“Le nanoparticelle di smog causano cancro al cervello”

Nanoparticelle fuori controllo provocano tumori al cervello. L’Ue vuole limitale. I costruttori auto chiedono tempo. Un esclusivo studio canadese, pubblicato prossimamente sulla rivista Epidemiology, dimostra per la prima volta che le particelle ultrafini emesse da fonti inquinanti come il traffico stradale provocano tumori cerebrali. La scoperta lancia un nuovo allarme sulla pericolosità per la salute delle nanoparticelle, composti chimici con diametro inferiore a 100 nanometri (1.000 volte più sottili di un capello). Questi inquinanti infinitesimali non sono ancora pienamente regolamentati a livello europeo. Pertanto sfuggono ai controlli e fuoriescono a iosa dai tubi di scappamento. Si parla di decine di migliaia di miliardi a Km percorso. Ma l’industria automobilistica si oppone a una rapida riforma legislativa che ne limiti l’emissione.

Le regole Ue vigenti per l’omologazione delle auto fissano limiti solo per le particelle di dimensione minima di 23 nanometri. Tuttavia nuove tecnologie di misurazione hanno recentemente svelato che ogni giorno, nelle nostre città, respiriamo invisibili sciami di particelle inferiori ai 2,5 nanometri (9 volte inferiori a quelle normate) che sono ancora più micidiali: sono così piccole che riescono a penetrare in profondità nei tessuti dell’organismo umano, compreso il cervello appunto. Le quantità esatte di particelle in circolazione sono ancora difficilmente determinabili, variando a seconda del posto e della stagione. Le agenzie ambientali nazionali non ci hanno ancora informato poichè, in base alla Direttiva europea sulla qualità dell’aria, le stazioni pubbliche di monitoraggio dell’inquinamento atmosferico hanno l’obbligo di misurare solo le concentrazioni di particelle di 2,5 micrometri (2.500 volte piu grandi delle nanoparticelle). “Un aumento di 10.000 nanoparticelle per cm cubo è responsabile di circa un nuovo caso di tumore cerebrale per ogni 100.000 persone – afferma Scott Weichenthal, autore dello studio condotto nella città di Toronto (oltre 6 milioni di abitanti nell’area urbana) e professore associato al Dipartimento di Epidemiologia, Biostatistica e Salute del lavoro dell’Universita McGill di Montreal – Per stabilire tale correlazione e necessario studiare una popolazione molto ampia e disporre di un modello di esposizione alle nanoparticelle specifico per la località studiata, pertanto i nostri risultati non sono automaticamente applicabili in qualsiasi altra città”. Concorda Massimo Stafoggia, esperto del Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio, che sta attualmente pianificando un’indagine nella Capitale per quantificare le vittime di malattie cardiovascolari indotte dallo stesso tipo di particelle. “Per ottenere eventualmente anche nelle grandi città italiane gli stessi risultati riscontrati a Toronto occorrerebbe ripetere lo studio localmente usando una popolazione altrettanto cospicua”.

Giusto per dare un generico ordine di grandezza, si puo stimare che a Roma (4 milioni di abitanti) 40 persone muoiono ogni anno di tumore al cervello a causa delle nanoparticele, sempre che si possano operare i medesimi calcoli fatti a Toronto. Altri studi, pubblicati di recente, confermano che le nanoparticelle colpiscono tutte le parti del corpo, contribuendo all’insorgere di numerose patologie, compreso il diabete. A salvarci dalle particelle killer non basterà l’uscita dal diesel, finora demonizzato in seguito allo scandalo delle emissioni truccate di biossido di azoto (NO2). Nuovi test auto finanziati dall’Ue rivelano infatti che i motori a benzina e gas naturale emettono addirittura più nanopaticelle nocive che i motori diesel euro 6 (dotati di filtri antiparticolato piu efficaci), nonostante rispettino le soglie in vigore per le particelle piu grandi. I quantitativi rilasciati dai due tipi di carburanti sarebbero rispettivamente 100 e 10 volte superiori rispetto ai nuovi diesel. La Commissione europea sta già lavorando a un piano per imporre limiti piu stringenti alle emissioni di tutte le tipologie di auto in modo da minimizzare anche il rilascio di particelle ultrafini. Ma la tempistica per l’approvazione di norme che tutelino maggiormente la nostra salute resta incerta. Il processo e iniziato nell’ottobre 2018 con la conferenza sul futuro della legislazione sulle emissioni, a seguito della quale e stato istituito un gruppo di esperti a Bruxelles, riunitosi per la seconda volta venerdi scorso. Alle riunioni partecipano sia le Ong sia l’Associazione europea dei costruttori auto. Quest’ultima ha chiesto un periodo di transizione per dotare i futuri veicoli dei necessari sistemi anti-nanoparticelle, alludendo al preavviso di quattro anni tradizionalmente accordato all’industria dalla legislazione Usa. “Non e neanche ancora appurato che nuovi limiti di emissione post euro 6 siano necessari – afferma Kasper Peters, Portavoce dell’Associazione – I nuovi standard potrebbero essere adottati, ma anche non esserlo, sarà tutto da vedere”.

La tabella di marcia è fitta di procedure burocratiche che rischiano di allungare i tempi. La Commissione Ue ha commissionato due indagini scientifiche e due altri studi: uno per analizzare la legislazione internazionale e le possibili opzioni legislative a livello Ue e un secondo per valutare la fattibilità tecno-economica e l’atteso impatto dei nuovi limiti di emissione. L’avanzamento di vari lavori, che non saranno completati prima della fine del 2020, verrà seguito dal gruppo di esperti che continuerà a riunirsi ogni trimestre. Una proposta normativa concreta della Commissione non è ancora stata messa in calendario.

Fabbricanti d’armi: l’Italia è nella top ten mondiale

Il riarmo globale è in piena corsa, con ritmi quali non se ne vedevano dalla fine della Guerra Fredda, e il commercio mondiale di armi lo segue a ruota. Lo conferma non solo la cronaca, con l’escalation turca contro i Curdi in Siria, ma anche i dati del Sipri, l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma che monitora il “mercato della difesa”. Anche l’Italia si è ritagliata la sua fetta di questo settore attraverso la diplomazia commerciale. Ma gli esperti temono soprattutto la diffusione delle armi robot, i cui prototipi stanno già iniziando a comparire e vengono testati su alcuni teatri di guerra, come quello siriano.

Secondo il Sipri, nel 2018 la spesa militare mondiale è stata di 1.822 miliardi di euro, pari al 2,1% del prodotto interno lordo globale o a 215 euro per ogni essere umano. Il valore è cresciuto del 2,6% sul 2017 e del 5,4% sul 2009. L’onere militare – le spese militari di ciascun Paese in percentuale del suo Pil – è però calato tra il 2017 e il 2018 in ogni area mondiale tranne che in Europa, dove gli accordi internazionali hanno spinto alcuni Stati membri della Nato ad aumentare gli investimenti militari per raggiungere entro il 2024 un onere militare pari al 2% dei rispettivi Pil.

