L’altro problema è la quantità di energia richiesta. “In un impianto che sfrutta l’osmosi inversa, occorrono circa 4 kWh di elettricità per ogni metro cubo di acqua prodotto, dieci volte l’energia che serve a trattare sorgenti convenzionali”, spiega il prof. Alberto Tiraferri, coordinatore del CleanWaterCenter al Politecnico di Torino. Per fortuna si sta sviluppando una tecnologia che consente di integrare la desalinizzazione con le energie rinnovabili. “Si tratta della distillazione a membrana”, continua Tiraferri, “un processo in cui l’acqua di mare non viene spinta attraverso membrane dissalanti, ma scaldata, in modo che il vapore passi nella membrana e si condensi sull’altro lato. Il calore che serve può essere prodotto da solare termico o geotermia”. Ma avremo bisogno di acqua desalinizzata anche in Italia, dove oggi si usa solo in Sicilia e per l’1 per cento del bisogno? “Prima dovremmo sprecare meno acqua e ridurre le perdite della distribuzione”, spiega ancora Tiraferri. “Tuttavia la desalinizzazione potrebbe entrare a far parte di un ventaglio di azioni, tra cui il fondamentale riuso di acqua reflua”.

Ma se le piogge, a causa del clima, scarseggiassero, dovremmo farci trovare pronti, anche per non dipendere in futuro da altri. Autonomia idrica vuol dire anche autonomia politica e non è un caso che in Egitto Al Sisi abbia annunciato un ambizioso programma di dissalatori. Ora le sfide sono due: colmare con urgenza il vuoto legislativo sull’uso dei dissalatori. E rendere le tecnologie più accessibili ai Paesi a basso reddito. Che ne hanno estremo bisogno, per bere e non per alimentare spettacolari fontane.

Il grande regalo dell’acqua in bottiglia

Ben 437,5 miliardi di litri, quasi mezzo chilometro cubo. È il volume dell’acqua in bottiglia consumata l’anno scorso nel mondo: suppergiù il lago Trasimeno. Dieci undicesimi sono stati bevuti in casa e pagati 152 miliardi di euro, il resto al bar o al ristorante al prezzo di 88 miliardi: il fatturato globale del settore ha raggiunto i 240 miliardi. Dal 2010 le vendite di acqua in bottiglia nel mondo sono aumentate di due terzi, i consumi per ogni abitante del pianeta (compresi quelli che muoiono di sete) sono cresciuti della metà, con una spesa procapite di 33 euro l’anno, mentre i ricavi per le aziende imbottigliatrici sono più che raddoppiati: nel 2023 dovrebbero superare i 330 miliardi di euro per 500 miliardi di litri. Un enorme business che sfrutta i timori, spesso ingiustificati, sull’acqua di rubinetto e arricchisce solo gli imbottigliatori: per l’uso delle sorgenti le imprese pagano cifre irrisorie rispetto ai fatturati realizzati.

Il primo mercato per consumi complessivi nel 2017 era la Cina, seguita da Usa e Messico, con l’Italia nona dietro alla Germania e prima della Francia. Ma se si guarda ai consumi procapite, nello stesso anno l’Italia era terza dietro il Messico e la Thailandia, davanti a Usa Germania e Francia. Secondo Mineracqua, la federazione nazionale delle imprese del settore che fa parte di Confindustria, l’anno scorso in Italia il mercato è rimasto stabile, con una produzione di 14,8 miliardi di litri, in calo dello 0,7% dai 14,9 miliardi del 2017. Le esportazioni nette sono ammontate a un miliardo e mezzo di litri per 510 milioni di euro. Ogni italiano ha consumato 221 litri l’anno e l’80% ne ha bevuto almeno mezzo litro al giorno. I consumi nazionali dal 2012 al 2017 sono cresciuti del 48% in valore e del 26% in volume sino a 11,2 miliardi di litri.

Nella Penisola sono attive 126 società di imbottigliamento che producono circa 250 marchi, dando lavoro a oltre 40mila addetti tra diretti e indiretti. Ai primi otto gruppi fa capo il 75% del mercato nazionale. Il leader è Sanpellegrino, controllata dal gigante svizzero Nestlé come anche i marchi Panna, Recoaro e Levissima, seguita da San Benedetto (di proprietà della famiglia Zoppas, come pure i marchi Guizza, Nepi, Cutolo). Ci sono poi Fonti di Vinadio (marchio Sant’Anna della famiglia Bertone), Gruppo Acque Minerali d’Italia (famiglia Pessina, 26 fonti tra le quali i marchi Norda, SanGemini, Gaudianello), Lete (famiglia Arnone), Ferrarelle (famiglia Pontecorvo, altri marchi Natìa, Santagata, Boario, Fonte Essenziale, Vitasnella), Cogedi (marchi Uliveto e Rocchetta) e Spumador (dell’olandese Refresco, marchi Valverde, S. Antonio, San Carlo, Mood). Seguono i gruppi Montecristo (famiglie Biella e Colombo, marchi San Bernardo, Ilaria e Posina), Coca-Cola (Fonti del Vulture), Siami (famiglia Notari, marchi Misia, Rugiada, Contessa, Viva e Celeste) e Pontevecchio (famiglia Damilano, marchio Valmora). Sanpellegrino Nestlé nel 2018 ha fatturato 928 milioni, in crescita del 4% sul 2017, per il 56,9% grazie all’export (+8%) specie negli Usa (+12%). Fonti di Vinadio ha fatturato 280 milioni, quasi 60 milioni in più del 2017.

