“Pagavano noi dell’Anas per fare lavori scadenti”

Dai carotaggi concordati a tavolino con le ditte fino alle scarificazione dell’asfalto fatta al risparmio, che significava meno spese da affrontare per il conferimento del materiale in discarica. Lavori fatti male ma che nei documenti risultavano sempre eseguiti a regola d’arte. Tutto in cambio di tangenti. Così camminavano a braccetto una schiera di imprenditori con alcuni dirigenti e funzionari corrotti del compartimento Anas di Catania. Sono questi i tratti salienti dell’ultima tangentopoli delle strade siciliane che, all’alba di venerdì, hanno fatto scattare il secondo blitz della Guardia di finanza, dopo i primi fermi di fine settembre.

L’inchiesta è comunque destinata ad allargarsi ancora, decine di nomi nelle carte dell’indagine sono ancora coperti dagli omissis. Al momento tre funzionari di Anas sono finiti agli arresti domiciliari: Giuseppe Romano, Riccardo Contino e Giuseppe Panzica. In carcere il geometra Gaetano Trovato, mentre è stato interdetto dalle sue funzioni per un anno l’ingegnere Antonino Urso. Poi ci sono quattro imprenditori, tutti ai domiciliari: Calogero Pullara, Roberto Priolo, Pietro Iacuzzo e Salvatore Truscelli.

Secondo i magistrati della procura di Catania per anni sarebbe stato applicato un rigido manuale delle mazzette articolato su tre livelli: una parte andava al responsabile dell’area tecnica, l’altra fetta al capo centro che gestiva l’esecuzione dell’appalto e, sotto di lui, il geometra incaricato alla contabilizzazione. Fondamentale per scoperchiare il sistema sono state le rivelazioni di due dirigenti che hanno iniziato a collaborare con i pm. Il primo ad autoaccusarsi è stato l’ingegnere Giuseppe Romano, poi è stata la volta del collega e “migliore amico” Antonino Urso.

Dai verbali emerge che il loro sarebbe stato un vero e proprio “percorso criminale” iniziato nel 2015 con la prima mazzetta da 7 mila euro per un cantiere in provincia di Palermo. Un crescendo di tangenti, almeno secondo i pm Fabio Regolo e Fabrizio Aliotta, che avrebbe riguardato anche il rifacimento straordinario di una strada provinciale ai piedi dell’Etna, in occasione del Giro d’Italia 2018. C’è poi il caso della tristemente nota strada statale 284 in provincia di Catania: cinquanta morti per incidenti negli ultimi dieci anni e cantieri che si susseguono per sistemare l’asfalto che salta alle prime piogge. L’ultimo rifacimento è stato completato a giugno scorso e anche qui il quadro è quello delle bustarelle. “Ho acconsentito – racconta Urso in un interrogatorio – a registrare in contabilità uno spessore del materiale fresato in quantità maggiore rispetto al vero. A fronte del risparmio l’imprenditore ci ha corrisposto una somma in contanti pari a18mila euro”. Dopo i fermi di settembre la Gdf, con il supporto dei tecnici Centro sperimentale di Cesano, in provincia di Roma, ha pure iniziato una lunga serie di verifiche sul campo con dei campionamenti dell’asfalto nei cantieri incriminati. Imprenditori e funzionari corrotti in passato avrebbe concordato a tavolino i carotaggi, in modo da effettuarli in porzioni d’asfalto in cui i lavori erano fatti bene e ottenendo così sempre l’esito positivo dei controlli. Il fenomeno della corruzione dentro Anas sarebbe talmente diffuso che in una occasione, racconta Urso ai magistrati, sarebbe stata addirittura pagata una mazzetta da quindicimila euro non richiesta e per un lavoro fatto, almeno quello, secondo il capitolato d’appalto.

Inchiesta Morandi Aspi silura altri due supermanager

Saltati. Autostrade mette alla porta altri due super manager toccati dalle inchieste sul ponte. Stavolta è il turno di Paolo Berti, direttore centrale operativo, e Michele Donferri Mitelli, già responsabile nazionale della manutenzione. Fonti di Autostrade confermano il siluramento che segue quello dell’ad Giovanni Castellucci, “dimesso” con una principesca buonuscita di 13 milioni. Donferri e Berti sono indagati nell’inchiesta sul crollo del Morandi. Donferri risulta indagato anche nel secondo fascicolo sui falsi report dei viadotti (una costola del fascicolo principale).

Fatale è stata l’ordinanza del gip di Genova che a settembre aveva disposto misure cautelari o interdittive per 10 dirigenti di Autostrade e Spea (società del gruppo che si occupa di controlli). Donferri e Berti non erano tra i destinatari del provvedimento. Nelle 106 pagine, però, sono riportati diversi passaggi che li riguardano. C’è soprattutto una telefonata tra Berti e Donferri. Scrivono i pm che Berti “manifesta disappunto per essere stato condannato nel processo di Avellino, lamentandosi che avrebbe potuto dire la verità e mettere nei guai altre persone”. Donferri risponde: “Aspettali al varco, pensa solo a stringere un accordo col capo”. Un colloquio che si riferisce al processo per la morte di 40 persone precipitate dal viadotto di Acqualonga (Avellino). Quella telefonata ha suscitato nei pm genovesi diversi interrogativi: a chi e cosa si riferisce Berti sostenendo che, come riassumono i magistrati, “avrebbe potuto dire la verità e mettere nei guai altre persone”? E poi: a chi allude Donferri rispondendo “pensa solo a stringere un accordo con il capo”? I pm liguri hanno trasmesso le carte ai colleghi di Avellino.