Nel 2018 i cinque maggiori Paesi per spesa militare sono stati Usa, Cina, Arabia Saudita, India e Francia, che insieme hanno rappresentato il 60% della spesa mondiale. L’anno scorso, per la prima volta dal 2012, gli Stati Uniti hanno aumentato il budget del Pentagono portandolo a 584 miliardi di euro, il 36% dell’intero stanziamento militare mondiale e 2,6 volte la spesa del secondo Paese in classifica, la Cina. Pechino ha investito in armi 225 miliardi di euro, con un aumento del 5% sul 2017 e del 83% sul 2009. Ma “la spesa militare cinese è pressoché stabilmente legata alla crescita economica del Paese, che nel 2018 ha registrato il livello più basso degli ultimi 28 anni”, rileva Sipri, dunque “per i prossimi anni ci si può attendere una crescita più lenta della spesa militare” della Repubblica Popolare. Il primato mondiale dell’onere militare nel 2018 l’ha vinto l’Arabia Saudita, che ha speso in armi l’8,8% del Pil con 61 miliardi di euro, nonostante un calo del 6,5% su base annua. L’India (60 miliardi) e la Francia (57,4 miliardi) sono stati il quarto e il quinto maggior investitore in armi. Con 55,3 miliardi di euro, le spese militari di Mosca nel 2018 sono invece calate del 22% rispetto al picco fatto registrare nel 2016, il record dopo la fine della Guerra Fredda: per la prima volta dal 2006, così, la Russia è uscita dalla “top five” globale delle spese militari. In termini relativi, invece, i tre principali aumenti di spesa militare tra il 2017 e il 2018 sono stati fatti registrare da Burkina Faso (+52%), Giamaica (+40%) e Armenia (+33%), mentre le tre principali diminuzioni sono state registrate in Sud Sudan (-50%), Sudan (-49%) e Benin (-28%).

A far segnare il nuovo record mondiale è stato invece il volume mondiale del commercio di armi, che è cresciuto del 7,8% tra i quinquenni 2009-2013 e 2014 -2018 toccando il livello più alto dalla fine della Guerra Fredda e ha proseguito il trend in costante crescita dai primi anni 2000. Sipri stima che i traffici globali di armi siano stati pari ad almeno 95 miliardi di dollari. I cinque maggiori Paesi esportatori, nel quinquennio 2014-18, sono stati gli Usa (con il 34% dell’export mondiale), seguiti da Russia (22%), Francia (6,7%), Germania (5,8%) e Cina (5,7%): insieme hanno realizzato il 75% dell’export globale. L’Italia si è piazzata al nono posto con il 2,5% delle esportazioni globali per 5,2 miliardi di euro, mentre la produzione ha avuto un valore pari all’1% del Pil nazionale.

Nel 2018 il Medio Oriente è stato il principale mercato mondiale degli armamenti, con il 35% dell’import globale e un aumento dell’87% tra i quinquenni 2009-13 e il 2014-18, mentre i flussi di armi verso tutte le altre aree mondiali sono calati: del 36% quello verso le Americhe, del 13% in Europa, del 6,7% in Asia e Oceania e del 6,5% in Africa. I cinque maggiori importatori di armi sono stati Arabia Saudita, India, Egitto, Australia e Algeria con il 35% dell’import globale.

Quanto ai top player del mercato mondiale, la classifica stilata da Sipri delle prime 100 società produttrici di armi e servizi militari al mondo (che non comprende quelle cinesi, i cui dati non vengono resi noti) per il 2017, l’ultimo anno per il quale i dati sono disponibili, ha visto un aumento del fatturato globale del 2,5% rispetto al 2016 a 358,2 miliardi di euro. Nell’elenco gli Stati Uniti la fanno da padrone, con cinque società nella “top ten” e i tre gradini del podio con la prima (Lockheed Martin), seconda (Boeing) e terza (Raytheon). Delle altre cinque aziende tra le prime dieci, una è inglese (Bae Systems), una francese (Thales), un altro è un consorzio europeo (Airbus). Al nono posto c’è l’italiana Leonardo (ex Finmeccanica), che nonostante l’aumento del fatturato ha perso una posizione rispetto al 2016, e la decima è russa (Almaz-Antey). L’unica altra azienda italiana tra le 100 multinazionali degli armamenti è Fincantieri, che nel 2017 è scesa dalla 55esima alla 58esima posizione.

Intanto, nonostante la legge 185 del 1990 che proibisce di esportare armi a Paesi in guerra o che violano i diritti umani, l’Italia continua a riarmare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti coinvolti nella guerra in Yemen costata la vita a decine di migliaia di civili, o a far produrre armi su licenza in Turchia, come gli elicotteri T129 di Leonardo per 3 miliardi di euro, o a venderle, come gli aerei ATR 72-600 in versione da trasporto o antisommergibile piazzati da Leonardo alla Marina turca. Sempre in Turchia è presente dal 2000 Beretta che vi produce armi da fuoco leggere tramite la controllata Stoeger Silah Sanayi (ex Vursan) vendendole anche al ministero della Difesa di Ankara. Alcune proposte di legge per stringere le maglie di questi commerci e far rispettare l’articolo 11 della Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra”) giacciono da mesi in Parlamento. Da qualche parte infatti devono pur arrivare le armi per i 55 conflitti in corso nel mondo, tutti in Africa e in Asia tranne quelli in Ucraina e Colombia: da inizio anno solo in Afghanistan, Siria e Yemen si sono già contate oltre 80.200 vittime, in grandissima parte civili.

Renzi ribattezza (Forza) Italia Viva: appello agli elettori e agli eletti di B.

Matteo Renzi ci ha provato a raccomandare Matteo e poi a rassicurare chi l’ha ascoltato, con una cravatta scura dei mille giorni da premier: “La politica è dominio di sé stessi, non predominio sugli altri”.

Sul palco col corbezzolo non sale nessuno per l’ultimo applauso, allarga le braccia, si gode un momento che gli mancava da tempo, nel frastuono della Leopolda numero 10 di Firenze, tra musiche di Tommaso Paradiso, citazioni di Aldo Moro e di Lorenzo Jovanotti, nella retorica di un eterno ritorno al futuro. E il tormento, chissà, del modesto 4 o 5 per cento dei sondaggi.

Segnali a “Giuseppi”

“Non possiamo usare esortazioni, visto com’è andata in passato”, dice Renzi, “chiamando” la risata della platea. Il riferimento è allo “stai sereno” usato nei confronti di Enrico Letta e il destinatario della (mancata) esortazione è il premier Giuseppe Conte. Il bersaglio è chiaro, la minaccia pure. Perché il leader di Italia Viva non ha intenzione di sostenere il presidente del Consiglio fino alla fine, ma ha anche molto chiaro che non può permettersi di andare al voto. “Il punto fondamentale è che il treno della legislatura arrivi al 2023, e chi vuole scendere prima può farlo, ma noi vogliamo garantire alternativa al bullismo istituzionale”. E enuncia pure la motivazione numero 1: “In questa legislatura scade il mandato del presidente della Repubblica e il Quirinale continua ad avere un ruolo fondamentale. È un posto chiave. Se rimane questa legislatura in vita il successore di Sergio Mattarella sarà espressione di forze che credono dell’Europa e non stanno in piazza con Casapound”. E poi lancia una provocazione, cioè un seminario per elaborare un piano per combattere l’evasione fiscale (e non l’eccesso di contante) da offrire a questo esecutivo assieme alla rimozione di quota 100 per le pensioni. Il gusto di rovinare gli equilibri di governo.