Da anni Legambiente parla di “privatizzazione delle sorgenti in Italia”. Non a caso: secondo l’ultima edizione del Rapporto del ministero dell’Economia sulle concessioni delle acque minerali, aggiornato a dicembre 2018 sulla base dei dati 2016, le concessioni di imbottigliamento “complessivamente dichiarate” per lo sfruttamento delle fonti hanno portato alle regioni ricavi per “oltre 19 milioni di euro, con un incremento rispetto al 2015 di 979mila euro, pari al 5%”. E le concessioni hanno spesso durate lunghissime (anche 30 anni) e vengono assegnate senza gara. Un affarone: solo per i privati però. Ma Ettore Fortuna, vicepresidente di Mineracqua, ha dichiarato al Sole 24 Ore che il rapporto del governo è “sbagliatissimo”: “Lo studio dice che il settore fattura 2,7 miliardi e paga 18,4 milioni per le concessioni, un rapporto di 191 a uno. Ma nei 2,7 miliardi di cifra d’affari sono compresi mercati diversissimi, come le bibite (come la Coca Cola in Basilicata, con affidamento perpetuo). Il ministero avrebbe dovuto rapportare il costo della concessione con la redditività che non arriva al 2%, non con il fatturato lordo”. Se le Regioni imponessero oneri più elevati, per Fortuna “l’aumento andrebbe diritto sul prezzo finale, facendo rincarare l’acqua minerale a valori troppo elevati. Oggi in Italia il prezzo medio dell’acqua minerale è di 22 centesimi al litro, il più basso a livello comunitario. Di fronte a canoni tra 1 e 3 euro a metro cubo di acqua imbottigliata che si pagano in media in Italia, in Francia si pagano 58 centesimi, in Germania fra 31 e 40 centesimi, in Spagna addirittura gli oneri di concessione sono pari a zero”, ha spiegato il dirigente di Mineracqua.

Se davvero la redditività del business dell’acqua in bottiglia in Italia “non arriva al 2%”, come ha detto al giornale degli industriali il dirigente di Confindustria, alcune dinamiche del settore sono allora inspiegabili. La prima: il costante interesse dei grandi gruppi internazionali per acquisire quote di mercato. Solo per restare in Italia, il mese scorso CocaCola ha acquistato per 88 milioni le acque e le bibite Lurisia: nel 2017 queste avevano visto l’ingresso tra i proprietari della famiglia Boroli, attraverso il fondo Idea Capital di De Agostini, che aveva acquistato quote dagli azionisti storici, ovvero Eataly di Oscar Farinetti e la famiglia Invernizzi. Ancora: a giugno il fondo globale di private equity “The Riverside Company” ha comprato La Galvanina, società della famiglia Mini che produce acque minerali di fascia premium e bevande analcoliche biologiche, per una cifra ignota. La seconda: se la redditività è così bassa, perché le società del settore investono cifre faraoniche in comunicazione, pubblicità, sponsorizzazioni, con l’uso di testimonial notissimi? Tra l’altro alcuni spot sono stati sanzionati perché ingannevoli: il caso più eclatante è quello di Uliveto, censurata più volte dalle autorità perché definita “acqua della salute”.

Se le cose stessero come le racconta Mineracqua, non si spiegherebbe poi un ultimo fatto: il divario tra concessioni pagate per l’uso delle sorgenti e ricavi ottenuti è una costante a livello globale. Nestlé, leader mondiale del settore alimentare, ha iniziato a imbottigliare acqua in Svizzera nel 1843 e oggi è il maggior produttore globale, con ricavi 2016 per 7,7 miliardi di dollari, seguita da Coca-Cola, Danone e PepsiCo. Nestlé Waters, la sua controllata di Parigi, nel mondo possiede un centinaio di impianti in 34 Paesi e quasi 50 marchi tra cui Perrier e San Pellegrino. Già nel 1994 l’allora amministratore delegato di Nestlé, Helmut Maucher, dichiarava al New York Times: “Le sorgenti sono come il petrolio. Puoi sempre costruire una fabbrica di cioccolato ma le sorgenti o le hai o non le hai”. Una inchiesta di Bloomberg del settembre 2017 ha rivelato che dal solo impianto di imbottigliamento di acque minerali della Mecosta County, nel Michigan, Nestlé nel 2016 aveva realizzato un fatturato di 343 milioni di dollari pagando un canone complessivo di 200 (duecento) dollari. A San Bernardino, in California, per anni Nestlé ha pagato al Servizio forestale degli Stati Uniti la tariffa annuale di 524 dollari per estrarre circa 113,6 milioni di litri, anche durante le siccità. Negli Usa, dove le norme sull’acqua variano da Stato a Stato e da contea a contea, secondo Bloomberg “Nestlé tende ad aprire i suoi impianti in aree con legislazioni sull’acqua deboli oppure fa lobbismo per indebolire le leggi esistenti”.

Lo schema si ripete identico anche in Asia. Il 10 ottobre la Corte Suprema del Pakistan ha discusso l’introduzione di nuovi canoni pubblici di estrazione per le società di imbottigliamento, visto che nel Paese lo stress idrico si fa sempre più acuto anche per la crescita demografica e i furti d’acqua della “mafia blu” che guadagna un miliardo e mezzo di dollari l’anno. Il business dell’imbottigliamento in Pakistan è dominato da tre multinazionali, Nestlé Pakistan (con la maggior quota di mercato del 36,3%), Pepsi Co. e Coca Cola Beverages Pakistan. Secondo i magistrati di Islamabad, però, Nestlé Pakistan non ha praticamente versato nulla all’erario per i 4,43 miliardi di litri captati tra il 2013 e il 2017: allo Stato del Sindh che ospita Karachi, città con oltre 24 milioni di abitanti che resta spesso a corto di acqua potabile nonostante sia attraversata dal fiume Indo, la controllata locale del gigante svizzero avrebbe pagato mezza rupia pakistana (0,28 centesimi di euro) ogni 4mila 550 litri di acqua estratta.