Ma nell’ordinanza c’era altro. Come il passaggio di Donferri che si riferisce al viadotto Giustina (Marche), ma pare alludere a scenari più ampi: “Devo spendere il meno possibile… sono entrati i tedeschi… a te non te ne frega un cazzo sono entrati cinesi… devo ridurre al massimo i costi… e devo essere intelligente de porta’ alla fine della concessione”. Sempre Donferri racconta che Gianni Marrone (direttore di tronco di Autostrade finito ai domiciliari a settembre) “per le sue conoscenze ha rimediato un appuntamento con l’ingegnere capo del genio civile… una riunione carbonara!”. Un altro passaggio su cui i pm genovesi hanno concentrato la loro attenzione. Ma Donferri compare ancora. L’ordinanza racconta di quando si trova di fronte un report sulla sicurezza delle infrastrutture in cui molte opere hanno riportato il voto 50 (alto, sono a rischio). Donferri sbotta: “Me li dovette toglie’ tutti… li riscrivete e fate Pescara a 40… perché il danno di immagine è un problema di governance”.

Il nome di Donferri ricorre anche nell’inchiesta sul crollo del Morandi. Parliamo in particolare del verbale del cda Autostrade che nell’ottobre 2017 – meno di un anno prima del crollo – approva il progetto di retrofitting (ristrutturazione) del ponte. Il documento affronta il problema della tenuta degli stralli delle pile 9 (quella che cedendo ha poi causato il crollo) e 10. Castellucci dice: “Qui la sicurezza viene prima di tutto, anche del traffico”.

Una frase che dimostrerebbe la preoccupazione di evitare pericoli per l’incolumità pubblica, ma potrebbe anche rivelare che i rischi erano già noti. Presenti al tavolo il presidente Fabio Cerchiai e Berti. Il verbale sarà licenziato da Autostrade il 12 ottobre. Dieci giorni prima, Castellucci e i consiglieri avevano ricevuto da Donferri un report di presentazione del progetto per “migliorare” la sicurezza delle pile. Sempre Donferri, presente in Cda, aveva illustrato il piano dal punto di vista economico (26 milioni) e tecnico. C’era in ballo il monitoraggio delle tensioni degli stralli. Si tratta dei sensori consigliati con urgenza prima da studi della società di ingegneria Cesi (2016) e poi del Politecnico (2017). Sensori che non saranno mai applicati, ma che erano previsti nel progetto “migliorativo” del viadotto. I lavori dovevano cominciare nell’autunno 2018, ma il ponte crollò il 14 agosto.

Noi sappiamo: non sono tutti “misteri d’Italia”

Io so. Noi sappiamo. Basta con la retorica dei “misteri d’Italia”. Abbiamo indizi e anche prove che ci dicono chi mise le bombe. La strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 è stata compiuta dal gruppo fascista e filonazista Ordine nuovo, ben conosciuto e ben collegato con servizi segreti e apparati dello Stato, oltre che con strutture d’intelligence Usa.

I responsabili dell’attentato sono Franco Freda e Giovanni Ventura, come afferma una sentenza della Cassazione del 2005, anche se non possono più essere condannati perché definitivamente assolti per lo stesso reato nel 1987. L’unico di cui è stata riconosciuta processualmente la responsabilità è Carlo Digilio, militante di Ordine nuovo e informatore dei servizi Usa, che ha confessato il suo ruolo nella preparazione del 12 dicembre e indicato — seppur con elementi non ritenuti sufficienti a condannare — i suoi complici.

I dirigenti di Ordine nuovo sono il fondatore Pino Rauti (indagato ma poi uscito dall’indagine) e il capo del gruppo del Triveneto Carlo Maria Maggi (processato ma poi assolto). I militanti del gruppo sono, tra gli altri, Delfo Zorzi, Martino Siciliano, Massimiliano Fachini, Marcello Soffiati. Tutti indagati ma poi prosciolti. Responsabile di Avanguardia nazionale, il gruppo fascista e filonazista accusato di aver organizzato gli attentati a Roma contemporanei a quelli di Milano in piazza Fontana e alla Banca commerciale di piazza della Scala, è Stefano Delle Chiaie.

I responsabili degli apparati di Stato negli anni della preparazione della strage e delle indagini successive sono l’ammiraglio Eugenio Henke e il generale Vito Miceli (in successione direttori del Sid, il servizio segreto militare), il colonnello Gianadelio Maletti (ufficiale di stato maggiore della Difesa, in seguito capo del controspionaggio del Sid), il capitano Antonio Labruna (ufficiale del Sid) e i dirigenti dell’ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato, Elvio Catenacci, Silvano Russomanno. I politici che avevano il dovere di controllare gli apparati erano in quegli anni i presidenti del Consiglio Mariano Rumor, Emilio Colombo, Giulio Andreotti, il ministro dell’Interno Franco Restivo, i ministri della Difesa Luigi Gui e Mario Tanassi.