La stagione della caccia.

Si chiama Italia Viva il partito che nasce e ogni riferimento a Forza Italia non è puramente casuale. Renzi per la prima volta ha fatto un appello esplicito agli elettori e agli eletti di Berlusconi: “Venite a darci una mano”. Ha sempre ambito alle spoglie politiche di Berlusconi, ma non s’era mai gettato nell’altro campo. Al centro trattino destra. Invece adesso – elevando B. a emblema della liberal democrazia in Italia e finanche in Europa – chiama a sé quelli che si sentono a disagio col truce Matteo Salvini. Il capo del Carroccio è il principale bersaglio, anche nei desideri del voto nel lontano 2023: è il nemico da servire ai media, i “competitor”, termine preferito dallo stesso senatore semplice, sono tutti gli altri. Dal Nazareno in giù. “Io non so se quelli che sono rimasti nel Pd verranno qui, noi intanto partiamo. Noi andiamo, e se vogliono venire avranno sempre le porte aperte”. Poi, se non si fosse capito, aggiunge: “Noi vogliamo fare quel che ha fatto Macron e che certo non ha avuto il consenso dei socialisti francesi. Vogliamo assorbire larga parte di quel consenso, vogliamo arrivare come minimo sindacale in doppia cifra”. Ha rimosso, però, il fu uomo nuovo Macron e le attuali difficoltà in patria e in Europa. Da segnalare: zero affondi sui Cinque Stelle.

Il Giglio Magico (più Meb)

Maria Elena Boschi apre la giornata di domenica, è ancora presto, prende titoli di agenzia che invecchiano presto. Dice che la Leopolda è casa sua. Però non sta più a capotavola. Sabato l’ha sparata grossa sui Dem “partito delle tasse”, l’hanno redarguita e non s’è più ripresa. Ha sempre ottima familiarità con le telecamere, pretende il ruolo da protagonista. Nel copione, però, alla voce “Meb” – rimpiazzata da Bellanova – c’è poca roba. In compenso, i renziani insostituibili circondano il Capo: l’amico Marco Carrai, l’avvocato Alberto Bianchi, Fabrizio Landi (Cda di Leonardo), Federico Lovadina, che condivide lo studio legale con l’ex tesoriere dem Francesco Bonifazi e il fratello commercialista di Boschi.

Ex presidente della fondazione Open e di recente indagato a Firenze per traffico di influenze, Bianchi si ferma a parlare con i cronisti soltanto per dire che non avrà ruoli in Italia Viva. Lele Mora, l’ex agente dei vip, crea il panico alla Leopolda: “Io sono mussoliniano, mi ha invitato l’amico Matteo”. Renzi smentisce. Lele no, è troppo.

“La manovra deve essere nostra, Conte non abbia fretta”

Indica subito i paletti: “Questa manovra deve portare l’impronta dei Cinque Stelle, e il carcere per i grandi evasori deve essere previsto subito nel decreto fiscale”. E anche se con Giuseppe Conte, giura, “non c’è nulla da ricucire” però c’è tanto da discutere: “Meglio fare dieci vertici di maggioranza piuttosto che insistere nel voler dare a tutti i costi l’impressione che sia tutto rose e fiori”. Così la pensa Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri, vicino al capo politico del M5S Luigi Di Maio.

Vi siete detti “addolorati e sorpresi” per le parole di Conte. Perché vi ha attaccato così?

Credo che ci sia troppa fretta di chiudere la manovra, e questo abbia portato il presidente del Consiglio a snellire in modo eccessivo la comunicazione con i partiti di maggioranza.

È stato durissimo, altro che snellire…

(Sorride, ndr) Di Maio è stato molto chiaro, nel dire che chiedevamo da tempo un vertice di maggioranza. Ed è arrivato.

Perché avrebbe fretta?

Credo voglia dare un’immagine di stabilità. Ma noi abbiamo ricordato che vanno innanzitutto rispettati gli impegni con gli italiani. Non ci stiamo a fare una manovra tanto per farla.

Non ci state all’abbassamento della soglia del contante e alle multe per chi non accetti pagamenti elettronici. Cioè siete su un fronte opposto rispetto al premier.

Siamo d’accordo con queste misure, però non devono diventare nuove tasse, quindi è essenziale abbattere il costo delle commissioni bancarie. E allora non bisogna correre e trovare il tempo necessario per farlo. E bisogna partire dai grandi evasori, colpendoli duramente, e non da chi viene perseguitato da 60 anni.

È un messaggio ambiguo. Sembra legittimare la piccola evasione, il “nero”.

Non va affatto accettata, ma già oggi tutti hanno l’obbligo delle scontrino. Se vogliamo recuperare davvero risorse bisogna intervenire con la confisca e pene severe contro la grande evasione, quella vera.

Il carcere per i grandi evasori va inserito subito nel decreto fiscale?

Assolutamente sì. Conosciamo le dinamiche delle Aule parlamentari, e sappiamo che approvare queste norme con un emendamento sarebbe complicato. Anche perché il partito unico che sostiene gli evasori, quello del centrodestra, farebbe di tutto per affossarlo in Parlamento.

Sarà. Però sul Fisco ricalcate le posizioni di Italia Viva.

Se una posizione è giusta, non ci importa chi la appoggi. Ciò che conta è approvare il pacchetto complessivo sulle misure fiscali.

Se Conte e gli altri partiti dicessero no alle vostre proposte, cosa succederebbe? La manovra non passa?

È evidente che questa manovra deve portare una forte impronta del Movimento, perché senza di noi non esiste maggioranza parlamentare. Da questo non si può prescindere.

Dal M5S però accusano il premier di ascoltare solo il Pd. Conferma?

Non credo sia così. Penso piuttosto che Conte, come i dem, sia molto preoccupato dal fatto di rassicurare l’Europa e il Quirinale. Non è sbagliato, ma una buona manovra viene prima di tutto.

Il vicesegretario del Pd Orlando ha chiesto: “Se la fiducia da parte di M5S e Italia Viva è venuta meno, lo dicano”.

Qui non è questione di fiducia o di amicizia, ma di realizzare il programma di governo. Non serve la fiducia, serve un rapporto di lavoro, serio.

Voi non vi fidate più di Conte. È un rapporto logorato.

Ma no, il rapporto c’è e funziona. Del resto il premier dal palco di Italia5Stelle sabato ha manifestato la sua riconoscenza al Movimento. Sa che senza di noi non sarebbe a Palazzo Chigi, perché il Pd aveva posto il veto sul suo nome. Ma ora dobbiamo solo ricomporre un metodo di lavoro.

“I limiti al cash ostacolano criminalità e corruzione”

I limiti ai pagamenti in contanti e quelli della rilevanza penale dell’evasione fiscale sono stati progressivamente abbassati negli anni, poi di nuovo alzati. Oggi le forze politiche si dividono sull’opportunità di tornare a ridurli. Ne abbiamo parlato con Luca Tescaroli, procuratore aggiunto di Firenze, già pm a Roma e prima in Sicilia.

Nell’ottica del contrasto alla criminalità organizzata e alriciclaggio, ma anche all’evasione fiscale, è importante abbassare la soglia per i pagamenti cash?