Questo libro racconta la storia dell’ultima guerra italiana, una guerra “psicologica” e “non ortodossa”, come la definiscono i manuali di strategia militare. Una guerra asimmetrica combattuta tra il 1969 e il 1980: da una parte, un esercito segreto, senza divise e senza bandiere, che riteneva di combattere contro il Male, ovvero il comunismo nel Paese dell’Occidente posto al confine tra i due blocchi; dall’altra parte, cittadini inermi con l’unica colpa di trovarsi al momento sbagliato nel luogo sbagliato, una banca, un treno, una piazza, una stazione… In 15 anni, tra il 1969 e il 1984, in Italia sono avvenute otto stragi politiche dalle caratteristiche simili: piazza Fontana (12 dicembre 1969), stazione di Gioia Tauro (22 luglio 1970), Peteano (31 maggio 1972), Questura di Milano (17 maggio 1973), piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974), Italicus (4 agosto 1974), stazione di Bologna (2 agosto 1980), treno di Natale 904 (23 dicembre 1984). Centocinquanta i morti, oltre seicento i feriti. Tutte le stragi hanno caratteristiche comuni: per tutte, i responsabili sono stati cercati nei gruppi dell’estrema destra; in tutte, le indagini sono state inquinate dai depistaggi da parte di organismi dello Stato; tutte sono rimaste per molti anni senza spiegazioni ufficiali, senza colpevoli, senza esecutori, senza mandanti. Quasi tutte sono ancora oggi senza colpevoli, esecutori, mandanti. Protezioni, coperture e depistaggi istituzionali sono scattati anche per altri episodi, che hanno aggiunto altri morti e feriti: assassinii eccellenti, azioni del terrorismo nero, colpi di Stato tentati o minacciati, piani eversivi, attentati ai treni e ad altri impianti. Rallentate e depistate anche le indagini su alcune organizzazioni segrete: dalla loggia P2 alla rete Stay Behind in Italia (Gladio). Hanno trovato soluzione processuale definitiva le stragi di Peteano, di Bologna, di Brescia. Definitiva, ma non completa: mancano i mandanti, alcuni degli esecutori, molti dei complici. A raccontare questo conflitto segreto e mortale, in queste pagine sono — in diretta — i magistrati che hanno provato a fare le indagini sulle stragi e sull’eversione, restando quasi sempre sconfitti dai depistaggi e sommersi dalle accuse. Sì, perché un’altra costante di questa storia nera è il tentativo di delegittimare chi indaga su stragi, strategie eversive, gruppi occulti, lavorando con onestà e giustizia. Gli investigatori e i magistrati dei “grandi misteri d’Italia” hanno sempre trovato come avversari non soltanto i gruppi eversivi, ma anche pezzi di quello stesso Stato di cui si sentivano servitori. Hanno dovuto subire anni di vita blindata, minacce di morte per sé e per i familiari: e questo lo avevano messo in conto. Non avevano previsto, invece, gli attacchi più dolorosi e dirompenti, quelli ricevuti da altissime cariche istituzionali, capi dello Stato, ministri della Repubblica, pezzi importanti della magistratura, con il sostegno di poderose e ben orchestrate campagne di stampa. Come nel paese di Iberin raccontato da Bertolt Brecht i giudici sono stati trasformati in imputati e gli imputati in giudici. In questo mondo alla rovescia le vittime diventano colpevoli, i colpevoli vittime. I magistrati finiscono sotto procedimento disciplinare e spesso anche penale. Accusati di dar retta non ai fatti, ma ai pregiudizi ideologici e alle tesi precostituite.

Nel 1993 sembrava che il crollo in Italia della cosiddetta Prima Repubblica, seguito al crollo del Muro di Berlino nel 1989 e alla fine della divisione geopolitica del mondo in due blocchi contrapposti, potesse finalmente portare al raggiungimento della verità. Non fu così. Qualche passo avanti fu compiuto nel 2009, ma a quarant’anni da piazza Fontana la verità restava indicibile. Ora sappiamo, malgrado manchino le sentenze definitive di condanna e i nomi dei responsabili penali individuali. C’è stata una prima generazione di magistrati che si sono misurati con i “misteri” dell’eversione, da Giancarlo Stiz a Giovanni Tamburino, da Gerardo D’Ambrosio a Emilio Alessandrini… Non hanno ottenuto certo folgoranti risultati processuali, ma hanno spezzato le prime dighe, smascherato i primi depistaggi, raccontato i fatti, svelato i nomi delle persone coinvolte, raccolto una mole imponente di dati conoscitivi. È poi seguita una seconda generazione d’investigatori. Hanno svelato nuovi fatti, scoperto nuovi documenti, rintracciato nuove testimonianze, negli anni in cui cadevano i muri e sembrava che si potesse finalmente arrivare a conoscere la storia sotterranea d’Italia, da piazza Fontana alla strage di Bologna, dalla P2 a Gladio. Le sentenze hanno anche questa seconda volta deluso le speranze. Le stragi sono rimaste per lo più senza colpevoli e i tanti elementi che comunque sono stati raccolti non hanno portato ad affermare una storia condivisa: lo scontro ideologico è restato aperto e feroce. Una sentenza definitiva ha però permesso di individuare alcuni degli esecutori della strage di Bologna. Poi un verdetto storico ha indicato alcuni dei responsabili di quella di Brescia. Intanto nuove indagini e un nuovo processo a Bologna stanno aggiungendo elementi a ciò che già sappiamo. Non abbiamo, in molti casi, i nomi dei colpevoli, ma il disegno è ormai chiaro. Uno dei protagonisti di questa storia, l’ex magistrato Libero Mancuso, ripete: “Ci avete sconfitti, ma sappiamo chi siete”.