È importante che le movimentazioni finanziarie siano tracciate. Le movimentazioni in contanti consentono dei vantaggi agli appartenenti alla criminalità organizzata, quindi la loro azione viene ostacolata dal controllo del contante, che non lascia traccia.

C’è davvero differenza tra l’attuale soglia di 3.000 euro e quella di 1.000 che si vorrebbe reintrodurre?

Più si riduce la soglia, maggiore è l’ostacolo che si crea. Anche questo può avere un suo significato dal punto di vista investigativo. Certo questo può creare difficoltà anche negli scambi, bisogna trovare una soglia che non comprometta gli affari leciti. Di fronte ad attività criminose in forte espansione deve prevalere l’interesse della giustizia che è un bene di natura collettiva. La scelta degli strumenti è demandata al legislatore, io posso esprimermi dal punto di vista tecnico-investigativo.

Ma la grande criminalità organizzata non prescinde ormai largamente dall’uso del contante?

La situazione è variegata. Le organizzazioni mafiose tendono ad affinare gli strumenti e si affidano a professionisti che curano le attività di investimento anche con le tecniche avanzate offerte dalla rete. Ma ci sono attività criminali che passano per la movimentazione in contanti e l’emissione di fatture per operazioni inesistenti: anche sul versante della corruzione è il modo per giustificare i trasferimenti. I contanti non vengono abbandonati, anzi si creano strumenti per generare contante ed è fondamentale consentire la tracciabilità. Sono utilizzati anche strumenti diversi, per esempio gli approvvigionamenti di armi e stupefacenti attraverso monete virtuali tipo bitcoin, acquistati con monete legali. Anche qui il problema è monitorare i flussi che nascondono significative attività di riciclaggio.

E sul versante dell’evasione fiscale è utile limitare l’uso del contante?

Purtroppo abbiamo un sistema repressivo non particolarmente efficace contro l’evasione fiscale Negli Stati Uniti è uno dei crimini più gravi e si va in carcere. In Italia non ci sono prospettive carcerarie effettive nemmeno quando è rilevante. Se la contribuzione secondo le capacità di ciascuno è un valore di rango costituzionale si dovrebbero creare meccanismi per distogliere i consociati da quel tipo di delitto.

È l’altro tema di questi giorni: solo il carcere spaventa i grandi evasori?

Il colletto bianco pensa: cosa rischio? Oggi il rischio del carcere è molto contenuto. Il frequente ricorso ai condoni fiscali affievolisce ulteriormente la deterrenza. Se invece la violazione implica conseguenze serie, come periodi significativi di carcerazione, le cose cambiano. D’altra parte, se confrontiamo lo Stato e il sistema mafioso la differenza è proprio la certezza della punizione: nel sistema mafioso c’è, mentre lo Stato è caratterizzato dall’assenza di certezza della punizione. Oggi noi abbiamo redditi da lavoro dipendente, spesso bassi, tassati alla fonte, mentre gli appartenenti agli strati più elevati della società beneficiano di una totale assenza di punizione. Le carceri sono prive di colletti bianchi condannati in via definitiva.

Tornando ai limiti al contante, chi è contrario invoca la privacy, osserva che i pagamenti elettronici favoriscono innanzitutto le banche, avverte che i più legati al cash sono le persone anziane e i ceti meno abbienti. Non è così?

Bisogna trovare il punto di equilibrio tra valori tutti meritevoli di attenzione. È necessaria una formazione culturale perché si abbia coscienza che si possono utilizzare sistemi di pagamento alternativi al contante. Anche per gli anziani e i meno abbienti, se si cresce con quest’abitudine diventa assolutamente normale. Favorire le banche? Non ci nascondiamo dietro un dito. C’è un sistema di criminalità molto attivo, bisogna accettare di pagare dei prezzi per realizzare un efficace contrasto. Vivere sicuri e poter svolgere le proprie attività economiche è molto importante, spesso si pensa solo alle garanzie individuali e si dimenticano quelle collettive.

Ma mi faccia il piacere

Italia Morta. “Renzi: ‘Da noi solo idee, non diamo ultimatum’. Arrivi da destra e sinistra. Gli elogi alla Carfagna (che però si chiama fuori). Da Forza Italia attesi Costa e Cattaneo” (il Messaggero, 19.10). “Questi sono i miei principi, ma se non vi piacciono ne ho degli altri” (Groucho Marx).

Italia Mora. “Sono venuto a salutare Renzi, per curiosità. Io sono mussoliniano, ma la simpatia di un amico non si discute. Renzi mi ha invitato, ha detto: ‘Vieni a salutarci’. E sono venuto. Perchè sono vestito di nero? La camicia nera va sempre bene, snellisce. Se Italia Viva è la nuova Forza Italia? Beh, lo spero per Renzi” (Lele Mora alla Leopolda, Adnkronos, 20.10). Sono soddisfazioni.

Cani e porci. ”è sempre lui. Silvio animalista: ‘I cani sono più saggi dei nostri politici’” (Libero, 19.10). Per non parlare dei porci.

Craxini e Craxetti. “Salvini ora è tentato dall’omaggio a Craxi. Giorgetti ad Hammamet sulla tomba dello statista socialista” (il Giornale, 16.10). Mi sa che gli scandali dei 49 milioni, di Siri e di Savoini sono ancor più seri di quanto pensassimo.

Buona questa. “Renzi ha dimostrato, da presidente del Consiglio, di non voler mettere becco nelle nomine Rai… Detto questo, è innegabile che Renzi sia scomparso dai Tg. L’altra sera Bruno Vespa lo dava al 6%. Sui giornali è ogni giorno in prima pagina. Ma sui telegiornali Rai non ce n’è traccia” (Michele Anzaldi, deputato Italia Viva, La Stampa, 12.10). Uahahahahahah.

La pappa e il lardo. “Vogliamo far diventare l’Umbria una zona franca, cosa che permetterà al presidente di emanare una moneta, eccola qui: la Lira Umbra. Daremo mille lire umbre al mese a tutti, che equivalgono a mille euro, spendibili per ridurre le tasse. Qualcuno si mette a ridere, sì, ma non sanno che Pappalardo si è incontrato con Mario Draghi! Quando ho mostrato la moneta al presidente della Bce, Draghi mi ha detto: la può stampare, generale” (Antonio Pappalardo, ex generale dei carabinieri, candidato a presidente dell’Umbria con la lista Gilet Arancioni, Tgr Rai, 15.10). Poi però ha chiamato l’ambulanza.

Supposizioni. “Buonasera, presidente, sono una giovane farmacista…”. “Sei una farmacista e metti le supposte a tutti!” (dialogo fra una simpatizzante di FI e Silvio Berlusconi dopo un convegno, 13.10).

Brigate Caltagirone. “’Nostalgici br e No Tav nel cinema Palazzo’. La Digos accende un faro” (il Messaggero, 16.10). Quindi i brigatisti e i No Tav pari sono. Buono a sapersi.

Colpa di Virginia. “Capitale pericolosa, sindaca inadeguata. L’autobus schiantato sulla Cassia, le buche e gli alberi che uccidono, le scale mobili che crollano. Roma pare Gotham City” (Il Foglio, 17.10). Ecco chi guidava l’autobus che s’è schiantato: la stessa che scava buche e abbatte alberi. La Raggi.