Puigdemont fa litigare anche il Canada

“Non c’è motivo per cui il governo canadese non debba autorizzare Carles Puigdemont a venire in Canada”. Da Montreal arriva all’ex presidente della Generalitat della Catalogna, in esilio a Bruxelles, il sostegno di Yves-François Blanchet, capo del partito indipendentista “Blocco del Québec”. Blanchet ha pubblicamente condannato “l’ipocrisia” del governo di Justin Trudeau incapace, a suo avviso, di prendere le difese dei separatisti catalani e di condannare le “violenze di Stato” contro chi manifesta nelle strade di Barcellona: “Quando si tratta di farsi bello sulla scena mondiale, Trudeau c’è. Ma quando un governo mette in prigione dei responsabili politici eletti, il governo canadese si fa piccolo piccolo”. Diventa “un topolino”, ha detto Blanchet. Puigdemont aspetta da cinque mesi che Ottawa gli conceda il visto per poter raggiungere il Québec, dove sarebbe ospite della Société Saint-Jean-Baptiste de Montréal, un’associazione fondata nel 1834 per la difesa della lingua e dell’identità francofona e che ha più volte preso posizione in favore dell’indipendenza della provincia del Canada.

Il suo presidente, Maxime Laporte, ha invitato il leader catalano a tenervi una serie di conferenze. Puigdemont, su cui pesa un mandato di arresto europeo della corte spagnola, aspetta che i giudici belgi esaminino la domanda di estradizione. Ma fino ad allora è libero e può lasciare il paese “su autorizzazione”. Ma con le elezioni federali alle porte, Ottawa prende tempo e non gli concede l’Ave, l’autorizzazione elettronica di viaggio. “Con la sua posizione, il Canada sembra avallare la tesi grottesca per cui Puigdemont abbia commesso un crimine, solo per aver organizzato un referendum. Non è un criminale, ma volete farlo passare per tale”, ha denunciato Laporte, puntando il dito contro Trudeau.

Gli indipendentisti catalani intanto, dopo la manifestazione partecipata di venerdì, ieri sono tornati in strada protestando contro le condanne inflitte ai leader promotori del referendum del primo ottobre 2017: sono state chieste le dimissioni del ministro regionale dell’Interno, Miquel Buch. L’ultimo bilancio è di 83 arresti; in manette è finito anche un fotografo del Pais. Barcellona da giorni si sveglia profondamente ferita e con un forte odore di bruciato. Dopo la guerriglia della notte, con le barricate in plaça de Catalunya, i cannoni ad acqua e i proiettili di gomma sparati dalla polizia, si parla di 152 feriti, 182 in tutta la Catalogna.

Dall’inizio delle proteste, 128 persone sono state fermate. I danni ammontano già a diverse centinaia di migliaia di euro. Il presidente della Catalogna, Quim Torra, ha chiesto d’urgenza al premier spagnolo Sanchez di “aprire un tavolo di negoziati”. Il governo pretende che prima Torra “condanni apertamente la violenza”. “Siamo gente di pace”, hanno scandito ieri sera i manifestanti riuniti nella piazza del centro.

La febbre del sabato sera affonda la Brexit di Johnson

Dopo David Cameron, bruciato dal referendum da lui promesso per vincere le elezioni e poi perso, e Theresa May, logorata dai ripetuti ‘no’ dei Comuni ai suoi accordi con l’Ue, anche Boris Johnson, con tutta la sua boria, s’incarta nella Brexit: l’Assemblea di Westminster, dove non si vedevano deputati al lavoro di sabato dai tempi della Guerra delle Falklands, 37 anni or sono, gli approva una mozione scomoda e lui non mette ai voti l’intesa raggiunta giovedì con i 27, appena prima del Vertice europeo.

Per la Brexit, il “D-Day” non arriva mai: 40 mesi dopo la vittoria dei Leave sui Remain, britannici ed europei non sanno ancora quando e se la separazione avverrà. Anche perché, mentre i deputati discutevano, fuori una marea di folla manifestava perché la Gran Bretagna resti nell’Unione e chiedeva un nuovo referendum.

Con 322 sì e 306 no, passa una mozione che impone, comunque sia, uno slittamento della Brexit, che Johnson vuole imperativamente il 31 ottobre: l’iniziativa di Oliver Letwin, un tory dissidente, parte dalla constatazione che, approvato l’accordo, bisognerà poi varare i provvedimenti per attuarlo e che, fino a quel momento, il Regno Unito non sarà attrezzato per lasciare l’Unione europea. Ma Johnson non vuole chiedere l’ulteriore rinvio, nonostante una legge votata dai Comuni gli imponga di farlo in assenza di un’intesa, per fugare lo spettro di un’uscita no deal che costerebbe, secondo i calcoli dell’Fmi, fino al 5% del Pil alla Gran Bretagna. Il leader laburista Jeremy Corbyn gli intima di rispettare la legge; e lui “porta via il pallone”, almeno per la giornata, e formalizza l’intenzione di riproporre il voto sull’accordo domani, lunedì. Ne dà notizia ai Comuni il ministro dei Rapporti con il Parlamento Jacob Rees-Mogg. Ma lunedì è già in agenda una prima votazione sul programma di governo per il 2020 illustrato nei giorni scorsi nel discorso della Regina. Ed è praticamente impossibile approvare nello stesso giorno anche l’intero pacchetto legislativo allegato alla Brexit, come la mozione Letwin chiede. Dai numeri della votazione sull’emendamento, risulta comunque che — almeno sulla carta — Johnson abbia la maggioranza sull’intesa. Dieci dissidenti tory che hanno ieri appoggiato la mozione Letwin sarebbero infatti disponibili a votare l’accordo, una volta escluso il rischio di no deal. E quei dieci basterebbero a rovesciare i rapporti di forza.