Good news. “Conte ci prende per il cuneo. Il governo nuoce gravemente agli italiani” (Libero, 8.10). “Buffonata. Nel decreto clima alla fine ci sono soltanto scemenze”, “Più fisco, più manette. Stato di polizia tributaria” (il Giornale, 11.10). “Lo Stato ci uccide con il fisco” (Libero, 11.10). “Rovinati artigiani, commercianti e partite Iva” (Libero, 12.10). “La democrazia dei vuoti. Camere mutilate. Il taglio dei parlamentari non aumenta l’autorevolezza dei politici, ma è un altro passo verso la fine della rappresentanza” (Marco Damilano, l’Espresso, 13.10). “Il governo più illiberale di sempre” (Francesco Forte, il Giornale, 14.10). “Governo di straccioni” (Libero, 15.10). “Schiaffo ai pensionati. Manovra da incubo” (il Giornale, 16.10). “Manovra con scasso: altro furto in casa” (La Verità, 17.10). “Rapina in casa” (il Giornale, 17.10). “Piovono tasse dal governo. Salvini colto da malore. La manovra è un attentato” (Libero, 17.10). “L’Italia si ribella. In piazza contro gli aguzzini” “Parla Conte, i telespettatori scappano disperati” (Libero, 18.10). “Pulizia etnica a Cinque stelle: questo sì che è razzismo” (Paolo Guzzanti, il Giornale, 19.10). “Di Maio e Bonafede vogliono mandare in campi di concentramento otto milioni di evasori… E’ più o meno quello che Hitler pensava degli ebrei… L’Italia grillina, come la Germania nazista, si deve avviare alla purezza della razza e organizza per via parlamentare un mega-rastrellamento di Stato per celebrare degnamente gli 80 anni delle leggi razziali (che – per la cronaca – cadevano nel 2018, ndr)…. L’ideologia dei 5 Stelle si salda con quella comunista” (Alessandro Sallusti, il Giornale, 19.10). Per questa settimana è tutto: restiamo in contatto, se sopravviviamo.

Il titolo della settimana. “Alleanze, la mossa del Pd: ‘Con M5S solo senza Raggi’” (il Messaggero, 18.10). Buzzi e Carminati possono andare bene?

Fermi tutti: a “Downton Abbey” è arrivato il Re. Ma è solo un film

Ieri, oggi e domani. Tutto passa tranne Downton Abbey, perché dalla “home” dei Crawley nessuno vorrebbe mai uscire. E tanto hanno insistito i fan planetari della serie tv britannica da ottenere qualcosa di inconsueto se non straordinario: la creazione di un film che la portasse a conclusione. Almeno finché un sequel verrà caldeggiato, cosa molto probabile a giudicare dal successo al box office mondiale a oggi giunto a 136 milioni di dollari, di cui 84 in Usa e 28 in madrepatria, dove il film sta continuando a mietere consensi. L’Italia non farà eccezione, e la misura dell’attesa per l’uscita nelle sale — fissata per il 24 ottobre per Universal — è palpabile dalla folla presente ieri all’Auditorium capitolino dove Downton Abbey era in prima nazionale, con tanto di accompagnamento del regista Michael Engler, due produttori e soprattutto tre membri del cast, osannati come vere star: Jim Carter (l’inossidabile maggiordomo Mr Carson), Michelle Dockery (Lady Mary) e la guest star Imelda Staunton (Maud Bagshaw), che ha “accolto l’onore di esser fra gli eletti in the family anche solo per tre giorni, recitando con mio marito Jim (Carter, ndr)”.

Al di là della fascinazione mondiale sortita dall’effetto-Downton Abbey (il più divertente è il boom nel mondo di scuole per diventare “maggiordomi inglesi”), la “riduzione” a film della serie lunga sei stagioni non è opzione dell’ultima ora. “Pensiamo al grande schermo da anni, cioè dalla fine della terza stagione, e questo soprattutto per l’indiscutibile valore produttivo dell’opera televisiva, quasi unica per eccellenza di scenografie, costumi, look complessivo: una tale maestosità meritava di esser goduta sul big screen”, dicono i produttori Gareth Neame e Liz Trubridge, ma è pur vero che trovare il plot giusto per non deludere le aspettative non era impresa facile.

La bella notizia è che quel geniaccio di Julian Fellowes — creatore del concept e sceneggiatore della serie e del film, già premio Oscar per la sceneggiatura di Gosford Park — è riuscito a scrivere un testo capace di soddisfare le esigenze dei fan ma anche quelle dei profani, di quel popolo ignaro ma curioso degli intrighi fra i piani alti e quelli bassi di casa Crawley: il film è facilmente accessibile anche da chi non avesse mai visto una puntata delle sei stagioni di Downton Abbey. La trama, infatti, parte da “dove eravamo rimasti” in finale di stagione, e si sposta di una sola giornata, corrispondente al più inatteso degli eventi dai residenti della magione: la visita delle loro Maestà Re Giorgio V e Regina Maria, di passaggio nello Yorkshire. L’eccitazione è senza precedenti tanto per gli aristocratici che per la servitù, che già assapora l’emozione di “occuparsi” dei sovrani. Chiaramente non tutto andrà come previsto, con il protocollo monarchico a sovrastare i desiderata di ricchi & poveri, ma questo non farà altro che incoraggiare la forza caratteriale di questi personaggi, così ben scritti da rimanere impressi anche solo dalla visione del film senza l’esperienza seriale che — ricordiamolo — incornicia le gesta della famiglia Crawley dal 1912 al 1927, offrendo in un unico micromondo un esemplare affresco della classista società britannica, tra la fine del mondo di ieri e l’inizio di quello moderno.

E in coincidenza con l’ennesima giornata di caos in materia di Brexit, il programma della Festa del cinema di Roma regala un altro film dal Regno, piccolo ma curioso: Military Wives di Peter Cattaneo, il regista del cult The Full Monty. Al centro la vera storia delle mogli dei militari britannici in missione in Medioriente, abili a mitigare lo stress da “incerto ritorno” formando un coro. Perché una canzone ci salverà, almeno in apparenza.

Kerouac, santo vagabondo ancora “On the road”

Il luogo dove cavalcare la tigre della vita, del tempo e del destino è di certo la strada. Ogni errante vi transita. E la meta cui destinare tutto lo sfasciarsi di sé — andare, e non smettere mai di andare finché non ci arriviamo — è una sorta di convento in cui il priore è la madre. Ogni errante è nell’errore se non c’è altro posto dove andare. E a quarantasette anni, un figlio — questo è Jack Kerouac, un cirrotico dall’anelito mistico ritiratosi in Florida — resta pur sempre un novizio. La sua preghiera del mattino è whiskey, un singulto ancora e ogni urto di sbotto esofageo.

La sera prima ha fatto a pugni e come oggi — ma cinquant’anni fa — nell’improvviso della mattinata sputa un fiume di sangue e perde conoscenza. Il giorno dopo, il 21 ottobre del 1969, l’autore del febbrile On the road — il capolavoro della Beat Generation — muore.

Il santo vagabondo venuto dalla schiatta quebecchese è un martire che si è fatto carico di tutte le angosce — disciolte nella miscela di hashish e benzedrina — e lascia la madre tra ininterrotti rotoli di carta su cui lui ha scritto e sempre ha scritto e poi una foresta di bottiglie, molte delle quali ancora da svuotare, disseminate nell’angusta veranda della casa di St. Petersburg.

Ma si fa presto a dire Beat Generation. Lui — improvvisatore, rabdomante di poesia — non è che un innamorato di Dio. A dispetto degli altri strafattoni giunti al suo seguito a partire dal 1957 — l’anno di pubblicazione del suo bestseller — il Padreterno di Kerouac è ancora quello di cui ha avuto lo stigma perfettissimo del Creatore del cielo e della terra seguendo le lezioni di catechismo in parrocchia, nella chiesa di Santa Giovanna d’Arco.

Dio è il padrone assoluto di tutte le cose. È l’Eterno onniscente di bontà infinita e perciò è tollerante di qualunque libertà perché lo sa — Lui che premia i buoni e castiga i cattivi — di poter ricavare il bene anche dal male. Questo impara Kerouac dalla sua educazione cattolica e beat per lo scrittore ben volentieri aggrappato alla passione della carne — la bottoniera dei pantaloni per lui è la porta della beatitudine — è beato ma per rifiutarne tutte le implicazioni politiche, non ultime quelle sbrigativamente pacifiste se negli anni della guerra in Vietnam Kerouac sceglie di stare dalla parte dei marines e non, come tutti — nel ceto dei letterati — contro l’intervento armato.

Nel settembre del 1966, in un teatro di Napoli gremito per ascoltarne la voce — cercando in lui un profeta più che un semplice scrittore — Kerouac si lancia nell’epicedio di ogni singolo soldato morto in battaglia lasciando nello sconcerto Fernanda Pivano che lo accompagnava e l’intera casa editrice Mondadori, imbarazzatissima nel dover gestire un ribelle in così tale rivolta da disturbare l’obbligo ideologico e il ciripiripì dei letterati e delle madamine perbeniste.

Autore conosciuto in virtù di un solo titolo, virtuoso di parola immediata, cerca sempre un modo per farsi portare via dal buon Dio — inghiotto l’urlo e mi lascio semplicemente andare dentro la morte e la Croce, scriverà — Kerouac ha la tipica grana della gente di San Lorenzo. È quel pezzo d’America, in territorio canadese, forgiata nel rigore di una natura aspra e impossibile. E lui, per dirla con Paolo Vites, nel solco del Cristo, del Buddha, sotto le stelle del jazz, nell’eternità dorata della scrittura, paga con la vita “il continuo movimento, alla ricerca di un posto migliore, di una vita migliore, la terra promessa che nessuno aveva mai trovato perché impossibile da realizzarsi”.

È di certo on the road il modo più nichilista e più attivo per cavalcare la tigre altrimenti detta amor fati. E, certamente, si fa presto a dire beat. Tutto il nostro immaginario stagna nella larga botola del luogo comune. L’opera di questo disperato vagabondo alberga nell’affollato sabba del fraintendimento. Esempio. Tanto fu reazionario Pier Paolo Pasolini da risultare progressista, quanto fu avanguardia Kerouac da ritagliarsi – a cinquant’anni dal suo transito terreno – un luminoso scranno nel coro dell’eterno.

“La tristezza è una droga e l’ossessione mi ha salvato”

L’ossessione che diventa passione, o la passione che si tramuta in ossessione, è la sua salvezza; la forza arriva dal dominare quello stesso mix, dal relativizzare i presunti e reali punti deboli, dal superare una forma di dislessia, l’emarginazione da scuola per colpa di una maestra poco attenta, il bullismo, un padre assente del quale rifiuta pure il cognome, una madre tosta che ora sta molto male; scoprire l’omosessualità a 13 anni (“e mi sono detto: o riesco a diventare uno di enorme successo o sono morto”), e tutta una lunga serie di altri pregiudizi, follie, inciampi.

Oggi lui è Mika, 36 anni, vera star internazionale della musica e della televisione, parla un’infinità di lingue, riflette su ogni sillaba, approfondisce ogni sospiro della vita, non intende piangere, e tra lui e il mondo non piazza scuse per non riuscire negli obiettivi. (“Per questo il mio ultimo album si chiama My Name Is Michael Holbrook: dovevo affrontare il mio passato, a partire dal nome”).

L’ossessione è la chiave per arrivare al successo?

Prima decliniamo cos’è il successo, perché oggi si misura solo con i soldi, e lo trovo sbagliato.

Cambiamo: l’ossessione è la chiave per raggiungere l’obiettivo?

È così, ed è importante: può nascere pure come reazione a un disagio, tanto da renderti l’esistenza più vivibile.

Cioè?

Quando ti senti estromesso dalla narrazione quotidiana o dal contesto generale, per trovare un tuo habitat puoi diventare ossessivo, e a quel punto il problema passa alla tua famiglia e a come riesce ad approcciarsi a te.

Punta alla perfezione?

Cerco di risultare eccellente almeno nel mio linguaggio, e nonostante i miei limiti.

Quali limiti?

Suono male il pianoforte e ho una voce particolare che non mi permette eccessive variazioni: non posso toccare le corde blues, anche perché provengo da una formazione lirica.

La sua voce la caratterizza.

Non è così: sono cosciente dei limiti e devo lavorare per superarli, per diventare eccellente, non eccezionale.

(È ora di pranzo e i piatti che arrivano a tavola non lo convincono pienamente).

Tutto bene?

In Francia c’è un’associazione “contro le verdure decorative”. E non è una stupidaggine, perché si spreca cibo.

Lei è di origini libanesi, come una delle cucine più celebrate al mondo.

Forse la migliore: piena di colore, sapida, raffinata ma di casa, ha dentro l’eco dei Fenici, la cultura siriana e mediterranea; alcuni piatti di oggi venivano cucinati nella Roma antica.

Lei cucina?

Tantissimo: nella vita mi dedico ai fornelli, alla musica e al disegno; da quando ho sedici anni, se entro in un ristorante, la prima cosa che chiedo è di visitare le cucine: se uno chef si rifiuta vuol dire che ha qualcosa da nascondere.

Come va con la cucina italiana?

Ho Fabio Picchi (Del Cibreo di Firenze) che mi manda le istruzioni via sms, e a volte scattano delle sfide: cuciniamo in parallelo, e alla fine verifichiamo chi è stato più bravo.

È la sua valvola di sfogo.

Chi mi conosce scappa appena mi piazzo ai fornelli: in cucina divento orrendo, un despota, un vero stronzo.

Luca Barbarossa, al ristorante, manda indietro i piatti che non lo convincono.

Anche mia nonna, ma prima di protestare con il cameriere mangiava quasi tutto, lasciava giusto un paio di bocconi, poi alzava la mano e pretendeva di non pagare; io mi vergognavo, ma lei vinceva sempre.

Torniamo alla musica: cosa pensava quando assisteva alle performance dei ragazzi di XFactor?

Lì spesso ti trovi davanti cantanti che non hanno coscienza del proprio bagaglio tecnico, non sanno neanche qual è l’impegno necessario per migliorarsi: per anni devi studiare almeno quattro ore al giorno, tutti i giorni. Per tanti anni, ripeto.

Come all’università.

Sì, ma in quei ragazzi vedevo troppo spesso il desiderio di diventare una celebrità più che il piacere di scoprire la “provocazione della bellezza”. Solo con quest’ultima ci si sente pieni di vita e di emozioni, non con la fama, che spesso è intossicante.

Riccardo Cocciante sostiene: “La popolarità può alterare l’autenticità di una composizione”.

Assolutamente, e questo problema si presenta nella mia vita intima, quando mi siedo al pianoforte per comporre: lì la contaminazione da celebrità può alterare, mentre non bisogna mai creare per piacere al pubblico; è fondamentale entrare in una condizione di trance, esattamente come nei momenti migliori dei concerti.

In trance…

Sì, e lì ogni gesto ha un senso e un ritmo, uno balla con la propria anima e raggiungi il massimo d’impatto.

È un piacere?

Sì e no: è talmente un’altra realtà da estraniarti, è come se non accadesse per davvero; uno se ne rende conto solo alla fine, e con la scrittura avviene lo stesso, accade qualcosa di trascendentale.

Quando torna sulla terra?

Ti senti un supereroe, un drogato di dopamina, più tollerante e libero.

Associa talento a professione?

Per me è un job (lavoro), e da quando ho otto anni.

Cosa suonava?

Strauss, Mozart, Benjamin Britten e Schubert. Mi pagavano. Ed è stata una salvezza perché avevo smesso di andare a scuola.

Come mai niente scuola?

Per problemi con una maestra: non aveva capito la mia dislessia ed ero diventato il suo sfogo quotidiano, fino a quando mia madre ha detto basta, e mi ha portato a lezione di pianoforte. Quattro mesi dopo avevo già il mio primo ingaggio.

Le pesava?

Ero orgoglioso di guadagnare, anche se i soldi finivano tutti a mia madre.

Con gli altri bambini?

Vivevo una doppia realtà: quando ho ripreso a frequentare la scuola, la mattina venivo trattato da scemo, mentre il pomeriggio, mentre gli altri giocavano a calcio, lavoravo con gli adulti.

Sbalestrante?

No, fantastico, era solo musica, nessun vincolo di popolarità.

A pallone ha mai giocato?

Solo una volta e con mio padre: un disastro, si è avvelenato per la mia incapacità, e la partita si è tramutata in una lite lunga una settimana; ancora oggi non lo perdono per la sua aggressività.

Le passate generazioni di artisti erano celebri anche per l’utilizzo della droga. Le nuove sembra meno…

In realtà lo nascondono e basta: le droghe ci sono, solo che non rappresentano più una bandiera di libertà, e grazie a dio.

Ha tatuaggi?

Neanche uno. Nel quotidiano indosso quasi sempre una maglia bianca, o abiti molto semplici, ne ho bisogno; il palco è un’altra situazione.

Doppio binario.

Il vantaggio di questo lavoro è di aver trovato una chiave per crescere bene, ma ognuno di noi ha la necessità di un contrappunto, e il mio è stato la negatività associata a mio padre.

Dunque…

In alcuni casi ho vincolato le mie scelte all’idea di prendere le distanze dall’immagine che avevo di lui; per questo detestavo il suo cognome, lo volevo interrare.

Non ha preso neanche quello di sua madre.

Con lei il rapporto è sempre stato molto duro e tenero, quindi sono felice di chiamarmi Mika.

Il suo pensiero felice?

Ho un’ossessione pure per i teatri: colleziono i loro modellini; il mio sogno è possederne uno, magari con dentro un ristorante. (Riflette alcuni secondi) Aggiungo la Grecia.

In quale modo?

C’è un’isola che ora frequento spesso, un luogo celebrato come riserva di comunisti: la prima volta ci sono capitato per caso, a bordo di uno yacht battente bandiera turca; per loro il massimo della provocazione, quasi una perversione.

Comunisti, come?

Per reagire alla crisi il porto, l’ospedale e i servizi sono gestiti dalla comunità.

Insomma, arriva lì, e…

Neanche volevano farci attraccare, hanno iniziato a insultarci, sentivo un coro di malaka (stronzo), e l’ho trovato meraviglioso, tanto da restarci una settimana, con i turchi in sofferenza.

Il nome dell’isola?

Preferisco non dirlo, perché lì ho affittato una casa; ogni mattina quando mi alzavo trovavo uno del paese seduto in cucina che mi aspettava per il caffè; le loro storie, i loro segreti, mi hanno ispirato così tanto da tornare a scrivere.

Partecipava alla loro quotidianità?

Pure ai riti pagani; (ride, e ride) poi uno mi voleva uccidere.

Cioè?

Mi ha inseguito a lungo con un coltello in mano; per fortuna una signora mi ha nascosto nel salotto.

Come mai?

Questo pazzo, un po’ ubriaco, era convinto gli volessi rubare la fidanzata; ma non era vero, non è mai esistita questa opzione, è stata lei a fraintendere.

Non sapevano che è gay?

Ma non sanno neanche chi sono; ah, una sera, per un rito, mi hanno vestito come una capra, e dovevo ballare con addosso 42 chili di vestiti: a un certo punto sono corso via perché mi veniva da vomitare, e alcuni mi hanno ritrovato a terra.

Alla ragazza contesa, cosa ha detto?

Forse solo “grazie, ma al massimo ti offro una birra”.

Le capita spesso di incontrare donne seduttive?

Per fortuna no, mi imbarazzo.

Tempo fa ha dichiarato: “I social sono una merda”.

E la mia compagnia discografica si è sentita male; (sorride) forse oggi ne ho compreso l’importanza: sono importanti per comunicare con il pubblico e i media

.

Si sente adulto?

Ora sì, altrimenti a 36 anni dovrei finire in un ospedale psichiatrico.

Qual è il passaggio?

Quando ti rendi conto di poter restare da solo.

Tradotto.

Se sei in grado di sopravvivere a tutte le persone che ami, a tutte le certezze del tuo status sociale, e resti la stessa persona, allora sei adulto.

Il suo periodo attuale non è semplice.

Direi triste, ma la tristezza è come una droga: ha un effetto intossicante.

Si fugge dalla realtà.

La sfida nel diventare adulto è di non perdere lo spirito precedente e non indurirti. Forte sì, non duro.

Piange?

Poco, ma quando capita “sono cavoli”.

Ride?

Tantissimo.

Realmente?

Spesso.

Tra odio e indifferenza?

Chi odia sa anche amare, ma in questa realtà capitalista ci vogliono sedati, impauriti, polarizzati, così siamo più gestibili e manipolabili. Questa è pure la cultura delle serie televisive.

Che c’entrano?

Restiamo da soli per ore a guardare la tv, sembriamo lobotomizzati: all’interno piazzano protagonisti affascinanti e realizzati che bevono alcool; lì vedi la vera forza delle lobby.

Spesso l’hanno paragonata a Freddie Mercury.

Oggi meno, ma ci sono punti in comune: tutti e due veniamo dalla musica lirica, ed entrambi sul palco uniamo la virilità e la femminilità.

Ha mai analizzato il suo quoziente d’intelligenza?

In tutti i test sono sempre risultato un disastro.

Quali test?

Per dislessia, tanto che da ragazzo ho ottenuto il sostegno statale.