La geografia politica del voto è estremamente frastagliata: i conservatori sono con il loro premier, tranne la frangia dissidente più europeista, che si divide sull’intesa; la frangia più euroscettica, invece, ha già dato il suo assenso; i laburisti sono contro il premier, tranne una ventina, tutti eletti in collegi pro Leave; contro l’accordo i nord-irlandesi, anche i 10 del Dup che garantivano ai tory una maggioranza prima che i conservatori si sfarinassero; e contro i lib-dem e gli scozzesi, che non vogliono la Brexit.

Nel chiedere un sì al patto di Bruxelles, Johnson ha detto che un altro rinvio sarebbe insensato e che la nuova versione dell’intesa restituisce alla Gran Bretagna il controllo sul proprio territorio (il che non è del tutto verso, perché almeno fino al 2021 l’Ulster resterebbe di fatto nell’Unione, almeno dal punto di vista della libera circolazione delle persone e delle merci), con una frontiera marittima fittizia tra Ulster e resto del Regno Unito. Corbyn boccia l’accordo perché il governo non merita fiducia. La May interviene e, con un atto di lealtà al partito che l’ha tradita, dice che bocciare l’intesa sarebbe “un vergognoso inganno”. Si va al voto già sapendo che se passa la mozione Letwin tutto sarà rinviato. I Comuni approvano, Johnson e Corbyn ripetono i loro mantra, fuori la gente — “un milione”, dicono gli organizzatori esagerando un po’ — fa festa. A Bruxelles e nelle capitali dei 27, si resta con un palmo di naso. La Commissione europea “prende nota”. Lo slittamento innesca problemi al Parlamento europeo, che, nella sessione plenaria della prossima settimana, dovrebbe procedere a tappe forzate per riuscire a ratificare l’intesa. Se Londra cincischia, Strasburgo non starà nei tempi. A quel punto, il rinvio che Johnson non vuole chiedere glielo imporrà l’Ue.

Il silenzio delle nostre imprese sulla guerra vale 2,6 miliardi

Decretare o no l’embargo alla Turchia per la guerra scatenata contro i curdi nel Nord della Siria? Il quesito aleggia nelle cancellerie occidentali, messe sotto pressione dall’opinione pubblica. Sinora solo il gruppo automobilistico tedesco Volkswagen ha deciso di rinviare un investimento programmato da 1,3 miliardi di euro per realizzare nel Paese guidato dal presidente Recep Tayyip Erdogan uno stabilimento da 300 mila veicoli l’anno. Le imprese italiane tacciono e hanno molti buoni motivi per eludere la questione: da mezzo secolo Roma è uno dei principali partner commerciali di Ankara e una forte presenza industriale in Turchia. La Turchia è la ventisettesima economia per esportazioni nel mondo: l’unione doganale del 1996 con la Ue le consente lo scambio di merci senza dazi. Le principali destinazioni dell’export turco nel 2017 erano Germania (15,3 miliardi), Regno Unito (8,9 miliardi) e Italia (8,3 miliardi), mentre l’import arrivava da Cina (20,2 miliardi), Germania (19,8 miliardi), Russia (11,6 miliardi), Italia (10,1) e Stati Uniti (9,9). Se nel 2017 l’Italia ha esportato in Turchia 10,1 miliardi, in crescita del 5,3% sul 2016, l’anno dopo il valore era sceso a 8,8 miliardi (-13,1%) e quest’anno è previsto a 8,3 miliardi, in ulteriore calo del 6%, mentre nel 2018 l’import italiano è aumentato del 9% a 9 miliardi.

L’interscambio tra Ankara e Roma è sempre stato a favore di quest’ultima fino al primo bimestre di quest’anno, quando il saldo è stato positivo per la Turchia per 364 milioni rispetto al disavanzo di 109 milioni dello stesso periodo del 2018. Il motivo è che nell’estate dell’anno scorso la lira turca si è svalutata del 40% verso l’euro e l’Italia ha perso il suo vantaggio competitivo. Ma quest’anno, secondo Reuters, l’economia turca potrebbe contrarsi per la prima volta in un decennio: un bel problema visto che ogni anno un milione di persone entrano nel mercato del lavoro turco, dove negli ultimi 18 mesi la disoccupazione è passata dal 9,8 al 14%. Molti investitori esteri si sono allontanati dopo il fallito golpe del luglio 2016 e il referendum costituzionale del 16 aprile 2017, proposto e vinto dal partito Akp di Erdogan. Oggi in Turchia il presidente ha tutti i poteri: nomina tutte le alte cariche dello Stato e i giudici della Consulta, è capo del Governo, delle forze armate e dei servizi segreti. Eppure nel 2016 il numero di società straniere in Turchia ha raggiunto le 53 mila, dalle 5.600 del 2002, e gli investimenti diretti esteri dal 2003 al 2016 sono aumentati di 158 miliardi di euro.

Sono oltre 1.400 le società italiane presenti sul suolo turco: dal 2002 hanno investito 2,6 miliardi, una cifra decollata negli ultimi anni ma ancora bassa rispetto a quella di Germania e Francia. C’è innanzitutto Fca, l’ex Fiat, presente a Bursa dal 1968 e leader in Turchia grazie alla joint venture Tofas con Koç, maggiore gruppo industriale privato nazionale, oltre che con le controllate Iveco e Cnh Industrial Turk Traktor. Pirelli è presente dal 1960 con la fabbrica di Izmit, ma oggi, fa sapere, si tratta di “un business residuale”. In Turchia ci sono poi Çimentas del gruppo Cementir, Prysmian (cavi), Luxottica-Essilor (occhiali), gruppo Miroglio e Benetton (tessile e moda), Recordati e Menarini (farmaceutica), Mapei e Versalis (la società chimica del gruppo Eni), Bialetti, Ariston, Ferroli, nell’alimentare Barilla (dal 1994 con lo stabilimento di Bolu) e Ferrero (che dalla Turchia importa una grande quantità di nocciole), Eataly e Perfetti Van Melle (dolciaria) e ancora Candy (elettrodomestici), il gruppo integrato Maccaferri. Nel settore delle costruzioni sono presenti Italferr (gruppo Ferrovie dello Stato), Salini, Trevi e Astaldi la quale dagli anni 80 ha costruito le autostrade dell’Anatolia e Gebze-Orhangazi-Izmir, la metropolitana e il ponte Haliç a Instanbul oltre un terminal all’aeroporto di Milas-Bodrum. Negli impianti per l’energia c’è una controllata del gruppo Sicim di Busseto (Parma). Nella finanza Generali e Azimut, il gruppo di gestione del risparmio, ma soprattutto UniCredit, che in partnership con Koç controlla il 41% di Yapi Kredi, quarta banca retail del Paese.

Nelle ultime settimane però UniCredit ha fatto trapelare l’intenzione di scorporare la sua quota di Yapi in una sub-
holding dove saranno raggruppate tutte le controllate estere, forse per quotarla in Borsa. In Turchia ci sono anche le aziende di armi Vitrociset, Beretta e Leonardo, che su sua licenza vi fa produrre elicotteri Mangusta. C’è poi Saipem che nel 2005, alla presenza di Erdogan Berlusconi e Putin, ha consegnato alla Turchia il gasdotto Blue Stream, costruito in joint venture con la russa Gazprom, che trasporta gas naturale dalla Russia attraverso il Mar Nero.

Ma con Ankara i rapporti possono guastarsi in un attimo. Proprio Saipem, a febbraio dell’anno scorso, ha visto la sua nave perforatrice Saipem 12000, diretta verso Cipro per trivellare un giacimento concesso all’Eni e a Total dal Governo di Nicosia, bloccata dalla marina militare turca perché il campo petrolifero è conteso da Ankara. Non è stato l’unico caso. Nel 2017 un’industria cartiera del centro Italia, già in difficoltà economiche, si vide negare il pagamento della merce spedita in Turchia poiché l’azienda acquirente era stata chiusa con l’accusa di essere legata al network del fallito golpe “gulenista”. La merce fu confiscata e venduta all’asta in forza di una legge che lo prevede per tutti i beni che rimangono fermi in dogana per più di 40 giorni, se arrivati via terra, o più di 20 giorni, se arrivati per via aerea. Tutti ammonimenti del Sultano agli infedeli.

Visto dalla Casa Bianca “I curdi non sono angeli ma Trump ci ha tradito”

La fila di famiglie curde che lasciano la Siria, le loro case, il futuro che sognavano di radicare nelle terre del Rojava, fa rivivere a Namo Abdulla il viaggio che fece lui stesso quasi trent’anni fa. Allora l’Iraq non era il posto dove cercare rifugio, ma da cui fuggire. Namo, nato nel 1987, l’anno del genocidio curdo, guarda i nuovi profughi sul televisore riservato ai giornalisti accreditati alla Casa Bianca. Alle sue spalle, mentre un tendone grigio lo protegge da una fitta pioggia, s’intravede la west wing, centrale operativa del presidente degli Stati Uniti. Namo ricorda quando furono lui e la sua famiglia a fare le valigie, un paio di giorni prima che Saddam Hussein radesse al suolo il villaggio rurale di Goban, una piccola macchia verde circondata da dune sabbiose a nord est di Bagdad. “Avevamo qualche campo coltivato e un po’ di mucche. Facevamo il formaggio”, è tutto quello che sa Namo della vita di prima, cancellata dalle bombe. I ricordi del viaggio sono quelli confusi di un bambino di quattro anni: la pioggia, il latte in polvere, i sobbalzi nello zaino portato in spalla un po’ dal padre e un po’ dalla madre, il telo di plastica sotto cui ripararsi la notte dagli incessanti temporali di quella primavera del 1991.

“Avevamo due bottiglie di latte in polvere da dividere in otto: tre sorelle, due fratelli e i miei genitori. La mischiavamo al tè. Per una settimana ci nutrimmo solo di latte Nido, forse esiste ancora. Poi arrivammo a piedi in un campo profughi in Iran e lì finalmente ci diedero del cibo”.

Namo, che oggi è l’inviato di punta della tv curda Rudaw a Washington DC, ricorda soprattutto due cose dei sei mesi passati nella tendopoli. “C’era un solo bagno per circa 500 persone. Le file per andarci erano lunghissime e spesso la gente non riusciva a trattenersi. Io e i miei fratelli morivamo dal ridere quando succedeva. Poi ricordo i pacchi di mele e arance che ci lanciavano dai furgoni e che dovevamo afferrare al volo”. Il ritorno a casa, grazie a una No Fly Zone, avvenne sui camion. Ma di Goban non era rimasto nulla, e per qualche anno vissero accampati. “Donald Trump ha ripetuto tre volte, in conferenza stampa, che i curdi non sono angeli. Non siamo angeli, ma ci meritiamo di essere uccisi, usati e traditi, perseguitati?”.