C’è un libro o un film nei quali si rivede?

Parte della mia adolescenza l’ho ritrovata in Chiamami col tuo nome di Guadagnino; poi per anni sono stato ossessionato dalla scrittura di Hunter Stockton Thompson, come per Paura e delirio a Las Vegas, e amo tantissimo Bertolt Brecht.

Rispetto alla sua carriera, Fedez ha rivelato: “Ho paura di sparire all’improvviso, per questo mi preparo”.

Io no: anche se diminuisce il successo commerciale, non spariscono le mie idee, le mie emozioni, la bellezza che cerco di provocare e anche i momenti brutti che ho vissuto e ai quali sono sopravvissuto. L’arte resta.

@A_Ferrucci

Niente sesso, siamo disabili Battaglia per il diritto all’eros

“In quale posizione posso mettermi per fare l’amore senza farmi male?”, “come faccio a baciare un uomo e continuare a respirare?”. Queste sono alcune delle domande di una donna con tetraparesi spastica a cui Marco Mariano ha dato risposta, in teoria e in pratica. Perché Marco, 54 anni, piemontese, è uno dei 16 “love giver” tirocinanti d’Italia o, più tecnicamente, è uno dei pochissimi operatori italiani all’emotività, all’affettività e alla sessualità per persone con disabilità (Oeas). “Da anni io faccio l’operatore socio-sanitario e nel 2017 ho deciso di intraprendere questo percorso di formazione a Bologna. Ogni giorno imbocco e pratico l’igiene alle anziane in casa di riposo, in sostanza il mio lavoro è aiutare le persone a soddisfare i bisogni della “piramide di Maslow”, cioè quelli essenziali alla sopravvivenza. Ma perché dovrei escludere da questi bisogni il sesso per una donna disabile?”. Ma attenzione. “Se state cercando un gigolò o una prostituta non siamo noi”, sottolinea Marco. Che spiega: “Il nostro obiettivo è creare i presupposti affinché la persona con disabilità riesca a gestire in totale autonomia la sua sfera sessuale, emotiva e relazionale”.

Si fanno esercizi di respirazione, incontri di meditazione di coppia con il filtro dei vestiti, si prende in considerazione l’uso dei sex toys come strumenti per l’autoerotismo. E se occorre si usa anche una statuina del David di Michelangelo che può essere utile a far acquisire consapevolezza del piacere, che si può dare e ricevere, a una persona cieca e con una malattia neurologica. “Con questa donna che seguo da un po’ di tempo – racconta Marco – abbiamo elencato le parti del corpo maschile toccando il David, ma lei, oltre a non nominare per pudore gli organi sessuali, non ha neanche preso in considerazione la schiena e i piedi. Semplicemente perché lei non li sente”.

In Italia le regole di ingaggio dell’Oeas prevedono che non si debba creare nessuna dipendenza emotiva, non sono ammessi rapporti sessuali completi e, allo scoccare del settimo e ultimo incontro, si deve cancellare il numero di cellulare dell’operatore dalla rubrica della persona disabile, mentre negli altri Paesi europei e non solo esiste il sex worker che pratica l’assistenza sessuale. Da noi l’obiettivo dell’operatore è diverso. “Illove giver è un concetto che racchiude rispetto e educazione, in un Paese civile rappresenta la massima espressione del diritto alla salute e al benessere psicofisico e sessuale”, spiega Max Ulivieri, fondatore del comitato “Love Giver”, che porta avanti da anni la battaglia per il diritto delle persone con disabilità a vivere la sessualità come tutti gli altri. Ma in Italia questo diritto è ancora un tabù e il disegno di legge sull’introduzione della professione di “assistente sessuale” è al palo dal 2014. I disabili continuano così a essere visti come adulti asessuati o eterni bambini. “Bisogna fare una battaglia culturale. Mi hanno anche accusato di fare un’operazione di ghettizzazione, ma – dice Ulivieri – il mio sogno è che non ci sia bisogno dell’assistente sessuale. Una volta era necessario che qualcuno mi spingesse in carrozzina, poi la mia carrozzina è diventata elettrica e sono diventato autonomo. Se ci fosse una rivoluzione in Italia in cui qualsiasi persona, a prescindere dalla sua diversità anche fisica, non vivesse l’allontanamento dalle relazioni e dalla sessualità, non servirebbe l’assistente sessuale”. Alla sua associazione, che ha organizzato il primo corso per Oeas, sono arrivate oltre 4.600 richieste di assistenza, soprattutto da parte di genitori di figli affetti da autismo, a fronte però di appena 16 “diplomati” fino a oggi.

Caterina Di Loreto, 32 anni, abruzzese, di professione educatrice, sta seguendo due uomini di 30 e 21 anni con disturbi dello spettro autistico. “Sono sempre stata interessata all’educazione all’affettività, un aspetto che viene trascurato anche negli studi universitari. Il mio obiettivo invece è capire le dinamiche della sessualità”, commenta Caterina che non si definisce una “figure a chiamata” né ritiene l’Oeas l’unica soluzione per affrontare l’educazione all’affettività. Soprattutto con le persone con disabilità cognitive il nostro lavoro è ancora più delicato”. “Con loro – spiega Caterina – creo storie con personaggi che hanno una specifica gestualità per far capire come evitare pratiche di autolesionismo nella masturbazione e casi di parafilia, cioè le perversioni sessuali”. Spesso, poi, c’è da affrontare la situazione inversa. “Mi chiedono – prosegue Caterina – se lo fanno nella maniera giusta, senza procurarsi dolore, con il movimento adatto, ma magari si masturbano in luoghi pubblici non capendo che il gesto fa parte della sfera privata. E gli va spiegata la differenza”.

“Ricordo con ansia la sua prima erezione, era estremamente confuso, correva da una parte all’altra della casa con gli occhi spaventati senza capire cosa stesse succedendo e senza sapere cosa fare per affrontarlo. Il mio istinto è stato quello di spiegargli, fargli vedere come si fa. Ma poi cosa vuol dire, che molesto mio figlio? È compito mio spiegargli cosa fare?”, racconta Marina Viola, la mamma di un ragazzo autistico di 23 anni. “Alcuni genitori – racconta – vorrebbero che i figli non scoprissero mai la sessualità. Ma, prima o poi, la botta arriva. E non sappiamo a chi rivolgerci. Gli stessi psicologi o terapisti non sono specializzati”. “C’è grande ignoranza in materia. Fino a qualche anno fa era persino negata la sessualità negli autistici”, riconosce Luigi Mazzone, neuropsichiatra infantile dell’Università di Tor Vergata. “Il problema poi non è sostenere o meno il sex worker o la figura dell’Oeas, ma se inserire il sesso nel piano di vita. Esistono persone diverse per bisogni diversi: in determinati soggetti con autismo la richiesta di sesso può diventare compulsiva o scompensarlo. È necessario quindi compiere un percorso emotivo-affettivo”.

Un limite varcabile anche per le donne autistiche. “In questo caso bisogna lavorare sulla “prevenzione dell’abuso. È fondamentale insegnare a distinguere un certo tipo di carezza o di abbraccio”, denuncia. In base al report “Vera” della Fish, il 32% delle donne con disabilità interpellate ha infatti subito una forma di violenza.