Eppure i curdi sono, si stima, tra i 30 e i 40 milioni, sparsi tra Siria, Iraq, Iran e Turchia. “Ma non riusciremo mai a unificarci e combattere. Non abbiamo un paese, né armi, né flotte aeree. E siamo profondamente divisi anche internamente”. La memoria della guerra civile, scoppiata nel 1994, è molto più nitida nella mente di Namo. “Uccisero il nostro vicino di casa e vennero per uccidere mio padre, che però non c’era. Per quattro anni le persone intorno a me continuarono a morire, nel nome del controllo dei porti e dunque del commercio. C’erano due fazioni principali: quella con la bandiera gialla, a cui apparteneva la mia famiglia, e quella con la bandiera verde. Se camminavi in una zona verde con una maglietta gialla venivi immediatamente ammazzato, e viceversa. All’epoca la propaganda e le notizie erano veicolate via radio, e ogni fazione aveva la sua emittente. Ricordo che ci nascondevamo sotto una grande coperta per ascoltare la nostra stazione, perché vivevamo in una zona verde e se ci avessero sentiti saremmo morti. Mia madre, ogni mattina, ci ripeteva di non dire mai e poi mai ai nostri amici o insegnanti chi eravamo davvero. Ricordo ancora la paura di farmi scappare qualcosa per sbaglio”.

Dopo scuola, in quegli anni, Namo andava al mercato a vendere semi di girasole, gomme da masticare e sigarette, “anche se non ne ho mai fumata una”. A 12 anni cominciò a riparare e costruire radio assieme a suo fratello: “Le ascoltavo di continuo, per vedere se funzionavano a dovere. Fu così che, pian piano, imparai l’inglese, grazie al quale mi iscrissi all’università e divenni l’interprete di un grande inviato di guerra del NYTimes”.

Namo cominciò a pubblicare i suoi primi articoli sul New York Times, vinse una borsa di studio per la Columbia University e volò in America a farsela consegnare direttamente da Barack Obama. “Trump si è fatto fregare dal presidente Erdogan, che ha promesso di tenere a bada l’Isis e di permettergli di portare le truppe a casa in questi mesi di campagna elettorale, il tutto senza sborsare un dollaro. Invece in Siria ci sono ancora parecchie cellule dello Stato Islamico che aspettano solo un vuoto di potere per svegliarsi. I curdi non possono più garantire che quei 10 mila terroristi arrestati rimangano nelle prigioni siriane perché devono proteggersi dall’invasione di Erdogan ma anche da Bashar al Assad, che li considera traditori per essersi alleati con gli americani, e di conseguenza anche dalle forze russe”. La scelta di ritirare le truppe americane, ripudiata da due terzi dello stesso partito repubblicano, è stata per Trump forse il maggiore disastro politico dall’inizio della sua presidenza. “E poi ci sono i morti. A partire da Hevrin Khalaf, straordinaria campionessa dei diritti umani e del laicismo, violentata e ammazzata per strada da gruppi sostenuti dai turchi: il suo assassinio e quello di tutti gli altri curdi uccisi in questi giorni deve per sempre pesare sulla coscienza di Trump”. La famiglia di Namo è ancora tutta nel Kurdistan iracheno: “Però, cinque anni dopo il nostro matrimonio, sono riuscito a portare qui in America mia moglie, che aspetta il nostro primo bambino. E la mia più grande gioia è sapere che mio figlio crescerà in un paese dove non sarà perseguitato per via della sua etnia”.

La contraddizion che nol consente: appelli, curdi e Caschi Bianchi

Non c’è guerra che si rispetti senza un appello alla pace delle meglio firme dei meglio media con artisti al seguito. Quella di aggressione che la Turchia ha avviato contro i curdi se n’è meritato uno – assai condivisibile – su Repubblica, a prima firma Roberto Saviano, che già furoreggia in tutta Europa. Ecco, visto che siamo tutti d’accordo vorremmo ricordare che questo attacco è solo l’ultimo atto di un osceno conflitto civile in Siria in cui molti degli attuali firmatari hanno fatto negli anni scorsi il tifo come cheerleader per una delle parti in causa. Insomma, parliamo un attimo degli “White Helmets”? Sì, sì, proprio l’organizzazione “umanitaria” che ha vinto l’Oscar grazie a un film di Netflix, è stata candidata al Nobel per la Pace e fu fonte quasi unica delle “notizie” dalla Siria dei media mainstream per molti anni, compreso quella – assai controversa, per così dire – per cui tutte le meglio firme (e i meglio attori) si fotografarono con la mano davanti alla bocca contro il puzzone Assad che usava il gas contro i civili (anche se poi, arrivata l’Onu, le prove…). Gli White Helmets sono stati finanziati da Usa, Regno Unito, Israele e altri (tutti, a vario titolo, parti in causa nel conflitto) e hanno rapporti con una serie di tagliagole in zona tipo al Nusra, cioè al Qaeda, gente che ora è finita ai vertici del cosiddetto Esercito siriano libero, che ammazza i curdi insieme a Erdogan. E che fanno infatti questi Caschi Bianchi oggi? Denunciano i crimini di guerra dei… curdi. Allora, amici, che vogliamo fare? Le diciamo due parole sugli appelli d’antan?

Alitalia, Whirlpool e Ilva: il governo faccia il suo dovere

La stampa pone in luce le difficoltà in cui si trovano l’Ilva, la Whirlpool e l’Alitalia, che non riescono ad essere superate a causa delle richieste esorbitanti dei loro manager stranieri.

A nostro avviso il Popolo Italiano sta spendendo a vuoto un’enormità di soldi in attesa che gli egoismi di multinazionali straniere riprendano in mano le sorti di queste imprese. È un assurdo.

I nostri governanti, dovrebbero eliminare dalla loro mente l’idea neoliberista secondo la quale esiste soltanto il diritto privato che tutela gli interessi individuali delle società, e non anche e soprattutto il diritto pubblico e in particolare la proprietà pubblica.

L’Ilva e la Whirlpool devono continuare la loro attività o convertirsi in altre attività e assurda appare la sottomissione del governo italiano ai tentennamenti degli amministratori di ArcelorMittal e di Whirlpool, che ci fanno soltanto perdere tempo.

Allo stato dei fatti esistono solo due possibilità: o si costituisce una cooperativa di operai che si impossessi della fabbrica, riconvertendola, se del caso, in un’attività diversa, secondo le norme della legge Marcora, opportunamente riportata ai suoi termini originari (art.45 Cost), oppure diventa indispensabile il ricorso alla nazionalizzazione.

Per Alitalia bisogna tener presente che il governo italiano ha speso 1,5 miliardi per prolungare l’agonia della compagnia che dovrebbe finire in mano straniera.

Questi soldi sono stati spesi male, perché essi dovrebbero servire per riacquistare allo Stato italiano una importantissima fonte di ricchezza nazionale, quali sono le rotte aeree. Anche qui, ripetiamo per l’ennesima volta, non c’è altra via d’uscita se non quella della nazionalizzazione.

Si tenga inoltre presente che il governo, in virtù delle norme costituzionali, ha in mano una carta da giocare di grande valore giuridico. Infatti si potrebbe impedire lo strapotere degli attuali proprietari stranieri di dette imprese ricorrendo ai limiti che impongono alla proprietà privata l’articolo 41 e l’articolo 42 della Costituzione.

I comportamenti degli amministratori sia dell’Ilva che della Whirlpool stanno violando in pieno il secondo comma dell’articolo 42, poiché deliberatamente svolgono un’attività antisociale (il licenziamento degli operai), laddove, per mantenere la titolarità del diritto di proprietà, dovrebbero assicurarne la funzione sociale.

Essi, inoltre, stanno violando anche l’articolo 41 della Costituzione secondo il quale: “l’iniziativa economica privata è libera, ma non può contrastare con l’utilità sociale o svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza (specie dei lavoratori), alla libertà e alla dignità umana”.

Speriamo che il governo, prima di agire in modo inadeguato, sperperando fondi pubblici, dia finalmente una interpretazione costituzionalmente orientata del concetto di proprietà privata quale risulta dall’articolo 832 del vigente Codice civile.

Il governo ha un obbligo ben preciso: deve tutelare gli interessi del popolo secondo le norme della Costituzione, alla quale sono sottoposti tutti i cittadini, sia italiani che stranieri i quali svolgono attività nel nostro territorio.

*Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale

Desiderio di giustizia, preghiera e fede: questo chiede Dio al suo popolo

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: “In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: ‘Fammi giustizia contro il mio avversario’. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: ‘Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi’”. E il Signore soggiunse: “Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”.

Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terrà? Questa tremenda domanda di Gesù lacera la nostra tranquillità e prende corpo in un profondo contesto d’intensa preghiera, quasi a ricordarci che questa alimenta la fede. Nel brano dell’Esodo (17,11, della prima lettura), le mani alzate di Mosè, sostenute in atteggiamento di preghiera, ottengono quello che attendevano: la vittoria sul nemico. Quando le mani sono abbassate, inerti, stanche, rivolte a terra, è il nemico a essere più forte; quando invece sono tese verso il cielo, è Israele ad avere il sopravvento.

L’esito della battaglia è attribuito alla potenza di Dio invocata per mezzo delle mani alzate di Mosè e rivela la forza efficace della preghiera, che genera nell’uomo la consapevolezza di aver bisogno di Dio e di essere salvato solo dalla Sua misericordia. Per l’inevitabile stanchezza, Mosè sentiva le mani pesare: è la fatica dell’orante che si pone in mezzo, intercede tra l’uomo che lotta nella prova e Dio. È una relazione in cui, nell’attesa e nella pazienza, Dio mette la sua compassione a disposizione della debolezza della storia umana. Però, non si può resistere tanto, pur nel desiderio di prolungare la preghiera. La perseveranza umana ha bisogno di essere confermata. Il permanere in preghiera è possibile nella misura in cui la fiducia poggia sulla fedeltà dell’Alleanza di Dio, che non viene meno alla sua promessa.

Il legame tra la fede e la preghiera è illustrato dalla parabola della vedova insistente, importuna, e del giudice che non le fa giustizia perché non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. L’ostinazione fiduciosa di questa vedova indomita di fronte al sopruso e dignitosa nel chiedere giustizia si trova a confrontarsi contro una sordità iniqua di un cuore resistente! La sua orante insistenza è anche denuncia di come vanno, spesso da sempre (e ancor oggi!), le cose. Sorge una domanda imbarazzante: perché è permessa l’ingiustizia, lasciandoci temere che anche Dio taccia o si distragga? L’impazienza per l’attesa dell’esaudimento, che il peccato e la morte ci impongono, impedisce di guardare al kairòs, al tempo di grazia che il Signore ha in serbo per noi.

Gesù stesso c’insegna a pregare sempre, senza stancarsi mai proprio perché anche Lui prega per rimanere Figlio, per accordare la Sua volontà a quella del Padre. La sua preghiera esprime il bisogno di giustizia che c’è nel cuore dell’uomo. E vuol dire a Dio Padre “Ti amo, Ti amo sempre, penso a Te come Tu mi fai crescere e mantieni nel tuo amore, o Dio”. Agostino rassicura che anche quando la parola zittisce, il desiderio prega di continuo e se sempre desideri, preghi sempre. Come la preghiera del Figlio, anche quella del cristiano non cerca qualcosa ma, nutrendo ed esprimendo la fede, chiede e supplica affinché venga il Regno di Dio.

*Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche